TURKISH ART

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ARTE TURCA DAI SELGIUCHIDI AGLI OTTOMANI


Giovanni Curatola

ARTE TURCA DAI SELGIUCHIDI AGLI OTTOMANI


indice

Nuova edizione febbraio 2021 © 2010 Editoriale Jaca Book Srl, Milano Tutti i diritti riservati Prima edizione italiana settembre 2010

Introduzione

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Un po’ di storia

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Architettura selgiuchide:

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pietra e fantasia

Copertina e grafica Jaca Book / Paola Forini

Le arti decorative: tra Bisanzio e Asia centrale Transizione e innovazione xiv-xv secolo

Stampa e legatura Grafiche Stella San Pietro di Legnago (VR) febbraio 2021

ISBN 978-88-16-60635-7

Editoriale Jaca Book via Giuseppe Frua 11, 20146 Milano; tel. 02 48561520 libreria@jacabook.it; www.jacabook.it Seguici su

1453. Da Costantinopoli a Istanbul Sinan:

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il genio all’opera

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Un impero glorioso. Arti decorative ottomane

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Dopo Sinan. La vita continua

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L’ultimo periodo. Fu solo decadenza?

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Fratelli /Coltelli Ottomani e “Occidente”: una storia controversa o storia di una controversia?

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Documentazione complementare

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Bibliografia

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Indice dei nomi di persona, delle città e dei monumenti 300


Il tempo dei nipoti: Vera e Giorgio


INTRODUZIONE

Non so quanto possa essere originale, ma talvolta può accadere – è questo il caso – che si scriva un libro per pagare un debito. Non nel senso che i proventi dell’attività saldino più di un conto, che credo possa accadere a qualche romanziere più o meno prolifico o ai personaggi politici e pubblici in vena di memorialistica, ma in quello più ampio che si contrae semplicemente vivendo (e spesso viaggiando) attraverso luoghi che iniziano a esserci familiari, e agli incontri – a tutti i livelli – con persone che ti allargano, magari inconsciamente, gli orizzonti e regalano prospettive nuove, stimoli importanti, riflessioni compiute. È il mio caso. Lo scrivere sulla Turchia risponde a questa necessità; è una sintesi di conoscenze che non sono, questo è ovvio e banale, solo mie, ma di cui mi sento depositario privilegiato, un terminale, forse adatto a sistematizzare tante e disparate esperienze. Va da sé che per formazione e mestiere l’approccio e il contenuto non possono che essere storico artistici (e in parte anche archeologici); ma in questa visione sono presenti e concorrono anche i profumi, i colori, i diversi incontri e scontri, i sapori, le solitudini e le compagnie, di una storia iniziata 35 anni fa e spero non ancora conclusa. Perché la Turchia? Ci ho pensato molto e la risposta più semplice, e vera!, è che io sono italiano e come tale quella società, quella antichissima civiltà con le sue incredibili stratificazioni mi pare la più vicina alla nostra. Ci ho trovato un’assonanza, una vicinanza, una complicità storica che mi è difficile descrivere, ma che sento profondamente non come pura affinità, bensì come un materno gemellaggio; due fratelli nati dalla stessa madre, seppure poi sviluppatisi in altro modo. Non è solo vicinanza geografica, è un legame più strutturato, intenso, anche antropologico (saranno le origini etrusche, forse anche loro arrivati da Oriente…); c’è, sicuramente, una prospettiva mediterranea ampiamente sottesa, nonostante il fatto che questo possa apparire ed essere molto vago. Ha a che fare, molto, col cibo: olio di oliva, vino, pane e la frutta (le cerase/ciliegie che vengono portate da Lucullo da noi dall’anatolica Cerasa), sapori che ritrovo sempre e che aiutano a capire, a interpretare, a sentirsi a casa.

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Non ho la pretesa – me ne mancano gli strumenti tecnici e culturali – di fare un’analisi e descrizione onnicomprensiva, dagli Ittiti (e prima) sino ai giorni nostri, anche se confusamente, sullo sfondo, mi appare una straordinaria e mai smentita continuità; diciamo allora che si tratta di una sineddoche (una parte per il tutto), in grado di illuminare una civiltà: moltissimo di non detto e non scritto resta a fare da panorama, ma questo, di sicuro c’è sempre, potente e presente, condizionante. Il punto di partenza è quello dell’Islam nel suo impatto più forte, non trionfante da subito, ma di grande presa, sintetizzato da una data, il 1071, con la sconfitta bizantina da parte dei Turchi selgiuchidi a Manzikert, sulla sponda del più orientale lago anatolico Van. Da lì muovo per raccontare un mondo e un’interessante sintesi di contributi diversi. Quanto pesi il passato storico, quasi sempre quando c’è, è perfino ovvio; ma nell’esperienza turca si incontrano almeno tre matrici (e ispirazioni) differenti; quella di origine delle tribù turche le cui radici vanno ricercate nelle steppe lontane d’Asia Centrale (con contaminazioni, l’accezione per me è sempre positiva, cinesi ma anche indiane), quella mediterranea di un territorio bellissimo circondato dal mare ma anche con aspre catene montuose, altopiani e pianure vaste (si confina o sconfina, ricordiamolo, con la Mesopotamia), un mondo che per sintesi definiamo bizantino, e, da ultima, anche in senso cronologico, quella islamica, non quel mondo che ci immaginiamo oggi, ovviamente, ma quello vasto e per certi versi contraddittorio dell’anno Mille. Tre componenti diverse, e sono solo le principali, ricche di sfumature e anche di contrasti, che compongono un mosaico o, meglio ancora, una visione caleidoscopica. S’è detto che il discorso è sul piano artistico e in questo ambito, per forza di cose, l’architettura, per la sua capacità di trasformare un territorio e trasmettere l’immagine di una civiltà, avrà uno spazio privilegiato. Ma importantissime risultano altresì le arti decorative; che si tratti di complementi di arredo lignei (e la produzione anatolica è una delle più rilevanti in assoluto accanto a quella fatimide egiziana), o dei tappeti – anch’essi strutturalmente fondamentali – per finire con le ceramiche parietali, non solo quelle celeberrime cinquecentesche di Iznik, ma quelle già ampiamente utilizzate nel xiii secolo, ci troviamo in un campo d’indagine vastissimo. E le miniature, i tessili, i vetri e i metalli… Certo non si renderà puntualmente conto di tutto, ma si esalteranno le reciproche influenze e relazioni, e si traccerà un quadro teso a rappresentare la complessità dei fenomeni e delle relative fonti, e la fantastica vitalità e ricchezza di una civiltà importante e a noi niente affatto estranea. Anzi.

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UN PO’ DI STORIA

La storia dei Turchi è antica e complessa. Questo vale, certamente, per moltissimi popoli, ma nel nostro caso uno sguardo sul passato, sia pure abbastanza rapido sebbene sistematico e non fugace, è davvero importante e imprescindibile. Questo perché la formazione dei Turchi come popolo è strettamente legata, molto più che in altri casi, alla loro rappresentazione di se stessi e il problema dell’identità, lungi dall’essere sentito come semplice bagaglio, è, ancora oggi nel terzo millennio, decisivo. Dunque le radici, le prime istituzioni e credenze, non sono probabilmente mai state dimenticate o accantonate, ma anzi sono rivendicate con orgoglio. I Turchi, per noi, giungono da Oriente. Difficilmente qualcuno mette in dubbio questo assunto, eppure esso è irrimediabilmente viziato dal nostro eurocentrismo e da una supposta centralità e pretesa superiorità culturale. Ciò non ci porta molto lontano e, perdipiù, è un notevole ostacolo alla comprensione di fenomeni complessi. Proviamo, allora, a pensare che noi ci autodefiniamo, oggi, Occidentali e i Turchi vengono da un altro “centro del mondo”, un’altra culla di civiltà, quella centrasiatica, e che di tali vastissimi territori e della loro vivacità (se pensiamo alle religioni, e ci torneremo ovviamente sopra, pur non avendo “inventato” niente, è una terra dove si sono confrontati, nelle loro innumerevoli varianti, sciamanesimo, zoroastrismo, manicheismo, cristianesimo, buddismo, ebraismo e, da ultimo, islamismo…) sono allo stesso momento testimoni ed eredi. Niente affatto figli di un Dio minore, anzi. Se questo poi ha avuto – e ancora si avverte – connotati politici di forte e gretto nazionalismo, questa è materia che qui non ci riguarda. Allora, i Turchi che arrivano in Anatolia intorno al Mille, non vengono dal nulla, da un passato a-storico, dalla notte; tutt’altro. Sono frutto di un lungo percorso, e quello va in parte rintracciato. Da dove vengono i Turchi? Il problema delle origini è complesso, ma è l’Asia centro-orientale (per essere un poco più precisi, un’area compresa fra la Siberia meridionale e la Manciuria), una zona niente affatto periferica, lo si ripete, (ma poco studiata), dove si formano i primi assembramenti tribali. La forma dell’or-

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ganizzazione sociale è quella della tribù, con caratteristiche nomadi o semi nomadi. La tenda e l’accampamento sono importanti, lo sono i grandi pascoli e lo è, più di tutto, l’addomesticamento del cavallo; la sua importanza è esaltata perfino nella ritualità religiosa. Le tribù costituiscono, in diversi periodi e fasi storiche, delle confederazioni; è quella degli Oghuz cha darà origine al sultanato selgiuchide di Rum (e Rum vuol dire Roma; scelta, del nome, niente affatto casuale e nemmeno arbitraria, lo vedremo più avanti commentando le peculiari caratteristiche del territorio), ovvero dell’esperienza artistica da cui si prendono le mosse in questa sede. In ogni modo non è l’unica confederazione tribale turca. Le vicende genealogiche sono abbastanza intricate (si fa risalire la stirpe a Noè, per tramite del figlio Jafet), ma la sistematizzazione è piuttosto tarda e opera di storici ottomani. Come è fenomeno comune si tratta di una costruzione a posteriori, per esaltare vicende e ruoli; turche (per lingua e ascendenza) sono state anche le confederazioni Qaraqoyunlu (1351-1469) e Aqqoyunlu (1396-1508), e non del tutto dissimili sono state le origini dei Timuridi. Linguisticamente quella turca è una lingua di ceppo uralo-altaico, e parenti stretti sono il tataro, il kazako, l’uzbeko, in mezzo a una miriade di varianti regionali e dialettali; imparentate sono anche il mongolo, l’uiguro e il tunguso e più alla lontana l’ungherese e il finnico, il coreano e il giapponese, di volta in volta con prestiti importanti, nel turco, soprattutto iranici, semitici e slavi. Semanticamente si copre un mondo immenso quale l’Asia centrale e oltre; c’è del vero in chi sostiene, esagerando, che col turco si può viaggiare via terra da Istanbul a Vladivostok meglio che con l’inglese. L’identificazione dei Turchi con i nomadi Xiungnu è abbastanza problematica. È provato che il capo Xiungnu, Modun (209-174), assoggettò delle tribù che possiamo considerare tali, cioè turche, anche se quel nome non era ancora attestato. Anche l’identificazione fra Xiungnu (incubo delle popolazioni stanziali cinesi di stirpe Han per le loro frequenti incursioni nel territorio dei sedentari, con conseguente edificazione dei primi nuclei di strutture di avvistamento e fortificazione, primo embrione della celebre “Grande Muraglia”) e Unni è incerta, pur se esistono molti elementi che fanno propendere per un’identificazione o sovrapposizione. È che ci muoviamo in un territorio davvero vastissimo e in una scala temporale altrettanto estesa: nel mosaico che veniamo delineando non vanno dimenticati gli Avari (Siberia Occidentale, Kazakistan; ma con stanziamenti anche lungo il Volga e nelle steppe ucraine), forse i primi a usare il termine qaghan a indicare un capo tribù, un primus inter pares. Il termine Oghuz sembra derivare da Oghur; i cinesi, mai tacciabili di avarizia in quanto a fonti scritte a differenza dei nomadi turchi, quando scrivono dei Toquz Oghuz (Nove Oghuz) si riferiscono a un’unione tribale e la chiamano Jin Xing (nove clan). È il territorio sterminato dalla Mongolia alle steppe del Mar Nero, nel versante Nord. I Turchi sono confederazioni tribali o semplicemente gruppi più piccoli; una sorta di prezzemolo storico! È circa nel vi secolo d.C. che incontriamo per la prima volta i Turchi in quanto tali (forse da una forma Turuk) ai tempi in cui in Cina – dove abbiamo una cronologia precisa – erano al dominio i Wei Occidentali, formalmente sottomessi al qaghan degli Avari. Senza entrare troppo nei dettagli si può sostenere che la rivalità fra Cinesi e stirpi mongole varie (per gli Han, comunque e sempre “barbari”) abbia favorito, diciamo così nella generale disattenzione, la formazione di un’autonoma confederazione turca.

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I Turchi appaiono nella storia scritta fondando un regno con due qaghan, uno occidentale e uno orientale (quest’ultimo di rango superiore, seppure nominale) con forti contatti con stirpi iraniche e relazioni commerciali che si spingevano fino a Costantinopoli. È difficile, per esempio, osservando le bellissime figure dei cammellieri rappresentate nelle terrecotte cinesi (soprattutto d’epoca Tang, 618-907) di massiccia complessione fisica e volti caratterizzati da grandi nasi, bocche larghe e folte sopracciglia su occhi tondi, non cogliervi un ritratto, caricaturale finché si vuole, dello straniero turco. Le iscrizioni, in runico, ritrovate lungo le sponde del fiume Orkhon non sono comunque prodighe di particolari. Confermano, tuttavia, le leggende popolari che raccontano della discendenza adottiva da parte di una lupa, e uno stanziamento prevalente a nord del territorio Xiungnu (regione dell’attuale Manciuria/Mongolia). La stele di Bogut (582), in sogdiano, (dialetto iranico, lingua franca lungo gli itinerari carovanieri noti come Vie della Seta), mostra appunto una lupa che dà rifugio a un ragazzo e cita Turkit Ashinas, che suona come la conferma dell’unione di due differenti gruppi etnici. È anche da notare che Ashina, in sogdiano, ha a che fare con “blu”; il volerci vedere un riferimento al colore degli occhi è probabilmente spingersi concettualmente un po’ troppo in là. Quello che emerge da questo primo quadro è uno stato (il termine è corretto se visto nella prospettiva storica), o confederazione, di per sé mista, con Iranici, Mongoli e Turchi, rigorosamente nomadi o seminomadi, plurilingui. È l’inizio, ma costituisce una costante culturale, una delle tante di cui è costellato il percorso che stiamo compiendo, alla quale dobbiamo prestare la massima attenzione e che dobbiamo tenere ben a mente. Altra costante, in un territorio sterminato, apparentemente, che possiamo vedere come un magma in equilibrio instabile, è quella della spinta per ondate successive e ricorrenti, che si sovrappongono le une sulle altre, dal centro (l’Asia centrale) in due direzioni principali: verso Occidente e verso Sud; nell’accezione odierna potremmo, anche per equilibrio geografico, sostituire Sud con Est, Oriente, ma in realtà la pressione sui territori cinesi veniva sempre dal Settentrione. Gli Avari vengono sconfitti, e, in una sorta di gioco dei quattro cantoni, ma obbligato, si muovono verso l’Europa centrale, l’attuale Ungheria, con affinità e influenze palesi che non stiamo a sottolineare in questa sede. I Turchi cercano ripetutamente contatti con Costantinopoli, ma si trovano a fare i conti con il baluardo sasanide e vengono sconfitti nei pressi dell’attuale Herat. La pressione militare turca – allora alleata di Bisanzio – però alla lunga fu una concausa dell’indebolimento sasanide e della loro sconfitta da parte degli Arabi. È infatti questo il momento in cui irrompe sulla scena un’altra importante forza, quella araba, di recentissima islamizzazione. In quel momento, diciamo nella prima metà del vii secolo, la confederazione era stanziata nelle steppe eurasiatiche (grosso modo dall’Ucraina all’Uzbekistan occidentale, con il fiume Oxus come limite), rispondendo all’autorità del qaghanato Khazar. I Musulmani penetrarono nel limitrofo Caucaso (regione cuscinetto il cui destino storico sarà sempre quello di fare da teatro ad ampie contese con capovolgimenti di fronte) scontrandosi, appunto, con i Khazari che nel corso dell’viii e ix secolo si convertirono all’ebraismo. Le battaglie fra Turchi e Musulmani per il controllo della Transoxiana, furono, da allora, uno dei leitmotiv storici: mai descritto così bene, e poeticamente, come nello Shah

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Nama del grande Firdusi (intorno al Mille). I Turchi orientali, per contro, erano signori – sebbene niente affatto incontrastati – degli itinerari mercantili e molto attivi nei commerci; non furono peraltro insensibili, sul piano religioso, a suggestioni buddiste. Un ostacolo all’espressione di tutto il loro potenziale (a guardarlo, però, con gli occhi nostri) era la conferma della vita nomade a scapito della sedentarizzazione; un problema non solo psicologico, ma di organizzazione, col chiaro timore – a loro avviso – della possibile perdita della necessaria coesione e forza militare. La struttura sociale faceva riferimento, gerarchicamente, al qaghan che era considerato sacro, tanto che il suo sangue non poteva venire versato (ne saprà qualcosa l’ultimo califfo abbaside, a Baghdad nel 1258!); veniva deposto ed eventualmente strangolato, il che sottolineava l’importanza della forza fisica e il dover affrontare lo scontro a distanza ravvicinata e senza l’ausilio di un’arma, pratica, quella dello strangolamento, mai dimenticata nemmeno durante il molto posteriore impero ottomano. Ovviamente il controllo dei commerci e la supremazia ricercata delle grandi vie carovaniere portò a uno scontro, inevitabile, con il grande impero cinese dei Tang: questo vide i Turchi soccombere. È comunque all’viii secolo che risale il più cospicuo corpus delle iscrizioni runiche lungo le sponde dell’Orkhon (Mongolia) a cui abbiamo già accennato. In questo mosaico, complesso ma non indecifrabile, un tassello importante, forse decisivo, è quello dei Sogdiani (astuti e onnipresenti mediatori dei traffici mercantili), i quali furono sempre i referenti dei Turchi e portarono loro (e agli Uiguri) la scrittura (un alfabeto di stampo siriaco-aramaico) e uno straordinario, fondamentale, insieme di credenze e fedi religiose: zoroastrismo (e mazdeismo), manicheismo, buddismo, ebraismo e cristianesimo, questo, in particolare, nella variante nestoriana. Il declino della confederazione uigura (ix secolo) fu piuttosto rapido e gli equilibri mutarono a favore di una maggiore influenza delle stirpi mongole, con l’esito, ormai abituale, di spingere i Turchi ancora una volta verso Occidente. Insieme a quelle cinesi, fonti importanti sono anche quelle dei geografi arabi (come al-Istakhri, metà del x secolo) o il lessicografo al-Kashgari (xi secolo), oltre a numerosi storici musulmani che si sono interessati ai popoli turchi, spesso fornendoci preziose informazioni. Il succo che sembra di poter distillare è quello di una grande frammentazione politica (niente affatto sorprendente), ma anche una base linguistica comune che permetteva una notevole interazione fra soggetti diversi; usi e costumi (compresi i rituali) delle varie tribù erano sostanzialmente analoghi e si trovavano quindi ad agire secondo logiche e psicologie afferenti a un medesimo sostrato culturale. In certa misura le fonti – lo storico Ibn al-Athir e l’anonima cronaca Hudud al-‘Alam (Regioni del Mondo), ultimo quarto del x secolo – documentano anche il processo di islamizzazione, qualcosa che può essere iniziato già al tempo della rivolta del mistico sciita al-Muqannà (775-778), pur se la maggiore probabilità è che si sia trattato di un fenomeno generale all’interno di una confederazione molto vasta: non come l’Europa a 27, ma le tribù turche erano comunque più di una ventina. Non sappiamo quanto il fattore religioso sia stato decisivo, ma la nostra impressione è che sia stato sopravvalutato. I Turchi praticavano lo sciamanesimo (un sistema tutt’altro che “primitivo”) con un’unica autorità suprema Tangri (il Cielo, ma che significativamente al-Kashgari traduce con Allah), e con in subordine la Terra, con l’uomo quale essere “di mezzo”. La connessione è data dallo sciamano che non è un sacerdote, ma un mistico,

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uno stregone/psichiatra, un interprete attento di tutta la natura, e personaggio di vero e reale, incontrastato, carisma (ma non necessariamente riversato in ambito politico). Conosciamo molte leggende turche, come il grandioso ciclo di Manas, trasmesso solo oralmente e codificato per iscritto solo pochissimo tempo fa, e quello epico del Dede Korkut (scritto nel xiii secolo anche se i più antichi manoscritti sono databili al xvi), che assume i connotati di epopea nazionale raccontando le dispute interne della nobile stirpe degli Oghuz. Oralità e scrittura vanno di pari passo, un classico islamico. Quanto gli sciamani siano vicini ai mistici sufi della tradizione musulmana è lampante, così come la stretta organizzazione gerarchica delle confraternite (con al vertice un unico Maestro) e anche la libertà di azione e scelta di vita errante di molti dervisci sembra ricalcare il modello tribale nomade. Alla penetrazione islamica non deve essere stata estranea nemmeno la grande tradizione religiosa che ha accompagnato le tribù a cui abbiamo già accennato (nestoriani, buddisti, ebrei, mazdei e manichei con le relative varianti e fusioni), oltre a un notevole sincretismo linguistico capace di dare forma, e forse anche uniformità, ai contenuti. Un po’ quello che è avvenuto in Cina con la traduzione dei canoni buddisti nei quali è sempre stata privilegiata una terminologia taoista (e non confuciana) rendendo il concetto filosofico più facilmente assimilabile. Un ultimo dato che ci piace commentare è più indefinito e di difficile lettura; consiste nel fatto che la fede islamica stessa nasca in un contesto – non completamente, ma in buona parte sì – tribale e nomade nel quale sono vivacissimi i commerci e si pratica d’abitudine la guerra di razzia, tutti elementi conosciuti e ben radicati, quanto meno a livello di costume e psicologico, nelle confederazioni turche. È alla fine del x secolo che si assiste a una svolta politica; l’alleanza delle tribù turche combatté lo “stato cuscinetto” (verso Costantinopoli) dei Khazari nelle steppe del Volga, prendendone la capitale Atil nel 965, col sostanziale e decisivo aiuto dei Rus. L’impero bizantino si trovò così faccia a faccia col potere del clan Oghuz. Con la caduta del regno Khazar e l’ascesa di una personalità forte quale quella del capo della tribù Oghuz, Seljuk (m. 1007), originario delle steppe caspiche, riva Nord, e della Transoxiana (principalmente stanziate a est del lago d’Aral, attuale Kazakistan, con centro principale a Jand), la situazione subì una forte accelerazione ed ebbe inizio l’avventura della dinastia selgiuchide. Ma, contemporaneamente, altri potentati turchi venivano affermandosi in Asia: i Ghaznavidi (dal nome del loro centro principale, Ghazna; 977-1186) nell’odierno Afghanistan e nel Khorasan (Iran orientale) e i Qaraqanidi (892-1212) con basi più orientali e mire espansionistiche soprattutto per il dominio dell’intera regione della Transoxiana. Seljuk fu certamente un subashi (capo militare; titolo che ritornerà anche nell’organizzazione dell’esercito ottomano) e una figura importante: è interessante notare che i suoi quattro figli (Michele, Israele, Mosè e Giona) avevano nomi chiaramente ispirati a una fede monoteistica (vanno bene per ebrei, cristiani e musulmani). Il clan selgiuchide fece numerose incursioni nel Khorasan secondo la tecnica militare della razzia, mai abbandonata. Una battaglia campale avvenne il 23 maggio 1040 nei pressi di Merv (oggi in Turkmenistan), e furono i nipoti dell’eponimo capo tribù – Chaghri Beg e Toghrul Beg – a sconfiggere le preponderanti truppe ghaznavidi di Masud i. Batteranno anche Malik Shah e potranno rapidamente dilagare in Transoxiana e in Iran. In un tale scenario da Baghdad i califfi abbasidi, di fatto ridotti a un controllo solo nominale e limitato su un piccolo territorio e sotto tutela Buide (una dinastia iranica, sciita),

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2. L’estesa regione tra il Mediterraneo e la Cina, soggetta al governo dei Grandi Selgiuchidi.

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1. La penisola anatolica con i territori governati dai Selgiuchidi di Rum, da Bisanzio e dall’Armenia, compreso il Regno armeno di Cilicia nella regione mediterranea di Adana. Per chiarezza di riferimento si sono indicati i confini e i nomi degli stati attuali.

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ebbero la levata d’ingegno di chiamare in soccorso i Selgiuchidi per togliersi d’impiccio; questo fu accordato grazie a Toghrul (r. 1038-1063), il quale, ovviamente, ne approfittò per essere proclamato sultano, riportando comunque la fede nell’alveo sunnita. I Turchi, resi forti da una buona struttura militare e per una volta coesi, a questo punto controllano Iran e Mesopotamia e cercano un rafforzamento lungo due direttrici: il Mediterraneo e i territori della madrepatria in Asia centrale. “Strabismi” di questa tipologia sono frequenti – ecco un’altra costante – nella storia turca. A fronteggiarli in Occidente ci sarà quel che resta dell’impero bizantino e il regno islamico, ma sciita, dei Fatimidi in Egitto e parte del Maghrib e della Siria dove avevano importanti baluardi difensivi. A Est, invece, la situazione era abbastanza confusa e con il solito magma di tribù di diversa etnia impegnatissime a cercare di imporre la propria supremazia. Per i Selgiuchidi – che già avevano il dominio dell’Iran – l’Anatolia (e in parte il Caucaso) divengono territori da conquistare. Kars e Ani, nel Nord, cadono nel 1064 e a Sud la stessa sorte tocca a Urfa, mentre Kayseri (Cesarea) viene presa nel 1067 e Konya (Iconium) capitola nel 1068. È il momento dello scontro diretto (non il primo, non l’ultimo; ma abbastanza decisivo, col senno di poi) con Bisanzio, a Manzikert (Anatolia orientale, non lontano dal lago di Van) nel 1071. I Selgiuchidi, guidati da Alp Arslan (figlio di Chaghri Beg; r. 1063-1072) ebbero la meglio e siglarono con l’imperatore Romano iv un pesante trattato di capitolazione (e infatti il sovrano, ritornato a Costantinopoli, verrà deposto senza indugio). Alp Arslan in realtà non affonderà il colpo: la preoccupazione costante di questi capiclan sarà infatti sempre la medesima, ovvero il controllo di quello che avveniva nella madrepatria attraverso le tribù locali, molto più importante e urgente che non la conquista di nuovi territori. Dunque non è chiaro se effettivamente Alp Arslan cercasse il dominio di quelle regioni, ma questo fu comunque l’esito, più per intrinseca debolezza e consunzione bizantina che non per la Jihad e spallata turca. Si avviò un tipo di governo caratterizzato da una specie di “principato collettivo” e si rese necessaria l’istituzione dell’atabeg e dei distretti (beylik; questi ebbero un ruolo decisivo anche nella successiva dominazione ottomana). L’atabeg, in senso stretto e tecnico, era un comandante militare posto a tutela di un giovanissimo principe figlio del capoclan per conto del quale doveva agire, al contempo garantendone crescita e piena realizzazione, oltre alla protezione. Una specie di zio saggio o consigliere. Come è facile comprendere in una società “pluritutto”, come quella che siamo venuti tracciando in queste righe, questo si trasformò presto in un meccanismo di fortissima autonomia, in linea con lo spirito confederale, seppure mai formalmente in indipendenza. Così, nella Mesopotamia settentrionale (grosso modo Siria e Iraq attuali e Anatolia meridionale) avremo gli Zanghidi (1127-1234), gli Ortuchidi (1101-1402), e possiamo considerare che anche la dinastia Ayyubide (1174-1249), che si rivelò decisiva per la sconfitta dei Fatimidi in Egitto e che contrastò fieramente i crociati, ebbe analoghe origini. Piccoli principati vassalli furono anche quelli dei Danishmenidi (1097-1178), dei Mengugechidi (ca. 1118-1252) e dei Saltuqidi (ca. 1071-1202). Spesso queste piccole casate erano policentriche come è ben messo in luce dal proliferare delle zecche locali che battevano moneta in nome e per conto del Signore. In seguito a queste vicende l’Anatolia divenne una provincia di un impero molto esteso (da qui la distinzione che spesso si trova nei testi di storia fra Grandi Selgiuchidi e Selgiuchidi di Rum), con il potere effettivo che aveva

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4. La città di Istanbul, scelta come capitale dell’impero, divenne ben presto il luogo privilegiato dell’architettura e dell’arte ottomana. Qui sono indicati i maggiori monumenti a cui fa riferimento il testo, a partire dal capitolo quinto: 1. Basilica bizantina di Santa Sofia; 2. Fontana di Ahmed iii; 3. Basilica bizantina di Sant’Irene; 4. Palazzo di Topkapı; 5. Çinili Köxk; 6. Complesso di Ahmed i (Moschea Azzurra); 7. Bagni di Haseki Hürrem; 8. Complesso di Sokollu Mehmed Paxa; 9. Chiesa bizantina dei Santi Sergio e Bacco, poi moschea Küçük Aya Sofya; 10. Moschea di Rüstem Paxa a Tahtakale; 11. Complesso della Nuruosmaniye; 12. Moschea di Mahmud Paxa; 13. Moschea di Firuz Agha; 14. Complesso di Atik ‘Ali Paxa; 15. Complesso di Bayazid ii; 16. Complesso di Solimano; 17. Complesso di Xehzade; 18. Complesso di Mehmed ii, Fatih; 19. Moschea di Selim i; 20. Monastero di San Salvatore in Chora, poi Kahriye Cami; 21. Complesso di Mihrimah Sultana alla porta di Edirne; 22. Moschea di Kara Ahmed Paxa; 23. Complesso di Haseki Hürrem; 24. Laleli Cami; 25. Nusretiye Cami; 26. Palazzo di Dolmabahçe; 27. Palazzo di Çıraéan; 28. Complesso di Mihrimah sultana a Üsküdar; 29. Moschea di Rum Mehmed Paxa a Üsküdar; 30. Quartieredi Eyyüp.

Algeri

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GEORGIA AZERBAIGIAN Sofia Trebisonda ARMENIA Ardabil BULGARIA Amasya Erzerum Roma Costantinopoli Çaldiran MONTENEGRO MACEDONIA Edirne Tabriz Iznik Van Diyarbakir Ankara ALBANIA Bursa Mardin Kayseri GRECIA Uşak Kütahya Mossul HIA URC T Konya Manisa Aleppo Tunisi Antalya

Granada

3. I territori governati dall’impero ottomano al momento della sua massima espansione.

MOLDAVIA

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UNGHERIA Szigetvar ROMANIA SERBIA

CROAZIA BOSNIA ITALIA

Madrid

Fez

SLOVACCHIA

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Venezia

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FRANCIA

KISTAN

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UCRAINA

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sede in Iran. Fra i capi da rammentare vi è Qutlumush (m. 1064) e il di lui figlio Suleyman (m. 1086), che conquista la Bitinia (regione nord occidentale) ponendo la sua sede a Nicea/Iznik, anche se presto una sconfitta ad opera dei crociati (1097) porterà la capitale a Konya, già eletta tale nel 1081 e rimanendolo fino al 1308. Il quadro di riferimento non sarebbe però completo senza almeno un accenno agli altri attori presenti nella zona; il ridotto impero bizantino, il regno greco di Trebisonda (l’ultimo a cadere in mano musulmana), il regno di Georgia nel Caucaso e quello armeno di Cilicia. L’impressione che se ne ricava è che ci fosse pochissimo spazio per le ideologie religiose e che invece contassero molto di più le provvisorie e mutevoli alleanze strategiche. Una forte immigrazione venne dalle steppe della regione azerbaijana, già fortemente e stabilmente turchizzata. Le lotte intestine islamiche portarono alla morte del potente vizir (primo ministro) di Alp Arslan, Nizam al-Mulk (attivo fra il 1063-1092), grande promotore di un’istituzione quale la madrasa (scuola di istruzione superiore, coranica, ma soprattutto giuridica), per mano degli Assassini ismailiti e a causa della corruzione della corte ormai assimilata dai costumi sedentari iranici e dall’infiacchimento dell’esercito con un ordine poco rigoroso; il declino fu rapido. Il sultano Sanjar (1118-1157) fu severamente sconfitto dai Mongoli Qara Qitai (1141) e una rivolta delle tribù oghuze orientali, vessate da un’eccessiva tassazione, fu probabilmente il colpo decisivo. Emerse il potere degli Shah di Corasmia e il potere turco si frammentò ulteriormente. In Anatolia, di fatto autonoma, Kilich Arslan ii (10921107) riportò qualche vittoria contro i Bizantini ed ebbe un ruolo importante nel contrastare il passo ai crociati. I Selgiuchidi si mossero in due direzioni, conquistando Sinop (Mar Nero) e Antalya (Mar Bianco o Mediterraneo) fra il 1197 e il 1220, saldando poi i due porti attraverso un’importante rete di arterie e con una rinnovata attenzione alla viabilità commerciale. Se in ogni regno o governo, per quanto breve, è possibile individuare un’epoca d’oro, per i Selgiuchidi questa, per certo, è da attribuire all’eccezionale figura di ‘Ala al-Din Kay Qubad (1220-1237), il quale rafforzò in tutte le direzioni il suo regno. A questo non deve essere stata estranea la naturale tendenza turca – fatti salvi i privilegi di stirpe e tribù – a mischiarsi con le aristocrazie bizantina e georgiana, mentre schiavi greci (detti ghulam) entravano nell’esercito. Ma la sempre irrequieta Asia centrale, e la sua inesauribile pressione, generarono un altro potente gruppo tribale, quello mongolo, organizzatissimo e molto numeroso, controllato con ferrea disciplina dal suo Khan, Genghis (1167-1227). Fu un fenomeno storico grandioso, che ha pochi confronti nella storia umana (se non Alessandro e Roma); l’avanzata fu inarrestabile, con i figli che divisero l’eredità del condottiero spartendosi le sfere di influenza e supremazia, rendendosi autonomi pur mantenendo i contatti. Curiosamente al più piccolo, Tolui, in virtù di una consolidata tradizione, toccò in sorte la madrepatria Mongolia. La conquista della Cina, un continente!, fu ultimata nel 1279, mentre le steppe occidentali dei Qipchaq furono appannaggio dei Turchi chagatai (i cui uomini ritroveremo in Egitto come Mamelucchi – dunque Turchi della linea di potere Bahri), che, poi, furono chiamati “Orda d’Oro”. Hulegu (r. 1256-1265), nipote del fondatore, è il capostipite degli Ilkhanidi (1256-1353); distrusse la setta ismailita degli Assassini ad Alamut (1256), perenne minaccia di stampo terroristico ante litteram, e mise fine (1258) al regno dei califfi abbasidi (ad al-Muta‘sim non fu risparmiata una morte atroce, pur senza versare una goccia di sangue!); conquistò Aleppo e

REP. CECA

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Damasco nel 1260, ma tornò in Iran alla notizia della morte del Gran Khan, lasciando un esercito che senza la sua guida fu sconfitto dai Mamelucchi a ‘Ayn Jalut (1260). I Mongoli provocarono enormi distruzioni, ma stabilirono anche quella pax mongolica per la quale i traffici commerciali fra Cina e Occidente ebbero uno straordinario impulso, la cui conseguenza principale fu un notevole rimescolamento – in entrambe le direzioni – e il sorgere, artisticamente, di un nuovo repertorio e linguaggio i quali lasceranno segni importanti e indelebili nelle iconografie artistiche islamiche. Il relativamente piccolo sultanato selgiuchide venne dapprima ridotto allo stato di vassallaggio per poi essere assorbito dai Mongoli stessi. Una questione importante è quella della conversione turca all’Islam; non sappiamo bene come si sia svolto il processo di islamizzazione in Anatolia. Non è stato improvviso ma progressivo già nel xiii secolo. Nel Quattrocento i Musulmani (tenendo sempre nel debito conto l’importanza delle confraternite e dei movimenti sufi, come quello del celeberrimo poeta spirituale persiano Jalal al-Din Rumi, fondatore dell’ordine della Mawlawiyya, quello dei ben noti “dervisci ruotanti”) dovevano essere in maggioranza, anche se un richiamo all’importanza del sincretismo religioso – e a un ampiamente attestato plurilinguismo; popolarmente si dice che l’arabo è la lingua della fede, il persiano della poesia e il turco delle armi! – non appare ancora una volta inopportuno. Si è accennato sopra alla questione degli Atabeg e a quella dei distretti (beylik) con la loro autonomia di fatto; fra questi uno dei più importanti, direttamente connesso al limes bizantino, era quello della casata di Othman/ Osman (da cui deriva il termine Ottomano), sempre di stirpe Oghuz e in diretta concorrenza con quello di Karaman, ma che si considerava il diretto e legittimo erede dei Selgiuchidi, mantenendo la capitale a Konya. Gli Ottomani facevano risalire storicamente la loro presenza in Anatolia alla prima metà del Duecento, con varie linee di ascendenza più o meno vere e ricostruite, per certo, a posteriori. Il comandante Ertoghrul fu un potente alleato, e subordinato, del selgiuchide ‘Ala al-Din Kay Qubad, nell’Anatolia nord occidentale, a contatto diretto con Bisanzio, una regione nella quale un militare intraprendente poteva facilmente mettersi in luce. Questo è il caso, soprattutto, di Othman (1281-1324), figlio di Ertoghrul. Il sorgere del potere ottomano e il suo stabilizzarsi fu favorito da un doppio ordine di circostanze: l’indebolirsi mongolo (troppo occupati altrove per curarsi dell’Anatolia) e la scarsa attenzione bizantina ai propri confini orientali a favore di una più solida e importante vocazione mediterranea. Alla lunga quello bizantino fu un errore di valutazione destinato a rivelarsi fatale. Gli Ottomani, come s’è detto ben stabiliti in Bitinia, si impadronirono di una posizione strategica quale Gallipoli (1357), controllando così i Dardanelli, e si spostarono nei Balcani; nel 1362 Adrianopoli (Edirne) fu conquistata divenendo la capitale europea di Murad i. Dal 1326 al 1402 la capitale ottomana fu Bursa nell’Anatolia occidentale, non troppo distante da Nicea/Iznik. Dunque si vede una forte espansione europea, nei territori bulgari e con i Serbi sconfitti nella celebre battaglia di Kossovo (1389). Bayazid i (prima della sconfitta subita da Timur) farà incursioni in Ungheria, Bosnia e Grecia, e anche in Oriente, tanto che Ankara era già stata catturata nel 1359. Comunque, ad Oriente sorgevano, ed erano in diretta concorrenza, altre confederazioni tribali turche: i Qaraqoyunlu (1351-1469) e gli Aqqoyunlu

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(1396-1508) (rispettivamente clan del montone nero e bianco), mentre nella mai dimenticata e instabile madrepatria centrasiatica veniva imponendosi la figura carismatica di leader di Timur (Timur Lang, Tamerlano, nato nel 1336, regnò fra il 1370 e il 1404) di stirpe chagatai – ma proclamandosi discendente di Genghis Khan – col quale lo scontro degli Ottomani fu frontale. Gli Ottomani furono sconfitti nei pressi di Ankara nel 1402 e subirono la cattura del sultano Bayazid i, e la di lui morte. In ogni modo, ancora una volta, le mire di Timur erano diverse e ritornò nella sua Samarcanda per preparare la sua spedizione di conquista della Cina; la morte lo sorprese a Otrar, già sulla via di questa impresa. Queste circostanze favorirono la ripresa turca con Murad ii, anche se nel Quattrocento la figura di spicco sarà quella di Maometto ii (Fatih, «Il Conquistatore»; primo regno: 1444-1446; secondo regno 1451-1481), colui che vinse le ultime resistenze bizantine conquistando Costantinopoli (29 maggio 1453). È evidente come il contraccolpo psicologico della caduta della capitale bizantina sia stato enorme, e forse più in Occidente che non agli occhi degli stessi Ottomani; un segnale importante in questo senso fu che la capitale non venne immediatamente portata sul Bosforo ma rimase a Edirne. Possiamo considerare Costantinopoli un fatto importante ma non decisivo nella strategia turca che proseguì nel consolidamento delle proprie posizioni balcaniche (Morea, 1460) e anche verso Oriente con la presa dell’ultimo baluardo greco (Trebisonda, 1461). Il regno di Selim i (1512-1520) fu piuttosto breve, ma ricco di importanti successi militari: contro gli iraniani Safavidi sciiti (varie campagne, conquista di Tabriz nel 1514), e contro i Mamelucchi d’Egitto (paradossalmente una dinastia di origine turca…) che furono battuti nel 1516-1517, aprendo la strada per l’ambito controllo delle città sante di Mecca e Medina, che rappresentavano non solo un’indubitabile fonte di prestigio, ma anche la possibilità di controllare il pellegrinaggio e una importante via carovaniera e commerciale (i percorsi marittimi, monsone permettendo, portavano all’India). Ci sono tutte le premesse per l’affacciarsi sulla scena di una grande personalità in grado di rafforzare il potere ottomano e portarlo al suo apogeo: Solimano ii, il Magnifico (1520-1566). I Turchi lo chiamano Kanuni, ovvero «il canonizzatore/il legislatore», sottolineando, in effetti, che fra i suoi interventi più importanti vi fu la promulgazione di un codice; vero è che simili tentativi erano stati compiuti in precedenza anche da Maometto ii e da Bayazid ii, ma nessuno prima di Solimano era riuscito – grazie alla straordinaria abilità del suo cancelliere e storico Çelalzade Mustafa (1534-1566) – a rendere il codice unico valido in tutti i territori del suo vastissimo impero, superando di fatto una notevole incertezza sui responsi legali in parte connaturata alla struttura legale islamica. Per dire, una “impostazione laica” nella migliore accezione del termine, sempre che si guardi alla storia con occhi e linguaggi contemporanei. Insomma, Solimano fu un grande sultano, il più grande fra gli Ottomani, essendo attivo su tutti i fronti, compreso quello militare, avendo guidato almeno tredici spedizioni belliche verso Occidente (ricordiamo, comunque, che il primo assedio di Vienna da parte ottomana è del 1529), come ad Oriente. Sottrasse Baghdad al controllo persiano safavide (1534) e in una spedizione in Ungheria trovò, stanco e malato, la morte. Il nome di Solimano è indissolubilmente legato in qualità di mecenate al più grande architetto ottomano (e forse non solo tale…): Koça Mimar Sinan. Con questo imperatore gli Ottomani sono al

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momento della loro massima espansione territoriale e politica: sarebbe troppo facile fare iniziare da subito il declino. Qualche scricchiolio si avvertì presto: pensiamo a Lepanto (1571) che, per quanto ipervalutato con massicce e insopportabili dosi di retorica (bruciava ancora lo smacco subìto a Costantinopoli, anche se le due cose, oggettivamente, erano non paragonabili), in effetti non fu una sconfitta decisiva, ma piuttosto un episodio. Vero è che, morto Solimano, la situazione vedeva i due grandi avversari (l’impero asburgico a Occidente e quello safavide a Oriente) in buona salute, non senza trascurare le ambizioni della Russia imperiale (in realtà, un po’ più tardi, soprattutto col regno di Pietro il Grande, 1672-1725), la quale si proclamava erede sia del mondo bizantino sia dei khanati mongolici delle steppe. La contesa fra i figli di Solimano, Bayazid e Selim, fu aspra e fu quest’ultimo infine a prevalere, pur se il regno fu breve. Il nipote di Solimano, Murad iii, fu completamente succube del palazzo e dello Harem: ebbe 103 figli, dei quali 47 gli sopravvissero. Dei 20 maschi fu Mehmed iii che dopo aver strangolato i 19 consanguinei divenne sultano. Il Seicento fu un buon secolo e anche se – sempre col senno di poi! – fu un periodo in cui si potevano scorgere i segni di una possibile decadenza, è davvero prematuro recitare un de profundis e leggere la storia in questo senso. Furono momenti di profonda trasformazione e l’impostazione generale dell’impero, molto ben organizzato quando il potere centrale era attento e la corruzione e i favoritismi tenuti sotto controllo, reggeva bene; non va mai dimenticato quanto doveva essere complesso gestire un impero di quella vastità, variegato e multietnico. Nel ’700 c’è il “periodo dei tulipani” e l’apertura verso gli occidentali, ma ci sono anche le sanguinose rivolte dei corpi dell’esercito (i Giannizzeri) e il ruolo molto forte (è, ancora, una costante, ma mai come in questa fase appare evidente) come attori determinanti giocato dalle varie confraternite religiose. Con la storia dei Turchi ci possiamo fermare qui, prima di ieri.

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ARCHITETTURA SELGIUCHIDE: PIETRA E FANTASIA

1. La türbe di Sheikh Egirt ad Ahlat sul lago di Van (xii secolo).

Ci sono molti luoghi, in Anatolia, che evocano il passato selgiuchide attraverso i loro straordinari monumenti, ma, a nostro parere, uno solo è estremamente suggestivo ed emozionante in qualsiasi stagione capiti di passarvi: è il cimitero di Ahlat, sulle sponde settentrionali del lago di Van, non poi così lontano dal luogo del primo trionfo turco selgiuchide sui Bizantini (1071) che ebbe luogo a Manzikert, anche se col cimitero non c’è relazione. Su un ampio terreno, ovviamente incolto, con una splendida vista sul blu del lago si trovano decine e decine di lastre tombali di varia forma e grandezza, risalenti al xii-xiii secolo, amorevolmente catalogate in passato, ma al giorno d’oggi più che abbandonate, conferendo all’insieme un aspetto decisamente romantico. Un po’ sbilenche e aggredite dal tempo oltre che dalle erbacce, le stele e i cenotafi in pietra costituiscono un repertorio epigrafico unico, ancorché non sempre di agevole lettura, e un ancor più eccezionale repertorio decorativo, non solo geometrico, anche se quei motivi sono decisamente prevalenti. Disegni floreali, di arabeschi, sono onnipresenti, così come animali quali i serpenti (talvolta erroneamente, ma in maniera comprensibile, definiti “draghi”, forse per similitudine nella posizione con quelli sulla famosa stele nestoriana di Xian, datata all’viii secolo, con sorprendente inventiva). È perfino ovvia e scontata la suggestione del paragone artistico (non funzionale) con i tanti khatchkar della tradizione armena (questione, quella dei rapporti con gli Armeni, cui sarà gioco forza tornare), a loro volta non immotivatamente messi in relazione con gli innumerevoli intrecci a canestro della tradizione celtica! Ahlat, oggi un piccolo borgo sonnacchioso che conserva anche qualche pregevole e coeva türbe (mausoleo, torre circolare o poliedrica in genere a copertura conica o a ombrello; il termine deriva dall’arabo per “polvere”). Kumbet, vocabolo che può essere usato più o meno con la stessa accezione, invece fa riferimento alla copertura come primo significato, ma è esteso a mausoleo, torre, rappresenta bene, forse per contrasto, quello spirito portato dalla ventata selgiuchide (definita altrove una “crociata turca”) e un periodo storico ricco di fermenti e di notevole valenza artistica.

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2. Particolare della decorazione con serpente/drago “annodato” su una stele del cimitero selgiuchide di Ahlat. 3. Stele con decorazione geometrica entro una cornice epigrafica nel cimitero selgiuchide di Ahlat. Alla pagina seguente: 4. Veduta d’insieme del cimitero selgiuchide nel sito di Ahlat sulle sponde settentrionali del lago di Van.

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I Selgiuchidi, va ripetuto, non sono i primi musulmani a penetrare in Anatolia; i tentativi di prendere Costantinopoli, per esempio, sono già dell’epoca Omayyade (661-750), ma è con loro che gradualmente si compie l’islamizzazione di questa terra. Schematicamente possiamo vedere come queste tribù centrasiatiche, sospinte a Occidente da diversi fattori, giungano a confrontarsi e ad assimilare diverse culture indigene già ampiamente attestate: quella caucasica (regno di Georgia e regno di Armenia) e quella meridionale di ambito siriano. Una prima, classica, distinzione che troviamo è, infatti, relativa alla tecnica costruttiva. Il mondo orientale (e intendiamo con questo termine, nel caso specifico, la Mesopotamia e l’Iran) costruisce i propri monumenti in prevalenza in mattone, cotto o crudo che sia. Non così le civiltà caucasiche; e qui l’antica capitale armena di Ani, su un promontorio che si affaccia sulle gole scoscese dell’Arasse, ci viene in soccorso quale “pietra” di paragone. Ma nemmeno quella siriana ancorché ampiamente islamizzata; pensiamo ad Harran, per fare un esempio clamoroso, e soprattutto a quelle importanti città della Siria a nord di Aleppo (e non solo) bizantine (certo, la Bisanzio provinciale siriana perché, invece, a Costantinopoli l’architettura bizantina è prevalentemente in mattone…); città interamente costruite in pietra: fra tutte Russafa docet. Le tribù delle quali abbiamo detto vengono dalle steppe azerbaigiane e dall’Iran, ma faranno presto ad adattarsi alle mutate tecnologie; è vero che il mattone resiste, per esempio nei minareti, ma va considerata una condizione di necessità: in una regione fortemente sismica la maggiore leggerezza del mattone suggeriva il suo uso per strutture particolarmente fragili e vulnerabili. Infatti di molti minareti abbiamo solamente il primo livello. Dunque diverse influenze leggibili da subito, non necessariamente in contrasto fra loro, ma più spesso armonizzate. Una testimonianza importante – e nella sua individualità abbastanza eccentrica – è la moschea congregazionale di Diyarbakir. L’assetto attuale certamente non corrisponde a quello originale (già dell’viii secolo) a causa di numerosi rimaneggiamenti posteriori al 1091, denunciati palesemente da alcune asimmetricità, ma molti particolari ci aiutano nella valutazione critica. Attorno a una vasta corte centrale sorgono quattro corpi che si sviluppano in modo abbastanza indipendente; a sud vi è la sala da preghiera su tre navate parallele alla qibla con un ampio spazio centrale o transetto assiale con il mihrab. È uno schema chiaramente ispirato alla grande moschea omayyade di Damasco, che a sua volta riprende, “ruotando” l’uso funzionale di 90°, la tradizionale basilica cristiana a tre navate. A nord troviamo un passaggio che divide due corpi molto diversi; una sala da preghiera anch’essa con tre navate parallele alla qibla e un ambiente/madrasa con piccola corte interna e che conserva, sul fronte verso la corte, un porticato di nove campate, probabilmente quello originale inglobato nella sala da preghiera più piccola che, infatti, presenta sulla corte otto finestre e non nove per l’ovvia inserzione del mihrab. Anche il lato ovest potrebbe derivare da un inglobamento del porticato (sempre con nove arcate), mentre quello est presenta l’attuale ingresso principale scandito da nove arconi. Il materiale costruttivo impiegato è sempre la pietra, ma si fa abbondante uso di opere di recupero: le colonne di marmo (incassate su due ordini sovrapposti), i capitelli e anche le modanature marcapiano con tralci e grappoli d’uva e pampini, di ottima fattura. L’insieme, oggi visivamente turbato da interventi moderni incongrui ai quali sarebbe facile porre rimedio (i telai delle finestre andrebbero sostituiti con vetrate

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5. Il riutilizzo di elementi di spoglio tardo antichi nella moschea di Diyarbakir (xi secolo). 6. Facciata interna sulla corte della Grande Moschea di Diyarbakir (xii secolo).

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Alle pagine seguenti: 7. Il ponte selgiuchide nei pressi di Hasankeyf.

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intere; al piano inferiore andrebbe fatto lo stesso intervento, togliendo grate e tamponature…), è assai particolare e molto bello; al visitatore un minimo colto viene spontaneo alla mente un paragone rinascimentale mediterraneo (Italia, ma anche certa Spagna), cosa abbastanza inedita in un contesto islamico. L’influenza del modello siriano (cioè del transetto, cupolato o meno, sopra il mihrab) è palese, e quanto ciò sia vitale in zona è dimostrato dalla moschea di Dunaysir (1204) e da quella di Mardin (xii-xiii secolo), oltre, più lontano e più tardi a Selçuk (Efeso) dalla moschea di Isa Bey (1374), con due cupole a coprire il transetto e un portale in pietra ablaq (a due colori; anche “screziato”, “variegato”) di pretto gusto siriano, non senza la mediazione di Konya. Il mondo selgiuchide, perché non è esagerazione definirlo tale, è un fiume al quale concorrono, s’è detto, numerosi affluenti, ma una caratteristica che ci pare decisiva è stata quella della viabilità, in due direzioni Nord-Sud (Mar Nero e Mar Bianco) assolutamente di gran lunga prevalente, e trasversale dalla Persia a Costantinopoli, senza dimenticare le altre direttrici (in particolare il Caucaso e la Siria) che rendono questo territorio un nodo nevralgico del commercio, linfa vitale di questa civiltà. Kayseri (Cesarea), per esempio, fu uno snodo importante in direzione Nord, come Konya lo fu verso Sud. Queste opportunità commerciali riguardarono molto anche gli occidentali – i genovesi per primi –; la merce più richiesta e pregiata furono gli schiavi (forniti in abbondanza dai Qipchaq stanziati nelle steppe a nord del Mar Nero, ma anche una serie di altre merci erano scambiate (cavalli; molto importanti), allume, argento, sale, orpimento (arsenico giallo), frutta secca, pesce salato, pellicce e, ovviamente, seta, grezza o tessuta. È proprio dall’esperienza commerciale che intendiamo cominciare l’analisi delle architetture, seppure questo ci possa portare a qualche incongruenza cronologica, un rischio del quale siamo comunque avvertiti. Le strade c’erano già, questo è evidente, come lo è il fatto che esse non corrispondono ai tracciati attuali. Il trasporto non avveniva su carri, ma molto più comunemente con animali: muli, asini (in minor quantità perché meno forti e anche abbastanza delicati, fungevano in genere da battistrada), e soprattutto i cammelli originari dell’Asia, più adatti a questo clima (montagnoso e particolarmente freddo in inverno), che non i dromedari dei deserti. Alle volte semplici sentieri battuti e rafforzati, talvolta sulle tracce delle strade romane. Una carovana era spesso piuttosto grande e contava, in media, fino a 600 cammelli e 400 muli; il percorso giornaliero era di circa 30 chilometri fatti più o meno in otto ore. Per questa viabilità il luogo critico è il corso d’acqua (ricordiamo che Tigri ed Eufrate, per esempio, nascono in Anatolia) e dunque è fondamentale il passaggio, il ponte. Per il commercio, invece, è indispensabile la possibilità di fare tappa per il riposo e il rifornimento e questo luogo sarà il caravanserraglio – antico motel autostradale o stazione di rifornimento – fortificato e difendibile dagli appetiti dei predoni sempre in agguato: la razzia era un dato di fatto, per certi versi nemmeno condannabile sociologicamente. In Anatolia il ponte più bello ed emozionante in assoluto, non selgiuchide ma romano, è quello di Settimio Severo o di Caracalla sul Cendere Suyu nella regione di Commagene, non distante da dove sorge il famosissimo santuario del Nemrut Daé=. C’è una ragione per citare un ponte romano, ed è che a quella tecnica (anche i Sasanidi, in ogni caso, furono grandi specialisti del settore), si sono ispirati i costruttori del xii e xiii secolo, talvolta semplicemente modi-

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8. Il ponte selgiuchide sul Tigri a Diyarbakir; sebbene restaurato è ancora leggibile nella sua impostazione architettonica.

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9. Il Köprü Çay, ponte sull’Eurimedonte, presso Aspendos, di fondazione romana.

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ficando le strutture rendendo più alta e vasta la campata centrale che tende verso un arco a sesto più acuto e con un aspetto a “schiena d’asino”. Nei pressi di Diyarbakir un ponte sul Tigri risale già all’viii secolo e si erge maestoso su blocchi di basalto. Di fondazione romana è sul Köprü Çay (Eurimedonte) nei pressi di Aspendos, un bel ponte a quattro arcate (xii secolo), rimaneggiato su una struttura ancora leggibile come selgiuchide. Ancora a quattro arcate (inizi del xii secolo) uno dei più bei ponti anatolici è quello di Hasankeyf, nelle immediate vicinanze di un’acropoli su cui sorgeva un palazzo fortificato imponente che colpisce il visitatore oltre che per le masse murarie e un’architettura non minore, per la traccia nitidissima della malta sulle pareti in cui erano inserite mattonelle ceramiche. Tracce di antichi ponti sono visibili un po’ dovunque in Anatolia, ma vanno cercate perché risultano spesso fuori dalle rotte odierne. In uno studio di qualche anno fa, Kurt Erdmann, uno dei maggiori studiosi dell’arte islamica (e non solo) del ’900, ha rintracciato e catalogato con teutonica precisione un centinaio (119) di caravanserragli anatolici, dato che ci permette di comprendere l’importanza e la vastità del fenomeno di cui ci stiamo occupando. Il caravanserraglio (etimologicamente deriva da karban, carovana, letteralmente «chi protegge il commercio», mentre saray significa semplicemente palazzo), Khan per gli arabi e Han (che deriva da «casa») per i Turchi, è un’istituzione pubblica posta al servizio della comunità, certamente per le pratiche di commercio, ma non si dimentichi anche una valenza diversa, religiosa, legata al precetto del pellegrinaggio; in genere veniva costruito a spese dei governanti e regolato e mantenuto attraverso un waqf (strumento giuridico che assicurava una rendita nel tempo; poteva essere denaro o, più spesso, l’assegnazione di villaggi o latifondi i cui proventi venivano utilizzati per il mantenimento), che veniva rigorosamente rispettato, sia per la valenza sociale dello strumento, sia perché si trattava di un’opera pia sommamente meritoria, incoraggiata dal Corano e vista come segno inequivocabile del favore (e della ricompensa) divina. Gli Han avevano dei waqf, così come i ponti, le madrase, ma anche gli hammam (stabilimenti termali pubblici) e le fontane. Una regola comune dei caravanserragli era la permanenza gratuita – per uomini e animali – in genere fino a tre giorni. Il termine caravanserraglio ha bisogno, in questo contesto, di una specificazione; ci riferiamo, infatti, a quegli edifici posti lungo degli itinerari e dunque rurali, ben diversi dalle strutture di “stoccaggio” che sono tipiche delle realtà urbane e possono essere molto diverse. I caravanserragli a cui facciamo riferimento sono, di fatto, costituiti da una corte centrale e si confondono quasi con la struttura tipica della casa (o palazzo) su scala molto maggiore, non senza dimenticare l’organizzazione degli accampamenti nomadi, sui quali ci piacerebbe sapere molto di più. Lo spazio centrale vuoto è funzionale al governo degli animali. Si perde – come funzione non come spazio – nel palazzo e ha analogie forti con la madrasa, la quale sovente ha una planimetria del tutto simile. Perché, in fondo, la madrasa potrebbe essere il caravanserraglio della mente e dell’animo. Non dimentichiamo, poi, il pellegrinaggio religioso e le confraternite mistiche, i dervisci itineranti. Talvolta strutture analoghe – pensiamo ai ribat dell’Occidente islamico magrebino – sono state chiamate e designate come convento/ monastero (magari appannaggio di monaci guerrieri, oggi diremmo jihadisti) –; è un errore, certo, ma non del tutto!

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10. L’imponente recinto fortificato del caravanserraglio Sultan Han a Kayseri (1232-1236).

In un quadro di questo tipo va detto che i caravanserragli anatolici di epoca selgiuchide costituiscono un gruppo molto omogeneo per tipologia architettonica, contraddistinta da due corpi, entrambi grosso modo quadrati o rettangolari, uno con corte centrale aperta e porticata e ambienti disposti molto spesso su due piani e un secondo edificio coperto, che si chiama kishlik (termine che significa «accampamento invernale», «pascolo») a più navate, con quella centrale talvolta sopraelevata che può anche ospitare una cupola, a un solo livello. Confrontando questa tipologia con strutture coeve, sembra abbastanza chiaro che non vi sia un’influenza bizantina o una derivazione iranica (la quale sarebbe perfino logica); piuttosto, in questo caso, è l’Armenia ad essere il modello più vicino e accreditabile di influenza. Lo si riscontra, inequivocabilmente, nella tecnica di taglio dei conci (mirabile) e anche nei segni (mai in alfabeto arabo) lasciati dagli scalpellini, molto simili a quelli eseguiti in epoca coeva nelle chiese armene e di cui esiste documentazione. Dunque, anticipando una conclusione, le tribù turche oghuze selgiuchidi penetrano in Anatolia (via Iran e steppe azerbaigiane) alla fine dell’xi secolo, ma sarà soprattutto nel xiii secolo – quando l’autonomia sarà più marcata e lo “spirito nomade” viene assorbito con quella che possiamo definire normalizzazione – che l’attività architettonica si fa più intensa e i nuovi venuti, pur non rinunciando al coacervo di credenze, suggestioni e tradizioni ataviche (ben evidenti nel repertorio figurativo scultoreo), si appoggiano massicciamente alla mano d’opera locale e a strumenti ben consolidati, con opportune variazioni dettate anche da ragioni climatiche. Tornando ai caravanserragli selgiuchidi, ci

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troviamo di fronte a una grandissima architettura che non esitiamo a definire “sobria” (aggettivo di cui daremo conto più avanti e nonostante i pregevoli portali), tutta impostata sulla giustapposizione delle spoglie masse murarie, in un gioco di equilibri pressoché perfetto. Ma è tempo di esempi ed analisi. Uno dei più belli, e ottimamente conservati, fra i caravanserragli selgiuchidi d’Anatolia è il Sultan Han che sorge isolato nei pressi di Kayseri lungo una delle direttrici principali, la Kayseri-Sivas (da non confondere, è facile, con l’omonima struttura nei pressi di Aksaray, su cui diremo fra poco). La planimetria presenta un grande recinto fortificato con contrafforti poligonali e conci di pietra di splendido e millimetrico allineamento; l’ingresso è dato da un magnifico portale che introduce nella corte al cui centro sorge una sorta di cubo su bassi pilastri e sostegni arcuati (la nostra impressione è sempre stata quella di una citazione della Ka’ba) con scalette laterali per un accesso sopraelevato e che ha la funzione di piccola moschea. Sui tre lati della corte si trovano gli ambienti per gli alloggiamenti di uomini, animali e merci. Sul quarto lato, opposto all’ingresso, vi è un altro portale (non meno raffinato) che dà accesso alla parte coperta con una lunga navata centrale voltata a botte (e sopraelevata tanto che la copertura a botte è visibile pure all’esterno) con, al centro, una cupola. Questa, oggi, ha all’esterno una impostazione circolare su

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11. La facciata e il portale (in parte restaurato) del caravanserraglio Sultan Han a Kayseri (1232-1236). 12. La piccola moschea a “cubo” all’interno della corte del caravanserraglio Sultan Han a Kayseri (1232-1236).


13. La navata centrale della parte coperta del caravanserraglio Sultan Han a Kayseri (1232-1236). 14. Mensola a forma di leonessa sul muro esterno del caravanserraglio Sultan Han a Kayseri (1232-1236).

Nella doppia pagina seguente: 15. Doppi serpenti/draghi affrontati al culmine di un arco della moschea del caravanserraglio Sultan Han a Kayseri (1232-1236).

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un tamburo ottagonale e copertura ad ombrello; non sappiamo se originariamente non fosse previsto un punto luce come in qualche madrasa. Le navate ortogonali sono sette, più basse e a copertura esterna piatta, ma all’interno anch’esse voltate a botte con, in alto, piccole finestre. Il tutto è sostenuto da venti pilastri e svariate arcature. L’iscrizione sul portale esterno indica che l’edificio fu voluto dal sultano ‘Ala al-Din Kay Qubad i, e che la costruzione avvenne fra il 1232 e il 1236. L’enfasi decorativa è distribuita sui portali, in particolare su quello interno e sulla moschea. Lo schema dei portali – un po’ in tutta l’architettura selgiuchide – è più o meno lo stesso: di lato a due contrafforti (che nelle madrase, talvolta, sono al loro culmine la base su cui svettano una coppia di minareti), c’è una cornice rettangolare a più bande al cui interno è un arco a sesto acuto. Entro l’arco vi è una struttura di copertura quasi immancabilmente a muqarnas (nicchia ad alveoli) con un timpano liscio o decorato o iscritto. La parte inferiore dell’arco della nicchia a muqarnas può essere marcata da colonne con capitelli più o meno diversi fra loro. Nel caso del portale interno del Sultan Han di Kayseri-Sivas la cornice rettangolare esterna presenta entro un doppio bordo a meandro una pregevolissima e intri-

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16. Portale di accesso monumentale alla parte coperta del caravanserraglio Sultan Han a Kayseri (1232-1236).

17 e 18. Portali interni a decorazione geometrica del caravanserraglio Sultan Han ad Aksaray (xiii secolo).

cata decorazione geometrica a tutto campo (nel senso che la decorazione non è mai chiusa, bensì aperta e policentrica, e potrebbe svilupparsi all’infinito – ché tale è l’opera creatrice di Dio – e noi ne vediamo solo una parte; questa è una caratteristica comune e una costante di tutta l’arte islamica, a qualsiasi latitudine), basata su una stella a dodici punte che origina, intersecandosi, un cerchio; questo è visto, sfalsato, completo e con due metà divergenti. Complesso, ma di sicuro effetto! Altre cornici, molto eleganti, scandiscono lo spazio e le colonnine che sostengono la struttura di muqarnas (strutturale ma non decorata) sono “tubolari” e intrecciate. Il timpano della nicchia mostra un intreccio geometrico reso possibile dal prolungamento dei lati della svastica. Molta attenzione è stata tributata anche al “cubo” della moschea; gli angoli sono smussati da una colonnina semi incassata con intrecci tubolari, seguita da una banda perimetrale rettangolare con coppie di rosette abbinate, marcate da un disegno geometrico. Anche gli archi sono profilati; esternamente da un disegno nastriforme intrecciato e annodato (quasi delle ripetute composizioni a “8”) e, internamente, da volute a “S” alternate che, al culmine dell’arco, lasciano posto a un doppio “serpente/drago” puntinato e affrontato

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con le fauci spalancate. Notevoli – in tutta questa architettura – i gocciolatoi esterni e alcune mensole a forma stilizzatissima di animale: in questo caso una potente ed essenziale leonessa. L’insieme di linearità e complessità decorativa è superbo; gli interni, così “puliti” e perfettamente equilibrati, hanno spesso portato gli studiosi a fare confronti, niente affatto immotivati, con la migliore architettura romanica e gotica d’Europa. Non possiamo che sottoscrivere. Analoghi, per datazione e impostazione planimetrica, sono altri tre caravanserragli: il Sultan Han nei pressi di Aksaray, il caravanserraglio Karatay vicino a Niéde e lo Aézikara Han, sempre sull’itinerario fra Konya e Kayseri, ma in prossimità di Nevxehir. Il Sultan Han di Aksaray ha la medesima disposizione di quello di Kayseri, compresa la piccola moschea centrale, ed è il più grande in assoluto fra quelli selgiuchidi rimastici. La posizione isolata e le alte mura con poderosi contrafforti lo rendono molto simile a una fortezza. I due portali sono sontuosi. Quello esterno ha una serie di cornici rettangolari a decoro geometrico, con la banda più larga che presenta una variante del motivo geometrico a stella a sedici punte centrale che in questo caso è più serrato e in relazione con otto motivi stellari più piccoli disposti a cerchio (due di questi, i più estesi, risultano “tagliati”), con un effetto caleidoscopico. La parte centrale presenta

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19. Portale di accesso monumentale alla parte coperta del caravanserraglio Sultan Han a Kayseri (1232-1236).

20. Contrafforte esterno con decorazione a effetto “totemico” del caravanserraglio Karatay Han a Niéde (1237-1246).

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21. Due serpenti/draghi annodati e affrontati sul timpano dell’ivan del caravanserraglio Karatay Han a Niéde (1237-1246). 22. Veduta d’insieme dell’interno del caravanserraglio Karatay Han a Niéde (1237-1246).

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colonne con motivi a zig-zag tubolari che culminano in capitelli foliati, e muqarnas di fattura consueta. L’arco è marcato da un altro intreccio geometrico con un frontone liscio, salvo l’inserzione di due tondi e un rettangolo scolpiti e un’invocazione del nome di Dio al culmine. Da notare che sopra lo stipite della porta vera e propria vi è una fascia ablaq in marmo dai profili alternati a zig-zag. Il portale della sala coperta replica l’impostazione descritta mantenendone inalterato lo schema, ma con campiture geometriche diverse e più semplici. Anche il Karatay Han appare isolato e maestoso; in questo caso è omessa la moschea centrale. La committenza fu di ‘Ala al-Din Kay Qubad i, ma fu completata (con la corte centrale) dal successore Ghiyat ad-Din Kay Khusrau ii fra il 1237 e il 1246: «Augusto e Magnifico Sultano, Re dei Re, Ombra di Dio sulla Terra, Kay Khusrau figlio di Kay Qubad, Principe dei Credenti nell’anno 638» recita l’iscrizione. Il portale esterno aggetta di qualche metro rispetto alle mura perimetrali e presenta una decorazione particolarmente equilibrata di repertorio geometrico ma anche con disegni di arabeschi. I contrafforti esterni sono davvero degni di nota; un parallelepipedo centrale reca ai suoi lati due semicolonne lisce, mentre quella centrale ha un motivo (tubolare smussato) di “Y” rovesciate in sequenza (come uno chevron), le quali determinano un effetto che giustamente Ahmet Ertug ha definito «totemico». Il timpano dell’ivan che si affaccia sulla corte ha una decorazione eseguita con un complesso (soprattutto da descrivere!) triplice intreccio tubolare desinente nelle teste affrontate di due serpenti; “semplice” e bellissimo. Animali, in piccola scala, come uccelli, gazzelle, conigli, elefanti e serpenti (probabilmente una testimonianza del tempo secondo il calendario mongolo/cinese/turco) riempiono il piccolo spazio delle lunette di una cornicetta a muqarnas che sovrasta una sequenza di fasce geometriche nell’ivan di accesso. Notevoli, e vagamente inquietanti, sono anche i doccioni esterni che rappresentano tozzi ma spaventosi leoni alati che tengono un serpente nella bocca aperta: probabile allusione alla supremazia del principio luminoso e solare su quello umbratile e lunare, principalmente ctonio. Altri portali hanno la consueta decorazione geometrica; proprio il contrasto fra le glabre e spoglie murature perfettamente lisce e prevalenti come superficie e quelle poche eccezioni (portali e passaggi di transito) minuziosamente scolpiti e traforati quasi si trattasse di un merletto o pizzo di pietra, è pienamente avvertibile e lascia stupefatti e ammirati, e spesso senza parole adeguate per tradurre in prosa una vera emozione estetica. La struttura di Aézikara (1237-1242) ripropone la piccola moschea centrale e presenta la novità di un accesso al caravanserraglio non in asse con l’ambiente principale ma su un lato (in questo caso a est); per il resto non si discosta molto dagli esempi già discussi per severità di masse e contenuti artistici. Pur non avendo una fondazione sultaniale, le caratteristiche non variano molto, il che conferma che il livello della mano d’opera specializzata era decisamente molto elevato. Il portale esterno segue l’abituale modello; il timpano delle muqarnas presenta un disegno – meno profondamente scolpito del resto delle decorazioni, circostanza che ne esalta la specificità e che attira l’attenzione del visitatore – con un intreccio di meandri (derivato dalla svastica) che si ritrova in opere di metallo mesopotamiche (scuola di Mosul) e oggi viene vantato come marchio di lusso da qualche pellettiere nostrano! Abbiamo già scritto della committenza sultaniale con almeno sette caravanserragli; il più antico è lo Alay Han sulla Aksaray-Konya, seguito dallo Evdir

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Han (1215-1218) fra Antalya e Isparta. Alanya, già Korakesion e per i bizantini Kalanoros (da cui il nostro Candeloro) ma ribattezzata in onore del re ‘Ala’yyia, oggi cittadina turistica e piccolo porto del Mediterraneo, acquistata da ‘Ala al-Din Kay Qubad dal re armeno Kir Fard, fu un importante terminale per le merci; qui, per committenza del sovrano, nel 1228 vennero costruite in pietra delle banchine (in realtà un arsenale, tersane) le quali documentano l’attenzione per i traffici. Su un’altra direttrice, la Sivas-Malatya, sorge lo Hakim Han (detto anche Tax Han), caratterizzato da un’iscrizione trilingue (arabo, siriaco, armeno) da far risalire alle professioni di mercante, medico e arcidiacono, e che testimonia perfettamente la koinè culturale dell’epoca. Anche il già descritto caravanserraglio di Aksaray era sultaniale e così quello di Alara (coevo di Evdir) e come lo Incir Han, il quinto in ordine cronologico, caratterizzato da un portale non a muqarnas ma dalla sagoma dell’arco con ampie scanalature interne (un motivo a conchiglia) e, sui lati, due leoni ad altorilievo con tondi solari sulla schiena, che si trova sulla direttrice Antalya-Isparta. Il caravanserraglio di Zazadin (Sa’ad ad-Din), a nord di Konya, è del 1236 e ha la consueta massiccia struttura fortificata a corte centrale con ingresso su un lato, molto vicino anche alla zona del kishlik (con sei navate, 48 pilastri e cupola); si segnala per il portale esterno completamente ablaq (cioè con alternanza di pietra bianca e nera) e comunque con i consueti elementi decorativi (colonnine intrecciate tubolari, intrecci geometrici), molto più leggeri che non in altri casi e con un aspetto che contrasta molto con i conci delle pareti (le torri di rafforzo erano anch’esse ablaq), un aspetto che a noi ricorda l’architettura siriana, ma non solo, anche Pisa, Genova e la Sardegna romaniche. Un ultimo elemento da segnalare sono le numerose pietre di recupero (principalmente bizantine, con croci, ma anche una stele funeraria romana) e i ben visibili marchi degli scalpellini. Vogliamo chiudere col caravanserraglio di Susuz (Antalya-Isparta), che è particolarmente interessante per la sua decorazione.

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23. Uno scorcio della sala di preghiera della moschea ‘Ala adDin di Konya (1135-1220). 24. La facciata della moschea ‘Ala ad-Din di Konya (1135-1220).

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La rete stradale e di appoggio commerciale non poteva prescindere, ovviamente, dai centri urbani che sono stati più volte citati; a questi dunque ci rivolgiamo, preferendo a una descrizione ordinata secondo criteri cronologici, quella geografica, tenuto conto che l’ambiente selgiuchide (e dalla metà del Duecento quello mongolo che agisce in piena continuità) è abbastanza omogeneo. Dunque è Konya, (l’antica Iconium), che fu capitale fino al 1080 (quando il ruolo passò a Nicea), per ridiventarlo nel 1097 e rimanerlo fino al 1243, la città (grande come Colonia secondo un’annotazione fatta dai crociati di Federico Barbarossa che vi transitarono nel 1190) da cui opportunamente prendere le mosse. Purtroppo delle mura di fortificazione, con le 144 torri volute da ‘Ala al-Din Kay Qubad i, non rimane alcuna traccia visibile. Tra i monumenti, tutti racchiusi in un’area abbastanza ridotta corrispondente alla cittadella, un ruolo fondamentale è quello della moschea ‘Ala ad-Din (fondata già nel 1155), che nella sua disposizione planimetrica denuncia ampi rimaneggiamenti e una vicenda tormentata visto che la struttura è stata chiusa per molti anni recenti per provvedere a urgenti e tecnicamente complessi interventi di restauro. In effetti, il perimetro irregolare e le giustapposizioni, oltre all’inserimento nello spazio di due türbe e di una cupola, rendono un rebus la lettura della pianta. Lo spazio più cospicuo, e probabilmente più antico, è quello della sala di preghiera con navate parallele alla qibla con colonne e capitelli marmorei di recupero romani e bizantini, ma anche originali (con “nodi” tubolari), che può essere letta come un semplicissimo modello ipostilo, impressione accentuata anche dall’assenza di una corte. Gli altri ambienti si presentano con navate a disposizione irregolare e con l’evidente aggiunta di una cupola, e tagli per l’inserimento delle strutture funerarie: una voluta da ‘Ala al-Din Kay Qubad per i suoi antenati, l’altra da Kilich Arslan ii per se stesso e i suoi successori. Notevole è il minbar (pulpito) ligneo, di cui parleremo più oltre, così come i tappeti – i più antichi in Anatolia – di cui tratteremo in seguito. La moschea mostra una facciata e un portale di accesso piuttosto interessanti. Le murature della facciata denotano numerosi interventi, ripensamenti e rimaneggiamenti, anche se il dato più leggibile è costituito da un ordine di piccole finestrelle in sequenza con arcatelle sostenute da pilastrini in marmo bianco di recupero bizantino. Unitario è il portale (1220) ad arco a tutto sesto, molto bello, e in bicromia con un disegno di archetti incrociati che alla sommità si riuniscono in un nodo, mentre la cornice è più severamente geometrica lineare. Lateralmente due colonnine incassate a zig-zag sostengono un capitello di reminescenza classica. Non ci sono muqarnas e sopra lo stipite vi è una piattabanda ablaq inserita in una cornice di pietra con motivi vegetali, sormontata da una fascia iscritta in corsivo e una lunetta con decoro di ottagoni stellari contornati a intreccio. Non si è conservato l’antico minareto della moschea, ma, secondo l’uso prevalente in età selgiuchide (pratica già attestata in Iran), esso doveva sorgere staccato dalla moschea e non inglobato in essa. Si è scritto dei numerosi rimaneggiamenti planimetrici e strutturali subìti dalla moschea ‘Ala ad-Din; è dunque difficile trovare per questo monumento accettabili paragoni. In ogni caso la prevalenza del modello ipostilo e, soprattutto, il portale esterno caratterizzato dall’accentuata bicromia della pietra, suggeriscono una forte influenza siriana. Al 1242 si data la madrasa Sirçali, sempre a Konya (è una delle sette superstiti su un totale di 24 accreditate dalle fonti storiche), con un notevole portale

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25. Portale della madrasa Karatay di Konya (metà del xii secolo).

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Nelle due pagine seguenti: 28. La facciata e il minareto della madrasa Ince Minareli di Konya (1265). 26. Decorazione a mosaico ceramico degli interni della madrasa Karatay di Konya (metà del xii secolo). 27. Particolare della decorazione epigrafica (in cufico, scrittura geometrica, corsivo) a mosaico ceramico della madrasa Karatay di Konya (metà del xii secolo).

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29. Portale di accesso della madrasa Ince Minareli di Konya (1265). 30. Particolare degli elementi “tubolari” che incorniciano motivi geometrici nella madrasa Ince Minareli di Konya (1265).

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di accesso che introduce in una corte (fiancheggiata dalle celle degli studenti) e con un ivan sul lato opposto (con un bel mosaico ceramico epigrafico e geometrico con turchese e blu su fondo terracotta) e con ai suoi lati due ambienti cupolati, probabilmente funzionali all’insegnamento invernale (la temperatura è spesso molto rigida), mentre nell’ivan si operava prevalentemente in primavera, estate e autunno. La decorazione del portale è basata su un repertorio decorativo geometrico. Si compone di un ivan (voltato a botte) incorniciato da una serie di fasce a decorazione di intrecci geometrici e con due nicchie nelle pareti laterali – certamente ispirate da un mihrab – con colonnine a zigzag e cuspide a cono di muqarnas, entrambe riquadrate da una fitta cornice geometrica. L’arco di accesso, ribassato, ha una tipologia ablaq con piattabanda sovrastata da un’arcata centrale triloba, affatto comune, e sormontata da un’iscrizione. Esternamente la madrasa non si discosta affatto dai portali di alcuni coevi caravanserragli, e qui va sottolineato che il concetto stesso di madrasa andrebbe precisato, talché molto probabilmente non tutti gli edifici che designamo con questo nome avevano la medesima funzione educativa, ma potevano essere “conventi”, oppure assolvere a più funzioni contemporaneamente. Molto diversa, anche nella planimetria che non prevede una corte, è invece la bellissima madrasa voluta dal vizir Jalal ad-Din Karatay nel 1251-

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1253 e che ne porta il nome. La funzione religiosa è in questo caso chiara, ma lo spazio, seppure risolto brillantemente (una cupola centrale con oculo/lanterna a sostituire la corte e quattro cupole più piccole laterali con solo dodici celle a disposizione), sembra rispondere più a criteri politici e di affermazione del potere – è il caso anche della madrasa Ince Minareli (1265) – che non pratici. Il portale, decentrato sulla destra, è una consapevole e puntuale citazione di quello della moschea ‘Ala ad-Din, dunque in stile siriano. Presenta il medesimo intreccio di archetti e cornice in due colori con al culmine un’iscrizione corsiva e una piattabanda sempre ablaq sovrastata da una muqarnas accentuatamente piatta, tanto da rendere inadeguato e tecnicamente errato per questo spazio il termine consueto di ivan. Il fronte è completato da due colonne tortili con capitello di ispirazione classica, e pannelli rettangolari con originali motivi geometrici a griglia determinati dall’estensione dei segmenti della svastica, il disegno prevalente. L’interno è razionale e abbastanza semplice, dominato, nella sala centrale, da una splendida decorazione a mosaico di mattoni smaltati in turchese e blu/nero. Una fascia in alto marca il profilo quadrato dell’ambiente con una pseudoiscrizione cufica (in realtà solo un elaborato gioco grafico) ad aste intrecciate sempre in bicromia. Gli angoli di raccordo (spesso ribattezzati come cosiddetti “triangoli turchi”) sono in un grande triangolo quasi equilatero, scompartito in cinque sezioni triangolari anch’esse campite con un motivo geometrico a meandro, identico a quello dello sfondo di coevi bruciaprofumi metallici (per es. Sadberk Hanim Muzesi,

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31. Elementi decorativi geometrici a fascio della moschea di Sahib ‘Ata a Konya (1258). 32. L’elegante facciata della moschea di Sahib ‘Ata a Konya (1258).

33. La sobria facciata di ingresso del complesso di Mahperi Huand Khatun a Kayseri (1238).

inv. 27.3630, xiii secolo). Anche tutta la cupola è decorata con un fine mosaico di mattoni invetriati: due bellissime fasce in elegante cufico con aste intrecciate in complessi “nodi senza fine” e apici foliati, circoscrivono il campo dominato da grandi medaglioni circolari radiali (sembrano delle grandi margherite o “soli” con 24 raggi), in due file piene sfalsate e altre due tagliate a metà, in alto e in basso, sullo sfondo di un motivo geometrico davvero caleidoscopico. È un trionfo di geometria, colore, luce, in un contesto di rigorosa pulizia formale. Non da meno, anzi, è la madrasa Ince Minareli, completata nel 1265. La pianta è ancora una volta piuttosto lineare: dallo splendido ivan/ portale di accesso si procede verso la cupola centrale (probabilmente sempre con un oculo che permetteva alla luce di filtrare), fiancheggiata da quattro celle per lato e completata da un ivan (un dispositivo che sembra anticipare la prima architettura ottomana di Bursa) con ai lati due sale con cupola. Il minareto (di cui è superstite solo la prima parte essendo il resto stato distrutto da un fulmine nel 1901) è relativo alla moschea che fiancheggiava la scuola ed è in mattone con inserimento di parti smaltate in turchese come cordonatura di rifinitura del fusto a fasci semicircolari. Il prototipo più vicino è il minareto della Tax madrasa di Akxehir (1250), ma senza dimenticare quello Yivli di Antalya, e più lontano (ma coevo in quanto Karamanide) si dovrebbe guardare al poco noto minareto di Ja’kurgan (nei pressi di Termez, Uzbekistan). Il portale della madrasa è uno dei più originali e fantasiosi dell’intera produzione artistica selgiuchide anatolica, pur ricca di monumenti importanti. La facciata,

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34. La türbe del complesso di Mahperi Huand Khatun a Kayseri (1238). 35. Ingresso della moschea dalla corte del complesso di Mahperi Huand Khatun a Kayseri (1238).

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non propriamente un ivan, è in pietra dal caldo tono nocciola e l’elemento che domina l’insieme è epigrafico; una banda su ciascun lato e al centro una doppia fascia che sagoma la porta di accesso formando un nodo sopra di essa per riprendere un allineamento parallelo nuovamente sovrapposto al culmine: pare un elegantissimo nastro posto a chiudere un sorprendente pacco regalo! Altri spazi sono ornati con fasce di decorazione geometrica e a queste si sovrappongono elementi “tubolari” (agli angoli con un bellissimo “nodo infinito”) sopra la nicchia (appena accennata) e nei lati di questa con carnosissime forme floreali – quasi a tutto tondo! –, la cornice in alto accenna a due specie di bifore sotto alle quali sono due piccoli medaglioni circolari con il nome dell’architetto: Koluk ibn Abdullah. L’equilibrio è mantenuto con una certa difficoltà, ma l’insieme è davvero stupefacente. L’interno, ampiamente rimaneggiato dai restauri, non si discosta da quello della madrasa Karatay ma è privo di mosaici smaltati. Notevole un pannello iscritto in corsivo con una decorazione a griglia geometrica con all’interno motivi arabescati: la quintessenza dell’arte decorativa islamica. La moschea di Sahib ‘Ata (1258), opera del medesimo architetto della madrasa Ince Minareli, ha una semplice planimetria con sette navate (la centrale più ampia) perpendicolari alla qibla e il mihrab coperto da una cupola; il portale di accesso, in pietra, presenta qualche marmo bizantino riutilizzato e una pregevole cuspide a muqarnas. Ai fianchi del portale sono due massicci

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contrafforti ornati con due nicchie cieche su ciascun lato in basso (forse delle fontane) e in alto un pannello con decorazione “tubolare” a intreccio geometrico di bell’effetto. Dal contrafforte di destra, al livello della copertura, si imposta il minareto costolato in mattoni con inserimento di mattonelle smaltate che esaltano l’eleganza del motivo. All’interno sopravvivono alcuni ornati originali, con mattoni smaltati che formano semplici epigrafie ripetute, finestre con griglie geometriche con arabeschi ed epigrafie corsive, oltre alla fascia dell’intradosso di un arco con un motivo di intreccio geometrico (a base poligonale ma quasi circolare), anche in questo caso con un buon effetto caleidoscopico. Un centro che vide una fiorente stagione in epoca medievale e in particolare durante il dominio selgiuchide fu Kayseri (già Qaysariyya e prima ancora Cesarea), posta in posizione strategica al centro dell’Anatolia e non solo lungo l’asse Est Ovest, ma anche in quello non meno trafficato fra i due mari. Tra i più antichi edifici selgiuchidi di Kayseri è da annoverare la Çifte madrasa (ma forse si trattava di un ospedale oltre che di una scuola) voluta dal sultano Giyath ad-Din Kay Khusrau (1205). In realtà si tratta di due edifici analoghi fra loro – grosso modo: corte centrale (40 × 60 metri) con porticato e quattro ivan assiali ma di proporzioni diverse – collegati da uno stretto passaggio. L’accesso all’ospedale è più imponente della scuola ed entrambi sono decorati con motivi geometrici. Un’iscrizione ricorda il lascito a favore dell’istituzione fatto da Gevher Nesibe Sultan, sorella del fondatore e sorella di Kilich Arslan. Gli interni dell’edificio appaiono di una sobrietà assoluta, quasi desolante. La Külük Cami è degli inizi del xiii secolo e si segnala per un assai pregevole e monumentale mihrab a decorazione epigrafica e geometrica con mosaico di mattoni smaltati in turchese (colore prevalente) e blu. La Ulu Cami è databile alla prima metà dello stesso secolo; ha una pianta regolare con navate parallele alla qibla e una cupola a marcare il mihrab. Il monumento più significativo di Kayseri è il complesso (in turco viene definito Külliye, un termine che ricorre spesso relativamente all’architettura ottomana; questa, però, è la prima külliye del mondo anatolico) di Mahperi Huand Khatun (1238). La committente fu moglie del sultano ‘Ala al-Din Kay Qubad i e la sua türbe (o mausoleo) sorge in una piccola corte fra la moschea e la madrasa. Entrambi gli edifici, accostati, hanno esternamente un aspetto molto severo e quasi militare – sensazione accentuata dalle murature in pietra liscia con pochissime o nulle finestre sull’esterno – e da torrioni quadrati di rinforzo. I portali di accesso, uno per la madrasa e due per la moschea (uno dei quali immette nel cortiletto con la türbe) sono alti e ben proporzionati, con una fitta decorazione geometrica – come nei coevi caravanserragli – a più cornici sui lati e una nicchia conica a muqarnas sostenuta da semicolonnine laterali; un notevole effetto esaltato dall’essenziale nudità dei muri perimetrali. La pianta della moschea è particolarmente interessante (e lo sono anche le soluzioni di copertura), con una piccola e atrofizzata corte centrale, dieci navate parallele alla qibla e otto campate. Due di queste ultime, le centrali sul lato della türbe, contraddicono la generale disposizione e sono assiali con la corte che precede un largo ivan che, a sua volta, introduce la cupola. La madrasa ha uno sviluppo longitudinale (una caratteristica attestata spesso in questi edifici in Anatolia – se ne conoscono circa un’ottantina di cui più di cinquanta in buono stato di conservazione e di leggibilità), con una corte centrale con

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36. Particolare decorativo geometrico e di arabeschi del Döner Kumbet di Kayseri (1276). 37. Il Döner Kumbet di Kayseri (1276), uno splendido esempio di monumento funerario.

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portico affiancata su ciascun lato da otto celle e sul lato opposto all’ingresso (ai cui fianchi stanno quattro stanze, probabilmente ad uso dei docenti) un ivan con ambienti laterali; non è previsto un mihrab, il che è logico stante la contiguità con la moschea. Il mausoleo è a pianta ottagonale con semicolonne a decoro geometrico agli angoli; una doppia cornice geometrica segna un arco con muratura liscia salvo una finestrella (una bifora, ma il pilastrino di sostegno non sembra originale). I soprarchi mostrano un fine ornato geometrico coronato da una vigorosa iscrizione corsiva sopra alla quale si trova un registro di muqarnas; la copertura è piramidale. A metà Duecento (1249-1250) è datata la madrasa e moschea di Haji Kilich (con uno spazio di poco più piccolo concesso alla Scuola), con una corte lungo la quale si dispongono le celle (madrasa) e un semplice rettangolo di cinque navate perpendicolari alla qibla, con la centrale più larga che sfocia nella cupola sopra il mihrab (moschea). A guardare la pianta di questo monumento sono molto significative le analogie con le moschee ottomane classiche. Il portale, geometrico, non si discosta se non in alcuni dettagli secondari da quelli descritti per la Mahperi Huand Khatun e dunque è pienamente rappresentativo dello stile selgiuchide come lo siamo venuti tracciando sin qui. Un’altra caratteristica peculiare di tutto il periodo selgiuchide è stata l’enfasi posta sulla costruzione di monumenti funerari (türbe). Sull’origine di queste strutture si fronteggiano almeno due scuole di pensiero (variamente venate di risvolti nazionalistici…), divise fra chi vi vede la rappresentazione in pietra di una yurta o tenda nomade d’Asia centrale e chi, invece, privilegia l’aspetto strutturale e le evidenti analogie con la lanterna delle

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38. Particolare di una iscrizione in mosaico ceramico e in stile cufico con aste incrociate che formano un’elegante decorazione geometrica. Sivas, madrasa Xifaiye (1217).

39. La türbe poligonale (a dieci lati) di Kay Kaus a Sivas (1217). È uno dei più antichi esempi di architettura funeraria selgiuchide ancora in mattoni. 40. Il ricco e finemente scolpito portale di accesso della madrasa Buruciye a Sivas (1271). Esempio classico di stile selgiuchide maturo.

chiese armene, precedenti o coeve. Comunque sia, il mausoleo in pietra è uno degli elementi caratterizzanti il paesaggio architettonico selgiuchide. A Kayseri l’esempio forse più illustre è il Döner Kumbet (kumbet vuol dire cupola ed è in questo caso sinonimo di türbe; doner significa girare ed è entrato nel nostro linguaggio comune attraverso il doner kabab, anche se qualcuno lo interpreta nel senso di cilindro…) che ospita le spoglie di Shah Cihan Khatun ed è datato al 1276. La base, come in molti di questi edifici, è quadrata (ovvero la metà di un cubo con gli angoli smussati) e sormontata da un cilindro a dodici sfaccettature con copertura conica. Il profilo del dodecagono (quindi quasi un cilindro) è sagomato da eleganti arcate con doppio contorno nella parte arcuata; ogni faccia è decorata con un bel motivo a griglia geometrica. La parte superiore del cilindro ospita una doppia fascia decorativa, la prima con tralci di arabeschi e la seconda a intreccio geometrico e una nicchia conica a muqarnas con semicolonne incassate. La novità principale – ma è qualcosa che ritroveremo in altri monumenti selgiuchidi – consiste nell’inserzione di elementi plastici scultorei ad alto rilievo come un’aquila bicipite, una palma e un leone. La türbe di ‘Ali Jafar (metà del xiv secolo) è ottagonale e, oltre a un semplice portale – campito secondo lo schema consueto e con sobrie geometrie – reca un’iscrizione corsiva nella parte superiore. La copertura è conica e a leggera costolatura per tre quarti della superficie, salvo la cuspide terminale. La madrasa di Köxk (nei pressi di Kayseri e costruita nel 1341 dal locale emiro Ertena) chiude anche cronologicamente il ciclo delle architetture medievali in questa città. L’aspetto esterno è quello di una fortezza a cui si accede

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41. Particolare della cornice del portale della madrasa Çifte Minareli a Sivas (1271). 42. La facciata della madrasa Çifte Minareli a Sivas, sovrastata dalla coppia di minareti (1271).

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da una porta che introduce in un ivan comunicante, lateralmente, con due stanze rettangolari e si affaccia sulla corte su cui sono disposte le celle. Al centro della corte vi è la türbe di ‘Ala ad-Din Ertena (1352) – e questo è significativo della commistione privilegiata fra scuole e mausolei, probabilmente in virtù di appositi waqf –, una türbe semplicissima, ottagonale sulla solita base quadrata, con archi ogivali solo profilati e semicolonne angolari; in alto una iscrizione coranica precede la copertura piramidale. Sivas (Sebask, Sebasteia). Va ricordato come i Selgiuchidi furono sconfitti dai Mongoli nel 1243 e che molte regioni e città si resero più o meno autonome, dato anche il disinteresse mongolo, dando vita a emirati locali quale quello dei Danishmenidi (operanti a Kayseri, Sivas, Malatya, Konya e Amasya), pur se sostanzialmente la continuità artistica e culturale col mondo

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43. Particolare delle colonnine semicilindriche e a prisma del portale della madrasa Çifte Minareli a Sivas (1271).

44. Particolare della lunetta conica a muqarnas del portale della madrasa Çifte Minareli a Sivas (1271).

selgiuchide fu preservata. Sivas fu un importante centro carovaniero e sebbene abbia subito diverse vicende politiche (selgiuchide dopo la battaglia del 1071 per poi passare in mani turcomanne e venire ripresa nel 1172 da Kilich Arslan ii. Bayazid i la prese in epoca ottomana, ma Tamerlano la saccheggiò dopo la battaglia di Ankara), ha mantenuto diversi monumenti significativi, testimonianza di un glorioso passato nell’età medievale. L’ospedale, poi trasformato in madrasa Xifaiye e la türbe del sultano Kay Kavus sono datati al 1217. La tomba viene considerata fra i primissimi esempi di architettura monumentale funeraria selgiuchide. La tipologia è quella della torre poligonale (10 lati) su base quadrata. È un monumento in mattoni cotti con l’inserzione di pregevoli manufatti ceramici smaltati e, nella malta fra mattone e mattone, l’inserzione di sigilli stampati. Il materiale costruttivo – ma anche la forma e il particolare dei sigilli – la accomunano ai monumenti persiani (si pensi, per

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45. La Gök madrasa di Sivas (1271) con l’imponente e raffinatissima facciata. 46. Torrione d’angolo scolpito con disegni di arabeschi della Gök madrasa di Sivas (1271).

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esempio, a Maraghah con la Gunbad-i Kabud, 1196), conferendole un aspetto “insolito” nel contesto anatolico. L’ornato è tutto geometrico con timide inserzioni turchesi e melanzana su mattoni ocra/bruno; le epigrafie in cufico con aste intrecciate che generano “nodi infiniti” e complessi intrecci geometrici sono bellissime con pochi raffronti per purezza espressiva. La tecnica dell’inserto ceramico è attestata anche nel semplice mihrab della Ulu Cami, sempre a Sivas, di incerta datazione (probabilmente risalente al 1100 o ai primissimi anni del xii secolo) e con una disposizione ipostila arcaica di undici navate perpendicolari alla qibla e un minareto esterno in mattone. Tre sono le grandi e importanti madrase di Sivas: la Buruciye, la Çifte Minareli e la Gök madrasa, tutte grosso modo coeve e databili al 1270-1271. Della Çifte in pratica resta solo la facciata, mentre nelle altre è leggibile anche la pianta che ha un andamento longitudinale con quattro ivan assiali (ma quelli sui lati lunghi della corte sono ridotti per non turbare lo slancio della corte allungata): non è una soluzione ottimale e una volta nella corte si ha l’impressione che gli architetti abbiano voluto, con molti sforzi e sacrificando il ritmo del portico, conciliare due tradizioni divergenti anche se non incompatibili. Le celle non sono numerose, anche se la Gök madrasa (madrasa blu), la più monumentale, si dispone su due piani, potendo così disporre di uno spazio sufficientemente articolato. I portali di queste tre madrase sono fra i più belli dell’intera produzione selgiuchide. Nella madrasa Buruciye (1271; voluta da Muzaffer, figlio del vizir Hibetullah Burucerde) il programma decorativo è un inno all’horror vacui; la superficie presenta decorazioni geometriche (ma anche di arabeschi) molto fitte e intricate, con l’aggiunta di elementi scultorei, sempre vegetali, che appaiono come applicati (e la citazione e analogia con Divriéi – su cui si veda più avanti – è spontanea). Dall’esterno: due semicolonne e poi una doppia larga fascia di cornice, quindi il motivo si sagoma a rientrare con varie cornicette per focalizzarsi sullo spazio dell’ingresso, quasi un piccolo ivan. La porta è modesta, con un arco ablaq che sostiene l’architrave iscritto e con sopra la consueta nicchia conica a muqarnas. Non possono mancare le semicolonnine incassate (con ornato di arabeschi intrecciati), e sui lati si aprono due nicchie incorniciate entro motivi a “Y” intrecciate (trischeli). La decorazione dell’insieme del portale (replicata in tono minore nell’ivan interno, molto danneggiato e rimaneggiato, ed estesa anche a piccole nicchie/finestra sulla superficie ai lati del portale medesimo) è davvero molto ricca ed esuberante; non parliamo qui di “barocco” perché quel termine si adatta di più e meglio agli esterni del complesso di Divriéi. All’esterno si segnalano la consueta superficie piana e il torrione di rinforzo angolare a fasci di semicolonne su due registri che sembra ispirarsi al modello dei minareti in mattone (come quello, già menzionato, Yivli di Antalya). Della madrasa Çifte Minareli resta il portale di accesso, caratterizzato dalla coppia di minareti a coronamento di quella che possiamo ben definire una facciata. Peraltro questa enfasi sugli accessi, attraverso la monumentalità delle masse e lo splendore delle decorazioni è tutt’affatto originale, e riceve un impulso speciale in Anatolia divenendo un segno distintivo peculiare dell’architettura selgiuchide. Il portale è piuttosto complesso, decorativamente, ma non si distacca di molto per morfologia da quelli precedenti: è sormontato da una coppia di minareti in mattone cotto (come s’è già detto per probabili ragioni statiche) con inserti in ceramica. Coppie di minareti ai lati di un portale/ivan sono una caratteristica iranica (si veda, per esempio l’ivan sud, qibli, della moschea del venerdì di Isfahan;

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47. Decorazione con alcuni segni del calendario astrologico turcomongolo-cinese. Gök madrasa di Sivas (1271). 48. Türbe di forma classica con copertura conica. Erzerum (xiii secolo).

Alle pagine seguenti: 49. Facciata della madrasa Çifte Minareli di Erzerum (xiii secolo). 50. La copertura interna del grande ivan della madrasa Çifte Minareli di Erzerum (xiii secolo). 51. Facciata della moschea di ‘Ala ad-Din a Niéde (1223).

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oppure quella di Yazd…), pienamente assorbita dall’architettura anatolica divenendo una caratteristica tipica della madrasa. In questo caso, comunque, la fondazione dei minareti è segnata, strutturalmente, ai lati del portale vero e proprio, da una superficie convessa, marcata da sottili colonnine a più stadi, lisce, tortili e con ornato geometrico, con elaborati capitelli che emergono quasi a tutto tondo. La prima cornice è una fascia di muqarnas sui tre lati che introduce una larga banda di motivi geometrici caleidoscopici molto intricati a base poligonale con campiture alternate di rosette a sei petali e stelle. Lo spazio dell’apertura è diviso come al solito con semicolonnine incassate (e capitelli complessi), una copertura conica a muqarnas (dopo lo stacco di un’iscrizione corsiva) e nicchie nelle pareti laterali. Nell’arco a sesto acuto vi è un decoro geometrico e il soprarco ha un curioso particolare scultoreo traforato a tre parti che emerge sensibilmente: ricordano, questi elementi, gli emblemi nobiliari sulle facciate dei palazzi rinascimentali europei. Fra questi elementi e la banda geometrica già descritta, la giusta proporzione è raggiunta con l’inserimento di un’iscrizione corsiva. Ai lati del portale, e immediatamente contiguo a esso, si aprono due nicchie con copertura conica a muqarnas, riquadrate da tre cornici con motivi geometrici. L’insieme è molto equilibrato e l’accuratezza e finezza degli ornati è ben testimoniata da due pannelli posti sopra le nicchie laterali dell’ingresso, con elaborati arabeschi in un caso e un lavoro di traforo epigrafico, quasi a giorno, nell’altro. Il capolavoro del genere è comunque costituito dalla Gök madrasa (sempre del 1271, annata d’oro, e straordinaria capacità di gestione dei cantieri…), un monumento nel quale si è in bilico fra sontuosità ed esuberanza quasi imbarazzanti e un estremo rigore della proporzione. Il tutto coniugato con la qualità estrema delle raffinatissime decorazioni. A questo giudizio contribuisce anche il tipo di pietra impiegato nel portale – bianca – a contrasto con la superficie più calda dei muri d’ambito. Lo schema planimetrico è quello comune dell’epoca e dunque sul portale si staglia una coppia di minareti in mattone con inserti e costolature smaltate in turchese. I minareti dovevano essere ben più alti della proporzione attuale che si ferma al primo balcone tronco conico a muqarnas aggettanti (simile, se vogliamo, al nido di una cicogna), dominando lo spazio circostante e costituendo un importante punto di riferimento visivo. Il portale vero e proprio è fiancheggiato dalle fondazioni dei minareti con una decorazione che si integra bene nell’insieme ma al contempo “stacca” rispetto al portale vero e proprio. Ciò avviene con una superficie dominata da iscrizioni in rilievo, in basso, a contrasto con disegni “tubolari” geometrici. Un motivo originale che fu “citato”, quanto a scansione dello spazio, nella facciata di ingresso della madrasa/ moschea/mausoleo di Sultan Hasan al Cairo (1356). Una scultura bellissima è quella di un fantastico albero della vita (una palma dai frutti di melograno) con all’apice un’aquila bicipite; un miscuglio geniale di astrattismo e concretezza. Nel portale, dall’esterno, la prima cornice è costituita da una fascia geometrica seguita – un po’ come nella Çifte – da una muqarnas (fantastica! Perché l’effetto è il medesimo ma viene ottenuto attraverso un motivo di tralci di arabeschi ripetuti) e poi da altri riquadri. L’arco è arioso e anche lo spazio dell’ingresso vero e proprio ha un carattere elegante e perfetto, come il soffitto a muqarnas, fra quelli più brillantemente risolti nel loro genere. Le decorazioni dei soprarchi sono di volute di arabeschi, notevoli per ariosa eleganza. La porta vera e propria è incorniciata da pietre in bicromia ablaq.

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Una decorazione ad alto rilievo è particolarmente interessante nel rappresentare con una serie di teste animali i segni del calendario astrologico turco-mongolo-cinese, una chiara reminiscenza simbolica delle origini nomadi centrasiatiche. Giova alla monumentalità dell’insieme anche la circostanza che la madrasa ospiti due piani e le pareti perimetrali siano di poco più basse del portale. Ai lati di questo vi è a destra una nicchia e a sinistra una fontana inquadrata in un motivo trilobo (ablaq) con un disegno geometrico; uno di quelli consueti, ma “sparato” in una sorta di ingrandimento fuori scala. I torrioni d’angolo sono semicircolari e su due registri; l’effetto scultoreo del tutto tondo è raggiunto scavando gli arabeschi su più livelli: un pesante velluto broccato, un rivestimento teatrale. Con Erzerum (già Arx Romanorum, Karim, Theodosiopolis) ci troviamo lungo una delle più importanti direttrici carovaniere verso Oriente e, per molti versi, in una città di frontiera, pur nei limiti di una definizione che va contestualizzata. Gli Arabi la conquistarono – nell’ambito delle loro consuete incursioni di razzia – già nel 653 e la regione fu terreno di scontro ripetuto fra musulmani e bizantini sino alla presa selgiuchide nel 1201. La posizione geografica di Erzerum contigua alla regione armena (e passaggio quasi obbligato per il Caucaso), resero la zona e la città molto permeabili alle influenze cristiane; i Mongoli vi trionfarono nel 1242 e a conferma di un destino segnato fu contesa anche successivamente da Safavidi, Aqqoyunlu e Ottomani. La grande moschea congregazionale (1135), nonostante numerosi rimaneggiamenti, è un’opera importante, con alte mura esterne di aspetto severo e militaresco, mancanza di corte, e un interno arioso nel quale si concilia una organizzazione planimetrica semplice e di derivazione araba ipostila (a sette navate), con una cupola che insiste sul mihrab. Se in Iran nel periodo selgiuchide la cupola è preceduta quasi immancabilmente dall’ivan (ma si ricordi il processo che portò a questa soluzione nella moschea del venerdì di Isfahan), in Anatolia gli architetti non isolano lo spazio del mihrab, ma anzi cercano di integrarlo del tutto al resto dell’edificio. Il più significativo monumento di Erzerum è la Çifte Minareli madrasa, la più grande costruita in quest’epoca in due fasi diverse e mai terminata (di datazione discussa, ma probabilmente del 1253); è di disposizione “classica” anatolica del tipo con corte molto allungata e quattro ivan, non dissimile da altre, con l’aggiunta di una türbe dietro l’ivan maggiore (contrapposto all’ingresso). La facciata è in pietra, sormontata da una coppia di minareti a fascio di colonne in mattone con inserti turchese, su base cubica (con un bellissimo medaglione circolare turchese), prolungata in proiezione come un contrafforte di pietra ai lati del portale; sono fra i minareti selgiuchidi più belli, purtroppo mutili nell’altezza. L’ornato è fra i più straordinari, non solo nella facciata. Questa segue lo schema abituale: una cornice geometrica e poi una muqarnas. Le consuete colonne sostengono il profilo del cono sempre a muqarnas, mentre gli spazi sopra e sotto l’arco sono lasciati liberi da motivi ornati provocando un contrasto gradevole. Molto interessante è la decorazione, in basso, del contrafforte base del minareto, con un disegno “tubolare” a cornice che ospita al suo interno un motivo plastico scultoreo in altorilievo. Alla base due draghi dal corpo annodato con teste dalle fauci spalancate e lingue biforcute. I corpi si saldano – con una mezza luna – e da qui ha origine una palma (con frutti di melograno e due uccelli posati sui rami) su cui sta un’aquila bicipite: l’analogia con la madrasa Çifte di Sivas è palese. L’interno è

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52. Il mausoleo di Hudavend Khatun a Niéde (1312). La base del monumento è ottagonale e il tamburo a sedici lati con copertura conica piramidale. 53. Il mausoleo e la moschea di Sunéur Bey a Niéde (1335); entrambi sono stati ampiamente restaurati.

molto ben disegnato con un ampio cortile e una doppia altezza nella quale gli ivan laterali impostati al livello del porticato si inseriscono con perfetta naturalezza. La cura per il dettaglio esornativo emerge nei riquadri delle arcate, nelle semicolonne incassate (a griglia geometrica e campitura floreale) e nei fusti dei pilastri della corte con motivi a trischele (di nuovo una vicinanza importante con gli sfondi di campitura dei coevi metalli), oppure con semplice griglia di losanghe o carnosi arabeschi. È da segnalare anche la copertura – originale, ma si pensi anche ai gavit (atri) dell’architettura religiosa armena – con archi a crociera e bella sfaccettatura centrale nell’ivan est. La türbe dodecagonale è in parte assorbita dalla parete terminale del lungo ivan e presenta sobrie decorazioni geometriche. Più tarda (1310) è la datazione della madrasa Yakutiya, sempre a Erzerum, con pianta analoga alla precedente (türbe compresa) anche se meno allungata nella corte. Anche in questo caso il portale ha motivi geometrici e figurazioni con bellissime aquile bicipiti. Con Niéde torniamo nell’Anatolia centrale a una cittadina importante nel periodo selgiuchide con alterne vicende, e che rimase in mano alla locale dinastia Qaramanide dal 1390 al 1470, quando soccombette al potere ottomano. Il grande geografo e viaggiatore Ibn Battuta la visitò nel 1333 descrivendone le rovine, conseguenza della furia devastatrice mongola. La moschea congregazionale ‘Ala ad-Din (1223), si chiama così in onore del sultano Kay Qubad i, ma fu fatta erigere, in posizione dominante su una collina, dal locale emiro Zayn ad-Din Beshare e costituisce, nel suo ottimo stato di conservazione senza particolari alterazioni (a parte il minbar), un importante esempio della ricerca di uno stile proprio da parte del potere selgiuchide.

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Appare granitica con la proverbiale abilità nel gestire le massicce pareti lisce all’esterno e presenta una disposizione a navate parallele alla qibla con copertura piatta, salvo una lanterna centrale per l’illuminazione e tre cupole allineate, delle quali quella centrale sopra il mihrab. La mancanza di corte non è probabilmente dovuta solo a ragioni climatiche (Niéde sorge a 1200 metri, ma del resto Erzerum sfiora i 2000 e anche qui la moschea è senza corte, prevista, però, nelle madrase…), ma a una precisa volontà dei progettisti. L’ingresso con facciata monumentale è nel lato est e un altro accesso, sempre con portale decorato ma più piccolo, è sul lato nord, ma in prossimità dell’angolo e non in asse con il mihrab. All’angolo di nord est, su un grande contrafforte angolare con desinenza ottagonale, è costruito l’unico minareto, cilindrico, e con corsi di pietra di tonalità chiara e scura alternate. Il portale principale mostra una serie di cornici concentriche tutte a carattere geometrico con ripetuto un motivo ad angoli acuti cuspidati ed intrecci geometrici. L’arco – altissimo e confinante con la cornice più interna – è costituito da quattro fasce (due volte una losanga intrecciata e due motivi a canestro) e al suo centro sta una lastra iscritta di marmo bianco – piazzata lì in modo un po’ incongruo e irrispettoso dell’equilibrio dell’insieme – con la data di fondazione. La parte dell’ingresso ha muqarnas fortemente scolpite ma dalle forme molto morbide, così come lo stesso aggettivo è adatto al profilo dell’arco. La porta vera e propria appare

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54. La splendida nicchia a muqarnas della madrasa Bianca (Ak madrasa) a Niéde (1409). 55. La bifora con oculo sul piano superiore della facciata della madrasa Bianca a Niéde (1409); essa conferisce al monumento un aspetto decisamente mediterraneo. 56. Veduta esterna del complesso di Divriéi (1228-1229).

piuttosto larga con una linea arcuata ribassata – quasi un architrave – e una decorazione di linee parallele leggermente appuntite che rassomigliano al movimento di un’onda. L’altro portale è simile e va segnalato, sulla destra, un doccione per l’acqua piovana sagomato come la testa di uno stilizzato ed essenziale leone. L’interno è bellissimo. I grandi e corti pilastri (con solo un accenno di capitello a muqarnas) sostengono archi con nell’intradosso tre costolature, dando un’impressione di forza: davvero il paragone con l’architettura gotica, della quale, in ogni caso, qui manca lo slancio verticale, non è fuori luogo e nemmeno casuale. Anche l’area del mihrab è completamente decorata – e replica in qualche modo i portali – con una serie di cornici a ornato geometrico; gli arabeschi paiono essere banditi dal contesto. La cupola sopra il mihrab è sostenuta da quattro pennacchi con muqarnas strutturali. Il minbar in pietra non è originale ma assemblato con parti decorate sempre con motivi geometrici, probabilmente tratte da altre parti dell’edificio. Il mausoleo di Hudavend Khatun a Niéde (1312; fu costruito dalla figlia del sultano Rukn ad-Din Kilich iv , che regnò congiuntamente al fratello Kay Kavus ii ) ha caratteristiche originali e tutt’affatto peculiari. La base è ottagonale e il portale, pur in una logica dimensione più modesta, non ha niente da invidiare

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per stile, qualità, proporzione ed eleganza a quelli più volte descritti delle madrase o dei caravanserragli; dunque, fin qui, tutto nella norma. La scansione in otto lati è determinata da semicolonne incassate a decoro geometrico; ciascun lato, però, è liscio per due terzi dello spazio, mentre in alto, si protende una sorta di triangolo (a muqarnas come conferma una visione dal basso), diviso a metà da una corta semicolonna di modo che da otto si passa a sedici lati! Ognuno di questi settori ha una cornice geometrica entro cui è una piccola arcata, liscia, con all’interno solidi motivi arabescati (come negli spazi di risulta fra arco e cornice), oppure a schema geometrico. Su un soprarco, sagomato a muqarnas, sono ad altorilievo le figure di due arpie, mentre all’interno dell’arco c’è un bel disegno di ovali intrecciati a traforo. La porta vera e propria ha stipiti e architrave in marmo bianco sormontati da una fascia geometrica nel consueto colore nocciola e, sopra ancora, nuovamente una banda in marmo con l’iscrizione; l’analogia con l’ablaq di Siria è stringente, così come nella contabilità del dare e avere un ruolo importantissimo hanno giocato i rapporti con le locali comunità armene. Di poco posteriore alla türbe è la moschea di Sunéur Bey (1335), che si ispira nella disposizione alla locale ‘Ala ad-Din; pianta rettangolare a tre navate (di impianto basilicale bizantino, si direbbe), con la fila centrale coperta con quattro cupole in sequenza e col mihrab e un portale, stavolta in asse, sul lato nord. Il portale principale, tuttavia, continua ad essere quello orientale su cui svettava una coppia di minareti (oggi è superstite solo quello di destra); a sinistra del portale vi è la türbe funeraria a base ottagonale (ma poi i lati divengono 16 con lo stesso meccanismo della Hudavend Khatun). L’interno ha reminiscenze bizantine, con colonne e capitelli di spoglio, e un gusto gotico che contrasta con l’esterno pienamente selgiuchide. Il portale mostra elementi geometrici nel repertorio abituale, mentre la cuspide dell’ingresso – peraltro a muqarnas – presenta un’originale soluzione con elementi scolpiti molto nettamente. Sembra un soffitto a cassettoni ligneo, e forse la suggestione è indotta dalle similitudini con elementi architettonici presenti nell’abbazia di Bellapais (Cipro). Del resto un’iscrizione esonera alcuni forestieri dal pagamento di tasse. Più tarda ancora è la Ak madrasa (1409), un monumento costruito dai sovrani Qaramanidi (fondatore dell’edificio fu ‘Ala ad-Din ‘Ali Bey, fratello dell’emiro) in discreta continuità stilistica con quanto descritto sinora; quindi aspetto fortificato (salvo la facciata), andamento allungato della corte con celle (su due piani) che si affacciano su questa e un solo grande ivan/sala da preghiera a Sud. La facciata ha un grande portale a ornato geometrico con sagoma conica a muqarnas e un arco profilato la cui cuspide si unisce alla punta del cono; l’effetto è quello di un tendaggio o sipario teatrale. Se il primo piano, sul lato della facciata, è pieno, al piano superiore si aprono entro un arco delle bifore (la colonna centrale di spoglio è bizantina) con oculo, un accorgimento che conferisce a questa architettura un aspetto mediterraneo, quasi veneziano! E questo è stato notato e, forzando la mano, vi si è voluto vedere un’influenza italiana, anche se molto probabilmente è alla regione balcanica (e alla Dalmazia in particolare dove gli influssi italiani sono palesi) che bisogna rivolgersi. I due piani e la scansione della facciata sono invece collegabili con la grosso modo coeva Hüdavendigar di Bursa.

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Nella doppia pagina precedente: 57. Complesso di Divriéi (1228-1229). Il lato occidentale e il portale di accesso dell’ospedale e, a sinistra, uno dei due portali della moschea.

A fronte: 58. Il portale settentrionale della moschea a Divriéi (1228-1229), con le strepitose e sontuose decorazioni in pietra scolpita spesso definite “barocche”. Alle pagine seguenti: 59. Il sobrio ed essenziale interno della moschea di Divriéi (1228-1229). 60. Una lunetta a conchiglia all’interno del complesso di Divriéi (1228-1229). 61. La doppia spirale in pietra a copertura dell’ambiente principale dell’ospedale di Divriéi (12281229).

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Divriéi. Quella che oggi appare una tranquilla cittadina provinciale è stata sempre in posizione strategica al centro dell’Anatolia, fra Sivas a Nord Ovest ed Elazié (e dunque Malatya e Diyarbakir) a Sud Est e con Erzincan ed Erzerum a Oriente. Divriéi fu l’antica Tefrike, un sito militare bizantino di un certo rilievo. È qui che verso la metà del ix secolo trovarono rifugio e protezione i seguaci della dottrina Pauliciana, originaria della Siria (o Armenia) e diffusasi con il vii secolo (probabilmente durante il regno di Costantino ii; 641-668), i cui sostenitori propugnavano una netta distinzione fra spirito e materia (un dualismo spesso associato, quando non confuso con quello manicheo). Sconfitti nell’872 dall’imperatore Basilio, furono perseguitati e dispersi, trovando rifugio nella penisola balcanica, in Tracia (dal 969), da cui il movimento si diffuse alla Bulgaria e alla Iugoslavia (la setta dei Bogumili fu in quei territori piuttosto radicata); dei Pauliciani si perdono le tracce già nel xiv secolo. Dunque Divriéi ha una storia antica e particolare; dopo la sconfitta bizantina del 1071 il controllo della città, circondata da montagne e sita a 1350 metri di altezza, passò alla dinastia locale dei Turchi Mengugechidi (dal fondatore della dinastia, il beylik Mengücek), e sono questi i responsabili (nelle persone di Ahmad Shah e della cugina nonché moglie Turan Malik), agli inizi

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del xiii secolo, della costruzione di uno dei più stupefacenti complessi architettonici della Turchia islamica, comprendente una moschea e un ospedale (Cami e Daruxxifa; al-Dar al-Shifa, «casa della cura»). L’edificio è situato in alto a mezzacosta rispetto alla cittadella fortificata (che, fra l’altro, ospita una moschea databile all’ultimo quarto del xii secolo, 1180), e si presenta esternamente in modo abbastanza articolato (vi si trovano quattro diversi portali, tutti più o meno decorati), comunque con i conci di pietra locale liscia (una bella tonalità fra il giallo e il rosato), dal severo aspetto marziale tipico di tutta l’architettura selgiuchide. La pianta esterna è molto semplice, trattandosi di un grande rettangolo nel quale due terzi all’incirca sono appannaggio della moschea e un terzo solamente dell’ospedale. Come ha brillantemente dimostrato Yolande Crowe in un suo saggio di più di una trentina di anni fa, la disposizione planimetrica (ma anche quella dei portali, riconducibili a moduli o “unità” di misura coerenti) dimostra un’approfondita conoscenza da parte dell’architetto (che firma il lavoro all’interno della moschea; Khurxah Ibn Mughith di Ahlat) della geometria euclidea e delle sue regole applicate all’arte del costruire. Come in ogni edificio di grande successo – e questo indubbiamente lo è! –, l’idea basilare è semplice. La moschea (datata 1228-1229) è disposta lungo l’asse Nord-Sud, a cui

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corrispondono, rispettivamente, il portale che guarda verso la cittadella (sede del potere politico) e il mihrab. La pianta – di netta derivazione bizantina secondo l’opinione di chi scrive – è divisa in cinque navate perpendicolari alla qibla, con quella centrale più ampia e sostenuta da otto pilastri ottagonali in ciascun lato con belle basi ed elaborate ma lineari decorazioni dei capitelli. Le soluzioni delle coperture sono un campionario di ottimi accorgimenti statici e artistici, e testimoniano dell’abilità raffinata di Khurxah nell’affrontare e risolvere temi di grande impegno. Fantastica è la cupola antistante il mihrab. Si tratta, all’interno, di una copertura a ombrello con dodici nervature costolate o “spicchi” che all’esterno corrispondono ad una sorta di cono prismatico rovesciato che anche da lontano dà l’idea della copertura di una türbe o kumbet. Anche il mihrab è decorato in pietra scolpita. La nicchia vera e propria ospita un ornato abbastanza singolare; a una rientranza sagomata ma liscia subentra a metà altezza una fascia scolpita molto fittamente con una serie di rombi e nodi a griglia (non una muqarnas, comunque) sovrapposta a eleganti arabeschi e, sopra la quale, è l’arco a sesto acuto e la lunetta anch’essa arabescata con una grande finezza. L’insieme è inserito in una serie di cornici, sempre in pietra, con intento prospettico (quasi un portale, ma liscio) con l’inserimento di elementi scultorei floreali applicati fra i quali spiccano alle estremità dei sostegni (è difficile definirli altrimenti) a colonna con una mensola da cui si diparte un cono a fascio con un capitello molto alto e composito. Tutto molto elaborato. Non è certo l’unica “stranezza” di questo complesso.

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62. Particolare del portale ovest della moschea nel complesso di Divriéi (1228-1229). 63. Aquila e Aquila bicefala sul lato del portale ovest della moschea nel complesso di Divriéi (1228-1229).

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L’interno della moschea è quasi spoglio (a parte il minbar ligneo su cui scriveremo più oltre), ma assolutamente funzionale. Il contiguo ospedale è coevo (l’iscrizione recita: «Ha ordinato la costruzione di questa casa della salute benedetta, col desiderio di attirare la compiacenza di Dio, Turan Malik, figlia di al-Malik al-Sa‘id Kakhr ad-Din Bahram Shah che Dio si compiaccia per questa opera, e sia! Nell’anno 626 [1228-1229]») e in pianta riprende la disposizione di una madrasa senza corte: di fianco all’ingresso sono due ambienti voltati a botte e quindi di fronte l’ivan principale, più profondo dei due laterali; ciascun ivan ha ambienti laterali (sempre voltati a botte quelli di lato) con quello più esteso che, a sinistra, ha una sala cupolata adibita a sepoltura della fondatrice, con copertura esterna piramidale. Il libero e spazioso ambiente centrale è sostenuto da quattro pilastri (due ottagonali con elaborati capitelli e due cilindrici con diverse decorazioni geometriche costolate) su cui poggia una cupola con oculo centrale dal quale filtra la luce. Le soluzioni di copertura dell’atrio e degli ivan sono basate su calcoli geometrici – diversi da quelli adottati nella moschea – uno diverso dall’altro e molto ingegnosi, a conferma della mano sapiente di un grande Maestro. Nel lato sud dell’ospedale una scala dà accesso a un mezzanino. Al centro, sotto la lanterna, una piccola vasca ottagonale per l’acqua con un perimetro quadrato di canaletta e, su un lato, un motivo a spirale. Una bellissima spirale doppia in pietra compare anche al colmo della copertura ad archi incrociati dell’ivan principale dell’ospedale. Anche questo edificio appare particolarmente misurato, scarno ed essenziale, impressione certamente accentuata dall’esuberanza di tre eccezionali portali esterni. La grande moschea ha un portale al centro del lato nord (con un’altezza di quasi 14 metri), uno a metà del lato ovest (decentrato se consideriamo l’intero lato che comprende anche il Daruxxifa, ma in asse perfetto se visto dall’interno) e uno sul lato est (praticamente al centro di quella parete e dunque, all’interno, spostato verso la campata trasversale in prossimità del mihrab), mentre l’ospedale ha un unico accesso, anche questo monumentale, in asse perfetto col resto dell’edificio. La decorazione dei tre portali, spesso definita a ragione “barocca”, è davvero sontuosa e unica per genio e inventiva, pur nel variegato panorama esornativo selgiuchide. Va fatta una considerazione preliminare, tecnica, relativa alla tipologia della pietra impiegata per questo complesso architettonico (ma vale per molti altri casi). Le cave sono limitrofe al cantiere e il materiale veniva tagliato con grande facilità per la sua natura stessa; quindi la lavorazione a scalpello era facile sul materiale fresco di cava il quale, col tempo e il contatto con l’aria, solidificava e induriva molto. Ovviamente non si trattava di “plastilina”, ma la duttilità della pietra ha indubbiamente favorito molto la possibilità di sfruttamento plastico da parte degli artigiani, caratteristica che in questo caso è stata valorizzata al massimo. Il portale nord della moschea è stravagante e particolare nel gioco dei “festoni” applicati, alternati a un repertorio (epigrafico, geometrico e floreale) ampiamente utilizzato. L’impostazione del pishtaq è quella più o meno consueta, con un grande spazio rettangolare entro il quale è tracciato un arco a sesto acuto che ospita la nicchia dell’ingresso vero e proprio con una porta di proporzione modesta. I limiti esterni sono segnati da un’esile colonna che regge un massiccio capitello stellare a muqarnas, che a sua volta ospita la base di un fascio di semicolonne dal quale ha origine la cordonatura tubolare del perimetro. Una banda con de-

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65. L’interno della sala da preghiera della moschea lignea Exrefoélu Süleyman Bey a Beyxehir (fine del xiii secolo). Alle due pagine seguenti: 66. Sala da preghiera della moschea lignea di Afyon (1278, con restauro del 1341). 64. Particolare della decorazione sul fianco sinistro del portale ovest della moschea nel complesso di Divriéi (1228-1229).

67. Il più completo e bell’esempio di architettura lignea selgiuchide è la sala da preghiera della moschea Kasabakoy a Kastamonu (1366).

corazioni di arabeschi entro uno schema a disegno alternato lascia spazio a motivi arabescati, dischi con ornati a nido d’ape e decorazioni applicate con forte aggetto rispetto alla superficie, motivi che vanno a coprire parte della nicchia vera e propria. Questa presenta una fascia con un disegno stellare centrato su un ottagono a cornicette concentriche con, all’interno, un arabesco, campitura che si ritrova anche nei triangoli della stella. La nicchia ha una massiccia cornice tubolare e una decorazione di segmenti analoghi, con al centro, sopra la porta, un medaglione esagonale, ancora una volta con fitti racemi floreali. Una specie di mensola a tre segmenti tubolari sostiene la fascia iscritta con un bellissimo thuluth con sfondo di tralci di palmette e semipalmette. La nicchia di copertura non è una muqarnas – come ci aspetteremmo – ma un sistema misto di evidente ascendenza lignea. Troppi i particolari decorativi di cui dovremmo rendere conto; è impossibile. Ci basti, per ora, segnalare come molti elementi diversi confluiscano nell’insieme e come questi non siano organici al progetto, con un esito sorprendente, certo, ma anche sconcertante. Il portale est, in tale contesto, ma non in assoluto, può essere definito secondario o minore, perfino convenzionale. Si articola, infatti, in due cornici (quella più esterna di arabeschi floreali e l’altra geometrica), con la nicchia vera e propria scandita da colonnine tubolari intrecciate (e l’intreccio con nodi – similmente a quanto già visto nel portale della ‘Ala ad-Din di Konya o nel caravanserraglio Karatay nei pressi di Niéde – prosegue anche sulla facciata), e da una nicchia tronco-conica a muqarnas su una piattabanda con motivi arabescati ripetuti e una fascia iscritta in stile thuluth. Più eccentrico risulta il portale ovest della moschea, concepito come un avancorpo aggettante e che raggiunge “solo” gli otto metri e mezzo di altezza, ovvero non è sopraelevato rispetto al muro perimetrale. In questo modo il portale offre, di fatto, tre facce che vengono decorate; quelle laterali presentano delle nicchie a copertura conica a muqarnas, con ornati di arabeschi e sul lato sud un aquila bicipite e su quello nord una scultura analoga, ma non uguale, con, di lato, un altro rapace. Molto belli. La facciata principale, squadrata, ha cornici concentriche con motivi di arabeschi alternati ad altri geometrici; è lo spazio centrale che focalizza l’attenzione. La cornice è dritta per poi aprirsi in una piccola arcata a tutto sesto sormontata da un motivo plastico di arabeschi, una sorta di stemma nobiliare a sua volta sovrastato da una semisfera. Ai lati della nicchia di ingresso sono due colonne continuate da una serie di elementi che slanciano la sagoma fino all’altezza dell’arco e in alto sono smussati, dando origine alla singolare lunetta, ispirata alle muqarnas ma che non può dirsi tale. Gli spazi di risulta fra cornice e arco hanno un disegno piuttosto fitto e la piattabanda sopra la piccola porta ha una serie di medaglioni trilobi a direzione alterna, campiti da arabeschi, e quindi un’iscrizione su tre linee. Nella decorazione di questo portale fanno bella mostra dei singolari “bottoni” a traforo e arabescati e si nota la ricerca di un equilibrio fra decori estremamente minuti e dettagliati e segmenti strutturali tracciati con molta più forza, intesi a mostrare la capacità di controllo del disegno e delle masse geometriche solide giustapposte. È questo, a mio avviso, il portale risolto con maggiore originalità ed armonia, risultando in definitiva il più bello di tutti. Difficile, in ogni caso, non perdersi negli infiniti particolari anche per

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l’occhio più esperto e abituato alle fantasmagorie dell’arte caleidoscopica islamica. Completamente diverso è il portale di accesso dell’ospedale, anch’esso aggettante, ma più alto (undici metri e mezzo) di quello della moschea, in virtù della maggiore altezza (data dal mezzanino) di tutto l’edificio e dunque anche dei suoi muri perimetrali. La struttura – spogliata arbitrariamente dagli elementi decorativi applicati – è quella di una doppia arcata sostenuta da fasci di colonne e pare una consapevole e ben studiata citazione di un’architettura gotica occidentale, cioè nostrana. Molto belli gli elementi di arabeschi applicati ai lati del portale (e definirli un “liberty” ante litteram non è esagerato); sui lati, inoltre, sono ancora motivi a cono (come nel portale nord) piuttosto elaborati, così come creano un certo scompiglio i quattro medaglioni circolari, per non dire della colonna a metà di una finestra posta sopra il riquadro decorato della porta di accesso. Questo riquadro ha due fasce laterali con un elemento tubolare (quasi una pseudoepigrafia) sovrapposto a un bell’intreccio di arabeschi. Il segmento centrale sopra la porta è grosso modo quadrato e ornato con un motivo modulare di medaglioni ottagonali più grandi intervallati da altri più piccoli ma comunque campiti con arabeschi (sono ispirati dai motivi lignei scolpiti sui minbar o su porte, ante e finestre…), con sopra la banda iscritta. La piattabanda sopra la finestra ha un ornato di stelle a cinque punte e proiezioni geometriche. Sulle parti applicate ad arabesco erano raffigurate, a tutto tondo, due teste umane, una maschile e una femminile, oggi in gran parte abrase, sulla cui simbologia si possono solo fare congetture. Questi particolari aumentano il senso di sconcerto che immediatamente suscita questo complesso, di certo originale! Una valutazione critica di questo straordinario monumento si impone, ma non è affatto compito agevole. Una prima osservazione è relativa al voluto contrasto fra la “pulizia” formale essenziale degli interni, contrapposta all’opulenza dei portali; questo è assolutamente in linea con una delle caratteristiche portanti dell’intera architettura turca del periodo in esame, pur se in questo caso la scelta pare estrema. È ovvio che l’attenzione sia stata posta soprattutto sull’esuberanza degli ornati, anche se le soluzioni strutturali e le analisi geometrico-matematiche segnalano un’eccezionale abilità costruttiva di Khurxah, e la sua nisba (Ahlat) è una garanzia relativa a una scuola architettonica di primo piano, nutrita da esempi locali che l’uomo non poteva non conoscere (seppure distante nel tempo – la datazione è al 915 – una chiesa armena come quella di Aghtamar sul lago di Van poteva essere un buon punto di riferimento); più che influssi stranieri e lontani – si è parlato anche di India (ma non si può tacere l’impressione che la decorazione del portale nord della moschea sia non solo imparentato con gli stucchi persiani, ma costituisca un’anticipazione di quanto sarà dato vedere, in epoca Mongola, per esempio nel mihrab di Pir-i Bakran…) – il cantiere deve avere raccolto, per l’importanza del committente e l’imponenza del compito, le migliori maestranze non oberate al momento da altri impegni. L’artista ha agito in piena autonomia, libero di sperimentare un proprio linguaggio, dato che emerge chiaro dalla diversità dei quattro portali; vi ha inserito, a piacimento, elementi antologici presi da un repertorio che spazia in lungo e in largo, fra Occidente e Oriente. Forse più Occidente che Oriente e una matrice figlia di una tradizione locale (soprattutto negli interni) è riscontrabile senza ombra di dubbio. Opera di un genio di talento, va considerata a tutti gli effetti un capolavoro assoluto.

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68. La türbe di Mama Hatun a Tercan (inizi del xii secolo), inserita al centro di una corte circolare in pietra con nicchie; una interpretazione unica di un classico tema architettonico. 69. L’ingresso principale della türbe di Mama Hatun a Tercan (inizi del xii secolo).

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I Turchi selgiuchidi originari dell’Asia Centrale erano sostanzialmente nomadi e se hanno patrocinato molte strutture architettoniche urbane – conformandosi, in questo, alla tradizione islamica – oltre che i caravanserragli indispensabili per la protezione dei traffici commerciali, l’attività più redditizia per il regno, non stupisce che poca attenzione abbiano riservato alle realizzazioni civili; i frequenti spostamenti e le intense campagne militari dovevano far loro preferire la tenda. Inoltre, nella prima fase della conquista sono state poche in assoluto le opere realizzate e sarà con i regni di Kay Khusrau i (12051261), Kay Kavus i (1211-1220) e, soprattutto, di Kay Qubad i (1220-1236), che si ebbe un periodo di intensa attività edilizia. Al periodo selgiuchide sono da far risalire alcune strutture – dei chioschi – di modeste dimensioni, probabilmente parte di linee difensive fortificate. ‘Ala al-Din Kay Qubad i ha esteso e rafforzato le mura di Konya (1225) e trasformato alcune strutture romane di Aspendos, dove anche i moli e un imponente torrione ottagonale furono costruiti per sua decisione. Al nome del sultano è legato anche il restauro di un chiosco/torre (distrutto circa un secolo fa) a Konya, opera di Kilich Arslan

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70. Veduta zenitale della cupola della moschea di Malatya (1237). L’uso del mattone cotto rimanda a una marcata influenza iranica.

71. Facciata della Gök madrasa di Amasya (1267).

ii (1156-1192) e situato su una collina fra la moschea ‘Ala ad-Din e la madrasa Karatay. Due, comunque, i palazzi che recano il nome di ‘Ala al-Din Kay Qubad i: quello di Kayqubadiye nei pressi di Kayseri (non particolarmente esteso, è probabilmente servito come dimora temporanea di soggiorno estivo) e il palazzo di Qubadabad in suggestiva e splendida posizione sulle rive del lago di Beyxehir (rapidissima costruzione fra il 1235-1236, anno della morte del sovrano). Come spesso avviene per i palazzi islamici non si tratta di una unica struttura, ma di una serie di padiglioni (la disposizione richiama spesso quella di un accampamento militare…), in mezzo a una immensa area verde, che sarebbe improprio chiamare giardino o parco (questo perché era al contempo entrambe le cose, ma anche orto, bosco, frutteto, selva, prato…). La struttura più significativa, identificata dagli scavi archeologici come il vero e proprio luogo di residenza, misura 50 × 35 metri e non segue una disposizione organica dello spazio. Da una corte – con ambienti asimmetrici che si affacciano su di essa – si accede allo spazio privato vero e proprio che si articola intorno a un ambiente centrale rettangolare con stanze laterali (disuguali) e

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un ambiente voltato a botte, un ivan, che presumibilmente era il luogo del trono. La disposizione è confusa (a differenza di un altro palazzetto che gode di una bellissima vista sul lago e brilla per studiata simmetria degli ambienti), ma è un aspetto secondario considerando la profusione incredibile di decorazioni in mattonelle ceramiche (pannelli fino a due metri di altezza!) di varie tipologie, e stucchi, senza omettere quello che possiamo solo immaginare: legni, tendaggi serici, tappeti. Ma su queste opere – stucchi e ceramiche – e qualche cenno alla loro tipologia si veda più oltre. Il palazzo ritrovato durante gli scavi archeologici nella cittadella di Diyarbakir è certamente ascrivibile al periodo Ortuchide (1098-1231), ma è pienamente selgiuchide in tecnica e stile architettonico. Qui la disposizione è a quattro ivan cruciformi (non di uguale ampiezza) che si affacciano su una vasca o piscina con una fontana con decorazione in mattonelle a mosaico lapideo di vari colori; se l’impianto planimetrico è persiano, la fontana/piscina è del tutto siriana, a conferma delle possibilità di sincretismo sperimentate in questa fase. Un altro capitolo molto interessante dell’architettura selgiuchide è quello – ahinoi poco documentabile – delle moschee a struttura lignea. È evidente, peraltro, come tutta la regione anatolica sia stata ricca di tale materiale; inoltre non vanno dimenticate le origini centrasiatiche delle tribù, e in questa ottica è opportuno rammentare come una pregevole architettura lignea sia ben attestata in quelle regioni, per esempio con la moschea congregazionale di Khiva (Uzbekistan; ma non è l’unico esempio possibile) che ha colonne databili al x secolo. In tutta la zona da cui provengono i Selgiuchidi – e anche più a Oriente – la tradizionale architettura lignea e la sua tecnica costruttiva sono state mantenute vive attraverso i secoli fino ai nostri giorni. È allora naturale trovare ancora qualche traccia di una tipologia che doveva essere molto diffusa, come confermano alcune fonti letterarie. La Sahip ‘Ata Cami di Konya (1258), della quale abbiamo già scritto, è accreditata come la più antica di tale tipologia, anche se oggi niente ci resta. L’esempio più clamoroso è dato dalla moschea Exrefoélu Süleyman Bey a Beyxehir (fine del xiii secolo), con quarantotto colonne lignee (alte ben sette metri e mezzo) e capitelli a muqarnas a sostenere le sette navate (la centrale è più ampia delle altre), perpendicolari alla qibla, e il mihrab sormontato da una cupola. La planimetria della moschea mostra evidenti “tagli” alla disposizione originale, un semplice rettangolo, dovuta anche all’inserimento di un bel portale in pietra. Il mihrab è decisamente imponente, con una nicchia a muqarnas decorata con mosaico ceramico a disegno geometrico turchese e nero; molto proporzionato è uno dei più belli nel suo genere. La moschea congregazionale di Afyon (fondata nel 1273 dal figlio del vizir selgiuchide Sahi Ata Fahraddin ‘Ali, ma restaurata nel 1341 durante il regno Qaramanide), conta quaranta colonne lignee (che formano nove navate) con capitelli a muqarnas con tracce di pitture policrome anche sul soffitto a trabeazioni, sempre ligneo. Al 1275 risale la moschea di Eskixehir (Sivrihisar) con ben settantasei colonne lignee, delle quali solo quattro sono originali, disposte su cinque navate parallele alla parete qibli, nella quale il mihrab appare decentrato rispetto all’ingresso, segno di un rimaneggiamento successivo. In questa moschea sono stati ritrovati alcuni fra i tappeti più antichi che conosciamo, attribuibili all’epoca selgiuchide. Più avanti nel tempo, e anche decentrate rispetto alla principale zona di influenza selgiuchide, essendo una situata nell’Occidente anatolico e l’altra nel suo Nord, ma appartenenti tipologicamente al medesimo gruppo, sono la Ulu Cami di Birgi (1312), estremamente

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semplice nella disposizione (quadrata) con quattro file di quattro colonne ciascuna, importanti marmi di spoglio e una cupoletta antistante il mihrab, e la moschea di Mahmut Bey a Kasabakoy (Kastamonu) del 1366. Questa, situata in una regione ricca di legname, è la più bella moschea lignea di tutta la Turchia; interamente in legno è disposta su più piani (quello superiore usato come matroneo) ed è maestosa ed elegante con un pregevole soffitto a trabeazioni scolpite e dipinte in policromia che qua e là si rintraccia ancora. I capitelli a muqarnas stellare sono particolarmente importanti. A completare questo panorama è da aggiungere, ad Ankara, la moschea Arslanhane (nota anche come Aki Xerafaddin Cami), fondata nel 1290 con pianta rettangolare e ventiquattro colonne lignee in quattro file di sei, delle quali sedici sono poste a sostenere la copertura e otto il matroneo; alcuni capitelli di spoglio romani e bizantini contribuiscono ad aumentare il notevole fascino di questo edificio.

72. Particolare della decorazione ad arabeschi sul portale dell’ospedale di Amasya (1309).

Per quanto in questa disamina siano già stati toccati i capisaldi architettonici selgiuchidi, ciò nonostante non si esaurisce certo così l’analisi della straordinaria produzione dell’epoca, e corre l’obbligo, per avvicinarsi all’idea della completezza, di dare un cenno su alcuni altri monumenti che non devono e non possono essere etichettati quali secondari. Un gruppo quasi a se stante è costituito dalle numerose türbe o kumbet sparse nel territorio (solo nel circondario di Ahlat sono una dozzina), elemento caratterizzante e che esplicita diverse relazioni culturali. La Kirk Kizlar Kumbet di Niksar (1220) è in condizioni piuttosto precarie (come a Tokat la türbe di ‘Ali Tusi), ma la struttura in mattoni cotti punta a una continuità con l’esperienza delle precedenti – e anche coeve – torri/mausolei iranici, anche se trattati in modo da anticipare quanto avviene quando dal mattone si passa alla pietra. Altri esempi eclatanti sono, in pietra, la semplicità della tomba di Malik Ghazi a Kirxhehir o quella dello Sheikh Egirt o Ulu Kumbet ad Ahlat o la classicità selgiuchide della Sitti Malik Kumbet a Divriéi (1195). Splendida, anche se più tarda e in territorio orientale (Azerbaijan), per struttura e per l’uso di sculture a soggetto animale (di questo impiego della scultura sono segnalati molti casi, debitamente studiati anche se l’ultima inequivocabile parola sulla loro simbologia non è stata ancora detta… e questo è perfino ovvio), è la sepoltura di Khach Dorbatly (1314). E un caso a parte – notevolissimo – è il mausoleo di Mama Hatun a Tercan (nel distretto nord orientale di Erzincan), degli inizi del xii secolo. Il mausoleo, in pietra, sorge sulla consueta piattaforma cubica ad angoli smussati e ha una pianta ottagonale con i lati, salvo quello del portale di ingresso, semicircolari e copertura conica ad ombrello. Già queste caratteristiche ne farebbero un unicum, ma per di più questa struttura è inserita in un anello circolare perimetrale, sempre in pietra, liscio all’esterno ad eccezione del portale con cornice a decorazione geometrica, nicchia su colonne, e copertura a muqarnas (insomma, il modello consueto e tradizionale di portale, ravvivato da due nicchie cieche laterali, come è dato vedere, spesso, in alcune chiese georgiane medievali…), e, all’interno, nello spessore della muratura una dozzina di nicchie con arcatura a doppio profilo. Ovviamente gli studiosi hanno fatto notare come una simile disposizione (un tholos di struttura classica) sia da mettere in relazione con antiche credenze funerarie preislamiche (R. Hillenbrand). La moschea congregazionale di Malatya (1237) è molto interessante per planimetria – piuttosto irregolare – con piccola corte centrale e una serie di navate voltate

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a botte in parallelo alla qibla; sulla corte affaccia un ivan, con profilo a sesto acuto, che precede una cupola che insiste sul mihrab, disposizione classica, ma di tipo iranico, impressione accentuata dall’uso del mattone cotto con l’inserzione di mattoni smaltati. Ad Amasya la Gök madrasa Cami (costruita nel 1267 per volere di Sayfaddin Torumtay dall’architetto Abu Muslim Naccar) si segnala per un vero e proprio classico ivan che funge da ingresso. L’interno – rettangolare – ha tre file di navate sostenute da otto pilastri con coperture variamente cupolate. Nonostante qualche rimaneggiamento, l’esterno, classicamente in pietra, presenta un andamento equilibrato e lineare. Nella stessa città, al periodo ormai mongolo (1309), appartiene l’ospedale in pietra, edificato secondo i normali criteri propri di una madrasa (ma, come s’è già scritto, anche di un caravanserraglio), con un bellissimo portale con decorazioni geometriche alternate ad altre floreali fra le quali spiccano alcuni arabeschi, i quali sono derivati dalla migliore tradizione di lavorazione dello stucco. Può essere significativo rimarcare come l’opera sia stata sostenuta da Yidiz Hatun, moglie del sovrano Oljeitu (il cui mihrab in stucco, nella moschea del venerdì di Isfahan, è uno dei capolavori del genere). Con la Ulu Cami di Manisa (1366) entriamo in una interessante fase di transizione; se infatti la tecnica costruttiva e alcuni dettagli decorativi sono ancora selgiuchidi, la planimetria con corte centrale ad ampio porticato e sala da preghiera con cupola centrale sostenuta da otto pilastri, lascia ben vedere i prodromi degli sviluppi futuri dell’epoca ottomana. Per chiudere con l’architettura va menzionato il mihrab in pietra della grande moschea di Dunaysir: siriano nella forma con lunetta a conchiglia è pienamente selgiuchide nell’ornato geometrico.

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LE ARTI DECORATIVE: FRA BISANZIO E ASIA CENTRALE

La produzione selgiuchide di arti decorative è particolarmente significativa. Le strutture architettoniche citate nelle pagine precedenti, siano esse moschee o madrase, caravanserragli o palazzi, avevano tutte dei complementi di arredo. Di questi materiali, in verità, non c’è rimasto molto, ma da quello che è sopravvissuto al tempo (e agli uomini), possiamo desumere che la qualità delle opere era di notevole livello. Per le architetture, soprattutto, due sono i materiali principalmente impiegati: il legno per porte e scuri di finestre e, assai frequentemente, per i minbar nelle moschee, e i tappeti, la nota di colore capace di illuminare qualsiasi ambiente e di portarvi la calda accoglienza della lana. Alcune di queste opere, i pulpiti, sono datati e firmati dall’autore (talvolta vige l’incertezza se la paternità sia appannaggio del disegnatore o dell’esecutore, non necessariamente lo stesso soggetto, anche se per comodità ci piace pensarlo), come nel caso di Manguberti di Ahlat (ancora!), responsabile del minbar della moschea ‘Ala ad-Din di Konya. L’ebanista Ahmad di Tiblisi firma il minbar – splendido nella sua monumentalità – della moschea del complesso di Divriéi (1241), uno dei più belli nel suo genere. Il minbar, tipologicamente, è solo una scala mascherata da una porticina di accesso, alla cui sommità è un seggio per l’imam che procede alla khutba (la locuzione del venerdì), con le parti laterali grosso modo triangolari lungo la salita e spesso caratterizzata da una balaustrina e pannelli rettangolari in corrispondenza della parte del seggio che può essere coperta; insomma si tratta di una piccola architettura e, a lungo, il legno è stato il materiale prescelto per questa arte, anche in virtù del fatto che la tradizione voleva che i pulpiti fossero mobili. Il repertorio decorativo è un compendio dei tre elementi chiave dell’arte islamica: epigrafia (spesso disposta nelle fasce di contorno), geometria (per lo schema o griglia che domina l’insieme; anche qui, come in architettura, i cerchi, gli esagoni o ottagoni, i poligoni, in una parola gli intrecci infiniti e caleidoscopici la fanno da padroni) e l’arabesco (palmette e semi palmette che campiscono gli interni delle figure geometriche). I legni impiegati sono spesso

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locali, ma è usato anche l’ebano, appunto nei minbar di Konya e Divriéi. Le tecniche sono diverse. Comune è la lavorazione – ad alto e basso rilievo – di assi singole o assemblate insieme, mentre più particolare è la tecnica – detta dai Turchi kundekari – del mosaico ligneo a incastri. Questo meccanismo, che limita al massimo lo sfrido del materiale e preserva gli oggetti dalle crepe dovute alla forte escursione termica fra estate e inverno, è estremamente complesso per la precisione millimetrica che richiede e la grande abilità nell’assemblaggio nel quale i chiodi sono pressoché assenti. Il kundekari fa grande impiego di cornici a più livelli che marcano i confini nei quali vengono inserite le formelle multiformi con decorazioni di arabeschi. Gli ornati sono splendidi (lo si gusta soprattutto avvicinandosi a osservare i dettagli) e l’insieme, non di rado di aspetto massiccio, acquista una scansione leggermente differita dei piani, in grado di sollecitare la fantasia e creare l’impressione di una profondità della superficie e della sua variabilità volumetrica. Questo effetto è tipico degli arredi lignei a kundekari; non mancano tracce di policromie. Le balaustre – alte non più di una sessantina di centimetri – alleggeriscono molto la struttura perché sono costituite da listelli di legno posti a creare motivi intrecciati a giorno, spesso poligonali. Fra le abbastanza numerose opere lignee è da segnalare il minbar geometrico della moschea Exrefoélu (come s’è detto lignea anche nella struttura), tre porte diverse fra loro, ma ugualmente a disegno geometrico, della Ulu Cami di Ermenek (1302) e una porta (con griglia di contorno molto morbida e campiture foliate elegantissime e, in alto, riquadri rettangolari con iscrizioni corsive), oggi nel Museo della madrasa Ince

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1. Le decorazioni geometriche del minbar della moschea di Birgi (1320 ca.). 2. Particolare dello schema geometrico (con motivi di arabeschi) incorniciato da iscrizione cufica del minbar della moschea di Beyxehir (xii-xiii secolo).

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Minareli di Konya. Uno dei più bei minbar lignei anatolici – e in questo, certo, le preferenze personali hanno un loro peso non trascurabile – da considerare è quello della moschea di Birgi (databile al 1320); la composizione è rigorosamente geometrica (con le formelle a campitura di arabeschi foliati) e ruota intorno a una disposizione duale con una formella ottagonale e una stellare (sempre a otto punte) che sono i centri focali attorno ai quali sono disposti elementi poligonali più o meno regolari. La tecnica del kundekari raggiunge in questo manufatto uno dei suoi massimi vertici espressivi. La qualità dell’opera è decisamente alta. Dalla moschea Taxkin Paxa di Ürgüp proviene una porta con decorazione incisa su varie assi, e dalla stessa moschea proviene uno straordinario mihrab ligneo (ora rimontato al Museo Etnografico di Ankara) che ha pochi raffronti (in Iran si può citare la moschea di Abianeh; in Egitto alcune opere ora al Museo Islamico del Cairo) nell’intera storia dell’arte islamica. La tipologia – nicchia, colonnine di sostegno, fasce epigrafiche laterali, banda a decoro geometrico – è quella caratteristica di ogni mihrab, ma la calda tonalità del legno e la possibilità di incisione profonda e precisa posta

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3. Cenotafio ligneo (datato 1251) proveniente dalla türbe del Sayyed Mahmud Hayrani ad Akxehir. Istanbul, mtia, inv. 191, 195.

4. In alto. Leggio per Corano (1279) proveniente dal complesso dei Mevlana a Konya. Museo di Konya, inv. 332. 5. In basso. Leggio per Corano (xiii secolo) probabilmente proveniente da Konya. Istanbul, mtia, inv. 247. Nella pagina successiva: 6. Particolare della decorazione laccata in oro del piatto del leggio (fig.4). Al centro un’aquila bicefala circondata da sette coppie di leoni addorsati su sfondo di girali di arabeschi, motivo derivato dal repertorio tessile. Museo di Konya, inv. 332.

su più piani prospettici, rendono l’opera un vero capolavoro da ammirare senza riserve. Probabilmente questo non doveva essere un caso isolato; ma il materiale è per sua natura molto vulnerabile avendo come principale nemico gli incendi che sappiamo essere stati numerosi e avere colpito più gli arredi che non le strutture architettoniche. Il bel mihrab della Ulu Cami di Aksaray (1431) esula, per cronologia, da quanto stiamo trattando qui; eppure il suo stile geometrico “classico” e la tecnica kundekari perfettamente padroneggiata dimostrano come in questo settore si sia mantenuta viva la tradizione (forse anche un po’ di maniera) e la continuità espressiva abbia avuto il sopravvento sull’idea di un possibile rinnovamento. Del resto era difficile cambiare un prodotto così raffinato e frutto di una lunga e fortunata stagione artistica. Al periodo selgiuchide va anche ascritto uno splendido cenotafio in legno di noce datato 1251 (Istanbul, Museo di Arte Turca e Islamica – mtia –; inv. nn. 191, 195) ed eseguito per Najm ad-Din Ahmad, fratello di un importante e famoso teologo sufi: Sayyed Mahmud Hayrani (m. 1268) dalla cui tomba ad Akxehir proviene questo manufatto. Su una struttura parallelepipeda su

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quattro piedi cilindrici è posato il cenotafio vero e proprio; la decorazione, superba, consiste in iscrizioni di stile thuluth (brani del Mathnavi di Jalal adDin Rumi) su un prezioso sfondo di racemi floreali. Nella ricca collezione di opere del Museo d’Arte Turca e Islamica di Istanbul è anche conservato un eccezionale leggio pieghevole per Corano in legno, con un pregevole intaglio profondo di palmette e semipalmette ad arabesco e con sagoma di mihrab per la parte di sostegno e intaglio di iscrizioni per la parte esterna dei piatti destinati ad accogliere il Testo sacro; le titolature delle iscrizioni sono tali che possono essere attribuite a due sultani selgiuchidi, Kay Kavus i (1210-1219) e Kay Kavus ii (1246-1256 e 1257-1261), che forniscono la datazione approssimativa dell’opera. Analogo è un leggio conservato al Museo di Konya, con datazione leggermente più tarda al 1279, essendo stato donato in quell’anno alla Confraternita Mevlana da tal Jamal ad-Din Mubarak ibn ‘Abd Allah (un personaggio legato al vizir Sahib Ata). L’eccezionalità di questo oggetto sta nell’interno dei piatti laccati in oro su fondo rosso con una sontuosa decorazione; entro un tondo, al centro, vi è un’aquila bicipite con a corona sette coppie di leoni in diverse posture e uno sfondo di tralci arabescati (elementi anche dei cantonali, con sfondo verde). La derivazione tessile di questo ornato è indiscutibile. Due porte (o grandi scuri per finestra) molto simili fra loro di produzione ortuchide (dunque databili fra il xii e il xiii secolo) sono conservate una a Istanbul (mtia, inv. n. 248), proveniente dall’Imaret di Ibrahim Bey Karamanoélu a Karaman, ma probabilmente di riutilizzo, e l’altra a Berlino (Museo Islamico, inv. n. I662). In legno di noce e su tre assi sono interamente e finemente scolpite (davvero in questo caso si può evocare l’horror vacui islamico) con un programma esornativo che dosa sapientemente elementi geometrici, quale il medaglione circolare a griglia infinita (basato su una stella a dodici punte) con campitura di arabeschi, con una fascia epigrafica e figure umane sedute a gambe incrociate (entrambe reggono un crescente lunare, esattamente come il personaggio nel frontespizio del Khitab al Diryak, «Libro della teriaca o degli Antidoti» di Vienna, o come quello al centro dei soprarchi della distrutta “Porta del talismano” di Baghdad; si tratta di Badr ad-Din Lu’lu?), oltre a coppie di leoni affrontati e grifi addorsati, sempre su sfondo di arabeschi. La fascia in basso richiama l’architettura con cinque formelle ottagonali (come delle ceramiche…) arabescate. Capolavori. Si è accennato, poco sopra, agli arredi tipici di moschee, madrase, ma anche palazzi, fra i quali non mancano mai i tappeti. Quella dei tappeti annodati a mano su un telaio con orditi e trame è una tecnica di antichissima tradizione nella quale si sono distinte proprio le tribù nomadi di ceppo ed etnia turca. Il più antico tappeto scoperto sinora risale al iv secolo a.C. (tappeto di Paziryk, non a caso proveniente dal kurgan (sepoltura) di un sovrano centrasiatico nella Siberia meridionale; oggi: San Pietroburgo, Ermitage) a testimonianza di una storia millenaria ampiamente preislamica. I tappeti nascono nell’ambito centrasiatico per un’ovvia difesa dal freddo, ma acquistano presto una valenza che è quella del segnale di separazione, una barriera dello spazio. Che questo riguardi una sfera privata (la yurta, cioè l’abitazione), o quella pubblica – il luogo dove sedeva il capoclan –, e perfino quella religiosa (il tappeto è l’altare dello sciamano), il tappeto comunque delimita un territorio e un luogo particolare, conferendogli uno status di diversità e dunque facendone di fatto uno spazio privilegiato: sempre. Dunque i tappeti hanno

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una valenza sacra considerando l’etimologia e il significato ultimo semantico del termine. E i tappeti, non ovviamente i singoli esemplari ma l’intera categoria in quanto tale, manterranno inalterata questa caratteristica e simbologia attraverso periodi storici e culture, anche religiose, diverse. Un esempio classico, e abbastanza clamoroso, è l’uso che del manufatto hanno fatto i pittori rinascimentali: un attributo, se non immancabile di certo assai frequente, della Vergine Maria quando Ella sia rappresentata seduta sul trono col bambino in braccio (ma anche nell’Annunciazione non è raro vedere un tappeto, a ben cercare), un simbolo di “alterità” dello spazio sacro di Madre e Figlio. Poteva l’Islam, così attento e ricettivo nei confronti delle diverse fedi e culture, dimenticare o ignorare il tappeto? O, i nomadi, privarsi di uno strumento così connaturato al proprio sentire? No! Infatti i tappeti, mantenendo le proprie caratteristiche, entrano a pieno titolo come oggetto d’uso nella vita quotidiana delle comunità musulmane. Il discorso si allarga all’architettura e agli edifici, come le moschee, nei quali è più facile, ancora oggi, imbattersi in tappeti. Ancora oggi è scritto in corsivo per una ragione abbastanza semplice: girando per i paesi musulmani ed entrando nelle moschee (le quali, notoriamente, non sono solo o esclusivamente edifici religiosi, anzi spesso questa funzione è ridotta alla sala da preghiera) si possono tranquillamente tenere ai piedi le

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7. Particolare di un tappeto del xiii secolo rinvenuto nella moschea di ‘Ala ad-Din a Konya. Istanbul, mtia, inv. 681. 8. Particolare di un tappeto del xiii secolo rinvenuto nella moschea di ‘Ala ad-Din a Konya. Istanbul, mtia, inv. 689.

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calzature fino a che non si incontrano i tappeti, i quali, fedeli alla loro missione di sempre, segnalano l’ingresso in un’altra dimensione, appunto quella sacra della preghiera. Forzando un po’ le cose si può anche sostenere che il disegno rappresentato (a meno che non sia naturalistico o addirittura realistico) è in realtà ininfluente rispetto alla sua funzionalità simbolica. Un esempio sono alcuni tappeti o frammenti di tappeti trovati nella moschea di Divriéi: alcuni di questi manufatti erano decorati con draghi (invero molto stilizzati) i quali, però, non venivano percepiti come tali né riconosciuti, per cui erano perfettamente compatibili con la funzione di ospitare la preghiera. La moschea, lo si ripete, non è un luogo sacro in quanto tale e non necessita di alcuna consacrazione; ciò nonostante gli arredi – ovvero, in questo caso, i tappeti; ma potrebbero essere delle lampade, candelieri, oppure copie del Corano, e altri oggetti – che magari costituiscono un piccolo waqf (un legato testamentario; «lascio il mio tappeto preferito alla tal moschea per l’uso dei fedeli in preghiera»), non possono essere alienati e, col passare del tempo, vengono coperti da acquisizioni più recenti. È stato questo il caso degli otto tappeti (dei quali tre completi) ritrovati nella moschea ‘Ala ad-Din di Konya (circa un secolo fa) e di qualche altro nella moschea Exrefoélu di Beyxehir, e il cui nucleo più importante è conservato a Istanbul nel Museo d’Arte Turca e Islamica. Questi grandi frammenti di tappeti – più o meno concordemente gli studiosi li datano fra il xii e il xiii secolo – sono la più antica testimonianza di tappeti storici, a parte qualche piccolo frammento rinvenuto negli scavi di Fustat (il primo insediamento del Cairo); alcuni sono di misura considerevole (n. 685: 333 × 243 cm; n. 681: 500 × 294 cm; n. 689: 603 × 269 cm), anche se tecnicamente non sono particolarmente raffinati. Interamente in lana (ordito, trama e vello) sono annodati con il nodo simmetrico, detto anche “turco”, con una densità di annodatura abbastanza lasca, fra i 500 e gli 800 nodi per decimetro quadro (a mo’ di paragone segnaliamo come il celeberrimo “tappeto di Ardabil” di fabbricazione persiana, al Victoria & Albert Museum di Londra ne conti circa 5100 per dmq). I colori predominanti sono il rosso in varie tonalità, il blu indaco anche in sfumatura azzurra, un giallo e un verde molto pallidi (frutto, quest’ultimo, di una doppia tintura blu e gialla nella quale il secondo colore è quasi scomparso e il primo è sbiadito fortemente) e varie gradazioni di marrone e crema più o meno nel colore naturale della lana. Dal punto di vista decorativo il gruppo dei tappeti selgiuchidi è piuttosto omogeneo: il campo ha un motivo geometrico a intrecci piuttosto semplice nel quale si trovano frequentemente campiture stellari ottagonali. I bordi sono cospicui e l’elemento dominante è una lineare e peraltro semplificata scrittura pseudo-cufica (due sole lettere ripetute, lam-alif) molto accentuata; gli angoli non sono armonizzati e nel caso delle pseudo-iscrizioni queste riprendono semplicemente con un verso differente. Il tappeto più grande (n. 689: 603 × 269 cm) presenta un campo uniforme color crema sul quale si stagliano, in file sfalsate, ottagoni in rosso, ciascuno campito da quattro identici motivi ad uncino (corna d’ariete?), con uno schema, quello del medaglione ripetuto (in turco gul; “fiore” e per eccellenza “rosa” ma anche “rosone”) che avrà un’enorme fortuna ed è tipico – da sempre – dei tappeti turcomanni (come i classici tappeti cosiddetti di Bukhara). Commentando le architetture selgiuchidi si è più volte accennato agli aspetti decorativi delle medesime e all’inserzione di elementi esornativi in pietra (leoni, draghi, teste umane) affatto eccezionali nel repertorio islamico e la

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Alle quattro pagine seguenti: 9. Bassorilievo in pietra (xiii secolo) con motivi entro tondi di derivazione tessile e un felino che attacca un cervo. Museo di Konya. 10. Lastra con figura di angelo (xiii secolo). Konya, Museo Ince Minareli. 11. Frammento di fregio decorativo in stucco proveniente da un palazzo reale, oggi distrutto, a Konya (xiii secolo). Due cavalieri affrontano rispettivamente un drago (a sinistra; facile l’assimilazione con san Teodoro o san Giorgio) e un leone a destra. Istanbul, mtia, inv. 2831. 12. Rilievo in pietra con aquila bicefala (inizi del xiii secolo), simbolo araldico del sultano ‘Ala al-Din Kay Qubad, impiegato sulle mura della città di Konya. Museo di Konya, inv. 882.

13. Mattonella stellare ottagonale (xiii secolo) dipinta in policromia sotto invetriatura con un personaggio assiso fra due pesci, forse una personificazione zodiacale. Dal palazzo di Qubadabad (lago di Beyxehir). Museo di Konya. 14. Mattonella stellare ottagonale (xiii secolo) dipinta in blu, nero e turchese sotto invetriatura con un’aquila bicefala con sul petto l’iscrizione “il prescelto”. Dal palazzo di Qubadabad (lago di Beyxehir). Museo di Konya, inv. 2425. 15. Batacchio di porta in bronzo con due draghi addorsati e al centro fra loro una testa di leone. La simbologia è apotropaica e talismanica. Materiali analoghi erano utilizzati all’esterno degli edifici a protezione dai terremoti. Particolare della porta della Grande Moschea di Cizre (prima metà del xiii secolo). Istanbul, mtia, inv. 4282.

cui simbologia, a parere degli studiosi (fondamentali in questo ambito sono gli studi di K. Otto Dorn prima e di G. Oney poi), è da far risalire alla persistenza di valori totemici d’Asia centrale cari alla tradizione artistica nomadica turca, rinnovatasi e rinvigoritasi in Anatolia a seguito dell’incontro con le tradizioni figurative cristiane di Armeni e Georgiani. Un cospicuo nucleo di elementi decorativi scolpiti in pietra (qualcosa a tutto tondo, ma la prevalenza è di lastre scolpite ad alto o bassorilievo) è conservato presso il Museo della madrasa Ince Minareli di Konya e in quello d’Arte Turca e Islamica di Istanbul. Le figure di angeli sono quasi classiche (e rimandano a quelle miniate del Khitab al Aghani e di altri numerosi testi), e, pur sorprendenti, non hanno quell’aura di “mistero” presente in altre opere nelle quali compaiono animali mostruosi e compositi: dal grifone alato, alle sfingi e arpie (studiate da E. Baer). Un fregio a Konya (proveniente dalla cittadella) mostra un bel grifone – l’ala e un’elegante semi-palmetta – e un elefantino con tanto di bardatura e catenella di campanellini intorno alle zampe e alla sommità della testa. Un’altra lastra – sempre nel Museo di Konya – presenta, invece, il tema classico del leone con una gazzella e albero della vita che costituisce un leitmotiv artistico islamico (ereditato in realtà da più fonti), già attestato nel celebre mosaico omayyade di Khirbat al Mafjar; nei margini di quella lastra, entro tondi che ci sono familiari nel repertorio tessile, un leone (solare) attacca un serpente (lunare) e, accanto, un pavone si abbevera a una coppa. Elementi che conosciamo bene perché attestati sia nella scultura paleocristiana, sia in innumerevoli esempi europei d’arte romanica. Sempre a influenza dei tessili – eccezionale veicolo di trasmissione delle iconografie, troppo spesso sottovalutato – è da ascrivere la lastra scolpita (Istanbul, mtia; inv. 2514) con doppia nicchia arcuata con al centro due falchetti affrontati e sui lati due piccoli grifoni e uno sfondo di tralci di arabeschi; interessante è poi la fascia iscritta in caratteri cufici. Questa lastra proviene da Diyarbakir ed è dunque dell’epoca ortuchide (xiii secolo). Al medesimo ambiente artistico è da assegnare un altro frammento in pietra dello stesso Museo (mtia; inv. 2445) forse proveniente da una fontana, con una doppia sagoma di nicchia e in alto una fascia decorata con una serie di figure disposte simmetricamente: un uccello (con una rosetta a sei petali), una figura umana seduta a gambe incrociate, un pavone e un leone alato. L’elemento centrale, fra i due leoni affrontati, a chevron è l’estrema stilizzazione di un albero della vita. Sotto, entro una cornice, due linee separate iscritte (la prima recita: «Possa il possessore essere benedetto da onori e felicità. Possa Dio garantire a lui e agli emiri lunga vita»; la seconda – una firma? – è per noi illeggibile), e ancora due personaggi posti di tre quarti ma con i volti frontali che reggono ciascuno una lancia e fra loro un intreccio che l’esperienza ci fa supporre essere un serpente “annodato” in funzione apotropaica. Parlare di una simbologia sciamanica non è né azzardato né fuori luogo; un confronto importante per questa opera frammentaria sono le grandi sculture grosso modo coeve – anche in quel caso fontane – al Museo Nazionale di Baghdad e provenienti da Mosul, un centro politicamente e culturalmente vicinissimo a Diyarbakir. Sebbene lo stucco non sia stato impiegato frequentemente in Anatolia – questo materiale decorativo è molto più compatibile con strutture architettoniche in mattone piuttosto che in pietra – esistono alcuni frammenti di interni trovati negli scavi di Konya; si tratta di formelle a soggetto umano o animale (leoni, arpie) eseguiti a stampo e conservati a Istanbul al mtia. Il più interessante frammento di scultura in stucco a rilievo nello stesso Museo (inv.

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2831) proviene dagli scavi del palazzo reale di Konya voluto da Kilich Arslan ii (1156-1192) e rappresenta due cavalieri nell’atto di affrontare e colpire rispettivamente un drago e un leone, con uno sfondo di tralci arabescati. Il tema è consueto nel repertorio islamico, per esempio nei metalli, ma la plasticità del materiale impiegato rende questa opera particolarmente vivace; la forma e la postura del drago sono tali che un’influenza cristiana bizantina (pensiamo alle icone di san Giorgio) è perfettamente plausibile. Sempre al repertorio decorativo murale appartengono una serie di mattonelle (e frammenti delle medesime) in ceramica, provenienti dagli scavi di Konya e da quelli del palazzo fatto costruire dal sultano ‘Ala al-Din Kay Qubad (1220-1237) (Qubadabad sulle rive del lago di Beyxehir). Le mattonelle di questo palazzo seguono indubbiamente un prototipo iranico (e non mancano, sebbene rare, le mattonelle a lustro metallico), quanto meno nella formula classica che combina in grandi pannelli parietali forme stellari ottagonali a croci con vertice triangolare. Sebbene l’ispirazione persiana sia palese, la maggioranza di tali reperti appare un po’ meno raffinata e caratterizzata da decorazioni in blu, nero, bruno su fondo bianco con sporadici tocchi in turchese e, sotto, invetriatura incolore. Questo suggerisce una maggiore vicinanza tecnica al vasellame siriano. Se carenti in raffinatezza queste mattonelle si riscattano col repertorio, molto vario e realizzato con immediatezza e grande freschezza d’esecuzione. Vi troviamo personaggi stanti e seduti, uccelli affrontati, leoni, orsi, pesci e serpenti, conigli, pavoni, cavalli… Un’annotazione particolare, data l’alta incidenza di frammenti ritrovati con questa tematica, è quella dell’aquila bicipite intesa come insegna regale, ma non esclusiva, dal momento che venne contemporaneamente impiegata dai sovrani ortuchidi e zanghidi della Mesopotamia settentrionale. Molto interessanti sono anche i ritrovamenti di Konya con mattonelle (sempre ottagonali stellari e a croce, ma anche stellari esagonali) tecnicamente diverse – stavolta persiane – come i minai, ovvero a fondo turchese dipinte in nero, bianco e

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Alle due pagine seguenti: 16. La porta con decorazione geometrica, arabescata ed epigrafica della Grande Moschea di Cizre (prima metà del xiii secolo). Istanbul, mtia, inv. 4282. 17. Tamburo di bronzo con fascia epigrafica in “cufico animato”, proveniente da Diyarbakir e databile all’inizio del xiii secolo. Istanbul, mtia, inv. 2832. 18. Specchio in acciaio con decorazione epigrafica geometrica (al centro del quadrato una svastica e il nome ‘Ali ripetuto) e tralci di arabeschi negli spazi di risulta. Anatolia orientale, xiv secolo. Istanbul tsm, inv. 2/5682. 19. Specchio in acciaio con agemina in oro raffigurante un falconiere a cavallo. Notevole è la teoria di animali reali e fantastici sulla fascia esterna fra cui spiccano delle specie di centauri /arpie e dei draghi. Anatolia, xiii secolo. Istanbul tsm, inv. 2/1792.

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rosso con l’aggiunta dell’oro, oppure quelle lajvardina a sfondo blu cobalto (con bianco, rosso e oro). Le mattonelle a croce (profilate di un raro rosso mattone) sono a fondo bianco, con l’aggiunta di tocchi di verde. Il repertorio esornativo è principalmente di arabeschi, ma non mancano le figure umane. Fra le ceramiche c’è da segnalare un cospicuo gruppo di opere non invetriate con decorazione stampata e “alla barbottina”; tradizionalmente assegnate alla regione di Diyarbakir e al periodo a cavallo fra il xii e xiii secolo, in verità sono molto popolari anche nelle regioni della Siria e dell’Iraq settentrionali. Le più interessanti sono una serie di grandi giare (possono raggiungere oltre il metro di altezza) con ampio collo (e anse) con una esuberante figurazione umana e animale, anche con esseri mostruosi, la cui decifrazione simbolica è tutt’ora incerta e dubbiosa. In ogni caso, dato il mistero che aleggia sulla loro origine, è un materiale di notevole suggestione e fascino.

20. Bacino in smalto cloisonné col nome del sovrano ortuchide Ruqn ad-Dawla Da’ud Ibn Sokmen (1108-1145), con al centro la rappresentazione dell’ascensione di Alessandro di chiara matrice bizantina. Innsbruck, Tiroler Landesmuseum Ferdinandeum, inv. nr. K 1036.

La produzione di opere in metallo d’età selgiuchide è stata ampia ed articolata. La porta a doppia anta proveniente dalla Grande Moschea di Cizre (Anatolia sud orientale) è decorata con una lamina bronzea applicata su un supporto ligneo con un ornato geometrico originato dalla “solita” stella a 12 punte, ed è databile alla prima metà del xiii secolo, nel periodo nel quale era governatore della zona (atabek) Mahmud Sanjar Shah, e cioè fra il 1208 e il 1241, come attesta una bella iscrizione in stile thuluth. La porta – ora a Istanbul al mtia (inv. 4282) – presenta, inoltre, due stupendi battenti in bronzo; uno a Istanbul, l’altro sottratto nel 1969, adesso fa parte della collezione David a Copenhagen. Sono due draghi alati dal corpo annodato, le fauci spalancate e le code desinenti in testa d’aquila, posti addorsati ma con, fra di loro, la testa di uno stilizzato leone. Sono opere notevoli e di grande effetto decorativo; il motivo del drago (abbastanza studiato) compare frequentemente in questa regione e nella Jazira (Siria e Iraq settentrionali) e in disparati materiali; anche se il contesto è mutevole sembrerebbe plausibile un’interpretazione simbologica apotropaica e protettiva. La zona infatti è sismica e i draghi/serpenti, facilmente associati con il mondo sotterraneo (ma non solo: la loro interpretazione può essere polivalente), sono un talismano (tale, per esempio, il nome della celebre porta, con draghi annodati e personaggio assiso che li “controlla”, di Baghdad) posto esclusivamente all’esterno e quasi sempre in un punto di passaggio (porta, architrave, muro di cinta, ponte) come nelle mura di Diyarbakir e anche nella cristiana Ani (come mi fu indicato da P. Cuneo), collegato a leggende centrasiatiche (epopea di Er Toshtuk) e credenze sciamaniche. Una tipica produzione artistica in metallo del periodo selgiuchide è quella dei piccoli specchi. Un gruppo particolare – abbastanza diffuso – è costituito da piccoli esemplari (una dozzina di centimetri di diametro) con una decorazione iscritta e spesso una coppia di sfingi addorsate e iscrizione benaugurale: «potere, lunga vita, buona fortuna e bellezza, gioia e soddisfazioni, felicità e un ruolo importante, autorità e prosperità al suo possessore«, piuttosto standardizzata e comune nei metalli. Un altro soggetto frequentemente impiegato in queste opere di bronzo è un volto umano con uno “strano” cappello (come il jolly delle carte!); queste iconografie rimandano, ancora una volta, alle origini nomadi turche dell’Asia profonda dove questi oggetti, fortemente influenzati dall’arte cinese, hanno piena cittadinanza. Due specchi, sempre a disco circolare, in acciaio, più grandi e complessi, sono conservati a Istanbul

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(mtia; inv. 2/5682; 2/1792); il primo ha una bella decorazione con al centro una svastica (e sull’ascendenza centrasiatica e sulla probabile simbologia solare di questo motivo non è il caso di dilungarsi) da cui si dipana in cufico il nome ‘Ali ripetuto quattro volte e quattro coppie di arabeschi negli spazi di risulta. Il secondo esemplare, molto finemente inciso (con agemina in oro) presenta un cavaliere cacciatore con un falco sul braccio e un cane da riporto al guinzaglio; il cavallo scarta con una zampa anteriore in prossimità di un serpente/drago annodato. Sulla corona circolare che funge da cornice ci sono quadrupedi molto ben delineati: un grifone alato, un centauro con arco e la coda a testa di drago, una gazzella, un bue gibbuto e, sopra la testa del cavaliere, una coppia di draghi annodati e fra loro intrecciati. La qualità è notevole e la cornice pare alludere (sagittario, coppia di draghi) al calendario turco/cinese o a una particolare congiunzione astrologica. Sempre a Istanbul, nel medesimo museo, è conservato un grande tamburo in metallo (inv. n. 2832; h. 65 cm; diam. 49 cm) che si dice provenire da Diyarbakir, il che lo collocherebbe in ambito ortuchide (inizi del xiii secolo). Il corpo dell’oggetto, indubbiamente uno strumento cerimoniale, reca come unica decorazione un’alta e monumentale iscrizione cufica animata; ovvero le parti terminali delle aste delle lettere presentano dei volti umani e in alcuni casi delle teste di drago a fauci aperte, con uno sfondo di girali di arabeschi a spirale. La produzione selgiuchide di metalli, che s’è detto essere considerevole, comprende

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21. Pagine del Mathnavi-i ma‘navi di Jalal ad-Din Rumi, codice copiato da Osman b. ‘Abd Allah (1323). Museo di Konya, inv. 1323, fol. 208v-209r.

22. Pagine del Divan di Jalal ad-Din Rumi (1367-1368). Museo di Konya, inv. 68, fol. 5v-6r.

anche mortai, vassoi, bruciaprofumi, ma moltissime di queste opere, anzi la maggioranza, sono di produzione iranica e solo un gruppo di piccoli candelieri in bronzo a lamina incisa e talvolta incrostata in argento, sono stati attribuiti dagli specialisti a manifattura anatolica, con una datazione al tardo xiii secolo. Le dimensioni (la base circolare di rado supera i 25 cm di diametro), la morfologia tronco-conica con parete semicircolare concava, piatto su cui si innesta un corto collo desinente nel vero e proprio portacandela anch’esso concavo, e le decorazioni dimostrano – a conferma della capacità sincretica degli artisti – un’origine comune. Il luogo più accreditato è Siirt (Anatolia sud orientale) anche per la presenza di miniere e per la conferma di alcune fonti letterarie. La diffusione di questa tecnica è probabilmente dovuta alla migrazione di artigiani dal Khorasan (la regione orientale della Persia dove è stata a lungo attiva un’importantissima scuola artistica per la lavorazione dei metalli), sospinti a Occidente dalla pressione devastante delle orde mongole. La vicinanza fra le produzioni di Siirt, Konya, ma anche Tabriz, è evidente stante la comune origine khorasanica delle maestranze. Sul corpo degli oggetti l’ornato è disposto in fasce con largo uso di bande epigrafiche, ma anche con medaglioni circolari con motivi astrologici, oppure scene del repertorio cortese: danza, musica, banchetti, cacce. Un pezzo unico di straordinario interesse è il bacino in metallo smaltato a sette colori cloisonné (una tecnica praticamente ignorata in gran parte del mondo islamico, ma molto diffusa, per

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esempio, nella Georgia bizantina) con un’iscrizione, di difficilissima lettura, che nomina il sovrano ortuchide Ruqn ad-Dawla Da’ud ibn Sokmen (con un regno anatolico orientale fra il 1114 e il 1142). Al centro, in un medaglione circolare «Alessandri elevati per Griphos ad Aerem», e poi zoomachie, musici, acrobati, palme. È conservato al Tiroler Landesmuseum Ferdinandeum di Innsbruck ed è un pezzo fantastico! Un discorso a parte sarebbe da dedicare alla monetazione, di livello artistico notevole con zecche a Kayseri, Sivas, Konya, Mardin e Diyarbakir. Se nel rovescio compare una formula epigrafica cufica, il dritto è più originale; i sovrani selgiuchidi, come Rukn ad-Din Kilich Arslan iv, imprimono l’effigie di un cavaliere con arco e freccia, mentre quelli ortuchidi sono decisamente più fantasiosi e vivaci. Troviamo, infatti, aquile bicipiti e centauri/sagittari (girato all’indietro con arco e freccia per colpire la coda a testa di drago), personaggi seduti e anche il riutilizzo o riciclo di punzoni bizantini come nel caso di Najm ad-Din Alpi (metà del xii secolo, probabilmente mardin). La monetazione selgiuchide è nell’Islam davvero originale, uguagliata forse solo da quella moghul indiana. Nonostante siamo certi dell’enorme importanza per la trasmissione iconografica dei materiali tessili, non possiamo attribuire con certezza esemplari importanti (e numerosi) a produzione anatolica; comunque, il sontuoso drappo ritrovato nella sepoltura di san Ciriaco ad Ancona potrebbe in effetti essere d’epoca selgiuchide o giù di lì. Storicamente è importante un tessuto del Tesoro di Sant’Ambrogio a Milano che reca iscritto il nome del sovrano Abu Hasr Ahmad. Anche l’arte del libro non è particolarmente ben rappresentata. Ovviamente non mancano copie del Corano e un testo molto interessante dal punto di vista storico (ed epigrafico) è il Mathnavi-i ma‘navi («Distico Spirituale»), copiato a Konya nel 1323 da Osman b. ‘Abd Allah e conservato presso il museo di Konya; di grande formato (30.8 × 23.5 cm) con 320 pagine e il testo disposto su quattro colonne, costituisce una preziosa testimonianza relativa alla diffusione dell’opera di uno dei più grandi mistici dell’Islam, Jalal ad-Din Rumi (m. 1273), fondatore dell’ordine dei Mevlana. Analoghe considerazioni valgono per un altro suo testo, il Divan (raccolta di poesie) copiato a Erzincan nel 1368, e che si caratterizza per una pregevole decorazione di quasi ogni grande foglio, dipinta in blu, oro, rosso e verde, con motivi stellari, esagonali e polilobati, oltre alle immancabili rosette e arabeschi, sovente chiamati rumi o hatayi. Con l’età selgiuchide inizia anche la produzione di manoscritti con decorazioni figurative miniate; le scuole principali non sono localizzate in Anatolia, ma altrove, come a Mosul; ciò nonostante un pregevole manoscritto del Compendio della scienza e pratica della costruzione di artifizi meccanici, celeberrimo testo di al-Jaziri, forse eseguito a Diyarbakir (datato 1206; Istanbul, tks; Ahmed iii, 3472) è di grande importanza, essendo la più antica copia sinora conosciuta di un testo destinato ad avere grandissima fortuna. Va ricordato che è proprio nel xii-xiii secolo che nel mondo islamico inizia a diffondersi la pratica della miniatura dei testi, ed è possibile che questo avvenga anche per impulso dalla pittura figurativa vascolare ceramica. Potrebbe essere anatolico – ma è molto difficile stabilirlo con certezza – anche il manoscritto del Warqa e Gulshah (probabilmente della metà del xiii secolo; Biblioteca del Topkapi Sarayi di Istanbul; ms. H. 841), tragica storia d’amore, con miniature nel tipico formato orizzontale.

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TRANSIZIONE E INNOVAZIONE XIV-XV SECOLO

Con il progressivo declino della casata selgiuchide, il cui potere fu considerevolmente indebolito, anzi annullato, dall’avanzata mongola, la situazione anatolica risulta abbastanza confusa, anche in virtù della debolezza bizantina. In tale contesto si rafforza la tribù turca del khan Osman (la grafia può essere anche Othman; da cui Ottomani), con un nonno che secondo alcune fonti era uno sciamano centrasiatico convertitosi all’Islam. Una sotterranea corrente mistica, legata alla spiritualità degli sciamani dell’Asia profonda, non solo è una costante della storia turca, ma trova espressione nelle confraternite religiose sufi, le quali saranno determinanti sia sul piano politico, sia su quello artistico architettonico. Alcuni edifici – come la zaviye, tecnicamente una cella monastica e, per estensione, lo spazio di accoglienza dei dervisci di un particolare gruppo (come la setta degli Ahi, ovvero “Confraternita della Virtù” che sarà fra le più attive) – sono condizionati strutturalmente e funzionalmente dall’esigenza di rispondere alla necessità di radicamento locale di insiemi religiosi e alle loro ritualità. La data accettata per gli inizi del potere ottomano è il 1299. Quella ottomana del primo Trecento non è una società arretrata e completamente rurale o nomade ed è caratterizzata, per forza di cose (non va dimenticato il complesso mosaico etnico e religioso che fa da sfondo alle vicende politiche), da una discreta vivacità sociale; inoltre era scevra da qualsiasi forma di razzismo. L’eredità del passato nomade, mai del tutto rinnegato, la forte coesione tribale, gli usi ancestrali, si faranno sentire molto nel campo delle regole; queste erano piuttosto lasche, per esempio riguardo al vino, e le donne godevano di maggiore considerazione e libertà rispetto ad altre coeve società musulmane. La dinamica riguardava molto da vicino il sentire religioso e, dunque, la gestione del potere, a parte il privilegio (non ancora assoluto, ma quasi) del capoclan; i contrasti principali erano attinenti alla sfera di influenza esercitata dalle confraternite in opposizione agli ‘ulama (i dotti dell’Islam, giudici, teorici di teologia, alti ufficiali religiosi) che si autoproclamavano custodi di una

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supposta ortodossia. Collegata alle confraternite mistiche e religiose (come la Bektaxiyya, seguaci del dotto khorasanico Haci Bektax Veli, un ordine con forti inclinazioni sciite) è l’istituzione dei Giannizzeri. Gli Yeni-çeri, “nuove truppe”, erano un corpo militare speciale di fanteria in parte costituito attraverso uno strumento peculiare, la leva forzata di bambini non musulmani: devxirme. Formatosi nel xiv secolo, tale esercito divenne una sorta di guardia personale del sultano in grado, attraverso pronunciamenti e perfino rivolte anche sanguinose, di determinare la politica di più di un sultano ottomano. L’istituzione dei Giannizzeri ebbe un ruolo crescente e poi decisivo nella politica turca soprattutto nel xvii secolo; il corpo fu abolito nel 1826 da Sultan Mahmud ii. Un prezioso racconto relativo alle prime fasi del potere ottomano, il periodo formativo, e del suo stabilirsi ci è fornita dai racconti di viaggio del più importante e noto testimone oculare musulmano: Ibn Battuta (13041368). Egli fu, per un quarto di secolo nella prima metà del Trecento, un instancabile viaggiatore ed è una fonte inesauribile di informazioni; tanto più interessanti se pensiamo alle moltissime regioni da lui visitate e, dunque, alla capacità di discernere in modo comparativo quel che andava o non andava segnalato in una cronaca che, oggettivamente, è una delle fonti primarie per ciò che concerne l’Islam medievale. L’espansione ottomana, dalla regione anatolica nord occidentale, avvenne soprattutto a spese dei potentati vicini; il più vasto – anche se ancora non così debole – era il regno bizantino i cui possedimenti vennero in vario modo gradualmente erosi dagli Ottomani. In questa prima fase chiese e basiliche venivano convertite nella moschea congregazionale, secondo un meccanismo classico di appropriazione simbolica dei luoghi più rappresentativi degli sconfitti. È questa componente cristiana bizantina, assieme alla tradizione costruttiva selgiuchide (con gli apporti persiani, armeni, georgiani, siriani...), a costituire la base imprescindibile dello sviluppo architettonico ottomano nelle sue varie componenti e fasi successive. A Iznik (la conciliare Nicea) c’è la prima moschea di Haci Özbek (1333) con un’iscrizione che permette di datarla. L’impostazione è piuttosto semplice: un quadrato cupolato (con trombe triangolari di raccordo) è preceduto da un porticato, ora distrutto dall’allargamento di una strada. La struttura esterna con tre o quattro corsi di mattone alternati a blocchi di pietra, è tipica del modo di costruire bizantino e tale tecnica sarà impiegata diffusamente in ambito ottomano. Una particolare struttura impiegata fin dagli esordi dell’era ottomana è il cosiddetto son cemat yeri (all’interno del porticato una nicchia adibita a luogo di preghiera per i ritardatari); col trascorrere del tempo questo elemento diventa un utile strumento per l’articolazione delle facciate. Gli esordi, come si vede, sono in verità abbastanza modesti: la moschea ‘Ala ad-Din di Bursa (1335) ha un dispositivo planimetrico analogo, con sala da preghiera quadrata preceduta da un porticato tripartito con colonne e capitelli bizantini, e così la Orhan Gazi Cami di Bilecik. A Iznik la Yexil Cami (1378-91) voluta da Candarli Kara Halil Paxa, è una moschea piuttosto importante, caratterizzata da un ampio porticato tripartito, con una porta semplicemente ornamentale in quello mediano, che introduce a una sorta di vestibolo anch’esso tripartito e con due colonne bizantine di recupero che dividono questo spazio da quello della sala da preghiera quadrata sormontata da una cupola sostenuta da una transizione di tetraedri (cosiddetti “triangoli turchi”).

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1. La Moschea Verde (Yexil Cami) a Iznik (1378-1391).

2. Facciata della moschea di Ilyas Bey a Mileto (1404).

Portico e vestibolo assieme sono della stessa ampiezza della sala cupolata il che conferisce all’insieme un notevole equilibrio. La moschea è interamente costruita in pietra con rivestimenti interni in marmo. L’unico minareto è in mattone cotto (sempre per ragioni di leggerezza e statica legata ai terremoti) con inserti in ceramica invetriata turchese e verde (con un motivo a chevron), elementi molto restaurati, e presenta una tipologia ancora pienamente selgiuchide. La moschea di Ilyas Bey a Mileto (1404) è costruita col marmo, molto di recupero, della vicina città, ma rilavorato in stile islamico. La facciata (che esiste, e già questo è notevole!) è composta da un arco a tutto sesto dietro il quale c’è una sorta di alta trifora con colonne e archi ablaq. La cupola appare ribassata, come nei casi delle moschee precedenti, un fatto che già si delinea come una costante di tutta l’architettura ottomana. Il mihrab è imponente (sette metri per cinque) e in marmo, con motivi geometrici ma anche lampade scolpite ai lati del pannello centrale iscritto. Un’altra caratteristica di queste piccole moschee è che la porta è in asse col mihrab e al minareto, in genere posizionato a nord ovest, non si accede dall’interno ma dal porticato, oppure dall’esterno. Bursa fu una città molto importante in tutto il periodo ottomano; fu conquistata da Orhan nel 1326. Alla morte dello spericolato Orhan Gazi (1360) gli succedette Murad i (1362-1389) e va segnalata la decisa volontà di espansione nelle aree balcaniche. Queste ultime, assai più che il territorio anatolico, furono oggetto di conquista dei primi sultani della dinastia, e per quello che concerne l’espressione architettonica questa circostanza ebbe come

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esito un aumento dell’influenza bizantina, diretta e indiretta, soprattutto a livello di tipologie tecniche costruttive più che non di planimetrie. A Bursa lo Hüdavendigar (1385) è un edificio abbastanza particolare perché riunisce in sé, su due piani, funzioni diverse. La già menzionata influenza bizantina è palese, all’esterno, nelle murature: tre file di mattoni alternate a pietre di piccolo taglio. Nella facciata c’è un porticato con cinque archi e cupole sormontato da un terrazzamento. La struttura, s’è detto, si dipana su due piani; quello inferiore si compone di un vestibolo (dal quale si dipartono le scale che portano al livello superiore) che si apre su un grande spazio rettangolare – quasi una corte coperta con l’aggiunta, moderna, di una fontana – cupolato alla sommità e fiancheggiato da quattro ambienti per lato (due, in asse fra loro e mediani, sono ivan), mentre lungo l’asse verticale, e sopraelevata da tre gradini, vi è la sala da preghiera – un ivan voltato a botte – con un mihrab absidale. Il piano superiore è una madrasa; vi sono dei corridoi che danno accesso alle celle, quattro più grandi per gli ulama e sei su ciascun lato per gli studenti. Inoltre un piccolo ambiente cupolato (la cui funzione è incerta) sta sopra il mihrab. Insomma, sotto c’è una moschea con ampi spazi destinati all’alloggio di pellegrini/dervisci di una qualche confraternita e sopra una scuola. È un edificio singolare e unico. Nell’unire funzioni diverse e nell’ampio spazio

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3. Facciata dello Hüdavendigar a Bursa (1385). L’alternarsi di pietre e mattoni è una reminiscenza della tecnica costruttiva bizantina. 4. L’ivan/sala da preghiera del piano terreno dello Hüdavendigar di Bursa (1385). In primo piano la fontana per le abluzioni che è all’interno del complesso.

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dedicato agli alloggiamenti permanenti può essere assimilato a una struttura monastica cristiana. La stretta connessione fra potere sultaniale e ordini di confraternite, come i Mevlana, è confermato da un edificio (Mevlevihan) a Manisa che risale al primo Quattrocento. Su committenza di Murad i e in onore della di lui madre (Nilüfer Hatun), a Iznik, viene costruita (1388) una zaviye, attualmente sede del locale (modesto!) museo artistico. La pianta è molto caratteristica e quasi paradigmatica; un porticato aggettante introduce in uno spazio costituito da due sale quadrate in sequenza (la prima a cupola centrale e l’altra con due cupole) a formare un grande rettangolo. Ai lati del primo ambiente cupolato vi sono altre due stanze, entrambe cupolate; ecco, di fatto, il dispositivo “classico” del primo periodo ottomano a “T” rovesciata. L’esterno, comprese le coperture ribassate con embrici e coppi di mattone, è caratterizzato da corsi di mattone alternati a piccole pietre, assumendo una coloritura in tutto e per tutto bizantina! Bayazid Yildirim (fulmine; così soprannominato per la rapidità delle sue azioni militari) (1389-1402) fece costruire la propria moschea a Bursa a partire dal 1390-1391, opera che fu terminata nel 1395. In realtà si tratta di un complesso con madrasa, türbe e moschea, con quest’ultima che ricalca per planimetria il primo piano dello Hüdavendigar, porticato compreso, conciliando la funzione di moschea (due sale cupolate in sequenza separate da uno sfalsamento di piano da tre gradini) e quella di zaviye con sei ambienti di fianco, tre per lato. È interessante come i due ambienti cupolati siano divisi da una grande arcata (cosiddetto arco di Bursa) che origina da due profonde nicchie sulle quali sono muqarnas che compongono una mensola

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5. Veduta d’insieme della zaviye Nilüfer Hatun a Iznik (1388); l’aspetto esterno non differisce molto da quello di un’architettura bizantina.

6. Interno della moschea di Bayazid Yildirim a Bursa (1395). È ben evidenziato il grande arco che separa i due ambienti con copertura cupolata.

che, appunto, serve all’impostazione del massiccio arco di separazione. Lo storico dell’architettura ottomana G. Goodwin sostiene che: «Anche se solo la facciata ne fa il vero primo monumento autenticamente ottomano, in ogni caso si tratta di un edificio ottomano chiaramente derivato da materiali selgiuchidi o di altra provenienza». Sempre per volontà di Bayazid venne costruita la Ulu Cami (quartiere del mercato), iniziata nel 1396 e completata nel 13991400, come documentato da un’iscrizione sul bellissimo e imponente minbar ligneo, peraltro ancora di tradizione selgiuchide. La planimetria è un semplice rettangolo (63 × 50 m) con cinque navate per quattro campate con un totale di venti cupole. La storia vuole che il sultano avesse espresso il voto che se la battaglia di Nicopoli fosse volta a suo favore egli avrebbe costruito per celebrare l’evento ben venti moschee, ma che il saggio derviscio Emir Sultan – suo genero – avesse invece suggerito di alleggerire l’impegno costruendo una moschea con venti cupole! L’aspetto esterno è imponente per via delle murature in pietra, ed è articolato con tre ingressi, due laterali e uno centrale, questo in asse con il mihrab. La cupola che insiste sopra il mihrab non è più vasta delle altre e la seconda campata della navata centrale ospita una fontana in marmo con a copertura un lucernario in vetro. I molti pilastri non costituiscono un ostacolo visivo e le doppie finestre su quasi tutte le pareti (tolto il muro qibli in corrispondenza del mihrab), conferiscono all’insieme un’ottima luminosità e rendono questa semplice e arcaica moschea decisamente bella. Simile come impostazione – con rara planimetria quadrata (con 50 m di lato) e nove cupole con un diametro di 13,60 m, dunque più ampie che

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non a Bursa – è la Ulu Cami di Edirne (oggi nota come Eski Cami, vecchia moschea, dato che con la costruzione della Uç Xerefeli il ruolo di sede congregazionale passò a tale struttura), databile al 1403 come fondazione, ma terminata ben undici anni dopo. Le tre cupole della navata centrale sono diverse: con un oculo e semplici sguinci quella nei pressi dell’ingresso; la centrale ha un raccordo a muqarnas, e la cupola sopra il mihrab presenta una transizione costruita con tetraedri. Il portico a cinque cupole è probabilmente un’aggiunta più tarda. L’aspetto è solido e a questo contribuisce anche il fatto di essere tutta in pietra. Gli esordi dell’architettura ottomana, dunque, non assumono una connotazione architettonica precisa, ma anzi paiono procedere se non per tentativi, con caratteristiche diverse dettate dalle esigenze contingenti e funzionali; tuttavia la situazione politica con il ruolo importante degli ordini religiosi traccia una via, quella della moschea a doppia cupola con ambienti laterali, che è il vero dato centrale di una fase di transizione.

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7. Veduta esterna della grande moschea di Bursa (1396-1400), caratterizzata da cospicui muri perimetrali e dalla serie di cupole di copertura. 8. Interno della grande moschea (Ulu Cami) di Bursa (1396-1400). Anche in questo caso la vasca/ fontana per le abluzioni è all’interno dell’edificio.

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La Yexil Cami a Bursa (1413-1419/20) fa parte di un complesso che conta anche una madrasa, un imaret (mensa di carità), un hammam e un mausoleo. La Yexil Cami riprende nella planimetria la moschea di Bayazid Yildirim, con un ingresso articolato dotato di due ambienti laterali (non c’è un porticato; questo è stato progettato ma mai costruito), corte interna cupolata con doppie sale quadrate (spesso considerate biblioteche, ma più probabilmente ambienti per dervisci membri di confraternita), e una sala da preghiera sopraelevata con tre gradini, fiancheggiati da nicchie nelle quali deporre le scarpe. Questo fa ritenere che la corte interna cupolata fosse semplicemente lastricata e non coperta di tappeti. Nella sala da preghiera spicca il monumentale e splendido mihrab in ceramica, eseguito con la tecnica della cuerda seca, uno dei capolavori dell’arte ottomana, fatto da maestri provenienti da Tabriz, non necessariamente persiani. Di fronte al mihrab, sul lato opposto – dunque nei pressi del vestibolo di ingresso – vi sono due piccoli e raffinati ambienti, uno dei quali era per certo destinato al sovrano. Le decorazioni in ceramica degli interni sono splendide. L’intera moschea è in pietra chiara, il portale esterno, in marmo, è tronco conico a muqarnas con ai lati un tripudio di forme floreali arabescate a spirale (cosiddetti Hatti e Rumi), fra i più imponenti, e al tempo stesso delicati, dell’intera arte islamica. Anche le finestre (in alto e in basso) sono di disegno notevole, sia quelle ornate ad arabeschi (riprendendo motivi tipici dell’arte del libro), sia quelle superiori, nelle quali le balaustre traforate e l’arco fortemente ribassato sono di una tipologia che anticipa il Seicento indiano della piena maturità Moghul. Un capolavoro. È doveroso ricordare il nome dell’architetto: Haci Ivaz, figlio di Ahi Beyazid; la connessione con

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9. Interni della Moschea Vecchia (Eski Cami) di Edirne (1403).

10. L’elegante facciata in marmo della Moschea Verde (Yexil Cami) di Bursa (1413-1419/20).

Alle pagine seguenti: 11. La sala da preghiera su due livelli della Moschea Verde (Yexil Cami) di Bursa (1413-1419/20).

la potente “Confraternita della Verità” è evidente. La Yexil türbe venne costruita in posizione elevata rispetto alla moschea dopo la morte di Mehmed i (1421). È di tipologia ancora selgiuchide, a pianta ottagonale; la parte più spettacolare è il mihrab in ceramica che rivaleggia, per imponenza e bellezza, con quello della omonima moschea. In ogni caso, a nostro giudizio, le ceramiche più belle sono quelle del cenotafio, eseguito con la tecnica della cuerda seca e con in più due rare colorazioni (giallo e rosa antico/malva) che con gli altri contribuiscono a conferirgli una brillantezza straordinaria. Va anche segnalato il complesso cimiteriale nel quale spicca la tomba di Murad ii, figura singolare di sovrano: stanco dopo venti anni di guerre si ritirò più o meno volontariamente a “vita contemplativa” a Manisa (1444), città gradevolissima conquistata dagli Ottomani un ventennio prima (1425). Sullo sfondo, la situazione politico-religiosa è piuttosto interessante con spinte contrapposte fra i sostenitori di un rinnovato impegno nella conquista balcanica, opposti ai fautori – in genere gli ulama “ortodossi” – di un rafforzamento dell’unità panasiatica legata alle nobili e antiche tradizioni orientali. Si tratta di un atteggiamento – potremmo dire un filo rosso – che spesso riemerge in tutto il lungo periodo di dominio ottomano e che la saggia abilità di alcuni sultani permetterà di controllare, eludendo le contrapposte spinte centrifughe e mantenendo inalterato l’equilibrio dei poteri che favorirà la nascita di un impero (quello sì multietnico) che, seppur anche decentrato amministrativamente, non verrà mai meno alla sua vocazione unitaria. Bursa fu la capitale del regno ottomano e fu anche un importante centro e snodo commerciale che beneficiò di particolare attenzione da parte dei sovrani; lo si

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12. La nicchia a muqarnas in marmo con decorazione di arabeschi domina con la sua raffinata eleganza la facciata della Moschea Verde (Yexil Cami) di Bursa (1413-1419/20). 13. L’interno della sala da preghiera della moschea Muradiye di Edirne (1421). Oltre a uno splendido mihrab ceramico vi sono notevoli pannelli ceramici laterali e importanti tracce di pitture murali.

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può ancora oggi constatare nello sviluppo dei mercati e dei bazar, nei bagni (gli hammam sono imprescindibili in qualsiasi progetto di urbanizzazione) e nei caravanserragli e nel bedesten (mercato coperto) destinato ad accogliere le merci di lusso, quali i gioielli e i tessuti broccati. Il modello architettonico planimetrico di Bursa (a “T” rovesciata) avrà una notevole diffusione e, pur non potendo pretendere che sia riproposto pedissequamente, è per certo quello prevalente anche con varianti, ma accanto a piccole moschee che non di rado sono semplici sale rettangolari con ingresso porticato e copertura con due cupole. Un esempio particolarmente interessante è dato dalla Muradiye di Edirne (1421), non tanto per la pianta e gli elevati, quanto per la presenza rilevante di pitture murali (varie fasi sovrapposte, alcune contemporanee con la costruzione) e per i pannelli parietali di mattonelle esagonali blu e bianche di ispirazione cinese e mano d’opera persiana tabrizena. A Milas segnaliamo la moschea (1394) voluta da Firuz Bey, governatore della città; presenta un porticato seguito da un vestibolo/ingresso con due ambienti laterali (detti anche tabhane) e un’unica sala da preghiera cupolata. Goodwin nota che, pur trattandosi di una struttura provinciale, anche se voluta da un importante ufficiale, le proporzioni sono molto ben rispettate, sia nella planimetria che nella volumetria. Ad esempio nella sala da preghiera le pareti sono di 8.40 m di lato e l’altezza è di 6.40 m con in più circa due metri di fregio. E la cupola, alla

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chiave di volta, è di quattro metri, ovvero una perfetta semisfera iscritta nel cubo di base. Ad Amasya, nella moschea di Bayazid Paxa (1414-1419), nelle iscrizioni dell’edificio sono ricordati i nomi di ben quattro maestri architetti (e verrebbe da dire: quando tutto e quando niente...). Lo stile è quello tipico di Bursa con modeste varianti (ad esempio i due piccoli ambienti che fiancheggiano l’ingresso/vestibolo), ma fondato su una doppia sala cupolata e quattro ambienti a corollario, distribuiti su ciascun lato. Sempre ad Amasya venne costruita anche la moschea di Yörgüç Paxa (1428), con una pianta di Bursa, semplificata, e la Tekke (edificio conventuale dei dervisci) di Pir Ilyas (fondata da Yakup Paxa; 1412), costruita per ospitare gli aderenti all’ordine Halveti. Oltre la porta di ingresso un corridoio divide in due parti il complesso: a nord una grande arcata introduce nella sala cupolata (destinata alle assemblee) con una türbe a destra (sepoltura di Pir Ilyas) e a sinistra, con accesso dal corridoio, l’alloggio dello shaikh del monastero. Dalla parte opposta del corridoio si apre la sala da preghiera cupolata e, sempre con passaggio dal corridoio, due grandi ambienti su ciascun lato, ognuno con sei celle, anch’esse divise da un corridoio. Una disposizione molto razionale nella quale il dispositivo a “T” è sfruttato appieno con originalità. Due strutture architettoniche, diverse fra loro, paiono particolarmente funzionali al proseguimento del discorso. La prima è la Ulu Cami di Manisa (1374), che presenta una piccola corte e una sala da preghiera nella quale spicca la cupola sostenuta da sei pilastri (con l’aggiunta di due mascherati dai muri d’ambito della parete qibli); di fianco alla moschea si trova una madrasa,

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14. Veduta d’insieme della moschea di Yörgüç Paxa ad Amasya (1428). 15. Veduta esterna della moschea Uç Xerefeli a Edirne (1438-1447).

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16. Particolare dell’esterno con uno dei minareti della moschea Uç Xerefeli a Edirne (1438-1447). 17. La spaziosa sala da preghiera a cupola centralizzata della moschea Uç Xerefeli a Edirne (1438-1447).

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e tangente ad entrambi spicca il minareto. Coeva (dunque sempre datata al 1374) è la moschea di Isa Bey a Selçuk (nei pressi di Efeso; e qui l’uso di materiali di spoglio è naturale, considerata anche la vicinanza con il Martirio di san Giovanni), con una planimetria a due navate parallele alla qibla, ciascuna sormontata, al centro, da una cupola. È uno schema islamico classicissimo di derivazione bizantina siriana, con il riferimento obbligato alla grande moschea omayyade di Damasco. La corte è molto ben proporzionata. La facciata – certo non una novità, ma va segnalato il suo “ritorno” – è molto alta e segnata da un pregevole gioco di marmi ablaq; ancora una volta la suggestione siriana balza evidente all’occhio di primo acchito, sensazione che sarebbe confermata ove ci si dilungasse in un’analisi più dettagliata dell’opera. Queste due moschee, l’una caratterizzata dalla cupola su pilastri, e l’altra dall’accentuata propensione all’esaltazione dell’asse trasversale, sono le premesse necessarie e le tappe propedeutiche ad uno degli edifici a nostro avviso più importanti dell’architettura ottomana: la Uç Xerefeli di Edirne (opera di Murad ii; 1438-1447). Questa moschea si compone di due parti, entrambe con

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disposizione rettangolare, ovvero la corte e una sala da preghiera, quest’ultima di dimensioni più contenute rispetto alla corte. Gli accessi sono due e favoriti da scalinate: lungo i lati corti e a metà del lato lungo. La corte porticata presenta al suo centro una fontana non coperta da baldacchino, il che, in questo caso, costituisce un vantaggio, non ostruendo la vista del colonnato principale e permettendo così una valutazione complessiva dello spazio, molto ben equilibrato. Il colonnato dei portici su tre lati è impreziosito da materiale di spoglio e coperto da una serie di cupolette ribassate; è questa una caratteristica peculiare dell’architettura ottomana riproposta in innumerevoli varianti. Ma il vero salto di qualità è compiuto nella disposizione a cupola centrale della sala da preghiera. Lo spazio a disposizione è ampio e la soluzione proposta dall’architetto è quella di due grandi pilastri esagonali attorno a cui ruota tutto l’insieme. Ovviamente tali sostegni non sarebbero sufficienti da soli a sostenere il peso della cupola; nei muri perimetrali, all’interno e all’esterno, sono mascherati gli altri quattro pilastri, opportunamente rafforzati da contrafforti aggettanti. Sotto la cupola, al centro della parete qibli vi è il mihrab in marmo, fiancheggiato da un bel minbar nello stesso materiale. A livello di pianta è indubbiamente un capolavoro di sagacia, con i due pilastri/perno che dominano la scena, ma permettono una notevole ariosità completata dalle ben ventitré finestre che si aprono nel perimetro, fornendo una splendida luminosità alla sala. Più complesse, e meno felici (per non dire irrisolte), sono le soluzioni inventate e proposte a livello di copertura. Oltre alla cupola centrale, infatti, su ciascun lato sono due cupole che, attraverso arcate, scaricano le spinte verso i due pilastri esagonali centrali; senonché gli archi che si dipartono sono, per forza di cose, e per le leggi della statica, ben cinque con l’esito che lo spazio fra l’arco perpendicolare alle pareti lunghe e quello tangente di supporto alla cupola centrale è molto sacrificato e le piccole cupolette non nascondono l’imbarazzo. Purtroppo in anni recenti un avventato restauro con l’inserzione di grandi putrelle in acciaio poste a rafforzare gli arconi ha compromesso la visione pulita dell’insieme. Peccato; ciò non toglie che ci troviamo di fronte a una elaborazione di genio. Indubbiamente devono aver pesato esempi di architettura religiosa cristiana balcanica, che non mancano, accanto a una naturale evoluzione dell’impianto ottomano; lo sforzo per la centralizzazione della cupola su una base ancora accentuatamente rettangolare costituisce una pietra miliare precedente la presa di Costantinopoli e un esempio che di sicuro non deve essere sfuggito all’attenzione sempre vigile di un Maestro quale Koça Mimar Sinan. I minareti, non tutti coevi al progetto iniziale, sono quattro; due negli angoli fra corte e sala da preghiera e due negli altri angoli della corte. Il nome di Uç Xerefeli (Tre Balconi) si riferisce al minareto posto nell’angolo di nord-ovest, caratterizzato, appunto, da tre balconi.

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1453. DA COSTANTINOPOLI A ISTANBUL

Il 1451 segna l’inizio del secondo regno di Maometto ii (il primo, breve solo un anno, è fra il 1444 e il 1445), che si protrarrà fino alla sua morte nel 1481. Maometto ii è il “Fatih” (Conquistatore) appellativo che il sovrano si guadagnò con l’impresa della presa di Costantinopoli. Gli esordi costruttivi sono del 1451 con l’edificazione del Rumeli Hisarı (Castello di Rum), posto sulla sponda europea del Bosforo nel suo punto più stretto, di fronte al più vecchio Anadolu Hisari (Castello di Anatolia), in Asia, voluto da Bayazid Yildirim. Si tratta di un importante esempio di architettura militare turca (ma non lontano da una concezione che è anche occidentale), costruito molto rapidamente. Non si tratta di un forte difensivo, bensì di un acquartieramento situato nella posizione ideale per controllare il Bosforo e, dunque, gli approvvigionamenti di Costantinopoli. L’architettura è interessante: lo stile potrebbe essere definito internazionale, con in primo piano l’Europa (attraverso il ben consolidato filtro crociato), ma anche con influenze derivate dall’architettura armeno/georgiana, senza trascurare la tradizione dei caravanserragli. Un’altra struttura militare, sempre in posizione di controllo strategico, voluta da Maometto ii, è la fortezza sui Dardanelli a Çhanakkalè, recentemente fatta oggetto di studi e restauri. L’importanza degli ingegneri di corte di formazione militare (e in fondo il grande Sinan è da considerarsi uno di loro) non è affatto da sottovalutare. È nell’architettura militare (non solo fortezze, ma per esempio anche ponti) che si sperimentarono soluzioni tecniche innovative che divennero patrimonio stabile di una scuola di grande tradizione. Il 29 maggio del 1453 Maometto ii ebbe ragione delle difese cristiane di Costantinopoli schiantandone la resistenza, in parte minata da qualche contrasto interno allo schieramento avverso. Costantinopoli non fu immediatamente elevata al rango di capitale; il Fatih fece ritorno a Edirne dopo venti giorni (visitando anche Bursa), lasciando la città in mano ai suoi governatori. Fra le prime azioni intraprese vi fu la conversione in moschea di basiliche e chiese (prime fra tutte Santa Sofia) e la ripresa e messa in sicurezza di alcune fortificazioni, come

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Yedikule. Il Topkapi Sarayi, ovvero “il Palazzo”, un insieme di edifici e soprattutto giardini, sugli antichi luoghi dell’acropoli bizantina, non fu terminato fino al 1472. La grande moschea concepita per celebrare la straordinaria impresa bellica, la Fatihiye, non venne iniziata prima del 1463 (anche se i progetti, con ogni probabilità, risalgono a quattro anni prima); in ogni caso, una ordinaria attività edilizia è da mettere nel conto. Ci riferiamo a quelle opere di “impatto sociale”: hammam, acquedotti (l’approvvigionamento idrico ha sempre costituito un grande problema, anche ai giorni nostri). Due questioni sono da considerare. I nuovi signori di Costantinopoli (ormai diventata Istanbul: Is Tin Pòlin) si trovano davanti al problema, in parte solo psicologico, della islamizzazione della città, ovvero di trovare per essa un passato islamico plausibile e all’altezza della grande tradizione cristiana. Eyyüp farà allo scopo. La tradizione/leggenda è legata a uno dei primi tentativi di conquista musulmana (e qui potremmo anche scrivere araba) della città nel quale sarebbe perito, durante un eroico assedio, Ayyub al-Ansari (uno dei primi seguaci del Profeta), seppellito fuori le mura della città. La tomba, ritrovata, diverrà un luogo di pellegrinaggio e di sepoltura di nobili importante, e tutta la collina circostante affacciata sul Corno d’Oro diverrà un immenso cimitero, reso ancor più popolare in tempi relativamente recenti dallo scrittore francese Pierre Loti. Da una parte, dunque, la necessità di inventare, rigorosamente alla latina, dei plausibili trascorsi musulmani atti a controbilanciare il peso della gloria bizantina, greca e latina; dall’altra, pur rispettosi e orgogliosi della conquista, un porsi in una linea di assoluta continuità con il passato, tutto il passato, quasi un fluire naturale, senza sbalzi, depositari legittimi di un’eredità storica oggettivamente pesante.

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1. Le imponenti fortificazioni di Rumeli Hisar (1451) sulla sponda europea del Bosforo. 2. Esterni della moschea di Mahmud Paxa a Istanbul (1464). 3. La türbe del complesso di Mahmud Paxa a Istanbul (1473) decorata con ceramiche policrome.

È questa, a nostro avviso, la chiave di lettura, valida anche in un’ottica contemporanea, per la quale ai Turchi – al di là delle contingenze politiche ed economiche – appare non solo legittima ma quasi ovvia, in un sentire largamente condiviso, l’adesione all’Europa. Gli Ottomani, il cui impero dopo la metà del Quattrocento si espanderà ancora, domineranno la scena, fra alti e bassi, fino al 1922 e della storia europea sono un capitolo imprescindibile. In questo senso Maometto ii ha svolto un ruolo decisivo, e con la sua attività di legislatore e favorendo, per sua cultura (parlava greco e aveva conoscenze e curiosità intellettuali non comuni) scambi col mondo occidentale; uno degli episodi più noti è l’invito, accettato, a corte di un pittore di grande reputazione quale Gentile Bellini (1479-1481), non l’unico artista europeo giunto in riva al Bosforo, e che ci ha lasciato un celeberrimo ritratto del sultano, ricco di introspezione psicologica. Tutt’altra figura, quella del monarca, rispetto al soldato rozzo e crudele, come è documentato dalla splendida biografia di F. Babinger alla quale rimandiamo per gli opportuni approfondimenti. Ma torniamo all’architettura. Una grande opera fu la moschea di Mahmud Paxa. Questi, proveniente dalla leva del devxirme (padre greco, madre serba) divenne uno dei favoriti del sultano; vizir, ovvero primo ministro, fu anche un rinomato poeta (noto per le sue composizioni, in specie quelle sull’Eden che gli procurarono l’appellativo di “Adeni”) e governatore generale, una sorta di viceré, dei territori europei. Vizir potente e amato ebbe peraltro qualche disavventura causatagli dalle invidie e dagli intrighi di corte nel corso della carriera politica. Gli dobbiamo un grande complesso architettonico con una madrasa, il suo mausoleo, un caravanserraglio, un imaret, oltre alla moschea.

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Molti edifici, tuttavia, si sono persi o hanno subìto rilevanti trasformazioni. La moschea è del 1464 e pur con modifiche e adattamenti rientra pienamente nella tipologia di Bursa. I restauri (1755, 1828, 1936) conseguenti a vari eventi – Istanbul è situata su una faglia sismica – hanno un po’ modificato l’impatto visivo, ma la planimetria rispecchia in ogni caso il progetto originale. Non c’è corte, ma un porticato con cinque cupole introduce in una sorta di vestibolo/nartece. Centralmente si procede verso una sala da preghiera con due ambienti quadrati in sequenza (il che, ovviamente, forma un rettangolo), entrambi cupolati e separati da un grande arco. In posizione laterale rispetto al vano di ingresso troviamo due ambienti che immettono in corridoi funzionali a separare i locali laterali (con tre stanze cupolate) dal nucleo della sala da preghiera. Negli angoli, quindi in sequenza con le tabhane, ma separati dall’ennesimo corridoio, ci sono ambienti cupolati; in quello di nord-ovest (caratterizzato da pregevoli raccordi a tetraedri o triangoli turchi) una scala a vista introduce al basamento del minareto e alla scala del medesimo. Bursa come modello è evidente, ma è anche chiaro il proposito di separare gli ambienti d’uso dalla sala da preghiera. La türbe è del 1473; di pianta ottagonale si segnala per le pregevoli ceramiche parietali ancora legate alla tradizione di Tabriz e non a Iznik. Importante è anche lo hammam, probabilmente edificato prima della moschea e a disposizione delle maestranze che quella hanno costruito. La moschea (1469) di Rum Mehmed Paxa (un generale bizantino convertitosi all’Islam che manovrò in modo tale da divenire vizir per un breve periodo coincidente con l’appannamento di Mahmud) a Üsküdar – il lato asiatico di Istanbul – è interessante per la sua struttura, un’altra variante della “T” rovesciata. Oltre il consueto porticato a cinque cupole vi è una sala cupolata per la preghiera, seguita da un’altra sala profonda la metà della precedente e sopra-

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4. La moschea di Rum Mehmed Paxa (un generale bizantino convertitosi) a Üsküdar (sponda asiatica di Istanbul) è datata al 1469.

5. Veduta esterna della moschea di Atik ‘Ali Paxa a Istanbul (1497). 6. Sala da preghiera della moschea di Atik ‘Ali Paxa a Istanbul (1497). La planimetria è una variante del modello di Bursa.

elevata da alcuni gradini, coperta da un’esedra semicircolare; su ciascun lato della sala cupolata si trovano due ambienti, anch’essi con cupola. Il minareto è in un angolo e l’accesso è dall’esterno. È forse il primo caso in cui si abbandona il modello a doppia cupola; dal punto di vista funzionale questo vuol probabilmente significare che il primo ambiente non serve più da corte coperta. Sempre a Istanbul viene costruita la moschea di Davud Paxa (1485), un importante vizir di origini albanesi e governatore dei territori asiatici. La pianta della moschea è abbastanza semplice e convenzionale; il porticato è coperto con cinque cupole impostate su sei colonne antiche di marmo di spoglio (una costante negli edifici della città), da cui si accede a una grande sala centrale con cupola (ben 18 metri di diametro) con lateralmente due coppie di tabhane. La caratteristica più interessante è un abside – di inequivocabile derivazione bizantina – che ospita il mihrab e presenta come copertura una semicupola. Il minareto ha accesso dall’esterno ed è situato nell’angolo nord-ovest. L’esedra absidata pare una anticipazione di quanto verrà progettato da Sinan nella Selimiye di Edirne. La moschea stambuliota di Atik ‘Ali Paxa (1497) è ancora una variante del modello di Bursa: oltre all’ormai consueto porticato, abbiamo la sala centrale cupolata nella quale le due tabhane laterali sono completamente integrate nell’insieme, mentre il mihrab, seguendo l’esempio attestato in Rum Mehmed Paxa, viene a essere ospitato in una sala profonda la metà di quella centrale che è coperta da una semicupola (ce ne ricorderemo più avanti nel commentare, sempre a Istanbul, la moschea di Bayazid ii). Di fatto la pianta derivata da Bursa è ancora in auge, anche in provincia; lo provano la moschea di Ixak Paxa a Inegöl (1482), assai classica, e la moschea Selimiye di Konya (come datazione a cavallo fra Quattro e Cinquecento, talvolta erroneamente, addirittura, attribuita a Sinan), con sette cupole nel

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porticato, sala centrale cupolata e mihrab sotto una semicupola (questa zona, come a Bursa, è sopraelevata da alcuni gradini), oltre a tre ambienti laterali, su ciascun lato, che portano la pianta, sempre rettangolare, più vicina al quadrato. Dalle due estremità del porticato esterno si accede a una coppia di minareti. La cupola esterna, ribassata secondo tradizione, è impostata su un ampio e alto cubo esterno, un tantino sproporzionato. In realtà la pianta ricalca quella della moschea del Fatih a Istanbul, la grande opera di Maometto ii il Conquistatore, purtroppo completamente rifatta (dopo il disastroso terremoto del 1766), e comunque degna di una descrizione basata su svariate fonti documentarie e con saggi di scavo archeologico i quali hanno dimostrato come l’attuale edificio moderno abbia utilizzato le fondamenta antiche. L’opera fu iniziata nel febbraio 1463 e completata sette anni dopo (1470); l’architetto fu Sinan (Atik, vecchio Sinan per non confonderlo con l’omonimo maestro del ’500); è molto di più di una moschea o di un complesso architettonico. È una città nella città, quello che in termini contemporanei si definisce un “centro direzionale” oppure un “centro multifunzionale”. Il luogo prescelto è la collina dove sorgeva la basilica dei Santi Apostoli e luogo di sepoltura di Costantino il Grande. L’area era recintata da un alto muro nel quale si aprivano grandi portali di accesso ed erano gli edifici: un ospedale (forse anche per stranieri e comunque gestito da medici ebrei, i più efficienti e ricercati in tutto l’impero), otto madrase e altrettante scuole primarie (con quattro studenti per stanza con un totale di mille!), caravanserragli (dalla capienza di cento posti per gli ospiti e trecento animali, tutti mantenuti gratuitamente per i consueti tre giorni), un imaret (alloggio/ricovero giornaliero per centocinquanta indigenti), il più grande hammam della città e un immenso spazio vuoto al cui centro stava la moschea con tanto di corte e due türbe. Il complesso (in turco Külliye) del Fatih sarà di ispirazione per quello di Solimano il Magnifico costruito un secolo dopo; è molto significativo come impianto che segna il passaggio da una visione del proprio ruolo più “provinciale” a quella più vasta e simbolicamente assai più impegnativa dell’impero. La moschea, che s’è detto essere moderna, dovrebbe ricalcare

7. Esterno della moschea Selimiye di Konya (xv-xvi secolo). Il porticato esterno è coperto da sette cupole. 8. La moschea di Maometto ii il Fatih a Istanbul, com’è raffigurata da Melchior Lorichs in un particolare del foglio 13 delle Vedute di Istanbul, Leida, Universiteitsbiblioteek, bpl 1758.

Nella pagina seguente: 9. Il Çinili Köxk a Istanbul (1473). È un raro esempio di architettura civile quattrocentesca.

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le fondamenta dell’antica e presenta una grande cupola con copertura di 26 metri. La corte ha un porticato con cupolette e l’interno è simile alla Selimiye di Konya; infatti presenta una sala cupolata seguita da una sala coperta da una semicupola sul mihrab e tre tabhane cupolate ai fianchi. I due minareti sono posti alla tangenza fra corte e parte coperta. Alcune analisi hanno evidenziato come esista uno schema matematico delle proporzioni basato su divisori e multipli del dodici. In provincia, peraltro, continua lo stile di Bursa, come a Skopje (Isa Bey Cami, 1475) o a Sarajevo. Non vanno nemmeno trascurati gli interventi di architettura palaziale e domestica (sarebbe fuorviante usare il termine “civile”, in quanto anche le Külliye non sono formate da edifici con finalità esclusivamente religiose), anche se per le prime esigenze dopo la conquista furono requisite molte chiese trasformate in alloggiamenti. La politica del sultano fu tesa al soddisfacimento delle necessità amministrative, prima ancora che di pompa e di potere rappresentativo (palazzo). L’harem, per esempio, era nel quartiere di Bayazid. Va anche ricordato come moltissima architettura, anzi la parte più considerevole, dovesse essere lignea, e niente di questa ci è rimasto. In ogni caso, se pensiamo al palazzo in tutta la tradizione islamica (e ancor di più quando si ha a che fare con popolazioni dal forte retaggio nomade mai rinnegato, come appunto quelle turche) un ruolo di primo piano spetta alla natura, intesa come giardino/parco. Questo vale anche per il sito – in una splendida posizione panoramica – dove si trovava, come già accennato, l’antica agorà bizantina, prescelto per l’amministrazione (ma poi sempre più, in seguito, anche residenza del sultano imperatore e della sua corte), e cioè il Topkapi Sarayi, dominato da grandi spazi vuoti (corti con prati e vegetazione anche d’alto fusto), alternati a padiglioni organizzati secondo una successione di più corti. Il padiglione più antico che sopravvive del periodo quattrocentesco è il cosiddetto “Çinili Köxk” (nome dovuto alle ceramiche (in turco çini, come in inglese china) di rivestimento esterno e, opportunamente, oggi divenuto uno dei musei della ceramica di Istanbul, di fronte al monumentale e ricchissimo museo archeologico), datato al 1473. L’aspetto è apparentemente abbastanza incongruo – almeno oggi – rispetto alla rimanente architettura ottomana, la quale, però, è ben più tarda e seguirà da vicino i modelli geniali adottati, e imposti, da Sinan. Quelle che appaiono più evidenti sono le tracce di un passato centroasiatico, più precisamente timuride; architetture derivate da quella concezione – ben radicata in un mondo che rispetto a Istanbul e al passato bizantino di Costantinopoli possiamo a ragione definire “orientale” – che è visibile soprattutto in Iran: si pensi ai padiglioni di Isfahan come ‘Ali Qapu, Chihil Sutun, Hasht Bihisht. Ma anche in India, a Delhi nel Purana Qila e pure altrove fino a Fatehpur Sikri, mutatis mutandis e a dar retta a G. Goodwin. Ipotesi quella degli antecedenti timuridi supportata anche dalla decorazione esterna in ceramica invetriata (erano già attive le fornaci di Iznik, magari con maestranze immigrate dalla Persia) e suffragata dalla disposizione planimetrica. Questo padiglione ha poi avuto considerevole importanza come modello per le successive architetture civili abitative ottomane, che, s’è detto, molto spesso erano lignee. La facciata è sopraelevata – viene pienamente sfruttata la pendenza naturale della collina – e presenta uno stretto porticato al cui centro si apre un piccolo ivan di accesso. Da un disimpegno si accede a una sala cruciforme cupolata, con sugli angoli quattro ambienti rettangolari divisi fra loro

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da due ivan; il terzo è quello di ingresso/disimpegno che, in asse e dunque di fronte, ha un locale a bovindo (metà rettangolare e metà esagonale) aggettante. È una disposizione semplice, frutto di un pensiero razionale con alle spalle una ben consolidata tradizione. Pure gli elevati e i passaggi interni di copertura hanno un marcato sapore centroasiatico/iranico, anche se in quella parte di mondo non sopravvive niente che possa servire da comparazione. Molto interessante è anche il piano inferiore, non seminterrato perché approfitta dell’inclinazione del terreno, al quale si accede con una scala dall’ambiente a destra dell’ingresso e oggi adibito a deposito (molto ricco!) del museo, piano arioso e molto proporzionato. Pressoché contemporanea (1472) è la moschea di Gedik Ahmed Paxa (Afyon) con accesso diretto dal porticato (con le consuete cinque cupolette) e alla sala da preghiera con cupola seguita da un’altra sala (anch’essa cupolata) e fiancheggiata da due ambienti per lato più uno mediano, cupolato, aperto all’esterno come un ivan. Non ci vediamo alcuna forte similitudine col Çinili Köxk, ma una riproposizione di buon livello della tipologia di Bursa. Il regno di Bayazid ii, uomo dal carattere abbastanza pacifico e incline alla poesia, alla malinconia e alla mistica, fu trentennale (1481-1512) e importante, con una buona propensione all’attività costruttiva. Uno dei complessi più

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10. Veduta d’insieme del complesso ospedaliero di Bayazid ii a Edirne (1488).

11. Il padiglione a pianta esagonale nella corte del complesso ospedaliero di Bayazid ii a Edirne (1488).

notevoli che portano il suo nome fu costruito a Edirne sulle rive della Tunca nel 1488. Si tratta di un ospedale con annessi locali di servizio e una moschea, edificati sotto la linea degli argini e per questo soggetti a inondazioni; oggi tale Külliye è quasi in campagna – posizione che ne accresce il già notevole fascino – ma all’epoca del progetto la città, capitale dell’impero, doveva essere più estesa. Un muro di cinta circonda gli edifici e, come spesso avviene nell’architettura ottomana, lo spazio edificato è immerso in vasti cortili e prati le cui superfici sono maggiori che non quelle degli elevati; ci sono una madrasa, l’ospedale, la grande moschea, un imaret, un forno, un grande magazzino/deposito e servizi. La madrasa, con corte e porticato interni, è grosso modo quadrata, con celle sui tre lati e un ambiente quadrato comunitario (derxane) al centro di quel lato che è opposto all’ingresso. Più complesso è l’ospedale che ha anche un’importante sezione dedicata al disagio mentale, reparto citato nelle fonti ma che oggi non è agevole localizzare. Lungo una prima stretta corte rettangolare si aprono sul lato est quattro ambienti di servizio (compresa, probabilmente, una cucina) e sette ambienti sul lato opposto, ciascuno con una finestra e introdotti da un poco profondo porticato colonnato che è prospiciente la fila di celle. Il clima è quello di un chiostro di un convento rinascimentale. Un ivan porta a due ambienti laterali che hanno anche un accesso nella seconda corte interna; a questa si passa da un portale

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e, oltre i locali già menzionati, vi sono due ivan fiancheggiati da due stanze. Un altro portale conduce alla parte più sorprendente dell’ospedale, a pianta esagonale. Al centro vi è, ovviamente, uno spazio esagonale contenente una fontana e coperto da una cupola i cui sostegni sono mascherati negli angoli dei muri d’ambito. Oltre al vano di ingresso vi sono quattro ivan che sono situati a metà di ciascuno dei lati che formano l’esagono, mentre altri sei ambienti hanno forma pentagonale (con finestra) ma non hanno accesso diretto dalla sala centrale bensì dagli ivan. L’ivan sud (forse destinato ad accogliere i musicisti le cui esecuzioni pare fossero uno dei programmi di cura) ha una specie di “cappella absidale” che aggetta rispetto all’esagono esterno. È un edificio piuttosto singolare per disposizione planimetrica (la parte esagonale ha un immediato confronto con la coeva, 1489, madrasa Kapiaga di Amasya che ha un dispositivo ottagonale), ma estremamente funzionale perché le tre parti potevano funzionare da reparti separati oppure venire adoperate in modo indifferenziato. La moschea ha una grande corte, con porticati e fontana centrale, dalla quale si accede a una sala da preghiera quadrata con ai lati due ambienti (sono

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12. Veduta d’insieme del complesso di Bayazid ii ad Amasya (primo quarto del xvi secolo).

13. Veduta esterna della moschea di Bayazid ii ad Amasya (primo quarto del xvi secolo).

tabhane) quadrati con divisione in nove parti. Da un ambiente centrale si dipartono quattro ivan e quattro stanze angolari; è una disposizione per certi versi cruciforme e ancora una volta di ascendenza centroasiatica timuride. A queste tabhane (delle strutture di accoglienza o ospizi dei dervisci, piuttosto estese), molto autonome e quasi dei corpi aggiunti, si entra sia dal porticato sud della corte, sia dalla sala da preghiera. Agli angoli delle tabhane sono posti i due minareti; è da osservare come il fronte della corte sia meno esteso dell’insieme composto dalla sala centrale e dagli ambienti laterali. Di queste rimarchevoli architetture (ché anche le soluzioni tecniche e spaziali adottate negli altri ambienti sono piuttosto interessanti, quando non originali) conosciamo l’artefice, il capo architetto regale Mimar Hayreddin. Anche ad Amasya (cittadina immersa nel verde e in genere assegnata quale governatorato al principe più vecchio, dunque destinato a divenire sultano; per esempio fu molto amata da Solimano il Magnifico), ma non sappiamo se ad opera del medesimo Hayreddin, Bayazid fondò un complesso comprendente una moschea con madrase destinate a vari insegnamenti (astronomia, musica, teologia e filosofia). La sala da preghiera della moschea è quadrata

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con cupola; una considerevole serie di finestre e l’altezza del cubo di imposta ne fanno uno spazio molto arioso e di considerevole luminosità che prelude alla grande maniera cinquecentesca. La moschea è decorata al suo interno da grandi e pregevoli epigrafie di mano del maestro Sheikh Hamdullah (morì nel 1520), il primo grande artefice di quest’arte che, come vedremo, avrà un ruolo importantissimo nei secoli successivi. Opere minori costruite all’epoca di Bayazid furono la Hatuniye Cami a Tokat (1485) e la Hatuniye Cami a Manisa (1489). Tornando a Istanbul è forse sorprendente la scarsa attività edilizia riscontrata nella città per i primi vent’anni di regno di Bayazid ii; probabilmente più che disamore per la città va considerato come in effetti la conversione di numerosi edifici bizantini (per esempio San Salvatore in Chora, con gli splendidi mosaici coperti da intonaco e divenuta Kahriye Cami, oppure la basilica dei Santi Sergio e Bacco, o quella dello Studion…) in moschee, ma anche in alloggiamenti per nobili, era sufficiente per le nuove esigenze funzionali anche se non di pompa. S’è peraltro già detto dell’immediata conversione di Santa Sofia, mentre la coeva Sant’Irene, inglobata entro la prima cerchia di mura del Palazzo, divenne armeria imperiale. Anche il Pantocrator e San Teodoro (quest’ultima trasformata in moschea col curioso nome di “Kilise Cami”) divennero moschee e la stessa sorte – prima o dopo – capitò ad altri monumenti, per esempio alla chiesa di Theotokos Pammacharistos nel 1591. Il fenomeno non risparmiò nemmeno le province, anche se là le conversioni avvennero in modo meno marcato, e il caso più noto riguarda la bellissima Santa Sofia di Trebisonda. Al momento della conquista ottomana Istanbul era largamente spopolata e fu varato un programma di ripopolamento; vi confluirono molti immigrati non solo musulmani ma anche Armeni (per esempio da Kayseri) e Greci dalla Morea. Una tendenza destinata a crescere; con Selim i (1512-1520) e le sue conquiste orientali furono numerosi gli artigiani (quali annodatori di tappeti, ma anche ceramisti) che giunsero dal Caucaso e da Tabriz, ma pure dalla Siria e dall’Egitto. Inoltre una presenza importantissima – e spesso sottovalutata – fu quella ebraica; dopo l’espulsione del 1492 fu infatti l’impero ottomano la meta privilegiata di quella emigrazione. Il caso di Salonicco risulta fra i più eclatanti. La rete di contatti commerciali ebraici in tutto il Mediterraneo rafforzò molto l’impero e la specializzazione tecnica – come nel campo tessile dove gli ebrei esercitavano una sorta di monopolio nel difficile e fondamentale lavoro di tintoria, disprezzato perché considerato sporco e impuro – di molti di essi (per esempio in campo medico) ne fece una comunità importante e perfettamente integrata. Un censimento del 1477 valuta in circa 70.000 i residenti, con 9000 case turche, 3000 greche, 1500 ebraiche, 750 da Karaman e solo 267 cristiane (cioè presumibilmente armene oppure latine; anche i greci erano cristiani!), con 31 nuclei zingari. Le botteghe censite erano ben 3667. La situazione è molto diversa solo una cinquantina o poco più di anni dopo (1520-1530) con una crescita impetuosa e vertiginosa dal momento che la popolazione di Istanbul assomma a più di 400.000 abitanti di cui il 58% musulmani, per raggiungere a metà Cinquecento il mezzo milione di abitanti, ma con un’invariata percentuale di musulmani, il che significa che le varie comunità erano ben radicate sul territorio con dinamiche equilibrate.

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14. La piccola moschea di Firuz Agha a Istanbul, nell’incisione cinquecentesca di Pieter Coecke van Aelst. 15. La facciata della moschea di Bayazid ii a Istanbul (1501-1506), opera dell’architetto Yakub Shah.

Nelle due pagine seguenti: 16. La corte della moschea di Bayazid ii a Istanbul (1501-1506). 17. La sala da preghiera della moschea di Bayazid ii a Istanbul (1501-1506).

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A Istanbul una piccola e interessante moschea è quella di Firuz Agha (1491), costruita su un angolo della piazza dell’ippodromo, il centro della vita cittadina, agli inizi del Mese bizantino o Divan Yolu imperiale ottomano, uno degli assi viari principali di Istanbul. La moschea, perfettamente riprodotta anche in un’incisione di Pieter Coecke datata 1533, è essenziale, componendosi di un piccolo porticato di ingresso con tre cupolette e una sala da preghiera quadrata sormontata da una cupola e un minareto sull’angolo nord-est della moschea (il che va segnalato perché costituisce un’eccezione) al quale si accede dall’esterno. Questa forma semplicissima è supportata da un notevole equilibrio e proporzioni perfette, tutte ragioni per le quali, pur nella sua apparente modestia, servirà da riferimento per moltissime architetture di analoghe proporzioni disseminate qua e là nei vasti domini imperiali. La moschea di Bayazid ii a Istanbul è un’opera importante e imponente che necessitò di grandi lavori preparatori nel terreno circostante. In parti-

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18. La cupola centrale e le due semicupole di sostegno a copertura della sala da preghiera della moschea di Bayazid ii a Istanbul (1501-1506).

19. Coperture degli spazi laterali della moschea di Bayazid ii a Istanbul (1501-1506).

colare per riempire le cisterne d’acqua bizantine rifornite dall’acquedotto di Valente: in effetti quella dei lavori preparatori (riempimento di cisterne, scassi, livellamento di colline, ecc.) è una attività di cantiere molto importante, capace anche, in alcuni casi, di condizionare la successiva realizzazione del monumento. Architetto della centralissima moschea di Bayazid ii (1501-1506) fu Yakub Shah. Alcune caratteristiche innovative risultano subito evidenti: è il primo caso nel quale la superficie della corte e quella della sala da preghiera si equivalgono e sono in entrambi i casi quadrate. La corte presenta tre ingressi ed è porticata su tutti i lati; ampie porte/finestre, sormontate da finestre più piccole nelle pareti perimetrali, rendono il rapporto interno/esterno molto proficuo. Al centro della corte c’è una fontana con copertura a ombrello che insiste su otto colonne. La prima impressione della sala da preghiera è di notevole spaziosità; l’impianto è a cupola centrale (il diametro è di 17 m e mezzo)

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con due semi cupole a nord e sud, ovvero oltre l’ingresso e sopra il mihrab. Il necessario sostegno è garantito da quattro massicci pilastri, intervallati a est e ovest da enormi colonne monolitiche di granito (indubbiamente di spoglio). Ai lati della superficie cupolata (e quasi come a Santa Sofia, ovvero come se ci trovassimo in una basilica a tre navate) gli spazi sono coperti da quattro cupole angolari. Vi sono però anche, lateralmente, due tabhane strette e lunghe con coperture cupolate. Questi ambienti, tuttavia, non sono affatto integrati al resto della sala da preghiera e sembrano abbastanza due corpi estranei aggiunti senza un vero e proprio disegno e scopo funzionale. Agli angoli esterni delle tabhane sono elevati i minareti, troppo lontani dalla cupola (tradizionalmente schiacciata e circondata da una serie di agili contrafforti) e visivamente piuttosto dispersivi, tanto da risultare quasi appiccicati al corpo centrale. Le proporzioni dell’insieme sono comunque rispettate e, osservando i dettagli tecnici e decorativi della lavorazione delle masse murarie, ci si rende conto che l’esecuzione è stata affidata ad artigiani di alto livello e con materiali, come i marmi di vario colore, di primissima scelta. È evidente che lavori di questa portata erano economicamente molto onerosi (un volano economico) e l’organizzazione di un tale cantiere doveva per forza essere complessa. Il disastroso terremoto del 1509 contò numerosi morti e anche molti danni materiali; è curioso come il distacco degli intonaci a Santa Sofia abbia fatto riemergere i mosaici cristiani, un segno che non deve essere apparso favorevole ai superstiziosi musulmani! Selim i Yavuz, l’Inesorabile o il Truce (1512-1520), regnò solo otto anni nei quali fu spesso impegnato in operazioni belliche. A lui si devono campagne contro i Persiani (con la conquista, ripetuta, di Tabriz) e la presa di Damasco e del Cairo con conseguente controllo della Mecca, un fatto importantissimo non solo su un piano di mero prestigio religioso e politico. Nell’Oriente anatolico il centro strategico di Diyarbakir fu sottratto al controllo della dinastia turcomanna degli Aqqoyonlu nel 1515. Ivi fu costruita la moschea di Fatih Paxa (databile al 1518-1520); essa è ottomana per concezione – cupola centrale, quattro semicupole e cupolette angolari – ma alcuni particolari, per esempio nel porticato, con fasce alternate di marmo bianco e nero, sono di concezione siriana. Anche le ceramiche parietali sono di produzione damascena, quando non addirittura locale. Una menzione, seguendo Goodwin, la merita il complesso di Battal Seyyit Gazi nei pressi di Eskixehir, rinnovato sulle antiche fondazioni fra il 1511 e il 1517. Il mistico celebrato (sarebbe vissuto fra il 670 e il 740) è una figura leggendaria e visitando il sito, una piazzaforte isolata e quasi fortificata divenuta un centro importante dell’ordine dei dervisci Bektaxi, colpisce molto l’osservatore la tomba/cenotafio, lunghissima, un modo ingenuo e ben attestato dalle tradizioni sciamaniche di celebrare in tutti i sensi, anche fisicamente, la grandezza del personaggio. Oggi il santuario appare come un complesso di molti edifici disposti in modo razionale e dall’elevata funzionalità.

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SINAN: IL GENIO ALL’OPERA

Il regno di Selim i, s’è detto, fu piuttosto breve ma pose, come spesso avviene, le basi per una straordinaria fioritura economica, civile e culturale successiva. La moschea che porta il suo nome poteva, in realtà, indifferentemente, chiudere il capitolo precedente o aprire, come è, il presente. La moschea fu completata nel 1522 e sorge sulla quinta collina di Istanbul. L’ordine di erigerla venne da Solimano che intendeva così celebrare il padre. La pianta ha qualche analogia con la moschea del complesso di Bayazid a Edirne; la corte è ampia (più rettangolare che quadrata) e da questa si accede a una sala da preghiera quadrata e coperta da una cupola, con ai lati (ma non integrate) due tabhane, anch’esse su pianta quadrata ma con compartizione cruciforme, ovvero con quattro ambienti angolari. I volumi posti in atto sono molto interessanti; la corte arriva a metà delle tabhane, con i due minareti nel punto di tangenza, il che oscura una delle finestre delle tabhane. La sagoma delineata è molto compatta ma anche giocata sulle diverse altezze, con uno studio preciso dell’impatto sul quartiere. Da una parte, infatti, la moschea confina con la cisterna bizantina a cielo aperto di Aspar, e dall’altra vi è uno splendido affaccio a metà del Corno d’Oro. La misura della cupola con i suoi 24.5 metri di diametro supera sia la Uç Xerefeli di Edirne, sia la moschea di Bayazid a Istanbul. L’interno è molto semplice con i quattro archi di imposta: pulito e razionale si staglia nel panorama ottomano pur facendone parte a pieno titolo. Per la maggior parte degli studiosi l’architetto è da identificarsi in Esir ‘Ali, e cioè Acemi ‘Ali (‘Ali il Persiano), un valente ingegnere, più che architetto almeno nell’accezione contemporanea, portato da Selim da Tabriz e responsabile anche di altre opere. Non c’è sicurezza o conferma, ma senz’altro l’ariosità persiana (prima di Shaikh Lutfallah a Isfahan) e il ritmo placido della composizione e della cupola – la più bella di tutta Istanbul a mio avviso – costituiscono più che una suggestione. Non è di Sinan, troppo giovane per tale incombenza, anche se non è affatto escluso che abbia in qualche modo partecipato al cantiere, ma di un costruttore di solido talento.

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La politica di espansione e conquista portata avanti da Selim i farà giungere a corte, secondo un costume abituale mediorientale, un importante nucleo di artigiani da Iran, Siria ed Egitto, i quali produrranno molte opere e avranno insieme al retaggio bizantino una profonda influenza sulle successive arti ottomane. Lo si riscontra, per esempio, negli stupendi incastri policromi marmorei (opera di manifattura egiziana) del complesso di Çoban Mustafa Paxa a Gebze. Mimar Sinan Koça Paxa fu un vero e proprio gigante nella storia dell’architettura, non solo islamica. Architetto imperiale, fu anche artefice di ogni singolo progetto relativo alla capitale la cui crescita si svilupperà di pari passo con quella dei vasti territori dominati. Sinan soprintendeva a tutti gli aspetti relativi alla città (e anche ai lavori nelle province che dipendevano dal suo Ufficio), dagli acquedotti alle regole per gli incendi, dalla viabilità ai cantieri, ai restauri. Visse (1491/92-1588) fino quasi a cento anni con strepitosa lucidità, firmando (quale responsabile capo) un numero impressionante di progetti e ha lasciato un segno davvero indelebile nell’architettura del mondo

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1. Veduta d’insieme della moschea di Selim i a Istanbul (1522).

2. Particolare del complesso ospedaliero di Haseki Hürrem (Rosselana) a Istanbul (1534); è il primo importante lavoro di Sinan nella capitale.

islamico e del mediterraneo moderno. Fra l’altro la sua vita e i suoi lavori sono ben documentati nei testi anche attraverso un’autobiografia. Sinan era originario della regione di Karaman, un’area a forte insediamento greco, ma non si definiva egli stesso come tale. Giunse nella capitale a seguito del Devxirme, una peculiare istituzione turca musulmana sulla quale sarà opportuno soffermarsi qualche istante per la sua rilevanza nella storia ottomana. Il Devxirme (coscrizione o leva obbligatoria, in genere attuata ogni sette anni circa) si applicava ai giovani non musulmani già nel xiv e xv secolo, ed ebbe particolare rilevanza nei territori dei Balcani, acquisendo un’importanza sempre maggiore. Le reclute venivano formate e confluivano nel corpo dei yeni-çeri (i famigerati Giannizzeri), una formazione di élite fedelissima al sultano, collegata all’ordine mistico dei dervisci Bektaxi, e al centro di molte vicende politiche (più di una rivolta dei Giannizzeri influenzò e determinò la politica imperiale, giungendo perfino a sostituire il sovrano…), e nerbo militare delle truppe ottomane. Sinan viene notato quando è già maturo, intorno ai venti anni (la norma era fra gli otto e i diciotto), segno di una

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notevole personalità; certamente egli non era musulmano per nascita, ma è un dato irrilevante, perché lo sarà per educazione e cultura. Con il corpo dei Giannizzeri Sinan fu aggregato alle spedizioni di Rodi e Belgrado ma anche in Italia (Otranto, 1537). Della sua formazione, durata presumibilmente sei anni, non sappiamo molto; fu anche carpentiere o venne istruito direttamente come architetto? La sua abilità nella gestione dei cantieri mi farebbe propendere per la prima ipotesi, anche se il lavoro del “mimar” nel Cinquecento in Turchia era sempre e comunque di strettissimo, indispensabile, legame con le maestranze. Egli farà una buona carriera militare durante la quale deve aver dato prova di coraggio e di un’eccezionale capacità di individuazione dei punti deboli delle strutture difensive fortificate avversarie. Il passaggio decisivo per giungere al ruolo di Architetto della Porta della Felicità (a Istanbul), ruolo che comunque egli rese prestigioso e decisivo, non è chiaro, seppure sia ovvio che dovette essersi messo in ottima luce presso il sovrano per la sua abilità di costruttore militare (in specie splendidi e solidi ponti, in particolare uno sul Danubio… un’attività di cui andava particolarmente orgoglioso). Il suo mecenate fu Lutfi Paxa (successore di Ayas Paxa), nominato Gran Vizir, il quale gli garantì il posto di architetto capo nel 1538 a 47 anni, dunque già maturo. Va comunque ricordato come Sinan non abbia “inventato” l’architettura ottomana; come abbiamo già visto c’era alla radice anche un automatismo costruttivo largamente sperimentato e condiviso, basato su ripetizioni modulari: l’apporto di Sinan fu semplicemente il genio! Come capo di un ufficio molto efficiente che si occupava, s’è detto, di viabilità, acquedotti (e fu proprio l’accusa di aver

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3. Veduta aerea del complesso di Haseki Hürrem (Rosselana) a Istanbul (1534) con madrasa, moschea, ospedale/ospizio, e, in primo piano a destra, l’imaret o mensa pubblica. 4. Veduta esterna dell’imponente mole del complesso di Xehzade a Istanbul (1543-48).


5. Uno degli ingressi della moschea Xehzade a Istanbul (1543-48). 6. Portale di accesso alla corte della moschea Xehzade a Istanbul (1543-1548).

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deviato dell’acqua per fini privati a creargli qualche grattacapo, insufficiente in ogni caso per appannare il suo prestigio e la sua fortuna), restauri, permessi, controllo degli incendi, egli dava il suo imprimatur e indubbiamente seguiva di persona solo le grandi commesse. Un suo contributo è plausibile nella costruzione della Hüsrev Paxa Cami di Aleppo (1536-1537) finita però, secondo l’iscrizione del 1545, quando egli era già attivo nella capitale. Un primo lavoro a Istanbul fu un ospizio per donne (qualunque donna, senza distinzione razziale!) voluto da Haseki Hürrem, la Rosselana delle fonti occidentali, la consorte di origini russe (unica moglie vera e propria, legalmente sposata da un sultano) di Solimano. Costruì anche il severo mausoleo dell’ammiraglio Barbarossa a Bexiktax sulla sponda europea del Bosforo (1541). La prematura morte del ventiduenne principe Xehzade, amatissimo figlio della coppia regale ed erede al trono designato, offrì a Sinan la prima grande occasione della sua carriera per dimostrare il proprio talento in una grande moschea a Istanbul. Così nacque il vasto complesso di Xehzade (1543-48). Il vero grande esordio di Sinan è paradossalmente un’opera matura nella quale il Maestro mette da subito in mostra una straordinaria qualità, niente affatto scontata, ossia la chiarezza di pensiero e un’assoluta semplicità. Egli si concentra, di sicuro stimolato dal modello di Santa Sofia, struttura che aveva studiato e conosceva assai bene, sulla centralizzazione della cupola. La pianta della sala da preghiera (preceduta da una corte quadrata con fontana centrale e tre ingressi; dispositivo quasi ovvio, ma perfettamente equilibrato) può essere definita a quadrifoglio: quattro pilastri centrali ottagonali sostengono la cupola, circondata da quattro semicupole e cupolette negli angoli. L’interno è spazioso e gradevolissimo, con ottima visibilità del mihrab da quasi tutte le angolazioni, un particolare quello della centralità visiva della nicchia sempre curato dall’architetto e finalmente reso perfetto nella moschea di Selim ii a Edirne, il capolavoro. Una caratteristica costante dell’architettura di Sinan sarà la perfetta corrispondenza fra interni ed esterni e la capacità di graduare al centimetro le proporzioni, frutto evidente di una superiore conoscenza delle regole matematiche e geometriche (multipli del due e divisione interna in sedici parti), applicate con ferrea determinazione e implacabilità, senza deroghe; così, l’interno ha una luce di 38 metri e la cupola ha un diametro di 19 metri e un’altezza doppia. Le pareti perimetrali sono ovviamente cospicue e massicce (superbamente risolto è il nodo dell’ingresso della corte, una vera e propria facciata, con il ricorso al tradizionale cono rovesciato di muqarnas), ma alleggerite da doppi ordini di finestre riquadrate con archi sorpassati e separate da lesene lisce. La conoscenza tecnica è testimoniata dalla sapiente scelta dei materiali e di dove utilizzarli anche in virtù del loro peso, alternando marmo, pietra e mattoni. I due minareti, segno inequivocabile che si trattava di una moschea sultaniale, con due balconcini ciascuno, sono alti e sottili, posti nel punto di tangenza fra corte e sala da preghiera, quest’ultima con una superficie di poco (giusto la sottile fascia del minareto) più ampia della corte stessa. L’esterno è all’altezza dell’armoniosa disposizione degli interni. La moschea è concepita come un insieme nel quale si esalta la cupola, un crescendo musicale; Sinan, per fare questo, dovrà risolvere un problema statico, ovvero la necessità di far emergere anche all’esterno i quattro pilastri su cui si fonda la cupola. Quello che poteva risultare un punto di debolezza non viene mascherato, bensì esaltato con gli ampi cilindri cupolati (un escamotage di grande successo), di modo che queste cupolette se non funzionali sul piano

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7. Veduta della sala da preghiera della moschea Xehzade a Istanbul (1543-1548). 8. Veduta esterna della moschea di Mihrimah a Üsküdar (sponda asiatica di Istanbul) (1545 ca.), con in evidenza il doppio porticato. 9. Veduta aerea del complesso di Mihrimah a Üsküdar (sponda asiatica di Istanbul) (1545 ca). La irregolare disposizione del terreno non è stata di ostacolo alla realizzazione di una moschea, una madrasa e, in basso a destra, di una scuola.

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costruttivo siano imprescindibili su quello estetico perché costituiscono una indispensabile transizione visiva verso la piramide voluta dal Maestro. Quello di Xehzade è un complesso monumentale, una külliye che, oltre alla moschea, ospitava una madrasa, un imaret e la türbe del principe. Questa è a tradizionale pianta ottagonale con tamburo e copertura costolata; splendidi marmi e pannelli ceramici di Iznik ne costituiscono la sontuosa ma al contempo sobria decorazione. Sinan non sarà un patito dell’impiego della ceramica (con l’eccezione della moschea di Rüstem Paxa) la quale sarà distribuita in maniera parsimoniosa nei monumenti, più in quelli funerari che non nelle moschee, e nella tomba di Xehzade c’è una certa prevalenza del colore verde, un inno alla giovinezza e una citazione coranica del Paradiso. Quasi contemporanea alla Xehzade è la costruzione della moschea di Mihrimah (o Iskele Cami) a Üsküdar, sponda asiatica del Bosforo. Mihrimah (“sole e luna”, nomen omen per un caratterino niente affatto facile) era figlia di Solimano e Rosselana, nonché sposa di Rüstem Paxa, il quale nel 1544 divenne Gran Vizir, ufficio che ricoprì fino all’anno della morte nel 1561. Egli fu una personalità fondamentale per l’espansione dell’impero, soprattutto quale cardine di un’efficientissima amministrazione finanziaria e quasi naturalmente punto focale di molti intrighi di corte; alla coppia, potentissima, piacque molto il ruolo di mecenati dell’architettura, e Sinan trovò in loro protettori ben disposti ad assecondare i suoi progetti. La moschea sul Bosforo (Üsküdar è in Asia) ha due minareti, privilegio che la eleva a status sultaniale, e costruirla non fu incarico facile, anche per la conformazione del terreno deputato, stretto fra il mare e la collina. Si segnala un doppio porticato in assenza dello spazio per una corte (e curiosamente ciò avverrà anche nella moschea di Rüstem Paxa del 1561), un dispositivo già incontrato ad Aleppo nella Adliye Cami (opera nota a Sinan e datata 1517), ma non particolarmente sfruttato. La leggenda vuole che la committente non fosse particolarmente soddisfatta

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10. Una classica veduta d’insieme della moschea Süleymaniye a Istanbul (1550-1557). 11. La facciata della moschea Süleymaniye a Istanbul (1550-1557), vista dall’interno della corte. Nelle due pagine seguenti: 12. L’esedra con il mihrab e il minbar della sala da preghiera della moschea Süleymaniye a Istanbul (1550-1557). 13. La monumentale sala da preghiera della moschea Süleymaniye a Istanbul (1550-1557).

9. Il Köprü Çay, ponte sull’Eurimedonte, presso Aspendos, di fondazione romana.


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del risultato – in effetti gli interni sono un po’ in penombra, anche a causa della collina – e che sarà “risarcita” dalla moschea costruita più tardi nei pressi della Porta di Edirne. I tempi, siamo alla metà del Cinquecento, erano maturi per la grande opera. Il sultano, Solimano il Magnifico (ma Kanuni, in turco, e cioè “Il Legislatore”, per essere riuscito, con l’ausilio del cancelliere del regno e del potente Sheikhülislam Ebusuud, a promulgare un codice che potesse essere valido riferimento in tutto l’impero, compito complesso data la frammentarietà della teologia musulmana), godeva di buona fama e le casse imperiali, saggiamente amministrate da Rüstem Paxa, erano fiorenti dopo le vittoriose imprese, e conseguente bottino di Belgrado, Rodi e Baghdad. Infatti una delle condizioni per la costruzione di una grande moschea era che questa avvenisse con i fondi raccolti nelle imprese belliche (meglio se a spese dei cristiani), e non gravando sull’ordinaria amministrazione. Il sito scelto fu un ampio terreno, soprattutto di giardini, di pertinenza sultaniale dove sorgeva il vecchio palazzo, area dismessa dopo il trasferimento della corte al Topkapi, se non per gli edifici adibiti ad alloggio femminile degli harem degli antichi sovrani, un ostacolo certo non insormontabile per Solimano. Sinan, quasi sessantenne, era a capo dell’ufficio di architetto imperiale da oltre un decennio, e aveva dato ottima prova di sé con la Xehzade, avendo peraltro avuto il tempo di formare attorno alla sua persona una squadra di assistenti di altissima competenza professionale ed efficienza. Lo schema era grandioso (come il committente e l’artefice, binomio sempre indissolubile in queste imprese storiche); non una semplice moschea, ma una mastodontica külliye (cinque madrase, un imaret, un ospedale, botteghe ecc.) in grado di rivaleggiare e superare, affacciata sul Corno d’Oro in una posizione di massima visibilità, il complesso di Maometto ii Fatih, quasi a voler stabilire delle gerarchie. È stupefacente che un simile lavoro (compreso l’enorme ed essenziale terrazzamento su cui doveva sorgere l’opera) sia stato portato a termine in soli sette anni (1550-1557), e appaiono perfino grottesche le lamentele del sovrano, poco più che cinquantenne, per le pretese lentezze nel progredire delle strutture. Il cantiere – le cui spese sono tutte meticolosamente annotate e costituiscono un’importantissima fonte documentaria di prima mano anche sull’intera organizzazione sociale dell’impero – deve essere stato caratterizzato da un brulichio spaventoso di operai; Sinan non solo dimostrerà con questo monumento la genialità dell’architetto/ ingegnere, ma anche, se non soprattutto, la sua eccezionale levatura come organizzatore e coordinatore del lavoro, di manager diremmo oggi. Il complesso è pensato unitariamente; un contorno di base (con le madrase e gli altri edifici di servizio) da cui emergeva, incastonata come un puro gioiello, la moschea. Una preoccupazione costante deve essere stata anche quella dell’accessibilità del luogo, abbastanza vicino al bazar; il venerdì il riversarsi nella spianata degli studenti delle scuole e della gente comune da molte altre parti doveva essere di per sé uno spettacolo unico. L’edificio sorge sulla terza collina di Istanbul e la spianata/recinto misura 210 × 145 metri. La moschea si prefigge un duplice scopo; l’architettura in quanto tale e la necessità di porre un marchio, islamico, sul territorio. A questo fa riferimento l’attenzione estrema (maniacale?!) alle diverse e studiate prospettive offerte dal monumento. È anche l’aspetto che più si è modificato col tempo, anche se un osservatore accorto ancora oggi coglie bene la preoccupazione e lo sforzo compiuti in questo senso dall’architetto. La corte è

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14. Il mausoleo di Haseki Hürrem (Rosselana) nella külliye di Solimano (1558-59). 15. Il mausoleo di Solimano il Magnifico (1566) nella omonima külliye.


rettangolare (44 × 57 m), un ritorno alla Uç Xerefeli di Edirne, e di conseguenza lo è anche la sala da preghiera. I minareti sono quattro a coppie di diversa altezza, con tre balconi quelli posti all’intersezione fra corte e sala da preghiera, altissimi con i loro 76 metri attuali, con due balconi gli altri posti negli angoli della corte. Anche in questo caso non sfugge l’attenzione per la visione prospettica. Nell’impianto planimetrico della sala da preghiera si fa sentire, eccome!, l’influenza di Santa Sofia, ma non copia: ispirazione. E per alcuni versi (non la grandiosità, certo), bensì l’integrazione organica degli interni, la Süleymaniye è più razionale e completa. La disposizione è ovviamente a cupola centrale (26.5 metri di diametro, metà della sua altezza: cerchio perfettamente inscritto nel quadrato/cubo di base, laddove a Santa Sofia c’è una leggera ellisse) con due esedre, ingresso e mihrab, oltre a due arconi laterali, appunto come nel capolavoro bizantino. More solito è attestata la corrispondenza fra interno ed esterno, quest’ultimo caratterizzato da una splendida forma piramidale, ottenuta gradualmente con passaggi morbidi (molto più riusciti che non nella più volte citata basilica nella quale l’esterno è quasi un optional, essendo tutto lo sforzo e sfarzo proiettati nei volumi interni), ancora una volta caratterizzati dai pilastroni non mascherati ma esibiti. La cupola troneggia quasi ribassata. Anche le partiture esterne, sui quattro lati dell’edificio, sono giocate bene, con ritmi alternati di pieni e vuoti e un uso sapientissimo di coperture cupolate, gallerie e finestre. La corte è bilanciata bene; le colonne probabilmente provengono da quella cava naturale che erano le antiche strutture dell’ippodromo (12 sono di granito egiziano, di porfido le due più alte per l’ingresso, e di marmo delle cave di Marmara le altre 10), con un totale di 24 colonne. La proporzione perfetta è accentuata e misurata dalla bassa fontana centrale che serviva per bere e non per le abluzioni, spostate in una zona di servizio sul fianco della moschea. La cupola si imposta a 26.5 metri e l’altezza (53 m) è esattamente il doppio; lo spazio cupolato risulta esattamente la metà dell’intera superficie coperta della sala da preghiera della moschea. Il ritmo è perfetto, seguendo una ferrea legge matematico/geometrica con compartizione in sedicesimi, ma anche con proporzioni che rispondono al richiamo dell’1:3 (per esempio le gallerie laterali coprono 1/3 dello spazio centrale… e gli esempi potrebbero continuare più o meno all’infinito), secondo un linguaggio rinascimentale italiano. La citazione o il richiamare una figura quale quella di Leon Battista Alberti non è certo peregrina. La decorazione interna, ancorché la più modificata a seguito dei numerosi restauri (sono interessanti le tracce di pittura blu oltre al rosso oggi predominante), è molto attenta e calibrata, sicuramente frutto di una scelta non casuale ma attentamente ponderata. Mihrab e minbar, luoghi topici, sono molto sobri, in carattere con la personalità di Solimano ma anche con Sinan; non c’era, d’altronde, alcuna necessità di ostentazione chiassosa. Le scritte a contenuto religioso coranico sono state proposte dalle più alte autorità religiose di concerto con il sovrano e l’architetto, e sono di mano di Hasan Çelebi, allievo del più celebre calligrafo ottomano, Ahmad Karahisari. Sulla cupola troneggia uno dei più bei versetti del Corano, quello della Luce (xxiv, 35) e ci sono poi medaglioni coi nomi di Dio, Maometto e i Quattro Califfi “ben guidati”, ma anche di Hasan e Hoseyin (molto cari agli Sciiti), da interpretarsi non come una concessione, bensì come un’affermazione dell’universalità di tale monumento. Nell’area del mihrab fanno la loro comparsa dei pannelli ceramici floreali di produzione di Iznik;

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16. La sala da preghiera della moschea di Kara Ahmet Paxa a Istanbul (1554). 17. Veduta aerea della moschea di Kara Ahmet Paxa a Istanbul (1554).

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non sono ancora di dimensioni perfettamente equilibrate, quasi si stentasse a cogliere la giusta proporzione in relazione alla grandezza dell’ambiente. Ai lati del mihrab le finestre laterali tenute aperte nel periodo primaverile lasciavano entrare i profumi intensi delle essenze e delle rose piantate nei giardini. I monumenti sepolcrali di Solimano (1566; ospitano, fra le altre, anche la tomba della figlia Mihrimah) e Haseki Hürrem (Rosselana; 1558), sono di grande qualità (anche nei rivestimenti ceramici floreali di Iznik) e costituiscono una parte integrante dell’insieme. Anche in questo caso prevale una studiata sobrietà di forme. Come s’è detto Sinan non era impegnato “solo” nel cantiere relativo alla Süleymaniye, ma sovrintendeva (e firmava) anche un altro elevato numero di progetti architettonici (moschee, madrase, fortezze e ponti) in ogni angolo del vasto impero; va da sé che i lavori, in questi casi, non erano seguiti da lui personalmente se non nel raggio compreso fra Istanbul ed Edirne, bensì lasciati alla responsabilità dello stuolo dei suoi efficienti assistenti. A Edirne, per esempio, Sinan costruirà non lontano dalla Eski Cami e su committenza del vizir Rüstem Paxa (verso il 1560) un bellissimo caravanserraglio, ottimamente restaurato in anni recenti e trasformato in albergo, così che chiunque, semplicemente bevendo un tè, può gustarsi appieno la magica atmosfera creata dall’architetto nelle due corti. Per il Gran Vizir Ibrahim Paxa, uomo dalle modeste propensioni e ambizioni architettoniche, il Nostro costruì nel periferico quartiere di Silivrikap= una piccola moschea (1551) con cinque cu-

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18. Il doppio porticato esterno della moschea di Rüstem Paxa a Istanbul (1561). 19. La cupola e il minareto della moschea di Rüstem Paxa a Istanbul (1561), emergono fra le architetture del bazar della città.

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20. L’interno della sala da preghiera della moschea di Rüstem Paxa a Istanbul (1561); si osservi la profusione di mattonelle di Iznik in questo caso impiegate senza risparmio da Sinan. 21. Veduta d’insieme della moschea di Mihrimah a Istanbul (1565 ca.). È la più luminosa fra le architetture di Sinan anche in virtù delle oltre 200 finestre da cui la sala da preghiera prende luce.

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polette di porticato e una semplice sala da preghiera coperta da una cupola, non dissimile dalla già descritta moschea di Firuz Agha sull’ippodromo, ma che da questa si discosta per la coppia di minareti, assumendo, dunque, uno status sultaniale. La grande attenzione e conoscenza di Sinan rispetto alle più antiche moschee e ai monumenti bizantini della città è documentata dalla pianta della moschea di Kara Ahmet Paxa a Istanbul (1554); questi fu sfortunato Gran Vizir in sostituzione di Rüstem Paxa in un cruciale momento di intrighi di corte per la successione a Solimano (quando Sultan Mustafa, il favorito del “partito” dei Giannizzeri per la successione – dei quali Kara Ahmet, di origini albanesi, era uno dei leader – fu assassinato). Si può notare come questa moschea di Istanbul riprenda in qualche modo il modello della Uç Xerefeli di Edirne, con una cupola che poggia su sei colonne antiche (riproponendo, così, un tamburo esagonale) su un perimetro rettangolare risolto, in copertura, con quattro semicupole oblique a 45° angolari e in pianta con due pilastroni rettangolari di contrafforte, sufficienti a creare due strette gallerie laterali. Il problema delle coperture, il punto debole di queste strutture, non è del tutto risolto (e probabilmente ciò era impossibile con la tecnologia dell’epoca…), ma l’impatto visivo è quanto meno ammorbidito. Nella frenetica attività edilizia degli anni alla metà del Cinquecento un posto d’onore spetta allo hammam costruito per volere di Haseki Hürrem (1556) al posto delle ormai decadute terme di Zeuxippus (attive fino al 1536), sull’ippodromo di fronte a Santa Sofia. Si tratta di un edificio a struttura doppia (maschile e femminile) costruita con il formale rispetto di una quasi perfetta simmetria di forme. Oggi adibito a grande e turistico bazar di tappeti, è la più bella struttura del genere costruita da Sinan, il che, ovviamente, non è poco! La morte di Rüstem Paxa nel 1561 diede all’architetto l’opportunità di usufruire del suo waqf (lascito, legato), probabilmente gestito in prima persona dalla di lui non inconsolabile vedova, Mihrimah Sultana. Il sito prescelto

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si trova a Eminönü, nei pressi del mercato o bazar egiziano delle spezie, un quartiere ancora animatissimo, sotto la mole massiccia della Süleymaniye: una localizzazione pressoché perfetta, ma non agevole per l’assoluta mancanza di spazio. Ma dovevano essere proprio queste sfide apparentemente impossibili a stimolare le fantasie e il talento del genio. Il piano inferiore dell’edificio è occupato e adibito a uso commerciale nel mercato (con ovvio incremento del waqf) e due scale, a est e ovest, portano a un terrazzamento a forma di “C” con doppio porticato (quello addossato all’ingresso con cinque cupole), una soluzione che doveva piacere a Sinan quando messo alle strette dalla mancanza di spazio, come nel caso della moschea di Mihrimah a Üsküdar. La pianta è molto semplice; un rettangolo con quattro pilastroni ottagonali e contrafforti nascosti nei muri perimetrali su cui si imposta la cupola, accompagnata da quattro piccole semicupole e dunque con impianto ottagonale. I pilastroni separano lo spazio centrale da due gallerie laterali sopraelevate che hanno funzione di matroneo. La moschea non è affatto grande e nell’insieme spiccano le ben sedici finestre le quali anche grazie alla circostanza della sopraelevazione le conferiscono una straordinaria luminosità. Comunque la gloria della Rüstem Paxa Cami risiede soprattutto nei pannelli dei rivestimenti ceramici dei pilastri, delle pareti (anche sul fronte esterno della facciata sotto il porticato a cupolette) e del mihrab. C’è una fantasmagoria di colori e di forme: sono decine le tipologie di mattonelle impiegate, come magistralmente insegna Walter B. Denny che le ha studiate in un lavoro metodologicamente perfetto, senza dubbio con un costo esorbitante che solo un uomo di straor-

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22. L’esterno della moschea ottomana di Damasco (1565 ca.), eseguita su disegno di Sinan. 23. Il portale di accesso alla moschea di Sinan a Damasco (1565 ca.); l’uso della bicromia della pietra testimonia una notevole attenzione alle tradizioni locali. 24. Veduta esterna della moschea Selimiye di Edirne (1569-1575), il capolavoro assoluto di Sinan.

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dinaria ricchezza (o il sultano medesimo) poteva affrontare. È questa l’unica moschea costruita da Sinan così piena di ceramiche (bellissime anche quelle di Sokollu Mehmet Paxa – si veda infra – ma non così pervasive), un impiego che contrasta con l’ormai affermata sobrietà dell’architetto, molto più attento alle forme architettoniche che non alle “frivolezze” decorative. È possibile che questo giardino fiorito, evocatore del paradiso musulmano, sia stato un omaggio di Mihrimah al suo sposo, o che si sia voluto sottolineare ed enfatizzare il ruolo decisivo svolto dal Gran Vizir come mecenate, finanziatore e protettore delle industrie ceramiche imperiali di Iznik. La bella türbe funeraria di Rüstem Paxa si trova nei giardini del complesso di Xehzade; la severa forma ottagonale è riscattata all’interno da mattonelle floreali di Iznik, fra le più belle ed armoniose mai prodotte. L’opera successiva di Sinan a Istanbul sarà un’altra moschea per Mihrimah (ancora più ricca dopo la scomparsa di Rüstem Paxa), edificata nei pressi della porta delle mura in direzione di Edirne, su una collina (la sesta di Istanbul) decentrata ma comunque in una bella posizione. La datazione è incerta ed è possibile che sia stata completata dopo la morte di Solimano, regnante Selim ii, non particolarmente in buoni rapporti con la sorella (la quale non lo aveva appoggiato nella lotta per la successione), il che spiegherebbe l’unico mina-

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25. La grande cupola centrale della moschea Selimiye di Edirne (1569-1575). 26. La sala da preghiera (con al centro in primo piano la dikka e dietro il minbar) di grandezza inusitata della moschea Selimiye di Edirne (1569-1575). Alla pagina successiva: 27. L’ambiente ricavato per ospitare il mihrab nella moschea Selimiye di Edirne (1569-1575).

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reto (che sbilancia l’insieme) essendole negato, per ripicca, lo status sultaniale. I problemi di organizzazione degli spazi nascono dalla vicinanza con le mura e dal conseguente impedimento a sviluppare una planimetria compiuta. La zona più critica risulta quella della corte. La pianta è rettangolare, molto semplice, con quattro pilastri, due gallerie laterali e una cupola centrale alta 37 metri. La posizione su una piattaforma e lo slancio verso l’alto del cubo di base sormontato dalla cupola rendono questa semplice ma non modesta moschea ben visibile. Di più; Sinan, forse memore delle lamentele della principessa per la penombra che caratterizza la moschea di Üsküdar, crea la sua opera più luminosa, inserendovi uno spropositato numero di finestre (204). G. Goodwin opportunamente commenta che: «Non è una moschea popolare, ma in ogni caso è una delle opere più fantasiose di Sinan a Istanbul. Al momento della sua costruzione era un edificio rivoluzionario». Una delle ultime opere di Sinan durante il regno di Solimano fu un articolato complesso a Damasco per i pellegrini intenzionati a compiere lo hajj a Mecca. Una tekke e una moschea sultaniale (ovvero con due minareti) lungo il fiume Barada, nel puro linguaggio architettonico ottomano, ma anche con tocchi locali (per esempio l’uso dell’ablaq e le mattonelle ispirate da Iznik ma prodotte a Damasco). Sinan è più vicino agli ottant’anni che ai settanta quando concepisce un’opera complessa per onorare il nuovo sultano, la Selimiye di Edirne (1569-1575). Perché Edirne e non Istanbul? S’è accennato al “codice” che regolamentava l’attività edilizia dei sultani; Selim non aveva certo compiuto le mirabolanti imprese belliche del padre per poter aspirare alla capitale dove, fra l’altro, reperire uno spazio adeguato non doveva essere affatto facile. A Edirne, invece e inoltre, lo spazio (già appannaggio del sovrano) non mancava e, di fatto, tutta la casata ottomana dimostrerà nei secoli una particolare predilezione per questa cittadina, immersa nel verde e dal clima piacevolissimo. Sinan si rende conto di avere un’occasione unica, irripetibile, per celebrare la sua visione della moschea e mettere a frutto le conoscenze maturate negli anni. Insomma, è pronto per il capolavoro. Non rinuncia affatto ai capisaldi del suo modo di operare messi già in atto a partire dalla Xehzade, ma li affina. L’interno e l’esterno si compenetrano e sostengono vicendevolmente come un abito rivoltabile, double face!, la planimetria è straordinariamente semplice e, come sempre, la soluzione proposta è geniale; si raddoppiano i pilastri centrali (che dai consueti quattro passano a otto), spingendoli verso i muri d’ambito che contengono i contrafforti. L’esito, pur su pianta rettangolare, è quello di uno spazio centrale con cupola che domina tutto l’interno in modo controllato e armonico. L’unico problema è dato dal mihrab che se mantenuto sul filo della parete qibli sarebbe risultato impacciato se non proprio oscurato dai pilastri e dai contrafforti. Sinan ci ha abituati a non nascondere le debolezze, ma anzi a trasformarle in punti di forza: anche qui. Il mihrab viene arretrato, un locale a parte più che un’abside, e questo lo isola ma non lo stacca dal resto dell’ambiente; in più la copertura, una semicupola, è perfettamente congrua con tutto l’andamento ritmico della composizione e l’inserimento di quattro finestre ne fanno un luogo luminosissimo che immediatamente catalizza l’attenzione del visitatore. L’esterno regge perfettamente il confronto con l’interno. Vengono costruiti quattro altissimi minareti (oltre settanta metri…) intorno alla cupola, un artifizio che ne esalta la mole e l’unità, slanciando la struttura e costringendo l’osservatore a salire con lo sguardo verso l’alto. È inoltre un marchio indelebile sulla città, una silhouette

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davvero indimenticabile. Sempre all’esterno l’alternanza fra quattro archi e quattro semicupole, marcata dai pilastri che emergono, dà l’impressione di una preziosa corona o tiara posta attorno alla cupola. Questa all’interno appare come una semisfera perfetta, mentre all’esterno, in virtù dei sostegni e del tamburo, acquista una proporzione basata sul rapporto 1:3, conferendole il classico aspetto di ribassamento, riscattato, lo abbiamo accennato, dai proporzionati e svettanti minareti dotati di tre balconi che ne scandiscono l’altezza. È la conclusione di un percorso straordinario e una delle più belle architetture del mondo. È ottomana, è islamica, è mediterranea, è classica. Nonostante il progetto sia grandioso c’è un’attentissima cura per i particolari e i dettagli costruttivi e decorativi; ci vorrebbero pagine e pagine per descrivere le invenzioni di Sinan e la sorpresa che ogni nuova prospettiva genera nell’osservatore, anche superficiale. La külliye, in confronto, sembra piuttosto modesta e quasi un di più. E, in effetti, che altro si potrebbe aggiungere a questo capolavoro?! Risulta incredibile il fatto che Sinan abbia trovato tempo, ed energie, per costruire, praticamente in contemporanea, la moschea di Sokollu Mehmed

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28. Veduta dalla corte della facciata della moschea di Sokollu Mehmed Paxa a Kadirga, Istanbul (1571). 29. Interno della Moschea di Sokollu Mehmed Paxa a Kadirga, Istanbul (1571), con il mihrab in pietra incorniciato da splendidi pannelli ceramici di Iznik.

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Paxa a Istanbul (1571). Quella del Gran Vizir Sokollu fu una personalità affascinante; detto “il falco” non solo per l’alta statura e il naso (aquilino diremmo noi), ma per il carattere che si dimostrò particolarmente deciso in varie occasioni, come sperimentarono in molti, veneziani compresi. Sokollu aveva sposato Esmahan Gevher Sultana, figlia di Selim ii, di quarant’anni più giovane e bruttissima: ma la coppia funzionò egregiamente e Sinan – onorato e rispettato – non fu solo incoraggiato, ma ormai vecchio seppure arzillo (ci piace pensarlo nei panni del saggio amico della coppia), fu addirittura caricato di ulteriori responsabilità. Ancora una volta il terreno prescelto era collinoso (sotto la spianata dell’ippodromo, At Meydani) a Kadirga e si trattava dell’ennesima sfida alla fantasia, alla sagacia, alla capacità inventiva dell’architetto, il quale, non certo domo per via dell’età (e forse spesso anche preda di una certa routine), come più volte ripetuto si esaltava di fronte alle difficoltà. L’esito è all’altezza sia del committente sia dell’artefice e tolte le moschee imperiali è forse questa la più riuscita fra quelle eseguite per un esponente di rango del ceto dominante. La corte è il fulcro dell’intera struttura. Vi si accede da tre livelli diversi, due laterali e uno centrale, il più originale. Qui Sinan costruisce un portale e una bella scala che sbocca nella corte non molto grande e con una bella fontana centrale che in prospettiva, durante la salita, si pone in asse visivo diretto con la cupola. La corte è proporzionata e dal porticato si accede alla madrasa (ancora in uso per bambini e ragazzi) che altro non è se non una serie di celle che affacciano sul porticato, con un derxane (sala di riunione o di studio) in parte aggettante, sul lato opposto rispetto alla sala da preghiera e, dunque, sopra la scala. Soluzione ingegnosa quanto equilibrata. Il fronte della moschea presenta sette cupolette e l’interno, a cupola centrale, sperimenta un’impostazione esagonale con contrafforti inglobati nel vano di ingresso e due laterali, oltre a quelli celati nel muro d’ambito sul lato qibli. Quindi cupola centrale con quattro semicupole oblique a 45° e nessun massiccio pilastro a disturbare l’insieme che così appare del tutto libero. Il mihrab è di marmo di Marmara (lo sono anche le colonne del porticato) con l’abituale cono rovesciato a muqarnas. Bellissimi (i più belli in assoluto?!) sono i pannelli ceramici di Iznik ai lati del mihrab, con un verde smeraldo intensissimo che rivaleggia col superbo rosso ceralacca (usato, comunque, con sobrietà e discrezione), e poi un blu cobalto scuro e una tinta più chiara, tutto sul bianco abbagliante del fondo. Le fioriture su larga scala hanno assorbito, da tempo, le suggestioni cinesi e i motivi di boccioli e foglie di saz sono energici e delicati al contempo. Belli anche i medaglioni circolari iscritti (alla maniera di Ahmad Karahisari e forse ispirati alla Süleymaniye) e i pannelli epigrafici in bianco su fondo blu. La stretta zoccolatura dei pannelli, in basso, mostra originali mattonelle “marmorizzate” che simulano i marmi “a libro aperto” dei monumenti bizantini. Nonostante sembrasse immortale (e lo sono le sue opere), Sinan muore il 17 luglio del 1588, lasciando una miriade di edifici costruiti, sempre con stile rigoroso e pulito, e dando un’impronta definitiva all’architettura ottomana. Egli si qualifica come il più grande costruttore islamico e come uno dei più notevoli architetti del Mediterraneo. Koça Mimar Sinan fu l’Architettura di un grande impero e la sua mano è ancora visibile nello stile delle moschee contemporanee, dal momento che la sua eredità, a quattro e più secoli dalla scomparsa, è ancora vivissima e attuale.

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UN IMPERO GLORIOSO. ARTI DECORATIVE OTTOMANE

Nel tracciare un panorama delle arti decorative ottomane (la definizione di “arti minori” è, in questo caso, del tutto fuorviante dal momento che la loro importanza, peso e consistenza sono decisive e fondamentali per un corretto approccio alla cultura artistica in esame), è necessario sottolineare come il trattare tale fenomeno in maniera separata e autonoma rispetto all’architettura risponda puramente a criteri pratici. È infatti impossibile scindere tali produzioni dal fenomeno architettonico visto che unico e unitario era l’ambiente dal quale tali opere traevano ispirazione. Precisazione che può sembrare ovvia e lapalissiana, valida per ogni contesto culturale, ma che, a nostro parere, lo è ancora di più nello specifico ottomano. Infatti quella ottomana ci appare una società caratterizzata da una particolarità unica nel pur variegato mondo musulmano, perché affonda le sue radici nel passato bizantino, mai rinnegato (è uno dei leitmotiv di questo volume), ma al contempo con ramificazioni mediterranee occidentali e strette relazioni (a partire dal primo quarto del Cinquecento, ma anche questa è una tradizione se si rammenta quanto scritto sopra a proposito dell’età selgiuchide) con gli altri poteri musulmani: rapporto simbiotico con Siria ed Egitto dopo la conquista di quei territori, ma anche con l’Iran che, come abbiamo visto, ebbe a fornire competenti architetti e ceramisti e rimase a lungo in sana (ma anche cruenta) competizione artistica col potere ottomano, soprattutto attraverso scambi di doni diplomatici a seguito di ambascerie. Più complesse e meno studiate le influenze e relazioni, che pure ci furono, con l’India dei Moghul. L’arte ottomana, tutta, si configura come espressione di un potere fortemente centralizzato a corte, ma particolarmente attento alla circolazione delle idee e dei materiali, con uno sguardo complessivo “internazionale”. Fulcro di questo sistema artistico integrato è il naqqaxkhane (letteralmente “casa del disegno”), laboratorio di corte deputato all’elaborazione degli schemi e dei modelli decorativi che poi venivano trasposti nei vari materiali (metalli, tessuti, tappeti, ceramiche, manoscritti…), il che, ovviamente, dà quell’aspetto unitario caratteristico e inconfondibile alle espressioni d’arte ottomane. È un concetto d’arte

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molto moderno, contemporaneo; diremmo oggi multimediale, a conferma che spesso e ciclicamente si ripropone come somma novità l’invenzione dell’acqua calda, proprio per la nostra ineffabile presunzione e ignoranza storica. È, quella ottomana, un’arte imperiale tesa alla celebrazione della potenza e ricchezza di una casata che tuttavia mai dimenticherà le origini centroasiatiche nomadi (si veda più oltre, in proposito, l’eccezionale apporto di una personalità forte ed eccentrica quale il pittore Siyah Qalam), per porsi quale punto di riferimento globale, sovranazionale ante litteram. Per concludere questa breve ma necessaria premessa vanno ribadite le altissime qualità e raffinatezza delle produzioni, frutto di una organizzazione sociale complessa e di tecniche artistiche (e di artigianato industriale almeno nel caso di ceramiche e tappeti) di avanguardia, non solo per l’epoca. Calligrafia. In tutte le società islamiche alla calligrafia è stato riservato un ruolo importante e gli Ottomani non fanno eccezione. La scrittura era un’arte vera e propria con regole stabilite per tradizione (come le canoniche sei modalità per i corsivi rotondi, contrapposti al cufico, quest’ultimo spesso usato per i titoli delle sure del Corano), e la stima di cui godevano questi uomini di penna era universale e trasversale nella società. Probabilmente, non solo in virtù degli Hadith i quali raccomandano quale cosa gradita a Dio la copiatura del Libro Sacro, ma anche perché i principali artefici di questa arte sono sempre stati grandi mistici nei quali la bellezza del tratto impresso sulla pergamena o sulla carta era il diretto riflesso di una mente brillante e di studi teologici e filosofici approfonditi. I sultani ottomani imparavano anche un mestiere manuale (per esempio erano appassionati giardinieri, oppure, “gioiellieri” come Solimano il Magnifico; egli, a causa della giovinezza – i primi quindici anni – trascorsa a Trebisonda, una città dallo splendido passato bizantino e con attive botteghe orafe e di argentieri per la vicinanza con le più importanti miniere anatoliche), e spesso si dilettavano in poesia: il passo verso la “bella scrittura” è assai breve. Le cronache non sono avare di episodi relativi a calligrafi, e se spesso le arti ottomane e islamiche in genere sono anonime, l’eccezione è costituita proprio dai calligrafi che orgogliosamente firmavano le proprie opere e il cui prestigio e status sociale era fra i più alti nella corte. A questi privilegi non è estranea la multiforme attività della cancelleria imperiale, centro nevralgico di tutta la complessa macchina amministrativa dell’immenso impero: J. Matuz ha calcolato che solo durante il regno di Solimano (1520-1566) sono stati scritti e promulgati non meno di 150.000 documenti ufficiali! Anche alcuni vizir (per esempio Farhad Paxa, m. 1595) si sono distinti come calligrafi, a dimostrazione che questa arte era stimatissima negli ambienti ufficiali di corte; una scrittura elaborata e ben distinguibile – sempre inimitabile – costituiva un passaporto indispensabile per le ambizioni dei cortigiani. Intendiamoci: non ci saranno grandi innovazioni nell’epoca in esame, dato che la tradizione era saldamente attestata (già dal xiii secolo con Yakut al-Muta‘simi a Baghdad) e il conservatorismo era fortissimo. Ancora una volta si potrebbe scrivere delle influenze di Tabriz, Damasco, Il Cairo…; sono comunque proprio le variazioni interne, le sottili differenze di proporzione e stile a rendere unici e inconfondibili agli occhi esperti degli intenditori i lavori dei calligrafi. Ovviamente gli esempi più eclatanti sono i Corani e le raccolte di Hadith, anche se non mancano saggi diversi; il primo nome da citare è quello di Sheikh Hamdullah (attivo fino al 1520), ma il più celebre, e celebrato, fu Ahmad Karahisari (morto nel 1556) al quale succedette Hasan Çelebi

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1. Due pagine di una sezione di un Corano manoscritto in thuluth e corsivo dal celebre Maestro Ahmad Shamsaddin Karahisari (+ 1556). Istanbul, tsm, inv. e.11.416, fol. 1v-2r.

(non a caso adottato come figlio da Karahisari) del quale abbiamo già segnalato le iscrizioni monumentali da lui eseguite su testi predisposti dallo Sheikhülislam Ebussuud, per la Süleymaniye di Istanbul e per la Selimiye di Edirne, due fra i più importanti edifici di Sinan. Un particolare tipo di documento è il firmano (ferman; dal persiano “ordine”) usato nelle circostanze più varie e del quale esistono splendide raccolte a Istanbul (tsm e mtia), ma, significativamente, anche a Venezia (Archivio di Stato, Museo Civico Correr). Questi editti – vi sono anche corrispondenze con i sovrani europei – hanno una disposizione consequenziale classica di origine diplomatica; principiano con una invocatio, poi la intitulatio e la inscriptio, seguita a seconda dei casi da una narratio o dispositio (con possibile comminatio) e conclusa dalla corroboratio e data e luogo di promulgazione. La parte artisticamente più rilevante è la tughra o firma; ogni sultano ha la sua e vi compaiono nomi e titoli. Quella di Solimano il Magnifico può servire perfettamente da esemplificazione. Al Topkapi si conserva un grande pannello (tsm; inv. gy. 1400; 167 × 247 cm) che indubbiamente doveva essere appeso nella cancelleria e servire da modello per amanuensi e calligrafi. Le campiture interne della tughra sono pressoché invariabilmente floreali, in questo caso minuti tralci floreali di evidente ascendenza safavide, e ci portano a un altro gruppo di artisti – questi rigorosamente anonimi – dei laboratori imperiali: i decoratori o, con un brutto neologismo, illuminatori. Sono costoro che daranno un’impronta precisa alla produzione artistica ottomana; naturalmente essi operavano a strettissimo contatto con i calligrafi, ne guadagnavano la stima e fiducia, con un lavoro oscuro ma la cui complementarietà nella creazione di opere straordinarie non può sfuggire né essere misconosciuta. Dall’esame dei frontespizi dei Corani e delle decorazioni dei margini dei manoscritti si impara molto, se non tutto, sull’arte ottomana. Qui, intendiamo in tale contesto che è d’équipe, si stabili-

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Süleyman

xah

b.

Selim

xah

al-mu{affar da*iman

2. Scomposizione e lettura della tughra di Solimano il Magnifico (r. 1520-1566). Da Rogers-Ward, Suleyman the Magnificent, Londra 1988.

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ían

tratti ornamentali che completano il disegno

3. Monumentale tughra (158 × 240 cm.) di Solimano il Magnifico (r. 1520-1566), forse opera di Kara Memi, e probabilmente esposta come modello nella Cancelleria Imperiale. Istanbul, tsm, inv. gy 1400.

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4. Rilegatura di Corano copiato dal Maestro Sheikh Hamdullah (n.1520). È un perfetto esempio di disegno a medaglione centralizzato e del più elegante repertorio floreale. Sulla costola una esortazione a non toccare il Sacro Testo senza aver compiuto le abluzioni. Istanbul, mtia, inv. 402 (33,4 × 23 cm). 5. Rilegatura (prima metà del xvi secolo) in cuoio stampato e dorato dell’opera poetica di Solimano il Magnifico (r. 1520-1566). Istanbul, mtia, inv. 1962 (26,5 × 16 cm).

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scono e sviluppano stili artistici e predilezioni che avranno enorme rilevanza in tutti gli altri media artistici. Rilegature. Ancora una volta, nonostante il consapevole rischio di abusare di una definizione, siamo di fronte a una produzione artistica fondamentale; per esemplificare diciamo che non si può trattare compiutamente l’arte del tappeto ottomano ignorando i motivi delle legature, in cuoio ma anche laccati. Tradizione, continuità, innovazione; sono questi i cardini su cui ruota il mondo delle rilegature. Egitto e Siria mamelucche e Asia Centrale e Persia timuridi, lo “stile internazionale” stabilitosi nel Quattrocento, sono le basi solidissime sulle quali gli artisti – i quali avevano accesso alla straordinaria biblioteca imperiale e al Tesoro del Topkapi, ricordiamolo – hanno potuto esercitare il proprio magistero. Non molto ci resta del periodo di regno di Maometto ii (1444-1446/14511481) e di Bayazid ii (1481-1512), ma sappiamo che il primo fu un bibliofilo accanito, a differenza del figlio che disperse il patrimonio paterno. Una delle difficoltà concernente lo studio delle rilegature è data dal riutilizzo di matrici e punzoni la cui popolarità è stata longeva e anche il reimpiego di vecchie rilegature per ospitare testi, datati, più recenti. Non sembrerebbe un fenomeno rilevante quello dell’influenza occidentale, mentre, viceversa, nelle rilegature rinascimentali italiane si riscontra talvolta un “gusto” marcatamente orientale. I motivi a schema geometrico ripetuto all’interno del campo sono prevalenti nel Quattrocento, ma il medaglione centrale (con quarti di medaglione angolari) fa già la sua comparsa. L’interno dei piatti delle rilegature è spesso decorato con motivi ritagliati a filigrana; J. Raby ha proposto in modo convincente che questa sia l’origine di alcuni motivi dei tappeti Uxak a medaglione centrale e di alcuni cosiddetti “a stella”, retrodatando di circa un secolo i più antichi esemplari. Del resto, già nel 1427 Ja‘far al-Baysunghuri (calligrafo attivo nell’atelier di Herat del principe timuride e appassionato bibliofilo Baysunghur), ci informa che i disegni prodotti per le legature venivano utilizzati anche dai fabbricanti di tende, quelle tende che depredate ai nemici in varie campagne belliche (in Iran, Siria, Egitto), venivano orgogliosamente rimontate nelle grandi occasioni festive sull’Ippodromo di Istanbul. Si veda, in proposito, la documentata monografia che alle tende ottomane ha dedicato N. Atasoy (Otaé-i Hümayun. The Ottoman imperial Tent Complex, Istanbul 2000). Dunque le influenze orientali sono in campo già da tempo. Il motivo floreale a tutto campo (o con il singolo medaglione centrale, ripetuto e con cantonali) si afferma definitivamente nel primo Cinquecento, in un tripudio di rumi e hatayi. Questi stili non furono inventati certo di sana pianta, ma ebbero uno sviluppo graduale. Di sicuro un ruolo chiave nella loro evoluzione lo ebbe Baba Naqqax (m. dopo il 1475), il maestro più importante e originale fra quanti lavorarono alla corte di Maometto ii. La foglia di saz (canna, ma forse, osserva M. Rogers, può essere un’allusione alla “giungla”, alla “foresta incantata” nella quale si muovono animali feroci e fantastici, draghi e fenici, cari alla tradizione di Herat del Quattrocento, ma presenti massicciamente negli album decorativi del Topkapi, h. 2152, 2153, 2160), viene a essere impiegata ubiquamente a metà Cinquecento, nella ceramica, nei tessuti, nell’oreficeria, ma gli esempi più antichi sono nei disegni a margine di pagine illuminate, e, appunto, nelle rilegature dei manoscritti. Le foglie di saz, ma anche i boccioli di peonia, i fiori di loto, i garofani, le rosette e i tulipani hanno un’affermazione notevole e segnano la nascita di un vero e proprio stile floreale (in turco xukufe), seguendo i motivi stilistici prodotti da Kara Memi (m.

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ca. 1570), allievo di Shah Kulu (attivo fra il 1520-1556), e responsabile del laboratorio di disegno e in quanto tale artista assai influente e fra i più celebrati dai Turchi. Shah Kulu, va ricordato, era di origini turche e fu a sua volta allievo del grande miniaturista persiano Aqa Mirak, uno dei capiscuola safavidi di Tabriz, giungendo alla corte ottomana già formatosi dopo la vittoriosa campagna persiana di Selim i. Metalli. Abbiamo già scritto della conquista di Costantinopoli del 1453 e della curiosità artistica e culturale del suo primo artefice, Maometto ii. Una conferma dei suoi ampi interessi e di un approccio di larghe vedute, anche occidentali, è data, oltre che dal suo celeberrimo ritratto, ora alla National Gallery di Londra, attribuito a Gentile Bellini (la permanenza del veneziano a corte è certa, l’autografia del dipinto un po’ meno…), anche da almeno due note medaglie di conio europeo che lo rappresentano. La prima è ancora attribuita al Bellini e sul recto, accanto al busto del sovrano reca la scritta «magni sultani f mahometi imperatoris», mentre sul verso si trovano tre corone di foggia occidentale (le conquiste dei regni d’Asia, di Grecia e Trebisonda) e l’iscrizione, sempre latina, «gentiles bellinus venetus eques auratus comesq. palatinus f.», a suggerire un’autopromozione dell’autore quale artista di corte, sé medesimo commemorando più che il sultano turco. A Costanzo da Ferrara, invece, si deve un analogo ritratto a mezzo busto del re con l’iscrizione: «sultani mohammeth octhomani ugli bizantii imperatoris 1481» sul recto, e nel verso, attorno a un’effigie equestre: «mahometh asie et greti imperatoris imago equestris in exercitus». Pratica, quella delle medaglie commemorative, assai più occidentale che non islamica; se ne rammenta comunque anche una con raffigurato Solimano il Magnifico (meno bella di quelle citate e attribuita ad Alfonso Lombardi) con impressa la dicitura «solyman. imp tur». Queste medaglie sono certamente da accostare alle incisioni e pitture a olio destinate a illustrare le vite degli uomini celebri, un genere di larga diffusione e popolarità nel Cinquecento europeo. Un “complemento di arredo” pressoché immancabile nelle moschee era una coppia di grandi candelieri posti ai lati del mihrab. La forma di tali oggetti – base troncoconica sormontata da un disco su cui si innesta il portacandela cilindrico a più stadi – è in perfetta continuità con gli esemplari di produzione selgiuchide. Un esemplare in bronzo dorato particolarmente interessante è conservato al mtia (inv. n. 139), e proviene dalla moschea di Bayazid ii a Edirne (costruita fra il 1484 e il 1488), sebbene poi sia stato trasferito alla moschea Selimiye, sempre a Edirne, e da qui al museo nel 1911. Oltre che per le dimensioni ragguardevoli (quasi 90 cm di altezza e un diametro di base di 70), il candeliere si segnala per la massiccia iscrizione in stile epigrafico thuluth: un elemento di ispirazione mamelucca; il contenuto è il celebre versetto della “Sura della Luce” (xxiv; 35) quanto di più adatto allo scopo. Gli elementi decorativi sono ispirati all’opera di uno dei più celebri artisti (designers) ottomani, il già ricordato Baba Naqqax (attivo fino al 1475), calligrafo e decoratore al quale si deve l’elaborazione di uno stile floreale basato su elementi (lo hatayi, ovvero motivo alla cinese, e il rumi, cioè alla bizantina) i quali, rielaborati e sviluppati autonomamente, formeranno i cardini di quel peculiare linguaggio ornamentale ottomano che guarda contemporaneamente a Est e Ovest, pur nella sua sostanziale individuale originalità. La collezione del Museo di Istanbul conserva un’altra coppia di candelieri di grandi proporzioni (inv. n. 95; h. cm 117; diam. base cm 75.5) in argento. La forma è quella consueta e la superficie è lasciata liscia

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6. Gentile Bellini, recto e verso di una medaglia in bronzo con il ritratto di Maometto ii. Oxford, Ashmolean Museum (Douce Collection). 7. Testiera per cavallo (xvixvii secolo) in rame dorato (tombak) con il tamgha (marchio) dell’armeria imperiale di Sant’Irene. Firenze, Museo Stibbert, inv. 6696. 8. Brocchetta in zinco con agemina in oro e applicazione di turchesi e rubini, databile al 1530 ca. La forma riprende un prototipo timuride. Istanbul, tsm, inv. 2-2874. 9. Grande candeliere in bronzo dorato proveniente dalla moschea Selimiye di Edirne. Istanbul. mtia, inv. 139 (diam. base 70.3 cm.; H. 89 cm).

ad eccezione di cinque eleganti medaglioni apicati con arabeschi, ovvero rumi. Essi provengono dal monumento sepolcrale di Sultan Ahmed i e l’iscrizione su uno di essi li data al 1640, a documentare la longevità di tale modello che doveva essere diffusissimo nelle moschee. La pura forma di questi oggetti contrasta con l’eccesso di decorazione di altri reperti (come le brocchette di cui parleremo di seguito) che appaiono quasi ridondanti. È un contrasto tipico di tutta l’arte islamica, non solo di epoca ottomana. Nel Cinquecento saranno molto popolari una serie di brocchette (alte una ventina di centimetri) su piede ad anello con corpo globulare, alto e ampio collo cilindrico, coperchio emisferico e manico spesso desinente con testa di drago. La tipologia (attestata anche in giada) è di derivazione timuride centroasiatica (tanto diffusa che anche i Medici a Firenze ne possedettero un esemplare, oggi al Museo Nazionale del Bargello) ed è stata ripresa anche in ambito persiano safavide. Se nei prototipi più antichi timuridi la decorazione era spesso epigrafica su fondo floreale (quasi sempre con distici di poeti persiani), la versione ottomana di frequente presenta elaborate variazioni (anche con trafori a giorno in oro poi applicati sulla superficie) degli hatayi e dei rumi, non di rado con l’inserimento di pietre semipreziose quali la turchese e rubini (più rare ma non assenti le perle). L’insieme è opulento e

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sontuoso (anche nel caso nel quale prevalgono le decorazioni incise floreali), certamente con l’intento di stupire assemblando insieme quante più differenti tecniche artistiche possibili, molto ricercato, anche se talvolta caratterizzato da un gusto decisamente pesante. In un voluto gioco di contrasti segnaliamo, invece, la grande diffusione di oggetti decorati con la tecnica della doratura (in turco tombak), molto spesso caratterizzati da un’estrema semplicità di forme. Il Seicento e il Settecento vedranno aumentare le influenze europee occidentali (non “comparire” perché i contatti furono sempre molto intensi, anche se in quella fase si può parlare di una moda straniera); peraltro va ricordato come la conquista dei Balcani abbia fornito un notevole incremento delle materie prime disponibili e che nei registri delle corporazioni di artigiani e artisti a vario titolo impiegati nelle svariate lavorazioni non siano una minoranza quelli di origine serba o mitteleuropea. Europa occidentale vuol dire, in questo caso, stili barocco e rococò; entrambi, superfluo dirlo, molto apprezzati nel mondo ottomano ove se ne facevano buone imitazioni. Ceramiche. Parlare di ceramica ottomana significa parlare di Iznik, l’antica e gloriosa Nicea conciliare, conquistata dal sultano Orhan Gazi già nel 1331. Indubbiamente la posizione geografica (non lontano da Istanbul) ha avuto un ruolo importante, ma, più di tutto, ha certamente pesato la facile reperibilità e l’abbondanza in loco di ottime materie prime, in particolar modo un’argilla naturalmente abbastanza depurata oltre a svariati tipi di ossidi. Inoltre, le fornaci di Iznik, che in una certa fase, diciamo alla metà del Cinquecento, avevano capacità produttiva industriale, sono state scavate archeologicamente dal prof. O. Aslanapa, il che ha fornito dati preziosi per stabilire una cronologia interna abbastanza rigorosa. Una ventina d’anni fa è stato pubblicato un ponderoso e documentato volume (N. Atasoy; J. Raby, Iznik. The Pottery of Ottoman Turkey, Londra 1989), al quale ben poco resta da aggiungere ancora oggi. Ovviamente una produzione così impegnativa e longeva (consideriamo una dimensione temporale di almeno un paio di secoli abbondanti, dal Quattrocento fino alla metà e oltre del Seicento), ha attraversato varie fasi. Probabilmente gli inizi sono da rintracciare negli ampi sommovimenti di genti (e dunque anche artigiani e artisti) originati dalle imprese belliche ottomane, con un’attenzione particolare al mondo orientale, non solo persiano ma anche siriano. Il cosiddetto “vasellame di Mileto” è così chiamato dall’archeologo Friedrich Sarre che ha reperito un’ingente quantità di frammenti negli scavi di quel classico sito e ne ha attribuito la fabbricazione a fornaci locali. È una classe ceramica caratterizzata da una vigorosa pittura in blu cobalto su ingobbio bianco sotto un’invetriatura trasparente con un corpo ceramico di terracotta rossa e che rimpiazza una decorazione incisa ad argille dipinte, sempre su un corpo rosso. Le analogie con la ceramica timuride centroasiatica (ma anche con quella persiana e la siriana – reperti di Hama) sono davvero cogenti, a parte le notevoli difformità degli impasti. Questo ci porta a considerare come in un vastissimo territorio a dominazione musulmana, nel Quattrocento, i ceramisti abbiano compiuto un notevole sforzo per imitare quei prodotti che erano dominanti sul mercato e tecnologicamente più avanzati: le porcellane cinesi blu e bianche. È questa (del blu e bianco, non della porcellana…) un’invenzione risalente alla dinastia forestiera mongola degli Yuan (1279-1368), poi perfezionatasi con l’egemonia dei Ming (1368-1644). E non va dimenticato, come hanno brillan-

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10. Piatto in ceramica dipinta in blu e bianco sotto invetriatura (Iznik, 1480 ca.), con pseudoepigrafia cufica e motivi nello stile di Baba Naqqax, Parigi, Museo del Louvre, inv. 6321. 11. Piatto in ceramica dipinta in blu e bianco sotto invetriatura (Iznik, 1480 ca.), e motivi nello stile di Baba Naqqax, L’Aia, Gemeentemuseum Den Hag, inv. oc 16-36.

12. Piatto in porcellana cinese di epoca Ming (xvi secolo), con al centro grappoli d’uva. Kuwait City, Dar al-Athar al-Islamiyya, inv. lns 769C. 13. Piatto con decorazione di tre grappoli d’uva di imitazione cinese. Iznik, xvi secolo. Washington, The Freer Gallery of Art.

temente dimostrato gli studi di M. Medley e Y. Crowe, che la ceramica blu e bianca nasce per una committenza dei mercanti musulmani stanziati nei porti della Cina meridionale e a imitazione dei grandi vassoi metallici. La tradizione selgiuchide, tuttavia, non sarà completamente accantonata. Nel campo dei rivestimenti parietali ceramici policromi (come negli edifici di Bursa descritti nei capitoli precedenti), sarà la tecnica cosiddetta della “cuerda seca” (un sottile cordino imbevuto di olio o materiale refrattario permette la separazione dei colori che, fondendo a temperature diverse, tendono a “sbavare” e invadere il campo limitrofo sovrapponendosi; toccando queste ceramiche è avvertibile una certa scabrosità nel punto in cui il cordino è bruciato e in assenza di colore), a emergere, una tecnica non a caso estremamente popolare proprio in Asia Centrale (Samarcanda ma non solo), in quelle terre dalle quali i Turchi provengono. Dunque la Cina alle spalle. Ma il tramite sono certamente stati i vasai persiani, probabilmente provenienti da Tabriz. Lo si osserva nello splendido rivestimento murale della Muradiye di Edirne (1421) con mattonelle esagonali in blu cobalto e bianco con disegni del repertorio floreale. Non è un caso la similitudine, tecnica e formale, con le piastrelle damascene

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ascrivibili al primo Quattrocento. E in effetti i vari stili convivono, talché nella stessa Muradiye il monumentale mihrab, uno dei più belli nel suo genere, è policromo e decorato con la sopra descritta tecnica della “cuerda seca”. Ancora alla Cina è opportuno guardare per il consolidamento del primato di Iznik nella ceramica d’uso della fine del Quattrocento e degli inizi del secolo successivo. Le ripetute incursioni ottomane nell’Azerbaijan persiano con la presa di Tabriz (1514) ad opera di Sultan Selim, non solo porteranno a corte valenti artisti e artigiani, ma anche, come dimostrano i registri di accesso del Topkapi Sarayi (R. Krahl; N. Erbahan, Chinese Ceramics in the Topkapı Saray Museum, 3 voll., Londra 1986), autentiche porcellane cinesi il cui possesso ben presto divenne uno status symbol, porcellane rastrellate in prima persona dal sultano il quale ne rivendicò una sorta di monopolio. Ai membri della corte rimase la strada dell’imitazione tramite le botteghe di Iznik o forse di Kütahya, un importante centro manifatturiero non distante da Iznik e che vivrà la sua stagione più importante dal Settecento a tutt’oggi. Abbiamo la fortuna di poter dimostrare tale procedimento almeno attraverso una tipologia, caratterizzata da piatti di porcellana cinese dipinti con tre grappoli d’uva, foglie di vite e pampini. Orbene dall’iniziale copia pressoché perfetta dell’originale (e potremmo quasi pensare che si trattasse di “false porcellane”) si passa a un’interpretazione molto più libera che si discosta sensibilmente dall’originale anche per l’aggiunta del colore turchese del tutto sconosciuto nella porcellana estremo orientale. Lo stile più antico a cavallo fra i due secoli, Quattrocento e Cinquecento, è quello detto di “Abramo di Kütahya” dal nome iscritto in armeno sotto una brocchetta datata agli inizi del xvi secolo (1510) (British Museum, oa, g.1983.16), ed è caratterizzato dai due soli colori blu e bianco (che poi quest’ultimo è solo lo sfondo) in un equilibrato rapporto fra loro. In questa produzione

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14. Gentile Bellini, particolare della pala Il miracolo al ponte di san Lorenzo (1500 ca.). L’abito del personaggio in secondo piano è decorato con un motivo simile a quello del manico del coltello e della caraffa. Venezia, Gallerie dell’Accademia. 15. Caraffa in ceramica con decorazione policroma spiraliforme sotto l’invetriatura. Iznik, 1545 ca. Già a Bologna nel Museo Cospiano nel 1677. Bologna, Museo Civico Medievale, inv. 1303. 16. Manico di coltello decorato con un motivo di spirali simile a quello eseguito sulle ceramiche a Iznik a metà Cinquecento. Venezia, Museo Civico Correr, inv. 95.

17. Piatto in ceramica dipinto in policromia sotto invetriatura. Iznik, 1550 ca. Parigi, Museo del Louvre, inv. k 3499. 18. Piatto in ceramica dipinto in policromia sotto invetriatura. Iznik, 1540 ca. Lisbona, Museo Calouste Gulbenkian, inv. 818.

spiccano alcune lampade da moschea, indubbiamente con una forma che riprende e imita i più antichi esemplari in vetro di fabbricazione mamelucca (eseguiti sia in Siria sia in Egitto; notevole è la collezione del Museo Islamico del Cairo); il piede ad anello e gli anelli di sospensione ne permettevano un duplice uso. Dieci sono gli esemplari pervenutici (M. Rogers; R. Ward, Suleyman the Magnificent, Londra 1988) di cui quattro provenienti dalla sepoltura di Bayazid ii (m. 1512) a Istanbul. Il decoro è a fogliami e volute con brani coranici e invocazioni religiose oltre ai consueti nomi (Allah, Muhammad, ‘Ali…). La cronologia interna dei vari stili che possiamo attribuire ai vasai di Iznik non è del tutto chiara, sebbene il già citato ampio studio di Atasoy e Raby costituisca molto di più che non una solida base di discussione. Più o meno contemporaneo al gruppo “Abramo di Kütahya” è quello che veniva denominato “Corno d’Oro” dai frammenti trovati nel 1905 a Istanbul nella zona di Eminönü/Sirkeci, ovvero alle spalle della Yeni Valide Cami, durante gli scavi di fondazione dell’edificio delle Poste Centrali. Un frammento fra i tanti, ancora una volta iscritto in armeno, è datato al 1529. La decorazione in bianco e blu, ma che può comprendere tocchi in turchese e verde salvia, è principalmente costituita da esili tralci con fiorellini e foglioline disposti secondo uno schema spiraliforme concentrico regolare; la similitudine con alcune firme monumentali dei sultani sui firmani imperiali è all’origine della denominazione di “stile tughra”. Questi pezzi sono piuttosto particolari anche nella forma: vi sono “tondini”, una specie di scodellino con larga tesa (morfologia rinascimentale italiana) e anche una caraffa (a Bologna, Museo Civico; è un pezzo già nel Museo Cospiano e dunque è attestato dagli inizi del Seicento), il che, insieme a un’accertata imitazione in maioliche liguri (Albisola nel Savonese), e alla circostanza che numerosi esemplari sono stati reperiti in

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Italia, suggerisce che tali manufatti siano anche stati pensati per l’esportazione nella Penisola. Al Museo Civico Correr di Venezia e al Nazionale del Bargello a Firenze si conservano due manici di coltello in osso col medesimo decoro (ma si veda anche l’impugnatura di una scimitarra di Solimano il Magnifico, resa ancora più complessa da una applicazione di arabeschi in oro tsm, inv. 2.3776), anche se a nostra conoscenza la più singolare attestazione è quella dell’abito di uno spettatore fra la folla dipinto a Venezia da Gentile Bellini (!) nel Miracolo al ponte di san Lorenzo, alle Gallerie dell’Accademia di Venezia. Infine notiamo come in realtà i motivi disegnati da Cipriano Piccolpasso nel suo trattato Li tre libri dell’arte del vasaio (1538 ca.) per servire a modello del decoro “alla porcellana” non siano troppo dissimili da quelli adottati a Iznik. A metà Cinquecento la paletta dei ceramisti si arricchisce di nuove tonalità; il fondo è sempre un bianco lattescente immacolato e, oltre al blu e al turchese, troviamo un bellissimo verde oliva (o salvia) e un bruno violetto ottenuto con ossido di manganese. Tutti colori sfruttati in scala e con variazioni tonali. Probabilmente è questo il momento di massimo splendore della produzione vascolare islamica ottomana di Iznik; anche le dimensioni sono ragguardevoli (con grandi piatti che sfiorano e talvolta superano i 40 centimetri di diametro), ma soprattutto è la concezione decorativa a essere mutata. Il repertorio è in prevalenza se non esclusivamente floreale; grandi boccioli fioriti con l’introduzione di una caratteristica lunga foglia lanceolata e seghettata (il saz) nella cui campitura possono anche comparire fiorellini. La superficie dei piatti (ma sono noti anche bacini e vasi) è trattata a mano libera con grande facilità e naturalezza; viene abolito il confine tra centro del piatto, cavetto e bordo di modo che l’intera superficie sia coperta da motivi di eccezionale eleganza che comunicano un senso di freschezza.

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19. Brocchetta in ceramica dipinta in policromia sotto invetriatura. Iznik, xvii secolo. San Pietroburgo, Museo Ermitage. 20. Bottiglia in ceramica dipinta in policromia sotto invetriatura. Iznik, 1570-75. Il motivo dei velieri in mare è particolarmente elegante. Napoli, Museo Nazionale della Ceramica “Duca di Martina”, inv. 939. 21. Boccale in ceramica con decorazione in policromia dipinta sotto invetriatura. Iznik, fine del xvi secolo. Faenza, Museo Internazionale delle Ceramiche, inv. 21218/C. 22. Pannello di mattonelle ceramiche a decorazione floreale dipinte sotto invetriatura. Lisbona, Museo Calouste Gulbenkian, inv. 1668.

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Tecnicamente i colori (sotto un’invetriatura trasparente e spesso su un corpo artificiale in pasta fritta) sono molto ben controllati ed è raro osservare sbavature. Alcuni elementi cinesi, ormai entrati a far parte stabilmente del repertorio ottomano, continuano a comparire, come una versione deformata e quasi irriconoscibile del bordo cinese di “onda che si frange sullo scoglio”, risolta con una serie di cerchietti concentrici, o i motivi nastriformi (i cinesi chi-chi, popolarissimi anche nei tappeti) e a nuvoletta stilizzata. Una lampada da moschea (datata al 1549) ora al British Museum (ao 87-5; 16.1) proviene dalla cupola della Roccia di Gerusalemme ed è elegantemente iscritta anche con brani coranici; non è irrilevante la circostanza che proprio in quegli anni furono intrapresi per volontà di Solimano il Magnifico estesi lavori di consolidamento e restauro di uno dei monumenti di maggior valore simbolico di tutto l’Islam. I ceramisti di Iznik nella seconda metà del Cinquecento trovarono il modo di produrre grazie al “bolo armeno” (kilermeni, una terra particolare già usata nel processo produttivo della doratura) uno straordinario e brillantissimo colore rosso ceralacca o pomodoro. Spesso a rilievo questi splendidi tocchi di rosso (di frequente usati con parsimonia) sono perfettamente intonati al resto delle ornamentazioni e costituiscono una delle espressioni più alte dell’abilità tecnica e artistica degli anonimi vasai ottomani. È l’apogeo di una grande industria e di una grande arte. Il rosso si staglia nettamente sul fondo bianchissimo (e il corpo può essere in terracotta o anche, con maggiore frequenza, in pasta artificiale con alta percentuale di silicio, composto detto “pasta fritta”) e la fantasia degli artigiani si è sbizzarrita sia nelle forme (per esempio dei curiosi boccali, una tipologia derivata da quelli in peltro da birra dell’Europa centrale e settentrionale), sia nelle tipologie decorative. Belli e particolari sono alcuni ornati geometrici, epigrafici e quasi naturalistici, come le vele dei caicchi che sembrano solcare le acque blu del Bosforo o del Mar di Marmara. I primi oggetti decorati in rosso sono di grande qualità sia nel disegno, sia, tecnicamente, nel controllo dei colori; il successo di tali produzioni, probabilmente, fornì la spinta decisiva all’incremento della domanda per mattonelle parietali. La tradizione dei rivestimenti parietali quattrocenteschi (a Bursa nel complesso Yexil, a Edirne nella Muradiye, col mihrab ma anche con la pannellatura esagonale in blu e bianco in stile siro/tabrizeno) con la tecnica della “cuerda seca” verrà soppiantata a metà Cinquecento dalle industrie di Iznik; si ricordino le ceramiche per il mausoleo del compianto principe Xehzade (1547) e quelle ai lati del mihrab della Süleymaniye (1557), in un crescendo che avrà il suo picco più alto a Rüstem Paxa (intorno al 1560) e poi nella moschea di Sokollu Mehmed Paxa. Non vi sarà dunque più spazio, o questo sarà ridimensionato, per gli artisti che decoravano i piatti a mano libera, dal momento che l’attività principale sarà quella di corrispondere agli ordinativi sempre più pressanti e numericamente cospicui della corte per seguire l’intenso programma costruttivo di Solimano il Magnifico e Selim che, come abbiamo visto, aveva in Sinan il suo straordinario interprete. La “riconversione industriale” ebbe come conseguenza un progressivo decadimento della qualità degli oggetti, che già nel Seicento denunciavano limiti nel disegno, stancamente ripetitivo, e nel controllo dei pigmenti (col verde ramina e il blu cobalto che tendono a sbavare). Probabilmente devono essere sorti degli inconvenienti tecnici, a livello di cottura, forse per un’incompatibilità a far coesistere la precedente paletta con l’aggiunta, ormai irrinunciabile, del rosso. Non è azzardato sostenere che la massiccia produzione seriale di pia-

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23. Tazzina in ceramica con decorazione stampata e dipinta in policromia sotto invetriatura; Kütahya, xviii secolo. San Pietroburgo, Museo Ermitage. 24. Brocchetta in ceramica con decorazione floreale dipinta sotto invetriatura; Kütahya, xviii secolo. San Pietroburgo, Museo Ermitage.

25. Caffetano in seta con decorazione floreale a tutto campo. Forse appartenuto a Xehzade Bayazid († 1561). Istanbul, tsm, inv. 13.37.2. 26. Caffetano in seta policroma broccata con decorazione a griglia floreale ripetuta su fondo rosso. Tradizionalmente attribuito al guardaroba di Selim i (r. 1512-20). Istanbul, tsm, inv. 13.46.

strelle parietali – comunque una delle glorie del mondo ottomano – abbia compromesso la possibilità della fascia più propriamente artistica di Iznik legata alla fabbricazione e decorazione vascolare. L’esito sarà un’inarrestabile decadenza di Iznik alla quale corrisponderà una ripresa delle fornaci di Kütahya (delle quali sappiamo abbastanza poco) che, evidentemente, avevano mantenuto una loro importanza. Qui era stanziata un’importante comunità armena e nel Settecento le fornaci lavoreranno a pieno ritmo spesso proprio su committenza locale. Fra i colori più caratteristici di Kütahya è da registrare un bel giallo brillante che dona una notevole vivacità alla produzione, con piatti, tazzine, bicchieri anche con sperimentazione di opere traforate e impresse, talvolta con data iscritta. I soggetti sono abbastanza vari, comprese raffigurazioni umane e caratterizzazioni religiose cristiane (curiose rappresentazioni di serafini e cherubini…). Una forma particolare (già attestata a Iznik; British Museum, inv. g 1983. 120) è quella di grandi sfere con due buchi apicali di sospensione, ripresa a Kütahya anche in formato più piccolo (come delle uova di una quindicina di centimetri di altezza), e probabilmente destinate a fare da contrappeso nelle catene delle lampade. La superficie sferica avrebbe, inoltre, evitato ai topi di poter correre lungo le medesime catene e raggiungere l’olio delle lampade per nutrirsi! Della ceramica ottomana, e in particolar modo di quella eseguita a Iznik, resta da dire che essa fu estremamente popolare in tutto il mediterraneo. Alla fine dell’Ottocento e agli inizi del Novecento nelle grandi collezioni, nei musei e nelle aste, le ceramiche con il classico colore rosso venivano definite “rodie” in base all’errata convinzione che provenissero dall’isola dove, effettivamente, se ne trovarono un gran numero (per esempio il console francese Salzmann comprò

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fra il 1865 e il 1878 un lotto di 532 pezzi per il Museo di Cluny). In realtà Rodi era solo uno scalo, un po’ come Majorca il cui nome è passato da noi a definire la majolica, quella particolare terraglia importata in Italia dalla Spagna. Vicenda analoga anche a quella delle “candiane”, un’imitazione veneta (padovana o forse vicentina) proprio degli Iznik più popolari, con una produzione notevole e importante in tutto il Seicento, ma le cui intricate vicende e attribuzioni esulano da questo contesto se non per la doverosa segnalazione del fenomeno artistico che ben documenta i traffici commerciali sulle varie sponde del Mediterraneo. L’ultima produzione turca degna di nota è quella popolaresca di Çanakkalè, fabbricata soprattutto nell’Ottocento e nel secolo scorso. Molto tipiche sono delle grandi brocche con corpo emisferico e ansa a nastro intrecciato e versatoio a forma zoomorfa, con invetriatura monocroma giallo ferraccia, bruna o verde scuro. Tessuti. Anche la produzione di tessuti ottomani è stata particolarmente importante. Non va infatti trascurato il fatto che dal punto di vista strettamente economico le industrie tessili erano, anche sul piano del mero fatturato, trainanti quanto pochi altri settori, escluso l’edilizio. E questo vale anche per i prodotti di lusso, quali sete e velluti, che costituiscono la parte più considerevole fra i reperti che ci accingiamo a descrivere. Un recente volume (Ipek. Imperial Ottoman Silks and Velvets, Istanbul e Londra 2001, a cura di N. Atasoy, W.B. Denny, L.W. Mackie e H. Tezcan) ha analizzato in profondità i vari aspetti legati a tali attività, anche avvalendosi di numerose fonti d’archivio: materie prime, organizzazione del lavoro, produzione, commerci ecc., anche se molte problematiche tecniche e iconografiche non hanno a tutt’oggi ricevuto risposte pienamente soddisfacenti. Le collezioni, importanti, non mancano; prima fra tutte quella del Topkapi (ricchissima di opere ma poco attendibile per le attribuzioni, dal momento che molte etichette applicate ai caffetani paiono essere moderne e con attribuzioni ai più celebri sultani – Maometto ii, Bayazid, Solimano, Selim... – quasi a enfatizzarne l’importanza che è di per sé enorme), seguita dalla raccolta del Cremlino, ancora da studiare integralmente, nella quale sono conservati molti doni (dunque opere databili con una certa precisione) fatti agli Zar a seguito delle frequenti ambascerie. La veste d’onore era il materiale di scambio per eccellenza in simili circostanze. Ma molti musei in Europa e negli Stati Uniti d’America conservano esemplari tessili importanti; in Italia la raccolta più considerevole, frutto delle donazioni Carrand e Franchetti, è quella del Museo Nazionale del Bargello a Firenze, che conta almeno una quarantina di opere e fra queste alcuni pezzi unici e non pochi capolavori. Due sono i centri manifatturieri principali dell’impero: Bursa e Istanbul. A Bursa era tutta l’economia della città a ruotare intorno al tessile con un’organizzazione sociale strutturata in corporazioni o gilde che esercitavano un attento controllo sulla produzione; a quel centro va assegnata la palma di località preminente, sia per la produzione di materia prima quale la seta (ma in termini assoluti il materiale grezzo turco non era sufficiente ed era necessario ricorrere all’importazione, in specie dalla Persia il che, nei periodi di frequente conflitto con quel Paese, ha complicato le cose e contratto l’offerta di opere finite), sia per la fabbricazione e la commercializzazione. A Istanbul c’erano, lo abbiamo già scritto, i laboratori imperiali (non solo il naqqaxkhane che probabilmente era più legato alle attività legate alle arti del libro), ed erano attivi gli artigiani dell’ahl-i Hiref («Gente di talento»), alle dirette dipendenze della corte e in particolare di Rüstem Paxa negli anni nei

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27. Banda di tessuto (kiswa) in seta con filo d’oro decorata con iscrizioni a carattere religioso e impiegata per coprire la Ka‘ba a Mecca. Di probabile produzione turca o egiziana, 1570 ca. Istanbul, tsm, inv. 13.1649.

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quali egli fu potentissimo Gran Vizir; operai stipendiati con un doppio sistema, a rendita fissa e a commissione. Fra i due centri si deve essere stabilita una certa competizione, anche se dai documenti traspare come per esempio i velluti, almeno fino alla metà del Cinquecento, fossero sotto il controllo monopolistico delle botteghe di Bursa. Degli inizi del Cinquecento è un bellissimo tessuto (tsm inv. 13.1515), parte di una tenda con iscrizioni in persiano e arabo e bellissimi tondi arabescati ancora legati nella concezione a quello che è stato acutamente definito lo “stile internazionale” islamico di stretta ascendenza timuride. Non abbastanza nota è la produzione di Kiswa (il tessuto che tradizionalmente copriva la Ka’ba alla Mecca), un ampio frammento del quale – dominato da una vigorosa iscrizione thuluth in filo d’oro di contenuto coranico (iii, 96-97 e la basmala ripetuta) – è conservato al Topkapi (tsm, inv. 13.1649). Gli stili comunque cambiano sotto la supervisione degli ateliers di corte (e come accennato un ruolo fondamentale, forse, più che ai miniaturisti e decoratori dei manoscritti, va assegnato ai rilegatori ovvero agli artefici delle copertine dei manoscritti) ed è un tripudio esclusivamente floreale. Un ostacolo alla classificazione è dato dalla terminologia tecnica (decine e decine di termini non sempre di agevole interpretazione) che compare con abbondanza negli inventari, negli editti relativi alle regolamentazioni e nelle pratiche commerciali. Le sete sono chiamate atlas, un satin monocromo che quando è marezzato viene denominato muhayyer. I più clamorosi esempi di tessuti serici, come i due descritti dinanzi, sono i kemha, sete policrome a fondo raso e trama a spina che può avere anche un filo metallico, generalmente

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28. Caffetano da bambino in satin rosso decorato con l’antico motivo regale del çintamani. Forse appartenuto a Selim ii (r. 1566-1574). Istanbul, tsm, inv. 13.1015. 29. Tiziano, Deposizione (dal 1585 nella Collezione reale di Spagna). Sulla veste di Giuseppe di Arimatea è dipinto il motivo del çintamani. Madrid, Museo del Prado, inv. 441. 30. Portfolio per Corano in velluto rosso broccato d’argento. Il motivo çintamani è arricchito in ciascun cerchio da una sfera interna che crea il disegno del crescente lunare. Istanbul, tsm, inv. 13.1891.

31. Sottoveste talismanica in lino bianco con iscrizioni religiose e ben augurali e quadrati magici, appartenuta a Xehzade Selim (Selim ii prima dell’accesso al trono), firmata e datata 1564-1565. Istanbul, tsm, inv. 13.1133.

argento dorato, ma anche oro, su un’anima di seta, gialla o bianca. I serenk (terminologia iranica: a tre colori) non hanno filo metallico e sono a tre colori con il giallo che rimpiazza l’oro quando alcune regolamentazioni suntuarie ne inibiranno il dispendioso uso. Sono invece seraser quei tessuti, broccati, nei quali il metallo ha un peso notevole. I velluti sono denominati kadife anche con la variante kadife-i du havi (il nostro velluto “alto/basso”), e i più pregiati per qualità vengono chiamati chatma. Non si può trattare il tema dei tessuti omettendo di segnalare la particolare relazione che si stabilì, soprattutto dalla seconda metà del Quattrocento a tutto il Cinquecento, fra la produzione ottomana e quella veneziana dei velluti. I documenti d’archivio e i famosi Diarii del cronachista veneziano Marin Sanudo (1466-1536) chiariscono come il dono atteso, e talvolta preteso, dalle ambascerie in entrambe le direzioni, fosse quello della “veste d’onore”, con tipologie diverse a seconda del rango del personaggio al quale era destinata. Fin qui niente di strano nell’ambito dei rapporti di “buon vicinato”; senonché le regolamentazioni a cui erano sottoposte le corporazioni tessili sulle due sponde del Mediterraneo e che conosciamo abbastanza nel dettaglio mostrano assonanze e similitudini che non possono essere frutto di fortuite coincidenze. Insomma, se a Venezia si stabiliva una certa dimensione di altezza dei telai (in genere un “braccio”, circa 67 cm), la stessa era adottata a Bursa; così il numero minimo di orditi e la qualità della seta e i colori. Veneziani e Turchi ottomani, non si imitavano, si copiavano proprio! Per questo, specie in assenza della cimosa, senza criteri scientifici di analisi tecnica, è ancora oggi pressoché impossibile distinguere gli uni dagli altri sulla base di labili criteri stilistici.

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I caffetani erano il capo di abbigliamento più usato dagli Ottomani, i quali puntavano non tanto sullo stile sartoriale, quanto sulla qualità dei materiali e sulla vivacità delle decorazioni. Si tratta di abiti interi tagliati dritti con girocollo tondo e busto sagomato (spesso con una fila di bottoni dal collo fino alla vita) e parte inferiore svasata. Si conoscono caffetani a mezza manica o intera (spesso molto lunghe), oppure con maniche applicabili. Senza dubbio la maggior parte delle vesti doveva essere monocroma e piana; fra i motivi preferiti è d’obbligo segnalare quello d’origine centroasiatica detto çintamani, popolare anche in altri materiali, quali le mattonelle ceramiche, che consiste in tre sfere sovrapposte intervallate o meno da una coppia di strisce ondulate. La probabile origine è la stilizzazione del manto di un felino (una tigre, per le doppie linee ondulate) e della zampa di questo (le tre sfere), un motivo molto antico e che ha assunto un carattere preciso legato alla regalità. Fu di esclusivo appannaggio del sovrano ottomano e per questo risulta sorprendente l’uso che ne fa Tiziano nella sua Deposizione del Cristo conservata al Museo del Prado di Madrid, dove veste Giuseppe di Arimatea. Se i disegni geometrici non mancano nei caffetani, sono comunque i temi floreali a prevalere di gran lunga. Talvolta a tutto campo come nel bellissimo caffetano con fioriture policrome su fondo blu scurissimo (tsm, inv. 13.37), attribuito a Xehzade Bayazid (un principe assassinato nel 1561), oppure con disegni ogivali sfalsati campiti da infiorescenze (frequente l’impiego del tulipano in associazione col

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32. Particolare di un velluto cremisi broccato in argento con il motivo di un tulipano che sostiene petali di garofano stilizzati. San Pietroburgo, Museo Ermitage.

33. Domenico Ghirlandaio, Madonna in trono, (1480 ca.). Particolare del tappeto turco ai piedi della Vergine Maria. Firenze, Galleria degli Uffizi, inv. 881.

garofano, la rosetta e il giacinto), come in alcune pezze di tessuto del Bargello a Firenze (inv. 2518/C; 2521/C; 2466/C). Le fantasie impiegate dai tessitori sono davvero notevoli, sia per la qualità dei disegni, sia per l’assortimento dei colori, vivacissimi. Un particolarissimo “capo di abbigliamento” è una sottoveste “talismanica”, in lino dipinto con versetti del Corano e anche con quadrati numerici magici e numeri singoli, legati alla scienza dell’abjad (numerologia; con forti assonanze con la kabbalà); una di queste, conservata al Topkapi (tsm, inv. 13.1133) è datata al 1564-1565 ed era, evidentemente, parte dell’abbigliamento di un sultano o di un principe. Non meno raffinati sono i velluti utilizzati anche nell’arredamento (molte fodere di grandi cuscini; la misura standard era di 63 × 110 cm, adatta, dunque al divan); uno dei disegni preferiti è quello del garofano stilizzato (talvolta sostenuto da un bocciolo di tulipano, a sottolineare il valore simbolico e astratto del fiore), disposto in file parallele e sfalsate. Molto popolari sono stati anche i ricami, anch’essi con un repertorio in prevalenza floreale, di fine esecuzione. I fazzoletti ricamati erano molto ricercati, e anche i sash (cinture tessili o fusciacche con le due estremità spesso decorate sontuosamente) costituivano, già nel Seicento pur se il picco della loro moda sia del secolo successivo, un elemento importante di distinzione. Nel xviii secolo – e poi nel successivo con sconfinamento agli inizi del ’900 – i velluti piani vengono broccati con pesanti motivi in filo metallico, pescando da un repertorio che non esitiamo a definire islamico/barocco. Queste ultime

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produzioni si sono affermate in tutto l’impero ottomano e ottimi laboratori furono quelli albanesi e balcanici in genere, com’è dato osservare nelle principali collezioni etnografiche locali. Tappeti. Per loro stessa natura questi manufatti permettono una lettura approfondita dell’arte ottomana, ovvero della civiltà di un grande impero multietnico e multiculturale a vocazione mediterranea che mai dimenticherà le proprie origini nomadi. Convivono infatti nei tappeti – oggetti facilmente trasportabili e che da soli creano uno spazio definito e ornato – mondi diversi: i grandi spazi delle moschee e dei palazzi e padiglioni, accanto alle tende degli accampamenti regali, alle semplici “preghiere” per uso personale. Sul piano strettamente tecnico c’è assoluta continuità fra gli esemplari selgiuchidi e quelli successivi: la lana è il materiale di gran lunga prevalente e il sistema di annodatura per molti anni sarà quello simmetrico. I tappeti turchi sono opere anonime, frutto di un grande artigianato artistico tendente a trasformarsi in industria con un percorso analogo a quello delle ceramiche di Iznik, ma con minore individualismo perché nel caso dei tappeti il lavoro in tutte le sue fasi è sempre collettivo. L’anonimato è un ostacolo a una corretta ricostruzione della storia dei tappeti, ma non il maggiore. La mancanza di date certe di fabbricazione e di criteri scientificamente attendibili, definiti e incontrovertibili di analisi, oltre a una naturale tendenza alla riproposizione di modelli iconografici già affermati e collaudati (con variazioni spesso marginali, come nelle differenti interpretazioni delle bordure), rendono le attribuzioni abbastanza aleatorie e congetturali. In questo quadro largamente pessimistico un aiuto ci viene dalla rappresentazione di tappeti nella pittura europea, e in particolare italiana, tardo medievale e rinascimentale. Queste pitture sono datate e, dunque, costituiscono un supporto indispensabile per le nostre considerazioni critiche. Con un’avvertenza però; non sappiamo, per esempio, se alcuni tappeti dipinti dagli artisti di cui non troviamo riscontro nei reperti conservatisi sono frutto di una licenza o interpretazione del pittore o più semplicemente non ne rimane traccia per ragioni che possono essere le più disparate. L’elenco dei pittori, celebri o meno, che hanno inserito tappeti nelle loro opere (molto spesso in un contesto relativo alla Madonna, come abbiamo già osservato) è decisamente impressionante. Se su Giotto possiamo avere dei dubbi legittimi (probabilissimi materiali orientali; il punto è se siano tappeti annodati, stuoie, kilim, o tessuti, magari pesanti broccati…), Ghirlandaio, Ambrogio Lorenzetti, Beato Angelico, Giovanni di Paolo, Sano di Pietro, Niccolò da Buonaccorso, Raffaellino del Garbo, Antonello da Messina, Hans Holbein, Bellini, Crivelli, Memling, Paris Bordon, Carpaccio, Lorenzo Lotto, Jacopo Bassano, Caravaggio, fra gli altri, sono fonti primarie. A questo si aggiungano le fonti archivistiche (ottimo e ben documentato il recente lavoro di M. Spallanzani, Oriental Rugs in Renaissance Florence, Firenze 2007), le quali chiariscono come siano l’Egitto mamelucco (e probabilmente anche Damasco), oltre all’Anatolia le principali aree di importazione. Non v’è traccia della Persia che, a giudicare da fonti secondarie e non sempre attendibilissime (le miniature), nel Quattrocento produceva tappeti a schema geometrico non troppo dissimili da quelli turchi, ma la cui voga europea è documentata a partire dagli inizi del xvii secolo. Nel Quattrocento la tipologia più diffusa è quella animalistica, e cioè con animali singoli o affrontati nel campo secondo uno schema ripetuto con o senza inquadramento geometrico (può essere un esagono o un ottagono). Il più celebre esemplare è il tappeto ora a Berlino (inv. n. i. 4), acquistato da W. von Bode in una chiesa italiana agli inizi del secolo scorso e che presenta il motivo,

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34. Tappeto con la stilizzazione di un drago e di una fenice, xv secolo. Acquistato in Italia da Wilhelm von Bode nel 1886. Berlino, Museum für Islamische Kunst, inv. i 4. 35. Tappeto turco con animali stilizzati, xiv-xv secolo. New York, The Metropolitan Museum of Art, inv. 1990.61. 36. Tappeto turco con decorazione geometrica “a rode”, xvi secolo. Istanbul, mtia, inv. 417.

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fortemente stilizzato, ripetuto due volte, di una fenice che si confronta con un drago, indubbiamente di ascendenza centroasiatica e che trova un raffronto pittorico preciso in un’opera di Domenico Morone. Analogo per schema, con due uccelli affrontati e un albero della vita centrale, è il tappeto di Marby in Svezia (Stoccolma, Statens Historika Museum, inv. n. 17786). Animali stilizzati compaiono anche in un esemplare al Metropolitan Museum of Art di New York (inv. n. 1990.61), al mtia di Istanbul e al Museo d’arte islamica di Doha Qatar. Per questi tappeti non è stato individuato con sicurezza un centro produttivo (potrebbero anche essere caucasici), mentre sarà Uxak, nell’Anatolia centro occidentale, la regione più accreditata e prolifica in fatto di tappeti dal xv secolo in avanti. Konya, Ankara e Çemixgezek (che, come M. Rogers ha acutamente suggerito, potrebbe essere il luogo d’origine dei “cimiscasa”, trascrizione ben assonante del toponimo, che compaiono in molti inventari

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37. Andrea Mantegna, Pala di san Zeno; particolare di un tappeto cosiddetto “Holbein” a piccolo disegno. Verona, Chiesa di san Zeno, 1456-59. 38. Particolare di un tappeto turco cosiddetto “Holbein” a piccolo disegno, xvi secolo. Berlino, Museum für Islamische Kunst, inv. 1882.894. 39. Tappeto turco cosiddetto “Holbein” a piccolo disegno, xvi secolo. Berlino, Museum für Islamische Kunst, inv. 1882.894.

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40. Tappeto turco cosiddetto “Lotto”, xvi-xvii secolo. Firenze, Museo Bardini, inv. Bd 523. 41. Tappeto turco cosiddetto “Uxak a stelle”, xvi-xvii secolo. Milano, Museo Poldi Pezzoli, inv. 52. 42. Particolare di un tappeto turco cosiddetto “Lotto”, xvii secolo, con gli stemmi nobiliari delle famiglie genovesi Doria e Centurione. New York, The Metropolitan Museum of Art, inv. 1972.80.8.

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italiani) sono altre provenienze rese plausibili in base a varie congetture, ma nessuna in grado di scalfire il ruolo preminente di Uxak. I tappeti non erano tutti dello stesso livello e nemmeno fatti per lo stesso scopo; i grandi formati, adatti a coprire i pavimenti delle moschee (è possibile immaginare che questi fossero lasciati al libero arbitrio di un patchwork insensato?), evidentemente erano fatti su ordinazione e i disegni (secondo la lezione di Julian Raby) hanno analogie, e forse dipendenza, da quanto venivano proponendo gli artisti rilegatori e illustratori dei manoscritti già alla corte di Maometto ii il Fatih dalla seconda metà del Quattrocento. Contemporaneamente si affermano formati diversi – destinati ad ampia fortuna e replicati per almeno un centinaio e più d’anni – dominati da un disegno geometrico imperniato su uno o più “medaglioni” esagonali o ottagonali, con elementi di riempitivo più piccoli. In turco sono gul (fiore, rosa), e negli inventari italiani questi tappeti vengono definiti “a roda” (la suggestione di vedervi “rosoni” geometrici come quelli vetrati delle grandi cattedrali è forte), distinguendoli a seconda del numero di queste “ruote” (motivi ottagonali, talvolta concentrici, a girandola) che compaiono nel campo. È un tappeto di questo genere quello che Piero della Francesca mette ai piedi della Vergine nella sua opera oggi conservata a Milano (Pinacoteca di Brera). Analogo, per impostazione, è il tappeto del Ritratto degli Ambasciatori di Hans Holbein (Londra, National Gallery), e al nome di questo artista sono associati anche tappeti con piccoli gul ripetuti nel campo a file, e colori, sfalsati. Splendido, e preciso salvo che nelle frange poste in posizione errata per ragioni interne alla composizione, è il tappeto della medesima tipologia ai piedi della Madonna nella pala di san Zeno a Verona dipinta da Andrea Mantegna (1456-59). La decorazione in ceramica invetriata policroma della Moschea Blu di Tabriz (1465) è coerente con la produzione di alcuni uxak, e una integrazione fra pareti e pavimenti coperti di tappeti è qualcosa di più di una semplice ipotesi. Gli “Uxak a stelle”, con un disegno particolare già quattrocentesco, ma anch’esso sopravvissuto a lungo, sono noti in Italia e il trevigiano Paris Bordon ne inserisce uno sotto il trono del Doge (significativamente ritratto nella stessa posizione che è prerogativa di Maria) nel dipinto celebrativo della Consegna dell’anello al Doge (Venezia, Accademia, 1534). Va da sé che i tappeti nella pittura oltre a un valore simbolico (la cui problematica, da noi indagata altrove, è oltremodo significativa), documentano una diffusione importante del manufatto in Occidente. L’importazione avveniva a vari livelli, anche se difficilmente può essere considerata un fenomeno di massa; certamente si trattava di uno status symbol. Un ruolo chiave lo ebbero Venezia (ma pure a Firenze e Ancona vi era un intenso traffico), dove i tappeti giungevano in prevalenza via mare e il cui commercio era controllato dalla comunità ebraica. La conferma è soprattutto documentaria, e la vicenda del Lord Cancelliere inglese Cardinale Wolsey che nel 1518-1520 chiede, e ottiene!, 60 tappeti da Venezia, dimostra come la Repubblica esercitasse all’epoca una sorta di monopolio sulla piazza. La via terrestre dei commerci era altrettanto sviluppata, anche se i formati in questo caso erano sensibilmente più piccoli; un caso emblematico è quello della Transilvania (regione dell’attuale Romania al confine con l’Ungheria), area nella quale nelle chiese sassoni (dunque caratterizzate da una estrema sobrietà decorativa all’insegna di una spinta aniconicità), si è conservata una straordinaria quantità di tappeti turchi (seicenteschi e settecenteschi), molto probabilmente da considerarsi una sorta di pedaggio pagato dai mercanti come tassa di transito in cambio di servizi offerti dalle comunità.

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A Xibiu, e soprattutto a Braxov le raccolte più significative. Una delle tipologie più classiche in questo contesto (commerciale e di esportazione, ma non solo) è quella dei tappeti a fondo rosso con decorazione arabescata in giallo e tocchi occasionali di altri colori (blu, nero, marrone). Sono quei tappeti che hanno acquisito la denominazione di “Lotto”, nonostante quel pittore non sia stato l’unico o il più assiduo nel rappresentarli. Però sappiamo dal suo Libro de’ Conti che egli possedeva due tappeti, all’occorrenza impegnati per far fronte alle avversie di una vita disordinata, e, plausibilmente, inseriti nelle sue opere, la più interessante delle quali, parlando di tappeti, è la pala della Elemosina di Sant’Antonino (1554) ai Santi Giovanni e Paolo a Venezia, nella quale compare in primo piano sulla balaustra un tappeto ad arabeschi gialli e, in secondo piano, un forse più significativo e raro cosiddetto para-mamelucco. L’origine del motivo è indubbiamente piuttosto antica, e ha probabilmente a che fare con gli ornati parietali ceramici, forse persiani selgiuchidi; a ben vedere si tratta infatti di uno schema derivato dalla giustapposizione (sfalsata e riprodotta all’infinito nella tradizione cara a tutta l’arte islamica) di un ottagono alternato con una parte cruciforme smussata ai vertici. Ne esistono moltissime varianti (catalogate in un notevole saggio di C. Grant Ellis in tre

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43. Tappeto turco da preghiera. Melas, xviii secolo. Collezione privata. 44. Fiasca di cristallo di rocca con montatura in oro e applicazione di smeraldi e rubini, seconda metà del xvi secolo. Istanbul, tsm, inv. 2.9. 45. Brocchetta in zinco con intarsi in oro e argento e applicazione di turchesi, perle e rubini, prima metà del xvi secolo. La forma, come nella fig. 8, riprende quella di un prototipo timuride. Istanbul, tsm, inv. 2.2871. 46. Anonima incisione veneziana del 1532 con la raffigurazione di Solimano il Magnifico (r. 1520-66) che indossa una tiara prodotta da un consorzio di gioiellieri veneziani. Londra, British Museum, inv. p&d 1845.8-19.1726.

stili diversi: anatolico, kilim e ornamentale), da esemplari nei quali il disegno di fondo è a cerchi (ma visibili solo da una certa distanza), ad altri nei quali semplicemente distanziando ottagono e croce si ottiene un risultato tutt’affatto differente. La popolarità dei “Lotto” è altresì affermata da un esemplare (New York, Metropolitan Museum of Art, inv. n. 1972.80.8) che reca in alto lo stemma delle famiglie genovesi Doria e Centurione, un esotico dono di nozze. Affascinato dai tappeti fu sicuramente Vittore Carpaccio che ne ha inseriti numerosi soprattutto nel grande ciclo di “teleri” fatto per la Scuola veneziana di Sant’Orsola (due sono le date di riferimento che compaiono nei dipinti: 1490 e 1495), oggi alle Gallerie dell’Accademia di Venezia. In questo contesto è particolarmente interessante l’Incontro e partenza dei fidanzati) con in bella mostra tappeti appesi alle balaustre (così si usava a Venezia nelle occasioni festive come ci racconta Marin Sanudo), alcuni dei quali classificabili come appartenenti alla tipologia “a rode”. Essi non trovano riscontro preciso nella coeva produzione turca; abbiamo ipotizzato che, visto il momento nel quale Carpaccio li ha dipinti, essi possano essere tappeti spagnoli di imitazione turca (ovviamente una tale manifattura è attestata) giunti a Venezia a seguito di importanti e ricche famiglie ebraiche dopo la loro cacciata dalla penisola iberica nel 1492.

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47. Scudo in vimini rivestito in seta con umbone metallico, xvi-xvii secolo. Venezia, Museo Civico Correr. 48. Elmo cerimoniale turco in ferro con agemina d’oro e applicazione di turchesi e rubini, metà del xvi secolo. Istanbul, tsm, inv. 2.1192. 49. Pettorale di corazza in acciaio con agemina d’argento, xvi secolo. Firenze, Museo Stibbert, inv. 6266. 50. Turcasso in cuoio coperto con velluto rosso broccato con filo d’argento dorato, xvi secolo. Firenze, Museo Nazionale del Bargello, inv. m 391.

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Nel valutare la produzione ottomana matura dobbiamo considerare sia la forza di una tradizione ben consolidata, sia l’impatto che all’inizio del Cinquecento hanno avuto sulle arti ottomane, tappeti compresi, la presa temporanea di Tabriz (1514) e la successiva disfatta e conquista di Siria ed Egitto. Al Cairo sappiamo essere stata attiva un’importante tradizione di botteghe e officine di annodatura con standard produttivi molto alti, quantitativamente e per qualità. Le fonti ci raccontano che nuclei di artigiani dei tappeti emigrarono con armi e bagagli (ovvero materie prime e forse anche telai), alla corte ottomana al seguito di Selim i. L’impatto anche visivo fu indubbiamente forte. Se vi furono alcune incertezze nella centralizzazione dei disegni a medaglione centrale (illustrate bene da un esemplare al Musée des Arts Décoratifs a Parigi), indubbiamente la novità tecnica (venne usato il nodo asimmetrico, o persiano, più adatto alla definizione dei disegni curvilinei, con indubbio vantaggio per l’armonia delle composizioni) fu assorbita molto bene. Un grande tappeto ottomano è conservato a Palazzo Pitti a Firenze e rappresenta la continuazione di una locale tradizione di gusto, ben attestata dai tappeti comprati dai Medici a prezzi che per l’epoca possiamo solo definire proibitivi. L’esigenza di tappeti di lusso per soddisfare i bisogni di una corte assai raffinata portano anche all’impiego della seta; un grande tappeto da preghiera in seta con nicchia monocroma rossa è conservato nella collezione al-Sabah a Kuwait City ed è un capolavoro. Per l’arredamento delle moschee divengono popolari i saf (preghiere multiple), con varie nicchie – con una lampada pendente al centro, ovvio richiamo alla “Sura della Luce” (Cor. xxiv, 35) –, campite o determinate da quelle infiorescenze che sono tipiche di tutta l’arte ottomana. I tappeti di grande formato al mtia di Istanbul appaiono davvero enormi, ma affacciandosi dalle finestre di quello che era il palazzo di Ibrahim Paxa e vedendo di fronte la Moschea Azzurra di Sultan Ahmet i, si capiscono bene le ragioni di tale apparente gigantismo; ciò non toglie che l’impegno tecnico e organizzativo di tali botteghe dovesse essere davvero formidabile. La produzione tarda, in questo caso ottocentesca, presenta ancora barlumi dell’antico splendore, pur essendo perlopiù commerciale. Vittorio Emanuele in una visita a Istanbul del 1890 non del tutto a torto li definisce «di gusto infetto», mostrando, invece, di apprezzare i coevi esemplari turcomanni, i cosiddetti Bukhara. Ma le preghiere di Ladik, Melas, Mucur, Konya, i tappeti Karapinar e quelli di Smirne, sono tutt’ora apprezzabili nei loro esiti migliori, nonostante l’introduzione dei coloranti artificiali (aniline) verso la fine dell’Ottocento abbia definitivamente compromesso un’arte vivace solo, ormai, nelle sue produzioni cittadine e nomadi le quali non ci interessano nel presente contesto. Resta da fare almeno un cenno all’ancora controversa questione dei tappeti (35 esemplari, tutti nel tesoro del Topkapi a Istanbul e di analogo formato; fra i 180 cm di altezza per 120 di larghezza) in lana spesso broccata con filo metallico e annodati con nodo asimmetrico, caratterizzati da uno schema a nicchia (sajjadah o preghiera) con abbondante uso di iscrizioni coraniche o comunque di contenuto religioso. Essi costituiscono senz’altro un gruppo omogeneo e specifico ed è strano che solo questi, di fatto, compaiano nelle collezioni imperiali, peraltro in un superbo stato di conservazione. M. Rogers e H. Tezcan nel volume a essi dedicato (The Topkapı Saray Museum. Carpets, Londra 1987) propendono per una fabbricazione (a Istanbul o Hereke) abbastanza tarda del xix secolo, anche se altre possibilità (per esempio una fabbricazione persiana) non sono da escludere.

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Gioielli e Armi. Trattiamo, brevemente, queste due produzioni insieme perché molto spesso le armi sono gioielli! Di primo acchito risalta subito come in epoca ottomana matura si sia affermata la moda, in verità quasi una mania, di tempestare di pietre preziose o semipreziose una qualsiasi superficie; troni, selle e finimenti per cavalli, cinture, brocche e vasi, specchi, recipienti in giada, rilegature e, ovviamente, impugnature di scimitarre e pugnali. Non c’era una grande ostentazione di gioielli da parte dei sultani; forse erano restii per motivi religiosi. Sono infatti numerosi gli hadith che condannavano l’uso dell’oro per i maschi. Tuttavia una vicenda particolare va raccontata. È quella di una tiara d’oro a quattro piani (simboleggianti i quattro regni del sovrano ottomano), fatta a Venezia da un consorzio di gioiellieri (compreso il bailo/ambasciatore Pietro Zen…) e valutata oltre centoquarantamila ducati, una cifra enorme. Del resto la dettagliata descrizione di Marin Sanudo enumera 50 diamanti, 47 rubini, 27 smeraldi (fra i quali uno, da solo, del valore di quindicimila ducati), 49 perle e un immenso turchese. L’affare, attraverso i buoni uffici di Ibrahim Paxa, al quale era stato donato un prezioso souvenir di unicorno (in realtà un osso di narvalo), funzionò e nel 1532 l’opera – probabilmente mai indossata dal sovrano, nonostante esistano almeno tre ritratti xilografici più o meno coevi – fu acquistata per centoquindicimila ducati. I gioielli più in voga sono stati senza dubbio dei grandi puntali in oro, spesso tempestati di pietre, usati come ornamento per il turbante. In oro massiccio e destinati ad ospitare nella parte superiore piume di pavone, struzzo o falco nero, erano tempestati di pietre preziose quali rubini, smeraldi, turchesi, etc.; notevole la collezione esposta al mtia. Una visita, non

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51. Muhammad Siyah Qalam, Danza dei jinn (demoni), xv secolo. Istanbul, tsm, inv. h. 2153 (fol. 64v). 52. Muhammad Siyah Qalam, Lotta di due jinn (demoni), xv secolo. Istanbul, tsm, inv. h. 2153 (fol. 109r).

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cinematografica!, al tesoro del Topkapi è illuminante: è vero che ci sono grandi pietre, ma quello che rendeva unici gli oggetti era la minuziosa lavorazione, talvolta a filigrana (tecnica virtuosistica molto apprezzata), e il gioco dei piani sovrapposti. L’elmo in ferro ageminato d’oro e con rubini e turchesi incastonati della fine del Cinquecento (tsm, inv. n. 2.1187), usato dal sultano nelle parate, insieme a mazze, scimitarre e pugnali di identica ispirazione e lavorazione, documenta l’opulenza di tali opere, forse sovraccariche ma di indubbio impatto visivo, pur se non possiamo nell’insieme definirle di buon gusto. Raffinati sono invece gli anelli da arciere, un accessorio immancabile fra le proprietà personali di un nobile turco, sempre legato alle proprie origini nomadi. Meritano di essere rammentati, in questo ambito, anche gli scudi: alcuni erano laccati (buoni esempi a Venezia nell’armeria granducale), altri in legno di fico o vimini rivestiti in seta policroma con iscrizioni e delicati motivi floreali. Al centro è un umbone in metallo su un supporto ligneo. L’aspetto elegante e ricercato non deve trarre in inganno; questi scudi erano leggeri e maneggevoli e venivano effettivamente usati nei combattimenti come documentano le miniature ma non solo. L’umbone centrale permetteva di deviare le frecce (gli archi compositi orientali erano armi micidiali) e in alcuni pezzi conservati al Civico Museo Correr di Venezia si osservano i buchi prodotti dalle frecce. Non da meno sono i turcassi in velluto broccato con filo metallico in argento o dorato, molto bello l’esemplare conservato al Bargello di Firenze. Miniature. Dell’importanza delle arti del libro abbiamo già scritto in precedenza e quanto questo sia vero è confermato dal numero di opere miniate che

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53. Gentile Bellini (attr.), Ritratto di Maometto ii, (1480). Londra, The National Gallery, inv. 3099. 54. Xiblizade Ahmed (attivo fra il 1475 e il 1500) (attr.), Ritratto di Maometto ii. Istanbul, tsm, inv. h. 2153, fol. 10r.

55. Matrakçi Nasuh, Mecmu‘a-i Menazil (resoconto della campagna militare di Solimano, 1534-1535). Particolare di una visione a volo d’uccello del quartiere di Galata/Pera. Istanbul, Biblioteca Universitaria, inv. t 5964, fol. 8v-9r.

si sono conservate, in particolare nella Biblioteca del Topkapi Sarayi di Istanbul. Una figura eccezionale di pittore fu quella dell’Ustad (maestro) Muhammad Siyah Qalam (ovvero Muhammad “Penna Nera”), artista centroasiatico di difficile collocazione spaziale e temporale; non c’entra con la produzione ottomana ed è figura unica (senza allievi o seguaci) che, come tale, sfugge a una catalogazione precisa. Ma non si può trattare l’arte turca escludendolo o ignorandolo: dunque gli dedichiamo un breve paragrafo, consci della problematicità di una tale scelta nel presente capitolo. Il corpus dell’opera pittorica dell’artista è principalmente conservato al tsm di Istanbul con immagini di sua mano incollate su due celebri album voluti dal sovrano turcomanno della dinastia Aqqoyunlu Ya‘qub Beg (h. 2153), e consta di numerose pitture (il lavoro di riferimento è quello di M.S. Ipxiroélu, Siyah Qalem. Vollständige Faksimile Ausgabe der Blatter des Meisters Siyah Qalem aus dem Besitz des Topkapı Sarayı Muzesi, Istanbul und Freer Gallery of Art, Washington, Graz 1976), di diversa tipologia, per tecnica e soggetti rappresentati. Il qalam-siyah è una tecnica pittorica a tratto con inchiostro nero nota nel mondo musulmano già nel xiii secolo e che potremmo definire quasi a schizzo (ma niente di frettoloso); sono fogli isolati da un contesto scritto e hanno a che fare con un’arte non ufficiale, estranea agli ateliers di corte. Muhammad Siyah Qalam – nonostante abbia colorato (pochi colori: rosso, nero, blu e qua e là tocchi di bianco e dorature) le sue opere – può essere avvicinato a tale tradizione, e di qui forse il nome. Insomma, si tratta di un pittore non ufficiale, fuori dagli schemi. I suoi soggetti sono in certa misura sconcertanti: scene di vita quotidiana di una comunità nomade

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centrasiatica – sciamani, dervisci, mistici sufi? Non sappiamo, ma ciascuno di questi soggetti sembra rientrare nel suo mondo –, caratterizzata anche da figure di etnie diverse; di nuovo ci è ignoto. Accanto a queste rappresentazioni quotidiane, vivide e concrete, i suoi temi preferiti hanno a che fare con una serie di creature mostruose, ma umane, caricaturali (forse dei jinn, gli spiriti benigni e maligni schiavi di Salomone e di cui parla anche il Corano) talvolta ritratti in intensa conversazione o in lotta fra loro, quando non sembrano affaccendati in rituali anche sanguinosi (per esempio lo smembramento di un cavallo; tsm, inv. n. h. 2153, fol. 40v). Non sono tutte opere di uguale livello artistico e a un esame ravvicinato mostrano qualche sbavatura e difetto compositivo, ma hanno una straordinaria forza espressiva e ci è già capitato di definirle inquietanti. Il loro ambito è di certo centrasiatico; c’è comunque un’influenza cinese, sia perché alcune opere sono su seta, sia perché mancano completamente di riferimenti paesaggistici (come nella tradizione sinica di alcuni rotoli orizzontali), e sono collegate ad ambienti religiosi magari sincretici. In Asia c’erano comunità nestoriane, buddiste, manichee, zoroastriane, sciamaniche e sufi, peraltro con confini non troppo ben definiti. Lo stile pare tardo trecentesco (o quattrocentesco), e quanto al loro uso l’ipotesi che ci sembra più convincente, seguendo l’analisi della studiosa F. Çagman, è che si tratti di materiale impiegato da un cantastorie itinerante – lo stesso Siyah Qalam? – e che questi disegni (o bozzetti) servissero per illustrare l’ampia casistica di racconti popolari tramandati oralmente e dei quali oggi si è persa ogni traccia. In ogni caso una gran mano che ci apre uno squarcio su un mondo parallelo del quale vorremmo sapere molto di più. È a Edirne – capitale ottomana dopo Bursa – che nel Quattrocento è attivo un laboratorio imperiale, responsabile di molte opere. Fra queste un ruolo importante spetta a un manoscritto dell’Iskendername («Libro di Alessandro») di Ahmedi conservato a Venezia alla Biblioteca Nazionale Marciana (ms. Or. 57), eseguito alla metà del xv secolo con 66 miniature e associabile, per affinità stilistiche, a una copia del Dilsuzname («Libro della Compassione») di Badi alDin Minuchir al-Tabrizi (conservato alla Bodleian Library di Oxford) che nel colophon reca l’indicazione del luogo, appunto Edirne, e la data dell’esecuzione 1455-1456. Nel manoscritto veneziano si riscontrano almeno quattro differenti esecutori, uno dei quali si ispira palesemente ai contemporanei modelli di Shiraz. Anche Maometto ii ebbe un laboratorio a Istanbul, ma non abbiamo testi miniati che si possano attribuire a sua committenza. Celebre è il suo ritratto attribuito a Xiblizade Ahmed, allievo di Sinan Bey, e databile al 1480 ca. (tsm, inv. n. h. 2153, fol. 10r) nel quale il sultano annusa una rosa (tema ripreso da altri artisti ottomani), probabilmente un’allusione mistica al paradiso e al Profeta Maometto al quale spesso viene associato quel fiore. Certamente fu un periodo nel quale si fece sentire con forza l’influenza europea (non solo di un Gentile Bellini), che continuò anche durante il regno di Bayazid ii; una copia del celebre testo della Khamsa (di Amir Khusrau Dilavi), datata al 1498 ed eseguita ad Edirne, ne è una conferma. Fra fine Quattrocento e inizi del Cinquecento è databile un manoscritto del Suleymanname («Libro di Salomone»; Dublino, Chester Beatty Library; ms. 406) del quale si conserva un doppio frontespizio organizzato in registri orizzontali secondo uno stile occidentale caro alle rappresentazioni dei Giudizi Universali e Apocalissi. Le vittoriose campagne militari di Selim i (1512-1520) e soprattutto quelle di Solimano (1520-1566), come per altri settori artistici, ebbero anche fra i miniaturisti importanti conseguenze. In quest’epoca la pratica di celebrare i sovrani attraverso opere storiche, anche

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56. Nigari (Haydar Reis), Ritratto di Selim ii, 1561 ca. Istanbul, tsm, inv. h. 2134, fol. 3v.

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illustrate, pratica già avviata con Tamerlano, ebbe una decisa accelerazione. Dai sultani veniva commissionato uno splendido manoscritto destinato, per così dire, a rimanere agli atti essendo conservato nel Tesoro del Palazzo. Il Kitab-i Bahriye («Libro della Marina») di Piri Reis, datato 1525-1526, è uno dei più celebri manoscritti a contenuto geografico destinato a Solimano il Magnifico (tsm; inv. n. h. 642) e conta ben 215 illustrazioni con un testo in versi del poeta Muradi. La fortuna di questa tipologia di manoscritti è documentata anche da altri testi come il Tarih-i Sultan Bayazid di Matrakçı Nasuh (è la descrizione della campagna navale nel Mar Nero e nel Mediterraneo di fine Quattrocento; 1530 ca.), che nell’impostazione generale e nei particolari denuncia il suo enorme debito relativo agli isolari e alle stampe occidentali, in particolar modo a quelle veneziane. Il più celebre di questi manoscritti è forse il Mecmu‘a-i Menazil (storia della campagna militare di Solimano del 1534-1535 in Iran e nell’Iraq nord-occidentale) a opera del medesimo Matrakçı Nasuh (1537-1538; Biblioteca dell’Università di Istanbul, ms. t.5964) con vivaci rappresentazioni di varie città che sono particolarmente interessanti anche a livello topografico, come quella con prospettiva a volo d’uccello di Istanbul (fols. 8v-9r) nella quale si distingue perfettamente l’abitato di Pera/ Galata segnato dalla sua inconfondibile torre. La persistente fortuna dei manoscritti geografici ci è testimoniata dal Kitab al Bahr al-Aswad wa‘l-Abyad («Libro del Mar Nero e del Mar Bianco»), di Seyyed Nuh e compilato per Mehmed iv

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57. Levni, Surname-i Vehbi, Corteo delle corporazioni dei calderai, gioiellieri, fabbri e speziali, xviii secolo. Istanbul, tsm, inv. a 3593, fol. 129v-130r.

58. Levni, Surname-i Vehbi, Festa notturna sul Corno d’Oro, xviii secolo. Istanbul, tsm, inv. a 3593, fol. 112v-113r.

(1648-1687), conservato alla Biblioteca Universitaria di Bologna (ms. 3609). La ritrattistica non è un genere praticato, con l’eccezione di Nigari (Haydar Reis (14911572); nigar è parola persiana che significa “pittura”), il quale ci ha lasciato un’immagine – abbastanza realistica – di Solimano il Magnifico già abbastanza avanti negli anni e curvo sotto il peso di molte vicende (tsm, inv. n. h. 2134/8), e un’altra di Selim ii quando era ancora principe a Kütahya (tsm; inv. n. 2134, foll. 3v-4r). Di maniera sono invece i ritratti dei sultani (talvolta recano un fiore in mano, riprendendo la tradizione del ritratto di Maometto ii) eseguiti da Naqqax Osman nel volume intitolato Libro delle Sembianze o Fisiognomica di Seyyed Loqman Axuri e datato al 1579. Al genere storico, molto apprezzato dagli Ottomani, appartiene il Suleymanname («Libro [o Storia] di Solimano») dello storico cronachista Arifi, completato nel luglio 1558 (tsm; inv. n. h. 1517) e scritto in persiano nasta‘liq (una riprova di quanto fosse comunque forte l’influenza iranica), con 69 illustrazioni attribuibili a diverse mani e di buona qualità artistica. Sono rappresentati gli avvenimenti salienti del regno di Solimano: udienze di corte (per esempio con il famoso ammiraglio Hayreddin Paxa, Barbarossa), assedi di città, combattimenti (come la battaglia ungherese di Mohács), feste (circoncisione dei figli Bayazid e Cihangir). La serie di volumi dello Shahname-i Al-i Osman («Storia della Casata Ottomana»), scritti a imitazione del firdusiano Shahnama («Libro dei Re») dal già menzionato storico di corte Arifi (m. 1561-62) su ordine di Solimano, continue-

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ranno a essere scritti e miniati anche con Selim ii e Murad iii per opera di Seyyed Loqman Axuri (che ricoprì l’incarico ufficiale di cronachista dal 1569 fino al 1596-1597). Una miniatura dello Shahname-i Selim Han («Libro [o Storia] del Regno di Selim ii») conservata al tsm (inv. a 3395, fol 9r) rappresenta i quattro principali artefici dell’opera: lo storico Seyyed Loqman, lo scriba/calligrafo Ilyas, e i miniaturisti Osman e ‘Ali. Un’altra interessante categoria di manoscritti fu quella destinata a fornire indicazioni pertinenti, ovvero dei vademecum, per il pellegrinaggio alle città sante di Mecca e Medina, pratica molto incoraggiata (anche con costruzioni ad hoc per ospitare i viaggiatori lungo tutto l’itinerario) dopo la conquista agli inizi del Cinquecento. E si diffuse anche la pratica di eseguire degli “attestati o certificati di partecipazione” (tsm; inv. n. 1812; datato 1544-1545) che sono ricchi di informazioni e artisticamente pregevoli. Nel 1582 ebbe luogo a Istanbul una grandissima festa (durata ben 52 giorni) per celebrare

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59. Mensa in cuoio dorato con decorazione epigrafica, xvi secolo. Ravenna, Museo Nazionale, inv. 10963 (diam. 200 cm). 60. Particolare della mensa in cuoio dorato con decorazione epigrafica, xvi secolo. Ravenna, Museo Nazionale, inv. 10963.

61. Cassone esagonale per Corano. Legno di noce con inserzione di ebano intarsiato in avorio. Eseguito per ospitare una copia del Corano fatta per Bayazid ii (1505-1506). Istanbul, mtia, inv. 3.

la circoncisione dell’erede designato del sultano Murad iii. Abbiamo la fortuna di avere una documentazione pittorica dell’avvenimento. Il Surname-i Humayun (tsm; inv. n. h. 1344) che consta nella sua forma attuale di ben 432 pagine con 427 miniature! Nurhan Atasoy che ha scritto su questo manoscritto una preziosa monografia (Surname-i Humayun, Istanbul 1997) giustamente sottolinea la straordinaria messe di informazioni che se ne possono dedurre per ciò che concerne settori quali: «La vita culturale, sociale ed economica […] non essendo meno importante per la storia dell’arte turca in generale e in particolare per quella della pittura miniata». La compilazione fu opera di Intizami, sotto la supervisione del già menzionato storico di corte Seyyed Loqman e con il Maestro Naqqax Osman a capo di una agguerrita équipe di artisti. A proposito di opere celebrative va ricordato anche il più recente Surname-i Vehbi (dal nome del poeta responsabile del testo), conservato al tsm, con 137 miniature attribuite all’artista

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Levni (m. 1732), uno dei massimi esponenti di quella moda (ma fu qualcosa di più…) che viene ricordata sotto il nome di “epoca dei tulipani”. Arredamento/Legni. Come abbiamo suggerito nelle pagine precedenti, quelle ottomane sono arti “ufficiali” molto legate ai gusti della corte. Si è anche insistito su due aspetti importanti e complementari delle produzioni: da una parte, ateliers centralizzati e legati al naqqaxkhane (come nel caso delle illustrazioni, delle stoffe e in misura quasi monopolistica delle miniature) e dall’altra, centri specializzati in produzioni quasi industriali; su tutte, Iznik per la ceramica e Uxak per i tappeti. I sultani, quantomeno molti di essi, nel secolo artisticamente cruciale, il Cinquecento, passavano lunghi mesi se non anni impegnati in estenuanti campagne militari. Rinunciavano per questo al lusso dovuto al loro rango? No di certo. Gli accampamenti militari costituivano, probabilmente, uno dei luoghi più frequentati dai sultani, e i loro arredi – dalle sontuose tende in seta, ai tappeti, al vasellame – ancorché poco studiati, caratterizzavano forse più di altre espressioni l’arte islamica degli Ottomani. Simbolo di tanta raffinatezza è per noi un oggetto particolare, e pressoché unico, un grande desco (cm 200 di diametro) o una mensa circolare in cuoio dorato su legno (Ravenna, Museo Nazionale, inv. n. 10963), databile alla fine del xvi secolo e possibile bottino cristiano in una delle tante spedizioni militari turche: ovviamente la più celebre e ricca di trofei fu l’assedio di Vienna del 1683 che terminò con una ritirata ottomana. La decorazione del pannello, degno di un grande vizir, è quasi esclusivamente epigrafica in turco e persiano (la lingua della poesia in tutto l’ecumene islamico), con piccoli elementi decorativi di contorno. I testi sono belli e confermano la proprietà di un Paxa; il cartiglio centrale recita: «Giammai nuda di cibi, sia la mensa! / Attenta alle delizie, sia la mensa!». La regione anatolica è particolarmente ricca di legni e abbiamo già visto come porte, scuri di finestre, leggii e soprattutto minbar (spesso eseguiti con la tecnica del mosaico o kundekari) costituiscano un corpus notevole fin dall’epoca selgiuchide. Gli Ottomani amarono molto i legni pregiati e, ancora una volta, le influenze di Persia ed Egitto dopo le rispettive conquiste si fecero sentire con forza. In particolar modo si sviluppò nell’ebanisteria il gusto per l’intaglio e l’inserimento in forma di mosaico di materiali quali l’osso e l’avorio (più tardi anche la madreperla) per creare contrasto e forme decorative eleganti assolutamente in linea con il gusto dell’epoca dominato da motivi geometrici, epigrafie, rumi e hatayi. Gli arredi dei palazzi esistevano, ma quasi niente ci resta e questo per via dei numerosi incendi che hanno caratterizzato, per esempio, la vita di Istanbul. Siamo più fortunati rispetto ad alcune opere (un gruppo se non cospicuo almeno unitario dal punto di vista stilistico) che sono state utilizzate nei numerosi mausolei dedicati ai personaggi più importanti dell’impero. Si tratta di leggii (rahle) per Corani, e più in generale di grandi contenitori o cassoni in legno – sempre per Corani; in genere nel waqf si specificavano le parti e i capitoli del Testo Sacro che andavano letti ogni giorno – vere e proprie architetture in miniatura. Al mtia (inv. n. 12; xvii-xviii secolo) si conserva, fra gli altri, un grande cassone (136 cm di altezza e 65 di profondità), su base ottagonale e coperto da una semisfera (una cupola!); l’ornato è molto fine e tipicamente geometrico con l’uso di ebano (poco) e avorio (anche dipinto), madreperla, guscio di tartaruga e filo metallico. Gli interni ospitano più compartimenti e spesso possono essere dipinti come il cassone (inv. n. 5) dello stesso Museo.

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DOPO SINAN. LA VITA CONTINUA

Allievi e continuatori. Sinan (17 luglio 1588) non c’è più, ma la sua poderosa organizzazione continua. Egli è ancora artefice della moschea Azapkapi (1577; costruita per Mehmed Sokollu Paxa nell’anno del suo assassinio), che in qualche modo ripropone con alcune varianti il modello della Selimiye, abside compreso. Degli ultimi anni di Sinan è la moschea per l’ammiraglio Kiliç ‘Ali, costruita in riva al mare a Tophane. È una replica rivista e rimaneggiata di Santa Sofia, testimonianza concreta di quanto l’architetto abbia imparato dal monumento simbolo dell’architettura romana e bizantina. L’ultima grande opera attribuibile a Sinan fu il complesso (1583) per Nur Banu (Valide Sultan; un termine che designa la madre del sultano regnante, nel caso Murad iii, 1574-1595), sulle alture del quartiere asiatico di Üsküdar. Oltre alla moschea c’era un imaret, un centro di studi coranici con relativi alloggi per i docenti, un ospedale, un caravanserraglio e un doppio bagno a metà strada sulla collina verso una delle prime opere del Maestro: la moschea di Mihrimah. Posizione incongrua forse resa necessaria dalla mancanza di risorse idriche. Architettonicamente non aggiunge molto alla carriera di Sinan pur se gli spazi, vasti e gradevoli, sono risolti con la consueta abilità e questo complesso rappresenta una più che decorosa uscita di scena del gigante. L’attività edilizia ottomana, come s’è visto solo in parte, è stata intensa per tutto il Cinquecento, non solo nelle due capitali (Edirne e Istanbul), ma anche nelle altre città, spesso sedi importanti affidate al governo di ambiziosi Paxa che avevano una sorta di tutela sui principi. Questo è vero per città come Manisa o Amasya; abbastanza difficilmente Sinan visitava i cantieri lontani come Erzerum o Damasco. Il sostituto principale a Istanbul durante le assenze di Sinan era Mehmed Aéa. Certamente egli era un architetto (e non solo; si veda più oltre) capace, ma per un’opera importante quale la moschea di Manisa (voluta da Murad iii, e dunque Muradiye), il prescelto fu tale Mahmud, il quale però morì e fu rimpiazzato da Mehmed Aéa; non sappiamo se interpretare tale scelta come sfiducia nel suo vice o, al contrario, come prova della stima

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del Maestro nel non volersi privare a Istanbul di un suo valido collaboratore. Il complesso/moschea di Manisa è di rilevante qualità: la pianta presenta un porticato a cinque cupole, sala cupolata centrale e tre ambienti rettangolari (compreso quello qibli) coperti da semicupole, sostanzialmente identici come spazio e ben illuminati. I due minareti sono un’indicazione che si trattava di una fondazione sultaniale. L’interno è spazioso e molto luminoso; come d’abitudine anche i particolari, ad esempio il bel minbar in marmo, sono all’altezza; eccellono i rivestimenti parietali con bellissime piastrelle di Iznik con motivi floreali. Del complesso fanno parte un paio di madrase, un imaret, una biblioteca (forse non coeva) e un ospedale, edifici disposti secondo un’accentuata asimmetria, niente affatto sgradevole perché crea un certo movimento, ma che non rientra nei canoni più tradizionali ottomani. Alla morte di Sinan la successione a un ufficio ormai divenuto di grande prestigio e potere non fu semplice. Due i contendenti, Mehmed Aéa e il Soprintendente alle Risorse Idriche Davud Aéa il quale prevalse per via degli ottimi rapporti che intratteneva con il Gran Vizir, Siyavux Paxa. In ogni caso, entrambi avevano notevoli capacità e dato ottima prova di sé in edifici di un certo rilievo (Davud, per esempio, potrebbe aver costruito la moschea a Çarxamba per il potente Capo degli Eunuchi), come la moschea di Nisan di Mehmed Paxa, di incerta attribuzione fra i due, la quale presenta l’innovazione di una corte trasformata in un piacevole giardino. La pianta interna dell’edificio – cui si accede dal consueto portico con quattro cupolette e, al centro, in copertura, una volta a crociera – è sempre a cupola centrale sostenuta da otto pilastri con abside che ospita il mihrab e coperture di semicupole. Anche lateralmente ci sono ambienti analoghi all’“abside” secondo la pianta della Muradiye di Manisa (tutti con quattro finestre) e mantenendo intatto lo schema quadrato di base (salvo due specie di tabhane per ricomporre il fronte di facciata), si gioca sul progressivo mutamento geometrico con slittamento all’ottagono e al cerchio; originale e ben risolto. Il favore del sultano per Davud Aéa è confermato dal fatto che fu questo architetto a costruire il mausoleo del sovrano dopo la sua morte (1595) nel giardino di Santa Sofia (divenuto una sorta di necropoli dei sovrani ottomani) vicino a quella di Selim ii. L’ascesa al trono di Mehmed iii fu accompagnata, more solito, dalla strage dei parenti più prossimi del defunto imperatore; fu la madre del nuovo sultano, Safiye, a pretendere in quanto Valide la costruzione di una nuova moschea, proprio sulle sponde del Corno d’Oro dove si apre il mar di Marmara, nei pressi del bazar delle spezie. La scelta del sito fu quanto mai sbagliata; il problema principale furono le fondazioni perennemente invase dalle acque, e la difficoltà di costruire su tali basi. La Yeni Carni (Moschea Nuova) fu iniziata nel 1597, ma la morte del sultano nel 1603 (e il conseguente allontanamento dalla corte della Valide e la di lei scomparsa due anni dopo) e l’ascesa al trono di Ahmed i, poco propenso alla continuazione dell’impegno, ne hanno bloccato lo sviluppo che fu completato solo nel 1663, un periodo lunghissimo se paragonato alle fulminee realizzazioni cui ci aveva abituati la ferrea organizzazione di Sinan. Per di più la moschea appare una stanca ripetizione della Xehzade modificata, ma senza alcuna originalità; inoltre le molte mani che hanno ripreso la costruzione, potremmo dire già nata vecchia nonostante il nome, non credevano evidentemente nel progetto e l’esito, con una cupola troppo piccola per un impianto altrimenti grandioso (tanto da avere una coppia di minareti), se non disastroso è certamente modesto.

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1. Veduta della Moschea Nuova (Yeni Cami) a Istanbul (1597-1663), opera di Davud Aéa. 2. Esterno della Moschea Nuova (Yeni Cami) a Istanbul (1597-1663).

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Con la scomparsa di Davud Aéa e la riorganizzazione delle magistrature conseguente a ogni nuovo regno (sebbene Ahmed i al momento della sua incoronazione fosse solo un ragazzino tredicenne), la posizione di Mehmed Aéa – allora Soprintendente alle Risorse Idriche, una posizione di lancio ideale per la carica suprema di Architetto Imperiale – si rafforzò ed egli finalmente coronò il suo sogno nel 1606. Egli era cristiano ponentino di nascita (avvenuta nel 1540 ca.); giunto a Istanbul probabilmente come giannizzero una ventina d’anni dopo e da allora distintosi come musicista (!) e come finissimo ebanista e intagliatore, ma anche architetto nella cerchia del Maestro. Ebbe diversi avanzamenti di carriera, titoli più onorifici e remunerativi che di esercizio di reale potere, e nel 1591 divenne una sorta di ispettore dei lavori pubblici (con viaggi nelle città sante, ma pure in Egitto e nei Balcani, sicuramente affinando molto le sue doti con la conoscenza diretta dei principali monumenti), per essere poi Soprintendente alle Risorse Idriche dal 1597. Dal 1609 al 1617, anno della sua morte (e di quella del suo mecenate, il sultano), egli si dedicò anima e corpo alla costruzione della moschea Ahmediye (o di Ahmed i) sull’ippodromo, oggi notissima come Moschea Azzurra. La personalità di Ahmed i era abbastanza scialba, ma non debole; dedito alla caccia e alle donne si fece progressivamente sfuggire di mano le redini del potere e i malumori emersero qua e là in sommosse. Decise quindi di costruire una grande moschea (ma senza alcuna vittoriosa campagna militare come imponeva la tradizione, e a spese dell’erario...), per la maggior “gloria di Dio”, trovando però numerose resistenze e ostacoli soprattutto nel clero organizzato, resistenze che con testarda pervicacia procurò di superare, sempre. Già la scelta del sito – la grande piazza dell’ippodromo sulle rovine del Palazzo bizantino e dove sorgevano le residenze dei Paxa Guzel Ahmed e del compianto Sokollu Mehmed Paxa – fu una sfida temeraria, accresciuta (agli occhi della potente organizzazione degli ulema) dalla volontà di costruire ben sei minareti, una sorta di sacrilegio nella propaganda contraria dei religiosi i quali sostenevano che tale privilegio (erroneo e mai seriamente attestato) fosse riservato solo alla Mecca. Incuranti delle critiche, essi (sultano e architetto) portarono avanti l’opera le cui ingenti spese sono scrupolosamente registrate in ben otto volumi ancora conservati al Topkapi Sarayi. Impresa titanica, tanto più che fronteggia e idealmente rivaleggia con Santa Sofia, affidata come si è detto a Mehmed Aéa del quale si racconta che per prepararsi degnamente al lavoro abbia personalmente visitato i più significativi edifici del vasto impero. La moschea è in asse col Palazzo del Topkapi e offre la sua migliore vista dal mare antistante, con le poderose mura drizzate sui bastioni bizantini, mentre dalla piazza la prospettiva è meno felice, dato che il livello di pavimentazione è il medesimo e la recinzione oscura in parte l’osservazione. I sei minareti (a tre balconi quelli attorno al corpo centrale, solo con due gli altri) sono eccessivi, soprattutto appaiono una forzatura i due agli angoli della corte, verso l’ippodromo, e risultano troppo distanziati dagli altri distraendo la vista e togliendo unità all’insieme. La lezione di Sinan a Edirne con la Selimiye è compresa, ma la necessità di impressionare sfocia in una forzatura e il giudizio è che alla fine Mehmed Aéa abbia esagerato, facendosi prendere la mano dalla voglia di strafare. Non possiamo che condividere il lapidario e arguto giudizio che ne dà G. Goodwin: «Essa aspira alla maestosità e per certi versi la raggiunge, ma non la regge». In ogni caso sono migliori e più risolte le prospettive esterne che non quelle interne; la corte è ampia e ben proporzionata (equivalente per spazio alla sala da preghiera), e anche la

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3. Veduta dalla corte delle imponenti masse murarie della moschea di Ahmed i (Ahmediye) a Istanbul (1609-1617).

Alle pagine seguenti: 4. Veduta della Grande moschea di Ahmed i a Istanbul (1609-1617). 5. La monumentale sala da preghiera della moschea di Ahmed i a Istanbul (1609-1617).

fontana centrale a pianta esagonale e a baldacchino si inserisce naturalmente (soprattutto se vista dall’entrata nord, verso la piazza dell’ippodromo) nella visione scalare e piramidale delle coperture. Qui, però, ancora una volta fedele alla lezione di Sinan per cui interni ed esterni si compenetrano e sono le due facce, reversibili, di una stessa medaglia, l’esagerazione prende la mano, e passato l’iniziale stordimento per le masse enormi, non si può sfuggire a una sensazione di pesantezza. Tale sensazione è confermata dagli interni. Nonostante gli studi fatti da Mehmed Aéa, la pianta a quadrifoglio è una banale riproposizione della Xehzade (non il capolavoro di Sinan, ma il modello più semplice e razionale da imitare), e si imposta su quattro giganteschi pilastri centrali (giustamente definiti a zampa di elefante) che non fanno niente per mascherare il poderoso sforzo statico; ma a questo non corrisponde una altrettanto ampia cupola (sembra una struttura interrupta!) perché il suo diametro è di appena 23.5 metri con un’altezza, conseguente, di 47 metri, dunque un po’ più grande del prototipo (Xehzade), ma più piccola della Süleymaniye. In-

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somma una promessa non mantenuta. La loggia imperiale ostruisce in parte la visuale del mihrab e gli angoli sono poco integrati (un difetto quasi costante, ovviato proprio nella Selimiye); tutto converge verso la grandiosità. Il 75% della superficie è dipinto di azzurro (non blu!) da cui il nome con il quale la moschea è popolarmente conosciuta, e sono più di ventimila le mattonelle (per l’esattezza 21.043 per un esborso totale di 350.958 akçe, come risulta dai minuziosi registri di spesa) fabbricate a Iznik (con la supervisione di Kaxici Hasan) per esclusivo impiego in questa fabbrica, soprattutto nelle gallerie superiori, il che ha privato le fornaci di altre fondamentali committenze... l’inizio della bancarotta. Le fonti ci dicono della particolare predilezione di Ahmed i per quest’arte, e sono numerosi gli editti che proibivano gli ordinativi privati per chicchessia, perfino per i vizir. Con ordini così massicci e poco tempo per la realizzazione anche la qualità ne ha fatalmente risentito: il bianco non è più immacolato (per la saturazione delle atmosfere durante le massicce cotture), e i verdi e i blu tendono a sbavare (con imperfezioni nella invetriatura), mentre i rossi non sono più brillanti e accesi ma tendenti a tonalità più cupe, quasi marrone. Le finestre avevano vetrate colorate ma anche neutre; pure i veneziani, commercianti accorti e sempre attenti a compiacere l’ingombrante vicino, hanno contribuito seguendo e rinnovando la tradizione di un ordinativo di lampade fatto da Sokollu Mehmed Paxa per la sua moschea. Va da sé che la Ahmediye era circondata da un complesso di altri edifici importanti, compresa un’innovativa loggia reale e una madrasa, un imaret, oltre al mausoleo costruito due anni dopo la scomparsa del sovrano e che ospita anche i suoi fratelli. In ogni caso, questa imponente moschea, quale che sia il giudizio critico che se ne vuole dare (il nostro, s’è visto, è fin troppo severo), marca e segna potentemente il territorio e ancora oggi suscita la stupita ammirazione dei visitatori, forse per la grandiosità e anche una certa goffa eleganza, frutto di una scuola architettonica di prim’ordine e di cantieri davvero ben organizzati. La grande fortuna popolare che ha incontrato e incontra la Moschea Azzurra ne fanno ormai un simbolo di Istanbul; magari le ambizioni di Ahmed i e del suo architetto Mehmed Aéa erano sproporzionate, ma il successo che la moschea riscuote dà loro ragione. La preminenza degli edifici e complessi pubblici su quelli privati è incontrovertibile e questo giustifica l’ampio spazio accordatogli in questa sede. Ciò nondimeno la città di Istanbul non si esauriva certo nelle moschee, anche se il loro “disegno” costituiva il più efficace strumento urbanistico. In assenza di una programmazione e strategia urbanistica coordinata (qualcosa di simile ai nostri “piani regolatori”), esistono comunque vari luoghi, a Istanbul, nei quali sono intervenute sistemazioni massicce. Uno dei centri nevralgici da sempre è l’At Meydani, l’ippodromo su cui si affacciano Santa Sofia, la Moschea Azzurra e, in posizione defilata, il Topkapi Sarayi. È da lì che parte un asse viario importante, il Divan Yolu (prezioso, su questo, lo studio di M. Cerasi), vera spina dorsale del sistema che corre su un crinale (a sinistra e destra si scende all’acqua: da una parte il mar di Marmara, dall’altra il Corno d’Oro) e si spinge fino alle estremità delle mura dove si apre la Porta di Edirne, l’altro grande centro urbano di importanza capitale. A parte i resti monumentali della storia passata, assorbiti e fatti propri, come la “colonna bruciata” di Çemberlitax, voluta da Costantino e vero centro geografico e politico di Bisanzio, o l’acquedotto romano di Valente (conservatosi per quasi un chilometro e ancora oggi memoria importante di quanto difficoltoso fosse l’approvvigionamento idrico della città; per questo le numerose cisterne per l’acqua piovana, allo scoperto, o sotterranee, come la

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6. Veduta aerea del complesso del Topkapi a Istanbul; ancora oggi le aree verdi prevalgono su quelle costruite.

Yerebatan nei pressi di Santa Sofia), o ancora la colonna di Marciano... troviamo le antiche chiese bizantine, spesso riconvertite e le nuove moschee; nei pressi di quella di Bayazid ii ha inizio il Grande Bazar, una successione di strade più o meno ortogonali (punteggiate da caravanserragli) che copriva tutta la collina e digradando giungeva al Corno d’Oro, donde partivano e arrivavano linee marittime, sede delle attività commerciali e cuore dell’insediamento. Lungo quella direttrice, ovvero risalendo il Corno d’Oro, si trova il rammentato quartiere di Eyüp (qui, significativamente, si tenevano le incoronazioni reali), ovvero la necropoli della città. Sul versante opposto, ma sempre sulla stessa sponda, nei pressi di dove ora troviamo la moschea di Sokollu Mehmed Paxa sorgevano delle attività cantieristiche, anche in questo caso reminiscenti di una tradizione antica e consolidata, quale quella del porto di Bucoleone. E dall’altra parte del Corno d’Oro il quartiere “europeo” di Galata/Pera, non privo di sue caratteristiche originali. Il Topkapi Sarayi. Il complesso palatino ottomano copre un’area, già acropoli dell’antica Bisanzio, decisamente vasta alla estremità del promontorio determinato da un lato dal Corno d’Oro e dall’altro dal mar di Marmara. Le mura a mare bizantine ne costituivano uno dei confini. Fu Maometto ii quando fece ritorno a Istanbul dopo la conquista a farne la sua residenza, abbandonata soltanto nel xix secolo quando il sultano decise di trasferire la propria dimora ufficiale sulle sponde del Bosforo, sempre sulla costa europea. Definirlo un palazzo è certamente corretto ma non è sufficiente perché, oltre che abitazio-

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ne per la corte, serviva quale cittadella amministrativa con tutti gli annessi e connessi relativi, vale a dire la zecca, l’armeria imperiale, le scuderie, vari corpi di guardia, le cucine, il tesoro e una miriade di altri ambienti che potevano di volta in volta servire a funzioni diverse. La parte costruita era solo una minima porzione rispetto al verde che la circondava e questo è un aspetto tradizionale di ogni acquartieramento musulmano (a caso citiamo Samarra, ma pure Isfahan o Fatehpur Sikri...) e che a questo abbia contribuito lo spirito nomade può apparire romantico ma è sostanzialmente vero. Questo vasto complesso è cresciuto nel tempo senza alcun piano organico prestabilito e con modifiche determinate anche da eventi imprevisti, quali gli incendi – piaga endemica di tutta Istanbul largamente costruita in legno – che ne hanno modificato gli assetti. Il primo ingresso è dato dal Bab-i Hümayun, probabilmente fatto erigere dal Fatih nel 1478. Questo primo cortile, detto dei Giannizzeri perché vi erano gli alloggiamenti di uno dei corpi di guardia, è impreziosito dalla mole massiccia della chiesa di Sant’Irene (ricca di storia, anche conciliare; nella sua forma attuale è opera di Giustiniano con restauri importanti sotto Leone Isaurico), ovviamente sconsacrata, e adibita ad armeria imperiale. La zecca, le scuderie e altri edifici per così dire “di servizio” avevano facile accesso da questo ampio terrazzamento. L’accesso alla seconda corte avveniva attraverso la Ortakapi (Porta mediana) fatta eseguire da Solimano il Magnifico nel 1524 e luogo storicamente reso celebre dagli assembramenti di Giannizzeri in rivolta e dove avvenne più d’u-

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7. Le straordinarie cucine del Topkapi restaurate da Sinan dopo un incendio. È inconfondibile la sagoma determinata dagli alti camini.

8. La cosiddetta “Corte degli Eunuchi Neri” all’interno dell’harem del Topkapi. 9. Particolare del padiglione di Revan nel Topkapi, costruito nel 1635 per celebrare la conquista di Erevan.

na esecuzione capitale; solo il sovrano poteva varcarla a cavallo, mentre agli altri l’accesso era consentito a piedi. È qui con la seconda corte (del Divan) che inizia il palazzo vero e proprio caratterizzato sempre da un grande spazio centrale (come una corte, e spesso lo è anche, seppure trasformata in un giardino) attorno al quale si dispongono le costruzioni. A parte i bastioni centrali con i soldati, a sinistra c’è un accesso alle scuderie, mentre a destra vi sono le imponenti cucine. Queste, accreditate della possibilità di sfornare pasti per 6.000 persone giornalmente e fino a 10.000 per le feste, furono distrutte da un violentissimo incendio nell’aprile o maggio del 1574 (da poco regnante Murad iii) che coinvolse anche altre strutture (in particolare l’harem) e la ricostruzione fu affidata all’immancabile Sinan; a lui probabilmente si devono gli altissimi camini a imbuto rovesciato (dotati di un sistema di ventilazione per evitare i ritorni di fiamma) che danno una silhouette inconfondibile all’agglomerato, seppure rimaneggiamenti e restauri successivi siano ovvi. Sulla parte sinistra si apre l’accesso attuale all’harem, la parte più cospicua e sviluppata (ma disordinata) del palazzo, in una continua successione di piccoli ambienti (talvolta quasi delle celle; anche funzionali: per esempio un piccolo ospedale o pronto soccorso, una lavanderia...), alternati a corridoi, ambienti cupolati, sale della musica e di passaggio e anche, ovviamente, hammam. Non mancano cortili, giardinetti, uno speciale “appartamento” per la Valide, gli alloggiamenti per gli Eunuchi neri di servizio (e il loro capo, uomo di grandissimo potere), il tutto disposto su più livelli ai quali si accedeva con scale e scalette talvolta inaspet-

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tate. Si è già insistito sul carattere non organizzato secondo una studiata planimetria di questi ambienti, i quali sembrano essersi sviluppati a seconda delle necessità del momento e con stratificazioni storiche documentabili attraverso i numerosi materiali d’archivio. Sulla seconda corte si affacciava anche il Divan, ovvero quella che possiamo considerare la Sala del Consiglio dei vizir; una miniatura seicentesca, conservata a Venezia (Memorie Turche; Museo Civico Correr; ms. Cicogna 1971 – già mcccxlviii, c.17) illustra questo edificio con una lunga didascalia, frutto di un’attenta osservazione: «Il divano grande ove talvolta capita il Re a q.sta graticcila o gelosia che si vede di sovra; il Bassa, che siede nel mezzo è il P.mo visir; alla parte destra sono li due Cadilschieri, uno della Grecia, altro della Natòlia, poi l’aga dei Gian.ri, et li due defterdari, grande e picciolo; alla parte sinistra siedono li sei Visiri ord.rii, l’ultimo dé quali è il Nissangi, cioè q.llo che segna li con.ti Imper.li, quello in piedi con bacchetta dargento, e il Capigi bassi cioè capo dei portinari l’altro che li sta vicin e chiaus bassi, q.llo con li penachi è Moscir aga, cioè capo di tutti li Officiali di giust.a, li altri sono chiaussi ord.ri». La Porta della felicità (con i quartieri degli Eunuchi bianchi) immette nella terza corte con due grandi padiglioni: una sala del trono o di ricevimento delle delegazioni straniere e la biblioteca di Ahmed iii. A sinistra vi erano due moschee (una accessibile dallo harem), il che ne giustifica

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10. Il padiglione Baghdad nel Topkapi.

Alle pagine seguenti: 11. Interno della Biblioteca di Ahmed iii (1718) al Topkapi.

e spiega il diverso allineamento, seguite nell’angolo nord da quattro ambienti cupolati dove era il guardaroba reale ed erano conservate le reliquie appartenenti al profeta Maometto. Sul fianco destro vi era un hammam (di Selim ii) e a chiudere la corte (che per lunghi tratti è porticata), sul lato opposto alla Porta della Felicità, gli ambienti del Tesoro, le dispense e, sull’angolo sud, un “padiglione di Maometto ii” (ora parte dell’attuale Tesoro) con un’impagabile vista sulla città e sul mare. La quarta corte si segnala soprattutto per i due padiglioni di Revan e di Baghdad, a celebrare le rispettive vittorie militari; è da notare che tali padiglioni possono essere considerati delle vere e proprie tende erette in pietra. Un fantastico belvedere, due vasche/piscine, ovviamente giardini, e il padiglione riservato alla circoncisione, concludono una descrizione che, per quanto sommaria, dà conto della vastità ed eterogenea complessità della residenza degli imperatori ottomani. Bazar. Una struttura urbanistica fondamentale nel mondo medievale (e volutamente non distinguiamo, qui, fra Oriente e Occidente) era quella del quartiere commerciale, in genere molto ben strutturato e vicinissimo al centro politico della città. Gli esempi musulmani non mancano, anche incentrati sul riutilizzo di preesistenti centri abitati; i casi più clamorosi e affascinanti ci paiono in Siria a Damasco e Aleppo, in quest’ultima città con un felice (ma anche caotico...) innesto sulla città romana, caratterizzata dall’asse viario del cardo e del decumano. O a Isfahan, dove il potere politico di Shah ‘Abbas creò attraverso il bazar una cerniera fra il vecchio centro (la moschea del venerdì) e il nuovo della Piazza Reale, e anche un mercato, sebbene la struttura stessa della piazza la avvicini molto ai modelli occidentali. Dunque un’attenzione particolare al mondo mercantile, che del resto è connaturato alla civiltà musulmana, molto aperta e dinamica; il profeta Maometto ebbe indubbiamente una personalità multiforme e sfaccettata, ma non si dimenticò mai del proprio “mestiere” giovanile. Per questa ragione centri commerciali, come li definiremmo oggi, sono presenti in ogni agglomerato musulmano e in questo gli Ottomani non fanno certo eccezione. Lo conferma il caso di Bursa, con le già menzionate industrie legate alle attività tessili, ove la trama importante del bazar, costituito da gallerie coperte per la vendita e da caravanserragli per lo stoccaggio e la distribuzione delle merci, è ancora facilmente leggibile nei pressi della Ulu Cami. Meno conservate sono per contro le strutture a Edirne, città imperiale e punto di passaggio terrestre chiave verso l’Europa continentale, città nella quale esisteva – ed esiste – comunque un importante bazar. Diversa risulta invece Istanbul che per la sua morfologia non si rifarà al classico adagio «una moschea congregazionale /un bazar», ma avrà centri diversificati nel suo nucleo principale che, sempre in Europa, avrà le due entità divise dal Corno d’Oro, con pari esigenze fra Galata/Pera e l’altra porzione della città. Nella parte franca, c’è il Bedesten (etimologia da bazzazistan o bazistan, la stessa radice di bazar; è il nucleo coperto, e protetto, del mercato, ovvero uno spazio attrezzato e stabilito appositamente, da non confondersi con “mercati rionali”, comunque presenti; un luogo, il Bedesten, dove in genere si trovavano le merci di lusso, ori e tessuti) fatto costruire da Maometto ii. La prevalente urbanizzazione sull’altra sponda rese necessario aggiungerne un altro al vecchio bazar che sorgeva nei pressi della moschea di Bayazid ii, il Sandal Bedesten, a causa dell’accresciuta mole delle transazioni. Lo schema prevalente pare essere ben attestato in tutta l’Anatolia (per esempio ad Ankara un tale edificio fu voluto da Mahmud Paxa,

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1464) e consiste in una grande sala con più cupole sostenute da volte e pilastri e vari corridoi in genere completati da un doppio ordine di arcate di negozi e botteghe che circondano i quattro lati. Il vecchio Bedesten (forse in origine già un mercato bizantino, come testimonierebbe l’aquila che sormonta uno degli ingressi, ma rifatto su probabile iniziativa del Fatih) si compone di quindici cupole in cinque file di tre (uno spazio di 28 per 45 metri), con negozi tutto intorno, spesso tagliati e divisi, quasi dei bugigattoli! Il Sandal Bedesten (opera di Solimano il Magnifico?) è più imponente, presentando venti cupole in quattro file di cinque con conseguenti dodici pilastri. Questi nuclei sono stati fonte di aggregazione più o meno spontanea attraverso vicoli, caravanserragli, strade più ampie che digradano dalla collina (e dalla Süleymaniye) verso il mare per giungere anche al bazar egiziano o delle spezie. Ovviamente c’era una buona organizzazione di tutta la rete commerciale e le varie attività erano separate per specializzazione; una circostanza che si è mantenuta pressoché immutata nel tempo essendo molto razionale e pratica. Un’altra attività edilizia importantissima, e non solo a Istanbul, era quella legata alle opere idriche. Abbiamo visto come la magistratura di Soprintendente alle Opere Idriche (il corrispettivo del Magistrato alle Acque veneziano, in un’analogia che non è certo casuale), fosse una delle più considerate nell’ambito dei lavori pubblici. Costruire una fontana (çexme) anche solo una vasca/serbatoio con cannella (che potremmo indicare come sebil, pur se talvolta i due termini menzionati possano essere intercambiabili) è pratica considerata meritevole nel Corano e da numerosi Hadith, e questa indicazione, quasi un precetto, è sfociata in una notevole attività costruttiva in tutto l’IsIam e a Istanbul in particolare (si veda più oltre per la più celebre fontana, quella di Ahmed iii, 1728). Se con la moschea di Ahmed i possiamo senz’altro sostenere che si chiuda il ciclo delle grandi opere monumentali, ciò non vuol assolutamente dire che non siano più state costruite opere importanti a Istanbul, e in provincia. E il Settecento, il periodo etichettato come “epoca dei tulipani” (in turco laleli), il momento più fecondo in Turchia, con un’apertura verso l’Occidente e in particolare verso l’esperienza “barocca”. Questo periodo è caratterizzato da interventi più modesti sul piano delle dimensioni e meno spettacolari su quello urbanistico generale, ma nel complesso si tratta di interventi abbastanza capillari. Le fontane, per esempio, offrono un ottimo spunto di valutazione in questo senso; ne vengono costruite moltissime e seguendo la loro evoluzione, da semplici “cannelle” inserite in un contesto già strutturato a edifici veri e propri segnati da una marcata autonomia, si osserva come viene modificandosi lo stile anche generale delle architetture. Gli archi cambiano forma (con un andamento più morbido e cadenzato) e questo mutamento è apprezzabile nel Collegio teologico fatto erigere dal Gran Vizir Ibrahim Paxa nel 1720, su un lato del cimitero del complesso di Xehzade. Lo stesso Ibrahim Paxa volle la costruzione di una nuova città in Anatolia (Nevxehir; fra Kayseri e Niéde, in piena Cappadocia dove su una collina sorgeva una cittadella/fortezza selgiuchide poi rimaneggiata dagli Ottomani), con una moschea del tutto convenzionale e una grande piazza – unica e originale – a essa antistante che la separava dal bazar, dalla madrasa e dalla biblioteca. Tali costruzioni sono datate al 1726. Anche il sultano dell’epoca, Ahmed iii (1703-1730), ebbe una certa attenzione per l’architettura, sia con nuovi edifici sia con il restauro e il recupero di vecchie fondazioni; al 1722 risalgono i lavori sulle vecchie mura bizantine danneggiate seriamente da un terremoto nel 1509. Di Sultan Ahmed iii si ricorda,

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all’interno della terza corte del Topkapi Sarayi, il padiglione della biblioteca, posto immediatamente dietro la sala del trono (ovvero di ricevimento). Vi si accede da una doppia scalinata dato che l’edificio, in marmo, è posto su una piattaforma; essa è incentrata su una sala cupolata (sostenuta da sei pilastri) con tre spazi laterali rettangolari; le venti finestre offrono una notevole luminosità. Gli elementi barocchi non sono percepibili con immediatezza nelle strutture, ma sono prevalenti negli ornati nei quali un ruolo primario è svolto dal legno intarsiato ma anche dipinto. Oltre al consueto repertorio floreale (con un tripudio di tulipani accompagnati da giacinti, garofani e rosette), divengono molto popolari e assai apprezzate delle vedute paesaggistiche di derivazione occidentale con specchi d’acqua, ponti, prati alberati ed edifici sullo sfondo, in un preciso e interessante contrappunto con quanto avverrà in Europa dove, più o meno contemporaneamente, dilagherà la moda del motivo esotico che, forse in modo inconsapevole, mischia fra loro elementi disparati ed eterogenei per i quali non sempre è possibile distinguere fra le due sovrapponibili categorie della cineseria o della turcheria. È un’epoca di grande apertura anche a seguito delle missioni diplomatiche al di là del mare, soprattutto a Parigi (celebre fu quella di Yirmisekiz Çelebi Mehmed Efendi, che rimase fortemente colpito dallo stile Luigi xv) e caratterizzato da spetta-

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12. Il padiglione/fontana eretto da Ahmed iii (1728) fra Santa Sofia e l’ingresso al Topkapi. 13. Particolare del padiglione/ fontana di Ahmed in (1728) a Istanbul. 14. Particolare di un disegno con veduta di Istanbul eseguito dal veneziano colonnello Giovanni Francesco Rossini dalla residenza del Bailo (Ambasciatore) a Pera nel 1741-42.

coli e feste. La corte ottomana guarda con maggiore attenzione, curiosità e simpatia al mondo esterno. I modelli saranno la corte francese, l’immancabile Persia, ma anche il potere emergente degli zar di Russia; del resto è agli inizi del Settecento che si costruisce la San Pietroburgo di Pietro il Grande, città a tutti gli effetti europea, per non insistere sul suo carattere italiano. Modelli da studiare, adottare, imitare ma anche modificare per renderli compatibili con le tradizioni autoctone. La passione degli Ottomani per la caccia non venne mai meno e neppure l’amore per i giardini, le passeggiate e gli accampamenti en plein air più o meno provvisori con padiglioni lignei rivestiti di seta (Lamartine li definiva tende di legno dorato), oppure vere e proprie lussuosissime tende (sia Ahmed i sia Mehmed iv trovarono più confortevole questa soluzione che qualsiasi altra sistemazione durante i trasferimenti fra Istanbul ed Edirne). L’argomento parchi e giardini – e gli immancabili fiori – è un capitolo importante, niente affatto secondario; ancora una volta ci soccorre Nurhan Atasoy con un suo importante libro (A Garden for the Sultan. Gardens and Flowers in the Ottoman Culture, Londra 2002). I cacicchi solcavano le acque del Bosforo e una delle mete preferite erano le sponde asiatiche con la località nota come “Acque Dolci d’Asia” (vi si svolgeva quasi un pellegrinaggio nelle stagioni più miti) e i numerosi sobborghi anche termali, come, sulla riva opposta, il villaggio di Tarabya (volgarizzazione di un eloquente “Terapia”). Pure le Isole dei Principi nel mar di Marmara a una ventina di chilometri da Istanbul saranno una destinazione importante. Per quanto esulino da questo contesto è indubbio che sia il mondo letterario che quello musicale possano ugualmente descrivere bene il clima elettrico e scoppiettante della Istanbul multietnica e cosmopolita del Settecento. Tornando all’architettura un monumento che può assurgere a simbolo dei mutamenti intervenuti nella concezione costruttiva e decorativa è la già rammentata fontana di Ahmed iii (1728), posta fra Santa Sofia e l’ingresso alla prima corte del Topkapi Sarayi. La descrizione più dettagliata, e bella, ci è stata lasciata da E. De Amicis nel suo reportage su Costantinopoli (1875), leggiamola:

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«E uno dei più originali e ricchi monumenti dell’arte turca. Ma più che un monumento, è un vezzo di marmo, che un galante sultano mise di fronte alla sua Stambul in un momento d’amore. Io credo che non lo possa descriver bene che una donna. La mia penna non è abbastanza fina per ritrarne l’immagine. A prima vista, non si direbbe una fontana. Ha la forma di un tempietto quadrato ed è coperto da un tetto alla chinese, che spinge le sue falde ondulate molto al di fuori dei muri, e gli dà una vaga apparenza di pagoda. [ ...] Questa fontana ti parla della sua età nei seguenti versi del sultano Ahmed: volgi la chiave di questa sorgente pura e tranquilla e invoca il nome di Dio; bevi di quest’acqua inesauribile e limpida e prega per il Sultano. Il piccolo edifizio è tutto di marmo bianco, che appena apparisce sotto gl’infiniti ornamenti che coprono i muri; sono archetti, nicchiette, colonnine, rosoni, poligoni, nastri, ricami di marmo, dorature su fondo azzurro, frangie intorno alle cupole, intarsiature sotto il tetto, musaici di cento colori, arabeschi di mille forme, che par che s’intrichino a fissarvi lo sguardo, ed irritano quasi il senso dell’ammirazione. Non c’è spazio d’una mano che non sia scolpito, miniato, tormentato. È un prodigio di grazia, di ricchezza e di pazienza, da tenersi sotto una campana di

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15. Particolare della soluzione architettonica di raccordo fra il padiglione imperiale e la moschea Nuruosmaniye (metà xviii secolo) a Istanbul. 16. Veduta aerea della moschea Nuruosmaniye.

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cristallo; una cosa che pare non sia fatta soltanto per gli occhi, ma che debba avere un sapore, e se ne vorrebbe succhiare una scheggia; uno scrigno, che si vorrebbe aprire, per vedere che cosa c’è dentro: se una dea bambina o una perla enorme o un anello fatato». Il regno di Ahmed iii terminò bruscamente con la sua deposizione e l’uccisione del Gran Vizir Damat Ibrahim Pasa, a seguito di un grande sollevamento popolare. Della metà del ’700 (1741-1742) sono i disegni di Istanbul eseguiti dal veneziano Giovanni Francesco Rossini al seguito del “bailo” (ambasciatore) Erizzo che documentano accuratamente la città prima di due tragici eventi: l’incendio del 1757 e il terremoto del 1766. In posizione centralissima, a pochi passi dalla colonna di Çemberlitax e nelle vicinanze di una delle porte di ingresso del mercato coperto sorge il complesso Nuruosmaniye, iniziato da Mahmud i (1730-1754) e terminato dal successore Osman iii (1754-1757), che possiamo considerare a tutti gli effetti la prima e più importante opera barocca di Istanbul. Del complesso, oltre alla moschea, facevano parte una madrasa, un imaret e una biblioteca. La tradizione vuole che Mahmud pensasse a un edificio interamente in stile occidentale, proposito

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17. Veduta esterna della moschea imperiale di Laleli (17591763) a Istanbul. 18. La sala della preghiera nella moschea di Laleli a Istanbul, costruita durante il regno di Mustafa iii (1757-1774).

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in parte accantonato per la fiera e intransigente opposizione del clero, sempre su posizioni fortemente conservatrici. Nonostante l’esito finale appaia un ibrido, questa moschea è piuttosto originale e riuscita. Il consueto dislivello del terreno è sfruttato bene con una serie di scalinate che immettono nella sala da preghiera e nella corte. Questa è formata da un porticato in facciata con le abituali cinque cupole, ma le altre nove non sono disposte secondo il classico schema quadrato, bensì a semicerchio, il che conferisce all’insieme un aspetto molto raccolto e intimo e costituisce il tentativo, ben riuscito, di inserire elementi barocchi non solo nei particolari esornativi ma pure nelle strutture. La pianta della sala da preghiera è basata sull’irrinunciabile quadrato cupolato, con quattro grandi archi (come nella moschea di Mihrimah Sultana a Edirne Kapt) qui leggermente appuntiti e torrette angolari come sfogo dei pilastri. Le due navate laterali, un po’ reminiscenti della Süleymaniye, sono ingegnosamente spostate sui fianchi esterni e trasformate in porticati, assai funzionali e senza turbare l’unità dell’interno, luminosissimo per la presenza di molte finestre. Il mihrab è inserito in una vera e propria abside. La coppia di minareti, leggermente staccati dalla sala da preghiera alle estremità del porticato di facciata, è a due balconi e perfettamente proporzionata. È soprattutto nei particolari decorativi (portali, capitelli, volute, fregi e griglie metalliche delle finestre e dei recinti) che il nuovo stile è pienamente affermato in tutta la sua portata di rottura con il passato; operazione certamente controversa ma di immediato successo tanto da divenire paradigmatica per le architetture di almeno cento anni a seguire. Mustafa iii (1757-1774) volle la sua moschea imperiale (Laleli Cami, 1759-1763) nel quartiere di Aksaray, non lontano dalla moschea di Bayazid ii. La grande corte riacquista la solita forma rettangolare, con cinque cupole di accesso alla sala da preghiera e una grande fontana centrale. Le scalinate che portano alla corte sui tre lati sono eccezionalmente ampie, ma l’interno (grande grosso modo la metà dello spazio riservato alla corte) non ha molto slancio e non è particolarmente originale. La cupola centrale (di soli dodici metri e mezzo di diametro e il doppio in altezza) è introdotta da una sorta di nartece (sovrastato da gallerie) e si imposta su otto colonne di cui sei sono quasi incassate e addossate ai muri perimetrali. Così vi sono quattro semicupolette e un abside/esedra che ospita il mihrab. Quantunque la cura dei particolari sia evidente e perfino ricercata, questa moschea manca di inventiva; è in linea con l’evolversi dell’architettura ottomana ed è un buon esempio della commistione di stili diversi, ma francamente non ha molta personalità.

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L’ULTIMO PERIODO. FU SOLO DECADENZA?

Doéubayazit. All’estrema periferia orientale anatolica sorge, a Doéubayazit, il palazzo (o Sarayı) di Ixak Paxa (1784, sebbene, forse, sia stato completato più tardi. In questo caso una manciata di anni non cambiano la sostanza). Ampiamente sottovalutato dalla critica, soprattutto turca, è un monumento di grandissimo interesse, per molti aspetti anticipatore delle tendenze architettoniche e decorative successive; (penso, per esempio, anche a Dolmabahçe e in particolare al padiglione di Ihlamur). La posizione geografica, ai piedi dell’Ararat e attualmente al confine con l’Iran, ne ha certamente determinato le fortune; il complesso è stato costruito su uno sperone roccioso, una sorta di cittadella fortificata, in un punto dal quale si controlla uno snodo essenziale sulla direttrice Est-Ovest, ma anche su quella Nord-Sud (intendendo con questo il Caucaso e la Mesopotamia). Diciamo subito che di primo acchito è poco ottomano nella concezione e deve moltissimo agli apporti locali, ovvero georgiani, armeni e iranici (di un carattere architettonico curdo è difficile parlare, in ogni caso). Le origini familiari di Ixak Paxa sono legate ai Çildiroélu, un clan proveniente e governante i centri di Çildir e Tbilisi a metà del Settecento. Ixak Paxa fu nominato vizir nel 1789 e il figlio Hasan Paxa divenne governatore della Georgia imponendo il proprio dominio su una regione inquieta e di grande valore strategico con il controllo del Caucaso (sotto mira dell’espansionismo russo…) e dei passi verso Oriente e Sud. Il governo dei Çildiroéullari fu caratterizzato da una marcata autonomia. Non conosciamo il nome dell’architetto e non è da escludere che la concezione planimetrica stessa sia stata voluta dal committente (e in parte determinata di fatto dal terreno), aiutato da capomastri locali – a tutti gli effetti degli architetti – con maestranze fatte affluire dai villaggi caucasici e dai centri limitrofi. Lo spazio si adatta molto bene alla morfologia del terreno; un piatto costone roccioso rafforzato e fortificato con grande razionalità che appare, lo ribadiamo, quasi dovuta. Superbo è il portale di accesso che immediatamente mette sull’avviso di quanto originale sia questo complesso nel quale gli echi

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selgiuchidi sono innegabilmente presenti e forti, ma non esclusivi e tantomeno riproposti in modo pedissequo. La pianta è suddivisa con accortezza secondo uno schema tradizionale fra parte pubblica, costituita da due corti, la moschea, una biblioteca e una piccola türbe, e quella privata con alloggi (di ampiezza ridotta e tutti dotati di caminetto; è una regione molto fredda, con neve per svariati mesi), harem, bagno, cucina e, ovviamente, una sala di ricevimento, che è opportunamente separata. Sia i corridoi che gli ambienti sono divisi con intelligenza e maestria, la quale appare pure nelle finestre; queste hanno aperture piccole (per non disperdere il calore) ma, all’esterno, grandi riquadri per sottolineare la monumentalità dell’impianto. La costruzione è interamente in pietra seguendo una tradizionale e consolidata maestria, plurisecolare, nel taglio e nell’uso di quel materiale. Il visitatore sembra immediatamente cogliere una sorta di giustapposizione e contrasto fra la pianta con spazi regolari e sobri e una decorazione esterna esuberante oltre ogni dire. Ma non è questa una delle caratteristiche che abbiamo annotato proprio parlando dell’architettura selgiuchide? La tecnica costruttiva degli interni è innegabilmente locale e questo vuol dire armena o georgiana, in ogni caso cristiana e di derivazione dalle importanti chiese del luogo; innumerevoli sono gli esempi e basta guardare qualcuno degli archi incrociati per fortuna ancora integri (il restauro non è stato leggero) per rendersene conto. Non ci sono tracce di decorazioni ceramiche e nemmeno in stucco, ed è probabile che fra gli arredi interni la maggioranza fosse costituita da tappeti non solo usati per coprire i pavimenti, ma anche addossati alle pareti, dato che il Paxa a quell’epoca controllava il traffico commerciale fra due dei più importanti centri produttivi di tali manufatti: il Caucaso e l’Iran azerbaigiano. In quest’epoca, ovvero alla fine del xviii secolo, Tbilisi è uno dei mercati di tappeti più vivaci e importanti al mondo! Si accennava all’estrosa qualità delle ornamentazioni. Col portale esterno di accesso sembra di essere ripiombati in pieno periodo selgiuchide, tant’è vero che Goodwin (fra i pochi ad avere capito l’importanza del sito) scrive esplicitamente di «revival». Del primo portale interno sono notevoli i due cipressi fioriti che lo incorniciano (i cipressi fioriti sono una vecchia conoscenza nell’arte islamica, presenti nelle miniature almeno a partire dall’inizio del Quattrocento), soprattutto per quella punta ripiegata su se stessa che li porta a essere dei boteh! Il boteh è quel motivo affermatosi nei tappeti e nei tessuti non prima, crediamo, del tardo Cinquecento in Persia e che, migrato in India, avrà fortuna straordinaria e, attraverso gli shawl (scialli), soprattutto del Kashmir, arriverà poi a condizionare fortemente il gusto francese, ma anche inglese ed europeo in genere. Il portale che dal secondo cortile immette negli ambienti privati è a cornici concentriche, la più ampia delle quali ha motivi floreali con alla base una coppia di leoni affrontati (di forte ascendenza iranica), disegni di ampio respiro che ricordano la trasposizione in pietra degli stucchi (soprattutto nei riempimenti a “nido d’ape”; e alla stessa maniera di Divriéi), ma non solo; è proficuo confrontare questa fascia anche con le coeve bordure dei tappeti persiani. La migrazione, alla metà del Settecento, di artigiani del tappeto dalla regione di Kirman al Caucaso, a seguito dei rivolgimenti di popolazioni operati da Nadir Shah, è un argomento che meriterebbe di essere studiato approfonditamente. Ai lati di questo portale, le forme a rilievo – quasi un tutto tondo – sono ancora vegetali astratti e richiamano alla mente Konya ed Erzerum; in ogni caso un sostrato selgiuchide è palese. La piccola finta türbe (in realtà è solo un ingresso mascherato a una cripta sotterranea) sul lato esterno della moschea conduce

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Nella pagina precedente: 1. Veduta d’insieme del palazzo di Ixak Paxa a Doéubayazit (1784), all’estrema periferia orientale dell’Anatolia. 2. La moschea del complesso di Ixak Paxa a Doéubayazit (1784) vista dalla corte e la türbe che dà accesso alla cripta sotterranea. 3. Le esuberanti decorazioni degli ambienti privati del palazzo di Ixak Paxa a Doéubayazit (1784).

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Nelle due pagine seguenti: 4. L’interno della piccola moschea nel complesso di Ixak Paxa a Doéubayazit (1784). 5. Particolare del leone e della splendida decorazione del portale di accesso alla zona interna privata del palazzo di Ixak Paxa a Doéubayazit (1784).

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alla sepoltura del committente e di sua moglie; la forma è quella tradizionale di una türbe poligonale con copertura a ombrello e la superficie è ben scandita da una serie di sottili e slanciate colonnine. Piccole muqarnas ed eleganti tralci di vite asimmetrici completano l’insieme, tradizionale nella forma e innovativo nella decorazione al contempo. Molto elegante è anche la proiezione esterna absidale del mihrab della moschea, con linee sobrie e riquadri di matrice occidentale e un pannello rettangolare campito con intrecci geometrici a nastro, sovrastato da tralci curvilinei che determinano una nicchia. Questo è puro stile liberty! Non il casuale intrecciarsi di elementi «orientaleggianti», ma il consapevole utilizzo della tradizione antica per dar vita al «revivalismo [che] sembra essere stato il prodotto di una immaginazione veramente notevole» (G. Goodwin); una rivoluzionaria sintesi anticipatrice (siamo a fine Settecento, non dimentichiamolo…) delle tendenze successive, e non il solitario capriccio di un piccolo signorotto locale illuminato. Paradossalmente la situazione è più statica a Istanbul, come abbiamo visto con il complesso di Laleli, anche se molte fontane della città, pensate come elementi barocchi, acquistano una connotazione tutt’affatto diversa nella trasposizione che ne fanno i disegnatori e gli scalpellini turchi. Il liberty c’è, potenzialmente, tutto già alla fine del Settecento. L’Ottocento della capitale sarà un secolo complesso anche, se non soprattutto, per ragioni politiche. Il 1826 (durante il regno di Mahmud ii, 1808-1839) segna l’anno della soppressione del corpo dei Giannizzeri che tanta parte avevano avuto non solo nella storia politica dell’impero, ma anche in quella artistica. Ha inizio il Tanzimat (periodo delle riforme; 1856-1876), estremo tentativo di evitare una rovinosa decadenza, ormai ampiamente annunciata e dunque attesa. Il Corno d’Oro sulle due sponde e la riva europea del Bosforo divengono le aree privilegiate (ma non uniche) del nuovo sviluppo. In particolare gli ampi spazi lungo il Corno d’Oro, per secoli sede dell’arsenale e di attività cantieristiche, sono il fulcro delle trasformazioni e di un nuovo sviluppo industriale che cerca di dare un nuovo volto industriale alla città con l’insediamento di attività produttive. Le sponde europee vengono unite da un ponte e così Galata/Pera e Stambul non saranno più solo dirimpettaie. Sommovimenti architettonici e anche ur-

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6. Veduta esterna della moschea Nusretiye (1826) a Istanbul, opera dell’architetto armeno Kirkor Balyan. 7. La torre dell’orologio a Dolmabahçe (metà del xix secolo) a Istanbul; un’architettura di stampo europeo occidentale perfettamente interpretata secondo i canoni turchi.

banistici (perché adesso si cerca di metter finalmente mano anche all’assetto generale della viabilità) di questa portata ovviamente necessitarono del supporto convinto del sovrano e dei suoi ministri, ma anche di validi interpreti. Questi furono, per le architetture, i Balyan. Famiglia armena che dominò la scena architettonica di Istanbul per più di un secolo con Kirkor (1764-1831), il capostipite, seguito e coadiuvato dal fratello Senekerim e dal figlio Karabet, e poi dai nipoti Nikogos (1826-1858), Sarkis (1835-1899) e Agop (1838-1875). Ormai il titolo di Architetto Imperiale era di fatto stato abolito, ma ciò nonostante il sultano rimaneva pur sempre il primo e più importante committente. La prima generazione dei Balyan (e degli assistenti e capomastri, in gran parte armeni) ebbe una formazione locale, ma già Nikogos (il favorito del sultano Abdülmecid; 1839-1861), studiò a Parigi e fu influenzato dalle idee di Henri Labrouste. La moschea Nusretiye (datata 1826, anno della soppressione dei Giannizzeri, il suo nome, evocativo, significa Divina Vittoria), fu costruita da Kirkor Balyan sulle rive europee del Bosforo. Per certi versi questa moschea continua lo stile affermatosi con la Nuruosmaniye e la soluzione, ovvia, è quella della cupola centrale a copertura del cubo di base e quattro arconi regolari e quattro torrette (molto svasate e piramidali) agli angoli. La moschea è preceduta dall’avancorpo a “C” della loggia regale con porticato che ingloba i due minareti a base parallelepipeda convertita in un bulbo fiorito da cui si slanciano i fusti molto sottili, quasi esili, con doppio balconcino. La cupola è coronata da contrafforti ondulati e cuspidati alternati a finestre. Le linee sono sempre molto morbide negli archi, quasi a evitare spigoli, e l’insieme è gradevole, riconoscibilissimo nello stile ibrido nel quale ancora una volta sono i particolari decorativi a fare la differenza con gli impianti tradizionali. L’interno è sontuoso col contrasto fra i marmi bianchi e le molte dorature; il mihrab è ben proporzionato, mentre il minbar si segnala per le abbondanti se non eccessive dorature. È da segnalare, inoltre, la costruzione di una torre/orologio (originariamente in legno); l’idea della torre/orologio segnala una scansione del tempo diversa da quella della chiamata alla preghiera, una laicizzazione moderna e un segno di progresso. In quest’epoca furono pertanto molte le torri di questo tipo costruite nei principali centri dell’impero, secondo stili architettonici molto diversi fra loro (per esempio quella di Adana sembra proprio un campanile medievale toscano!). Analoghe sono le torri di avvistamento per gli incendi (una silhouette tradizionale nel profilo istambuliota); la più famosa di tutte è quella costruita in muratura da Senekerim Balyan a Bayazid per rimpiazzarne una lignea progettata dal fratello Kirkor; è datata al 1828 e, raggiungendo i cinquanta metri di altezza, segna lo spazio sulla collina, un tempo sede del vecchio palazzo residenziale del sultano, poi del ministero della guerra e, oggi, della più importante università di Istanbul. Queste torri antincendio erano ovviamente funzionali. Quella degli incendi, in una città costruita soprattutto in legno, fu una piaga endemica per secoli; nel 1856 un tale evento ad Aksaray distrusse più di settecento case e tali ricorrenti circostanze contribuirono al formarsi di una corrente favorevole a interventi massicci sul tessuto urbano con l’apertura di ampi boulevard, in piena sintonia con le grandi realtà europee (come Parigi e Vienna), ma anche con altre città (per esempio la Firenze capitale con i viali di circonvallazione o Napoli col Rettifilo); spesso questo avvenne a spese della cinta muraria della città.

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Dunque esigenze urbane disparate ma accomunate da un’analoga risposta. Sono gli anni, a fine Ottocento, con code agli inizi del secolo successivo, del “risanamento” dei centri storici, nei quali, quasi sempre, vennero subito distrutti i ghetti ebraici. Al 1828 risale anche la costruzione, sulla sponda asiatica ad Haydarpaxa, dei nuovi acquartieramenti militari (in zona periferica…) dopo lo sterminio dei Giannizzeri; le baracche in legno di Selim iii (1789-1807) vennero sostituite da un imponente edificio in pietra (completato poi con interventi successivi nel 1843 e 1853). Le oltre mille e cento finestre presenti nel complesso documentano, se non altro statisticamente, il grande impegno profuso nell’opera che ancora oggi segna la riva asiatica nei pressi di Üsküdar. Sul Divan Yolu, la principale strada della Istanbul storica, Karabet Balyan (1800-1886) fu incaricato di erigere (1840) la türbe funeraria ottagonale di Mahmud ii, un monumento di buon livello che ben si inserisce nel panorama circostante. Dolmabahçe. Stanco di abitare al Topkapı, e anche per segnare plasticamente il cambiamento dei tempi, il sultano Abdülmecid affidò alla famiglia Balyan la costruzione del nuovo palazzo: Dolmabahçe, da allora residenza sultaniale e, dopo la morte di Atatürk (10 novembre 1938), trasformato in museo. Il palazzo è situato sulle rive europee del Bosforo, immediatamente a ridosso dell’acqua sulla quale si affaccia tramite un terrazzamento recintato. Il palazzo (opera di Karabet Balyan del 1853), fu costruito, secondo la miglior tradizione ottomana, in tempi rapidissimi e presenta un lunghissimo fronte (284 m), con prevalenza di questo sulla profondità. Luogo centrale privilegiato è naturalmente la sala del trono (costruita dal figlio di Karabet, Nikogos) un ambiente cupolato (ma all’esterno compaiono quattro spioventi) pressoché quadrato di

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8. La nuova residenza cittadina dei sultani sulle rive del Bosforo; il palazzo di Dolmabahçe (1853), opera di Karabet Balyan.

9. Il palazzo di Çiraéan sulle rive europee del Bosforo (seconda metà del xix secolo).

44 per 46 metri con al centro un gigantesco lampadario con 750 luci, dono della regina Vittoria. Lo stile della facciata sul Bosforo, con colonne, capitelli e archi è quello che potremmo definire un pastiche di classicità occidentale con tanto di doppia scalinata di accesso. I cancelli sono sovraccarichi di decorazioni in stili disparati, dai quali emerge chiaro un marcato horror vacui. È evidente la completa rottura col passato e l’adeguarsi a quello che possiamo descrivere come lo “stile internazionale” prevalente all’epoca; in realtà potrebbe trovarsi un po’ ovunque. Anche gli interni nei loro arredi non tradiscono le aspettative: gran profusione di dorature, elementi barocchi e rococò, pesanti tendaggi. L’insieme, se non contestualizzato, rischia di apparire di un’ostentazione kitsch; sono interni quasi caricaturali con qua e là un tocco di esotismo di maniera e sorge spontaneo il sospetto che ci si adegui a un’immagine costruita all’esterno e interiorizzata che non corrisponde alla realtà. Ci vedono così, dunque siamo così! E questo sentimento pare abbia fatto scuola fin quasi alla contemporaneità; discorso complesso che per forza di cose è da rimandare ad altra sede. Il 1863 è l’anno della Esposizione Industriale sull’ippodromo con la costruzione di palazzi dalla forma severa. Il palazzo sul Bosforo (ma sponda asiatica) di Beylerbey (1865) fu voluto per ospitare capi di stato stranieri in visita e venne costruito da Sarkis Balyan in collaborazione col fratello Agop. Più piccolo di Dolmabahçe, anche in questo caso l’edificio è immerso in uno splendido parco “attrezzato” con fontane, vasche, padiglioni e viali alberati. L’interno è diviso in due parti (tradizionalmente un harem e un selamlik) da un grande salone di ricevimento. Marmi, mogani, dorature, porcellane e cristalli sono disseminati con profusione ma non sono eccessivi. Gli infaticabili Balyan sono responsabili anche della costruzione del palazzo di Çiraéan, anch’esso sulle rive del Bosforo

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FRATELLI /COLTELLI Ottomani e “Occidente”: una storia controversa o storia di una controversia?

non lontano da Dolmabahçe e recentemente restaurato con sensibilità e trasformato in un lussuoso albergo. Sarkis Balyan ci ha anche lasciato l’edificio del Galatasaray Lycée, luogo di formazione delle élites intellettuali turche. Forse l’ultima grande opera a carattere religioso fu la moschea Valide nel quartiere di Aksaray, costruita per la madre di Abdülaziz nel 1871. Il profilo esterno della facciata sormontata da un frontone triangolare e con tre finestre su ciascuno dei due piani riprende lo schema di un’architettura civile classicheggiante, mentre la cupola è semplice e convenientemente ribassata. I minareti, due, sono agili e con un solo xeref, ma non simmetrici e sono attaccati ai corpi aggiunti laterali. Come è naturale che sia, il nuovo ruolo di capitale di Istanbul e il suo indiscutibile fascino (esotico o meno che esso sia; la città è sì mediterranea ma anche molto nordica), hanno attirato molte personalità, non solo in visita. Gaspare Fossati (1809-1883) e il fratello Giuseppe (1822-1891), svizzeri ticinesi, furono inviati dallo zar Nicola i per costruire l’ambasciata russa e passarono al servizio del sultano il quale affidò loro numerosi cantieri: fra i più significativi sono l’università a Bayazid e la Scuola Imperiale sull’ippodromo. Tuttavia, i Fossati sono per noi legati soprattutto ai lavori di restauro e consolidamento di Santa Sofia. Architetti stranieri che lavorarono a Istanbul furono anche il francese Préault e il tedesco Melling. I rapporti con i tedeschi furono sempre ottimi, tanto che il Kaiser Guglielmo ii fu in visita due volte, nel 1889 e nel 1898, lasciando in dono la fontana che ancora oggi è sull’Ippodromo, anche se a Berlino c’è l’altare di Pergamo… Tedesca, e deliziosa, è la stazione di Sirkeci (1889), luogo di arrivo del più letterario percorso ferroviario di sempre, quello dell’Orient Express. Fra gli architetti italiani la figura di spicco è quella del friulano Raimondo d’Aronco (che giunse a Istanbul nel 1893 e fu architetto di corte fra il 1896 e il 1909), del quale ricordiamo una pregevole casa nel quartiere di Galata/Pera, alcuni lavori nella villa estiva dell’ambasciata italiana di Tarabya, e svariati altri progetti influenzati da un severo rigore formale ingentilito dal miglior stile art nouveau che si possa vedere nel Bosforo.

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10. La facciata della stazione ferroviaria di Sirkeci (1889), un riuscito pastiche stilistico divenuto celebre come punto terminale dell’Orient Express.

Molto è già stato scritto su quelli che furono i rapporti fra la Sublime Porta e i vari potentati e regni d’Occidente; una questione storiografica complessa e ancora oggi di fulminante attualità. A cercare e raccontare le radici di tale rapporto ci si rende presto conto che i vasi sono sempre stati comunicanti, senza soluzione di continuità, e che l’uno e l’altro non possono essere definiti per contrapposizione e, forse, nemmeno per giustapposizione. Insomma, è davvero arduo, e probabilmente inutile, cercare definizioni assodate – più che altro proiezioni contemporanee apodittiche, prive di spessore storico –, e “scontri di civiltà”, laddove le comode e false definizioni di Oriente e Occidente ci assolvono dal tentativo di un’analisi un pochino più articolata e faticosa, nemica delle semplificazioni di comodo. Potremmo scrivere che Oriente e Occidente in tutta evidenza non esistono, o quantomeno sono entità talmente astratte e onnicomprensive da permetterci di usarle quale schermo o filtro di una incapacità, ormai interiorizzata, di superare l’apparenza. L’obiezione che a questo ragionamento viene opposta è spesso quella di sostituire con Cristianesimo l’Occidente e con Islam l’Oriente. Ma anche questo espediente non regge se lo sguardo si fa un tantino più profondo e complesso, alla ricerca di quanto ci unisce, che è molto, a discapito di quel che ci dovrebbe dividere, che è poco. Questo nonostante le incomprensioni e le “vulgate”, non tutte di comodo, relative all’ideologia degli Orientali, in particolare i Turchi, che sono esaminate in un recente prezioso volume del letterato e storico britannico Noel Malcolm. Non è questa la sede per una disamina puntuale di una tale problematica, ma la premessa ci è parsa indispensabile e necessaria perché lo sfondo e gli eventi che verranno esaminati – con occhio attento ai fenomeni relazionali, ma anche artistici – vanno giustamente inquadrati in una cornice di rispetto. L’ottica è inevitabilmente quella europea, o meglio ancora e più specificatamente mediterranea (alla Braudel): se mettiamo questo mare nostrum al centro della prospettiva ci rendiamo conto meglio delle varie periferie che su quel centro insistono, ciascuna, poi, ricca di un entroterra che inevitabilmente su

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quel fulcro insiste e ruota attorno. Non tutta la storia ci può interessare. Però la iv Crociata (1204), con l’ottuagenario doge Dandolo alla conquista (ovvero “sacco”) di Costantinopoli, città greca prima che latina, e quanto quegli avvenimenti abbiano plasmato i rapporti posteriori vale la pena di ricordarla! Ne fa un racconto scanzonato ma in fondo veritiero un godibilissimo testo di Umberto Eco (Baudolino, 2000), che con dovizia di particolari fornisce una medievalisticamente ineccepibile ricostruzione dei fatti, piccoli e grandi. Un secolo dopo emerge – mai dal nulla ché in Storia il vuoto non si dà – il potere Ottomano, con la sua peculiare struttura che molto deve alla radice nomade e tribale, ma tanto anche al confronto/scontro col potere Bizantino. E una circostanza va sottolineata: l’espansione musulmana Ottomana ha, da subito, ovvero dagli esordi, una duplice direttiva: balcanica e anatolica, la seconda per certi versi subordinata alla prima. La conquista dei territori balcanici e le resistenze incontrate (e qui si leggano i romanzi di Ismail Kadare), forgiano il novello stato Ottomano ancora una volta con un retroterra Bizantino che è assai difficile ignorare. Bisanzio che reagisce, anche, ma che è presenza ineludibile e fortemente radicata e strutturata a tutti i livelli: come organizzazione di governo, ma pure come sentimento popolare. Da sempre la potenza islamica è straordinaria per la forza bellica, ma soprattutto per la capacità di adattamento e assimilazione di sistemi diversi: una cosa è la conquista, altra il governo. Del resto, il Profeta Muhammad lo insegna perfettamente: basta leggere il Corano con le sure della Mecca e quelle di Medina. Un’altra data: 1389, la battaglia della Piana dei Merli o del Kosovo. Le sue conseguenze, perché il mulino della storia macina lentamente ma con costanza, in una regione europea tutt’altro che secondaria o periferica si sono viste fino a l’altro ieri. Però la vera cesura è di poco più di mezzo secolo dopo, il martedì 29 maggio 1453, presa o caduta di Costantinopoli. Shock (almeno letterario) su alcune sponde del Mediterraneo, assai meno localmente. Un piccolo passo indietro. Nel 1431 papa Martino iv convoca un concilio che verrà gestito dal successore Eugenio v (1431-1447), e avrà tre sedi: Basilea, Ferrara e Firenze, per concludersi nel 1445 a Roma. I Greci cercavano appoggi per resistere alla prevedibile e già più che paventata avanzata islamica, mentre i Latini tentavano di dirimere (a loro favore…) la questione della frattura teologica fra le due Chiese, approfittando dell’intrinseca debolezza della controparte. I Bizantini erano guidati da Giovanni viii Paleologo (col fratello Giuseppe, patriarca di Costantinopoli che morì durante i lavori e fu seppellito in Santa Maria Novella), e anche Marco Eugenio, metropolita di Efeso, e l’allora metropolita della conciliare Nicea, Giovanni Basilio Bessarione (poi cardinale e candidato al soglio di Pietro nel 1455; nel 1463 patriarca di Costantinopoli; traduttore della Metafisica di Aristotele, e raffinato bibliofilo. Donò la sua biblioteca a Venezia – 1468 –, primo nucleo della biblioteca Marciana); non da meno le personalità latine, fra le quali ricordiamo il celebre e insigne teologo domenicano spagnolo Juan de Torquemada (da non confondersi con l’Inquisitore, Tomás). L’accordo fu perfino raggiunto, ma rimase lettera morta anche in virtù degli accadimenti successivi. Però è il fervente clima di confronto che qui interessa. “Fotografo” ufficiale del concilio e testimone eccezionale dell’evento fu Antonio di Puccio Pisano, ovvero Pisanello, pittore insigne ma pure medaglista che ideò in quei giorni la celeberrima medaglia del Paleologo e abbozzò diversi schizzi relativi a quei frangenti, come dimostra il Codice Vallardi (378 fogli) ora al Cabinet des Dessins del Louvre. A Firenze la memoria anche di questi avvenimenti è

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1. Pisanello (Antonio di Puccio Pisano; Pisa o Verona ante 1390Napoli 1455 ca.), testo in caratteri thuluth entro una cornice, Giovanni viii Paleologo a cavallo e studi di altre figure, inchiostro su carta, 1438 ca. Parigi, Musée du Louvre, Department des Arts Graphiques, inv. mi 1062.

documentata dalla Cappella dei Magi di palazzo Medici Riccardi, capolavoro di Benozzo Gozzoli (1459), con una sontuosa raffigurazione dell’imperatore Giovanni viii Paleologo e altri importanti dignitari bizantini. Nonostante si tratti di un etimo incerto, la tradizione fiorentina vuole che agli ospiti siano state servite lombatine di maiale (condite con aglio, pepe, rosmarino e olio), tanto gradite che il commento unanime sia stato: “Aristos! Aristos!”, dai locali trasformato nell’ancora vigente “arista”. Costantinopoli non è una metropoli, all’epoca della conquista, e Genovesi e Veneziani (che sui commerci con quel Mediterraneo, non solo Ottomano ma ancora Mamelucco sulle rive meridionali di Siria ed Egitto, continuavano a costruire fortune e massicci profitti), sconvolti a parole, nei fatti non potevano fare a meno di quel “partner” – che poi in qualche modo sarebbe traducibile con “socio” – e come loro la gran parte dei cosiddetti Occidentali. Spiccano almeno due grandi personalità in questo frangente politico: Mehmet ii (il Fatih, ovvero Conquistatore) e, da noi, Lorenzo de’ Medici, il Magnifico. Quella di Mehmet ii è stata una personalità straordinaria le cui vicende sono state assai minuziosamente ricostruite (sempre valido il monumentale Babinger), così come eccezionale è stata la figura di Lorenzo, non solo, ovviamente in campo politico. Il che accomuna i due personaggi. I rapporti sono certamente stati ripetuti e improntati al reciproco rispetto; entrambi assai prudenti, più che a missive (sempre e comunque intercettabili, soprattutto da

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Venezia; che poi è anche possibile che alcune di queste lettere fossero volutamente fatte intercettare; sui servizi segreti e lo spionaggio veneziano si veda il bellissimo volume dello storico Paolo Preto, peraltro uno dei primi a occuparsi anche del rapporto fra la Sublime Porta e Venezia), hanno affidato i loro rapporti a personaggi latori di messaggi personali. Un fatto storico è molto significativo e merita di essere riportato. Il fiorentino Bernardo Bandini de’ Baroncelli, uno dei protagonisti della Congiura de’ Pazzi ed esecutore materiale dell’assassinio (26 aprile 1478) del fratello minore di Lorenzo, Giuliano, dopo il parziale fallimento del complotto, trovò rifugio presso alcuni suoi parenti a Istanbul. Gli efficienti servizi informativi del Magnifico scoprirono il fatto e tale Bernardo Peruzzi a metà giugno 1479 comunicò a Firenze l’avvenuto arresto del reo da parte del Sultano, arresto però valido fino al mese di agosto; viene allora spedito in tutta fretta a Costantinopoli in missione diplomatica Antonio di Bernardo de’ Medici (di un ramo cadetto della potente famiglia). La missione ebbe successo e il Baroncelli fu riportato a Firenze (via Ancona o

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2. Cristofano dell’Altissimo (Firenze 1525-1625), Ritratto di Maometto ii, olio su tavola, seconda metà del xvi secolo. Firenze, Gallerie degli Uffizi, inv. n. 1890.3055.

3. Leonardo da Vinci (Vinci 1452-Amboise 1519), Il cadavere di Bernardo Bandini de’ Baroncelli impiccato in abiti “turcheschi”, inchiostro su carta, 1479. Bayonne, Musèe Léon Bonnat.

Venezia), dove giunse il giorno di Natale 1479, per essere impiccato al Bargello il 29 di quello stesso mese, «anchora in abiti turcheschi». Eccezionale documento è il disegno di Leonardo da Vinci ora nel museo di Bayonne (Pirenei francesi). Leonardo – genio riconosciuto anche nel campo delle fortificazioni e nell’ingegneria civile, in particolar modo idraulica – è ricordato anche per il progetto, mai realizzato di un «Ponte da pera a Costantinopoli, largo 40 braccia, alto dall’acqua braccia 70, lungo braccia 600, cioè 400 sopra del mare, e 200 pose in terra, faciendo che se spalle a se medesimo». Il Gran Turco chiese che Firenze gli fornisse «… maestri d’intaglio, e di legname e di tarsio, e adimandò a Fiorentini di Maestri di squltura di bronzo …» (Cronica di Benedetto Dei relativa al 1480). In questo contesto avrebbe origine la medaglia onorifica per Mehmet ii eseguita da Bertoldo di Giovanni, parte di una serie similare ben documentata e studiata da Julian Raby. La questione delle medaglie sembra peraltro intrecciarsi anche con quella dello sbarco turco Ottomano (e massacro) di Otranto, 11 agosto 1480. Il comportamento del Magnifico in questa circostanza ha certamente più di un tratto di ambiguità; se non “quinta colonna”, per certo né si dannò l’anima né si strappò i capelli! Lorenzo il Magnifico fu un importante collezionista di metalli islamici e alla sua morte ne possedeva più di 120 esemplari; e quando il figlio Piero dovette abbandonare Firenze i metalli islamici ammontavano a 160. Marco Spallanzani ha ricostruito accuratamente le alterne vicende di tale collezione e il dato che più ci colpisce è il tentativo di una società fra la famiglia Salviati e Alfieri Strinati che aveva acquisito tali materiali per venderli (1489), non sulla piazza italiana ma a Costantinopoli. Non andò come sperato. Nel 1503 i pezzi, salvo due opere (un calamaio e una lanterna) tornarono a Firenze, per disperdersi nelle proprietà dei Salviati (Iacopo Salviati aveva sposato Lucrezia, figlia del Magnifico). Ovviamente i rapporti forse più intensi di Mehmet sul piano artistico furono quelli con i Veneziani, riaperti dopo una guerra durata più di tre lustri e sul finire, inaspettato, della sua avventura umana. L’insistenza con la quale il Fatih richiedeva alle varie signorie italiane (Firenze e Venezia in primis) artisti capaci nell’arte della fusione del bronzo, non è probabilmente legata solo al conio di medaglie celebrative (per quanto la vanità dei sovrani non abbia limiti e la debolezza di Mehmet ii fosse quella di essere riconosciuto, ovunque, come novello Alessandro Magno e in quanto tale omaggiato), ma anche a questioni militari, ovvero alla fusione degli indispensabili cannoni e bombarde. I rifiuti – modulati con diplomazia – di aderire a quelle richieste ci paiono di fatto inevitabili. La vicenda artistica più nota è quella del soggiorno a Costantinopoli di Gentile Bellini e del ritratto a lui attribuito, ora alla National Gallery di Londra, oltre che della medaglia da questi disegnata. Si diceva del ritratto, che ha goduto di grandissima diffusione e reputazione (e altrettante interpretazioni simboliche, più o meno attendibili), sebbene a nostro avviso si sia esagerato molto; l’opera è stata pesantemente restaurata e il volto del sovrano completamente ridipinto; assai più confacenti a un quasi cinquantenne i volti sulle medaglie (di Costanzo da Ferrara, Gentile Bellini, Giovanni di Bertoldo; se non coincidenti fra loro, dipendenti da un singolo modello), che non quello del presunto ritratto. Un settore economico cruciale per l’epoca che qui ci interessa di più è quello del commercio dei tessuti; rispetto alle considerazioni che facevamo trentacinque anni fa le indagini e conoscenze si sono approfondite (si vedano, fra gli altri, gli studi di David Jacoby), pur non smentendo l’assun-

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5a e 5b. Bertoldo di Giovanni (Firenze 1435-1440 ca.-Poggio a Caiano 1491), medaglia con ritratto di Maometto ii sul recto e sul verso figura di Vittoria su carro, 1480 ca. Modena, Gallerie Estensi, inv. n. 9105.

to di una stretta interrelazione e “dipendenza” fra i mercati. Rispetto al Trecento, e prima, quando erano le sete orientali a farla da padrone in tutto il mediterraneo, si assiste a una sorta di ribaltamento di fronte che ci ha permesso di scrivere: «Firenze esportava tessuti in enormi quantità e uno dei clienti più affezionati era il mondo ottomano. La bilancia dei pagamenti era inclinata verso l’Arno, non il Bosforo.» (Curatola, 2018). Lo documentano perfettamente i caffetani sultaniali superstiti e anche di epoche successive realizzati con tessuti italiani conservati nel guardaroba del Serraglio del Topkapi. Va in ogni caso precisato che il rapporto fra Venezia e l’impero Ottomano (in parti-

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4. Anonimo fiorentino. Il Gran Turco, incisione su carta, 1475 ca. Berlino, Staatliche Museen, Preussischer Kulturbesitz.

colare dopo che Selim i ebbe a sconfiggere il regno Mamelucco, 1517), non fu mai su un piano di parità, nonostante le sciovinistiche e roboanti affermazioni – a esclusivo uso interno – che circolavano fra le calli della Serenissima; la fortuna lagunare, nel Quattrocento e per tutto il Cinquecento, finché non ebbe pieno sviluppo la via marittima che doppiava il capo di Buona Speranza, poggiava interamente sulla possibilità di commerci con l’Oriente (le spezie, le spezie… e non solo!), mentre per il policentrico Stato Ottomano non erano affatto interessi poi così vitali. Una costante ineludibile nel quadro delle relazioni artistiche fra Oriente e Occidente, già dal Trecento e poi nei due secoli successivi (la Persia si affaccerà su quel mercato solo nel primissimo Seicento), fu quella del traffico di tappeti – in questo caso unidirezionale, da Est verso Ovest con l’eccezione della Spagna, e dei materiali (comunque d’influenza turca) che da lì portarono in Italia gli ebrei della diaspora dopo il 1492, com’è attestato nell’opera di Vittore Carpaccio – che hanno trovato entusiastica accoglienza nelle opere di innumerevoli e prestigiosi artisti, pittori di chiarissima fama che soprattutto nelle rappresentazioni della Vergine Maria in Trono hanno quasi immancabilmente inserito un tappeto (molte volte perfettamente identificabile nelle tipologie che ci sono rimaste) con funzioni simboliche e non solo decorative (si veda alle pp. 208-216). Viene poi l’epoca del successore del Conquistatore, il figlio Beyazit ii, sultano dal 1481 al 1512, molto meno incline del padre verso l’Umanesimo europeo, ma “restauratore” di un Islam più rigido e ciononostante abile ad assecondare e guidare la geniale intuizione di quanto la diaspora ebraica (sancita dalla cattolicissima Spagna di Isabella e

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6. Quattro Caffetani eseguiti con tessuti di manifattura italiana. Istanbul, Topkapi Sarayi Müzesi, sezione tessile.

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7. Cristofano dell’Altissimo (Firenze 1525-1625), Ritratto di Cem Sultan, olio su tavola, seconda metà del xvi secolo. Firenze, Gallerie degli Uffizi, inv. n. 1890.12.

8. Ritratto del Sultano Solimano i, datato 1559 ma stampato nel 1574, incisione su carta. Londra, British Museum, inv. n. 1848, 1125.24. 9. Anonimo incisore veneziano. Solimano con tiara, xilografia su carta in tre fogli, 1532. Londra, British Museum, Print & Drawing Department, inv. n. 1845. 8-19. 1726.

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Ferdinando, 1492), potesse rafforzare sullo scacchiere mediterraneo il potere ottomano avvalendosi di una rete di contatti commerciali ben strutturata e di innegabile funzionalità; con, per di più, qualche successo militare nei confronti dei possedimenti veneziani. C’è, allora, anche l’intricata vicenda del fratellastro del sultano, Cem Sultan (1459-1495) anch’egli pretendente al trono ottomano e a lungo ostaggio dei Cavalieri Templari, dei Francesi e del Papa, in un consapevole (?) gioco politico al quale è obbligatorio accennare. Selim i (sultano dal 1512 al 1520) fece abdicare e poi assassinare il padre e non fu tenero nemmeno con i fratelli e perfino i suoi stessi figli (a parte l’erede designato), essendo il suo fine il consolidamento interno ed esterno – soprattutto a Oriente – dell’Impero. Egli sconfisse i Mamelucchi, garantendosi così anche il controllo dei luoghi santi (Mecca, Medina e Gerusalemme), e la legittimazione che ne derivava, oltre a battere a Chaldiran (1514), in virtù di un equipaggiamento bellico moderno dotato di armi da fuoco, il fino ad allora invitto Shah Isma’il i di Persia, fondatore nel 1501 dello stato sciita Safavide. Con il figlio e successore di Selim i, Solimano, l’impero poggiava su basi interne più stabili; quello del suo lungo regno (1520-1566) è da considerarsi sotto molti aspetti l’apogeo militare, per le campagne che instancabilmente il sovrano condusse in Oriente contro la mai sopita minaccia sciita e, soprattutto in Occidente, con le conquiste ungheresi e l’assedio di Vienna (1529) e le ripetute spedizioni nelle regioni

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danubiane, ma anche l’apogeo civile e artistico. Solimano significativamente per i turchi è designato Qanuni (“Legislatore”), forse per emulazione, assolutamente consapevole, di Giustiniano e da noi “Magnifico”. Quella di Solimano è figura chiave del ’500 nel mondo non solo per la costruzione delle moschee e lo stile imperiale imposto dal Genio architettonico assoluto di Sinan, esportato ovunque nell’ecumene musulmano ottomano che dominava il mediterraneo e altre terre lontane: quel modello sarà valido a Damasco, nello Yemen, al Cairo e pure a Tripoli di Libia, ma anche per la sua complessa personalità di despota illuminato, probabilmente la più scandagliata e studiata, sia su fonti orientali sia occidentali. Solimano non si limitò alla conservazione dello status quo ereditato dal padre, ma come richiesto dal ruolo di Capo Supremo dell’Impero (e guerriero), agì con determinazione per l’allargamento del proprio dominio. Ricordiamo che le grandi opere architettoniche, per tradizione, venivano finanziate dalla rendita personale del sovrano derivante dai bottini di guerra, preferibilmente a scapito di potenze Cristiane. In verità questa sua azione ebbe esiti non corrispondenti agli sforzi profusi: a ben vedere il bilancio non è fallimentare ma nemmeno è affatto proporzionato all’impegno: non negativo, perché significative vittorie vi furono, ma neppure seriamente trionfale, perché il colpo finale (come per esempio la caduta di Vienna e la liquidazione definitiva della questione sciita di Persia), non fu mai sferrato. Non è il caso di parlare di decadenza, una evidente forzatura, ma di un sostanziale stallo, forse sì. Altre considerazioni, però, se dal piano globale ci spostiamo su

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10. Fiasca o boccia in ceramica decorata con spirali ad imitazione della ceramica turca di Iznik. Genova, già collezione Frank, Collezione Carige, inv. n. 4768457-000371. 11. Iznik, Vasetto in ceramica decorato con spirali (tipologia Corno d’Oro o Tughrakesh), 1530 ca. Ritrovato a Genova negli scavi di piazza della Maddalena (1986). Genova, Museo di sant’Agostino; inv. n. mad 86 P4, rcge 84862.

12. Ceramica cosiddetta “candiana”, Veneto 1629. Londra, British Museum inv. n. 1997.0402.1

quello interno, che godette di notevole stabilità e prosperità. Venezia, sempre assai accorta e alla fine lungimirante, ha avuto nei confronti di Solimano (e dei suoi Vizir, in particolare di Sokollu Mehmet Paxha) un atteggiamento di grande attenzione e rispetto, come dimostra la notissima vicenda dell’elmo fatto fare dai gioiellieri di Rialto (con i buoni uffici e l’impegno anche finanziario del bailo – ambasciatore – veneziano a Costantinopoli, Pietro Zen), con tanto di “fattura de le zoie sono ne l’elmo, con le sue stime” (Sanudo, Diarii, tomo 56 – 1 aprile-30 settembre 1532 –, col. 10) per oltre 140.000 ducati, una cifra colossale. Vicenda immortalata da una anonima incisione xilografica di grande impatto visivo; che il sovrano abbia effettivamente indossato tale tiara, che ricorre nelle illustrazioni a margine di un anonimo e grosso modo coevo manoscritto veneziano scritto per il sultano, resta tutt’altro che dimostrato. Documenta, se non altro, un certo clima. Il Cinquecento è l’epoca dell’affermazione e sviluppo delle manifatture ceramiche di Iznik, la conciliare Nicea (si veda alle pp. 196-203, Un impero glorioso), con quella singolare “coda” delle maioliche italiane di imitazione tardo cinquecentesche e seicentesche. Alla regione ligure – con le fornaci di Genova e Savona – si attribuiscono quelle opere con disegni di minute spirali concentriche e piccole foglie (quelle turche sono note come “Corno d’Oro”, oppure “Tughrakesh”), peraltro con originali turchi rinvenuti negli scavi archeologici genovesi di piazza della Maddalena (1986), testimonianza eloquente di come i traffici commerciali siano sempre stati fiorenti nella secolare storia delle vetuste repubbliche marinare. Veneta (forse

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padovana, ma anche altre manifatture sono candidate quali possibili fonti; per esempio, perché non quelle vicentine di Nove…), l’imitazione che trae origine dagli Iznik più classici, per intendersi con il rosso ceralacca a rilievo (i quattro fiori: rosetta, giacinto, garofano e tulipano, con la lunga foglia lanceolata che in turco si chiama “saz”), e viene denominata “candiana” dando origine a una controversia terminologica e attributiva, sulla quale sono dirimenti le considerazioni di Maria Vittoria Fontana nel catalogo della mostra su Venezia e Islam del 2007. Lepanto (1571) è stata una fiammata priva di grandi conseguenze per gli equilibri in campo che vedevano da una parte un blocco forte e solidale, quello Ottomano, e dall’altra una alleanza raffazzonata, priva di coesione e di strategia unitaria, quella Cristiana. La continua pressione turca nei territori balcanici e mitteleuropei, culminata con l’assedio di Vienna (1683) e con la ritirata ottomana (non una sconfitta…), ha disseminato il nostro mondo di “cimeli” turchi di varia provenienza, in particolare in tanti castelli tedeschi e in moltissime collezioni e proprietà polacche; nel Settecento registriamo una incipiente moda “alla turchesca” (anche nella musica, ma questo sarebbe un capitolo a parte), parallela e sussidiaria della “cineseria”. Nell’Ottocento, dopo l’impatto delle spedizioni napoleoniche e la “scoperta” dell’Egitto, il quadro di riferimento cambia sensibilmente, a partire dall’immagine artefatta, fantasiosa e stereotipa che dell’Oriente islamico ci forniranno i cosiddetti pittori orientalisti. Il fenomeno – anche sull’onda lunga del fortunato e discusso Orientalism di Edward Said (1978) – è diventato piuttosto alla moda, anche se in forme talvolta discutibili. È il caso di una recente (2019-2020) mostra al British Museum di Londra sull’influenza del mondo islamico sull’Occidente artistico che appare decisamente un’occasione perduta. Un insuperabile e insuperato provincialismo (e una miopia congenita, ove in queste cose ci vorrebbe un sano e venereo strabismo) ha portato i curatori della rassegna a identificare il mondo occidentale con l’Inghilterra, che nel contesto dato ha avuto un ruolo davvero marginale e ininfluente, per non dire insignificante! La storia dei rapporti artistici fra mondi che sono stati in competizione e complementari è ancora da scrivere in molti suoi capitoli. Occorre che da entrambe le parti si abbandonino gli atteggiamenti di accigliata superiorità, e si affrontino la realtà e la Storia con uno sguardo quanto più possibile scevro da pregiudizi e possibilmente onnicomprensivo; quantomeno oggi esistono le basi per un ragionamento assai più articolato e incisivo di quanto non siano i disordinati appunti e le suggestioni qui raccolte.

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DOCUMENTAZIONE COMPLEMENTARE


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3 1. La Isa Bey Cami a Selçuk. 2. Sezione e pianta del Sultan Han presso Kayseri. 3. La moschea di ‘Ala ad-Din a Konya (G. Goodwin).

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4. La madrasa Karatay a Konya. 5. La madrasa Ince Minareli a Konya.

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6. La Çifte madrasa a Kayseri: 1. Madrasa; 2. Ospedale; 3. Türbe. 2

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7. La madrasa Buruciye a Sivas. 13

8. Sezione e pianta della madrasa Gök a Sivas (A. Gabriel).

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9. Sezione e pianta del complesso di Divriéi: 1. Moschea; 2. Ospedale.

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10. La moschea Exrefoélu di Beyxehir. 11. Mama Hatun Kümbed a Tercan.

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12. La Gök Cami di Amasya. 13. Il palazzo di Qubadabad. 11

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14. La Yexil Cami di Iznik. 15. La zaviye Nilüfer Hatun a Iznik (E.H. Ayverdi).

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16. Piano superiore e piano terreno dello Hüdavendigar di Bursa (E.H. Ayverdi).

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17. Il complesso di Yıldırım a Bursa. 1. Zaviye; 2. Madrasa; 3. Türbe; 4. Hammam (A. Gabriel) 18. La Ulu Cami a Bursa (E.H. Ayverdi). 19. La Eski Cami (Moschea Vecchia) a Edirne (E.H. Ayverdi). 20. Piano terreno della Yexil Cami a Bursa (Fatin Uluengin, Hüsrev Tayla).

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21. La Muradiye zaviye di Edirne, ora moschea (E.H. Ayverdi). 17

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22. La moschea di Yörgüç Paxa ad Amasya (E.H. Ayverdi). 23. La moschea Uç Xerefeli di Edirne. 24. La moschea di Mahmud Paxa a Istanbul (E.H. Ayverdi). 25. La moschea di Rum Mehmed Paxa a Üsküdar (E.H. Ayverdi). 26. La moschea di Atik ‘Ali Paxa a Istanbul: 1. Moschea; 2. Türbe (A. Yüksel).

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27. Il Çinili Köxk, Topkapı, Istanbul (S.H. Eldem).

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28. Il complesso di Maometto ii, il Fatih, a Istanbul: 1. Moschea; 2, 3, 4, 5, 6. diverse madrase; 7. Türbe del Fatih; 8. Türbe di Gülbahar Hatun; 9. Ospedale; 10. Albergo (E.H. Ayverdi).

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29. Il complesso di Bayazid ii a Edirne: 1. Moschea; 2. Madrasa; 3. Ospedale; 4. Imaret; 5. Caravanserraglio (A. Yüksel).

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30. La moschea di Bayazid ii a Istanbul (A. Yüksel). 0

31. La moschea di Selim i a Istanbul (A. Yüksel).

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32. Il complesso di Haseki Hürrem a Istanbul: 1. Moschea; 2. Imaret; 3. Ospedale; 4. Madrasa (A. Kuran). 28

33. Il complesso di Xehzade a Istanbul: 1. Moschea; 2. Türbe del principe Xehzade; 3. Türbe di Rüstem Paxa; 4. Madrasa; 5. Albergo; 6. Caravanserraglio; 7. Imaret; 8. Scuola primaria (A. Kuran). Alle pagine seguenti: 34. Il complesso della Süleymaniye a Istanbul: 1. Moschea; 2, 3. Madrase; 4. Scuola primaria; 5. Madrasa medica; 6. Ospedale; 7. Mensa pubblica; 8. Albergo; 9 e 10. Madrase; 11. Hammam; 12. Madrasa (secondo D. Kuban); 13. Türbe di Solimano; 14. Türbe di Haseki Hürrem; 15. Stanza di servizio; 16. Tomba di Sinan.

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35. La moschea Selimiye a Edirne: 1. Moschea; 2. Madrase; 3. Scuola primaria. 36. Complesso di Mihrimah Sultana a Üsküdar: 1. Moschea; 2. Madrasa; 3. Scuola primaria (A. Kuran).

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37. La moschea di Rüstem Paxa a Istanbul (A. Kuran).

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39. La moschea di Kara Ahmet Paxa a Istanbul (A. Kuran).

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40. La moschea di Sokollu a Kadirga, Istanbul: 1. Moschea; 2. Madrasa (A. Kuran).

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38. Il complesso di Mihrimah Sultana alla porta di Edirne, Istanbul (A. Kuran).

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41. La moschea di Sultan Ahmed (Moschea Azzurra) a Istanbul (Z. Nayir).

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42. La moschea Laleli a Istanbul (D. Kuban).

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43. Il complesso della Nuruosmaniye a Istanbul: 1. Moschea; 2. Madrasa; 3. Imaret; 4. Biblioteca; 5. Türbe; 6. Padiglione imperiale; 7. Sebil; 8. Fontana (D. Kuban).

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BIBLIOGRAFIA 19

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«Ars Islamica» «Ars Orientalis» ei Encyclopaedia of Islam icta International Congress of Turkish Art jiras «Journal of the Royal Asiatic Society» Mq «Muqarnas» ao

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QUARTA CORTE 18

GIARDINO DELL'ELEFANTE

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SECONDA CORTE

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44. Palazzo Topkapı a Istanbul: 1. Porta mediana; 2. Cucine; 3. Porta della felicità; 4. Sala del trono; 5. Padiglione del Fatih (parte dell’attuale Tesoro); 6. Stanza dell’archiatra; 7. Moschea; 8. Corte interna; 9. Tesoro dei finimenti; 10. Stalle imperiali; 11. Divan o Sala del consiglio; 12. Mantello del Profeta; 13. Biblioteca di Ahmed iii; 14. Sala della Circoncisione; 15. Padiglione di Murad iii; 16. Padiglione di Osman iii; 17. Padiglione di Baghdad; 18. Padiglione di Revan; 19. Padiglione Mecidiye; 20. Alloggio degli eunuchi bianchi; 21. Corte della Valide; 22. Appartamenti delle concubine; 23. Alabardieri (E.H. Ayverdi). 45. Palazzo di Ixak Paxa a Doéubayazit (D. Kuban).

44 1 PRIMA CORTE

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Indice dei nomi di persona, delle città e dei monumenti

I monumenti sono indicizzati sotto il luogo. Quando in un luogo si trovano più monumenti sono elencati prima i complessi o külliye, poi le moschee o cami, le madrase, le chiese, infine le altre voci. Si utilizzano le seguenti abbreviazioni: cpl.: complesso; m. congr.: moschea congregazionale; m.: moschea; mad.: madrasa; c.: chiesa; Abdülaziz, 265 Abdülmecid, 263-264 Abianeh, 98 Abu Muslim Naccar, 94 Abu Nasr Ahmad, 116 Adana, 263 Adrianopoli, v. Edirne Afyon, m. congr., 87, 90 m. di Gedik Ahmed Paxa, 144 Aghtamar, 86 Ahi / confraternita della Virtù, 117, 127 Ahlat, 23, 80, 86, 90, 94-95 türbe di Sheikh Egirt / Ulu Kumbet, 94 Ahmad di Tiblisi, ebanista, 95 Ahmad Najm ad-Din, 99 Ahmad Shah, 77 Ahmed i, 232, 234-235, 240, 248 Ahmed iii, 116, 243, 246, 254 Ahmedi, 220 Aksaray, 47 Ulu Cami, 98 Sultan Han, 42-43, 47 Akxehir, mad.Tax, 55 türbe del Sayyed Mahmud Hayrani, 99 ‘Ala ad-Din ‘Ali Bey, 76 ‘Ala ad-Din Ertena, 60 ‘Ala al-Din Kay Qubad i, 16, 18, 35, 43, 4748, 57, 74, 87, 105 Alamut, 18 Alanya / Korakesion / Kalanoros / ‘Ala’yyia, 47 Alara, 47 Alay Han, 47 Alberti Leon Battista, 172 Albisola, 199 Aleppo, 18, 26, 245 Adliye Cami, 166 Hüsrev Paxa Cami, 160 Alessandro Magno, 18, 271 ‘Ali, 112, 198 ‘Ali Jafar, türbe, 60 ‘Ali, miniaturista, 224 Amasya, 60, 231 cpl. di Bayazid ii, 148 m. di Bayazid Paxa, 131 m. di Yörgüç Paxa, 132, 270 mad. Gök, 94, 269 mad. Kapiaga, 147 tekke di Pir Ilyas, 132 Amir Khusrau Dilavi, 222 Ancona, 116, 210 Ani, 15, 26, 112 Ankara, 20, 62, 210, 245 m. Arslanhane / Aki Xerafad din Cami, 90 al-Ansari Ayyub, 138 Antalya, 16, 47

300

minareto Yivli, 55, 63 Antonello da Messina, 209 Aqqoyunlu, 12, 20, 71, 156, 219 Arabi, 13, 71 Ardapil, 104 Arifi, 224 Armeni, 23, 104, 150 Armenia, regno di, 26 Arslan Alp, 15-16 Arslan ii Kilich, 16, 48, 57, 62, 87, 105 Arslan iv Kilich Rukn ad-Din, 75, 116 Aslanapa O., 196 Aspar, 157 Aspendos, 87 Köprü Çay, 30, 33 Assassini, setta ismailita, 16, 18 Atasoy N., 193, 196, 198, 203, 224, 248 Atatürk, 264 Atil, 15 Avari, 12-13 Ayas Paxa, 160 ‘Ayn Jalut, 18 Ayverdi E.H., 272 Ayyubide, dinastia, 16 Babinger Franz, 139, 269 Badr ad-Din Lu’lu, 100 Baer E., 104 Baghdad, 13, 15, 21, 112, 188 Porta del talismano, 100 Balyan, famiglia e vari membri, 263-265 Bandini Bernardo, 270 Barbarossa Federico, 47 Basilea, 268 Basilio i, 77 Bassano Jacopo, 209 Bayazid i, 20-21, 62, 203 Bayazid ii, 20, 144, 148-149, 193, 222, 224, 229, 273 Bayazid Y=ld r m, 122, 137 Baysunghur, Yıldırım, 193 al-Baysunghuri Ja‘far, 193 Beato Angelico, 209 Bektaxiyya, confraternita, 117, 156, 159 Belgrado, 159, 166 Bellapais (Cipro), 76 Bellini Gentile, 139, 194, 199, 209, 222, 222, 271 Beyazid Ahi, 127 Beyxehir, m. Exrefoélu Suleyman Bey, 90, 96, 104, 87, 96 Bessarione Giovanni Basilio, 268 Bilecik, Orhan Gazi Cami, 118 Birgi, Ulu Cami, 90, 96 Bisanzio, v. Costantinopoli Bizantino, impero, 15, 16, 18, 23 Bogumili, 77 Bogut, stele, 13 Bordon Paris, 209-210 Braxov, 212 Braudel Fernand, 267 Buide, dinastia, 15 Bukhara, 104 Bursa, 20, 118, 122, 127, 131, 139, 141, 143, 146, 196, 204-206, 220, 245 cpl. di Bayazid Y=ld=r=m, 122, 126 m. di ‘Ala ad-Din, 118 Ulu Cami, Grande Moschea, 122, 245

Yexil Cami / Moschea Verde, 126, 202 türbe di Murad ii, 127 Hüdavendigar, 77, 119, 122 Burucerde Hibetullah, 63 Çagman F., 220 Cairo, 156, 188, 215 cpl. di Sultan Hasan, 69 Candarli Kara Halil Paxa, 118 Caracalla, 30 Caravaggio, 209 Carpaccio Vittore, 209, 215, 273 Çarxambe, m., 232 Çelalzade Mustafa, 20 Çelebi Hasan, 172, 188 Çemixgezek, 210 Cendere Suyu, 30 Centurione, famiglia, 215 Cerasi M., 240 Chaghri Beg, 15 Chanakkalè, 137, 203 Cihangir, 224 Çildir, 255 Çildiroélu, clan, 255 Çildiroéullari, 255 Cizre, Grande Moschea, 108 Coecke Pieter van Aelst, 150 Colonia, 47 Corasmia, 16 Costantino il Grande, 143, 240 Costantino ii, 77 Costantinopoli, 13, 15, 20-21, 23, 26, 136-137, 197, 240, 249, 268, 271, 279. Vedi anche Istanbul Costanzo da Ferrara, 194 Crivelli, 209 Crowe Y., 80, 196 Cuneo P., 112 D’Aronco Raimondo, 266 Damasco, 18, 156, 188, 209, 231, 245 cpl. di Sinan, 178 moschea omayyade, 26, 132 Damat Ibrahim Paxa, 254 Danishmenidi, 16, 60 Davud Aéa, 232 De Amicis E., 249 Dei Benedetto, 271 Delhi, padiglione Purana Qila, 144 Denny W.B., 117, 203 Divriéi, 63, 77, 256 al-Dar al-Shifa, Cami e Daru- xxifa, 63, 80, 82, 86, 95, 102 Sitti Malik Kumbet, 94 Diyarbakir, 30, 32, 77, 87, 105, 108, 112, 116, 156 m. congr., 26, 29 m. di Fatih Paxa, 156 Doéubayazid palazzo di Ixak Paxa, 255, 256, 258, 276 Doria, famiglia, 215 Dunaysir, m., 26, 94 Eco Umbert, 268 Edirne / Adrianopoli, 20, 137, 172, 220, 222, 231, 245, 248 cpl. di Bayazid ii, 146, 157, 146-147, 194, 270 m. Muradiye, 131, 197, 202 m. Selimiye, 141, 163, 178, 194, 231, 234-235 m. Uç Xerefeli, 123, 136, 157,

170, 172 Ulu Cami / Eski Cami / Mo- schea Vecchia, 123, 172 Efeso, 268 Elazié, 77 Eldem S.H., 270 Emir Sultan, 123 Er Toshtuk, 112 Erbahan N., 197 Erdmann Kurt, 30 Erizzo, bailo, 254 Ermenek, Ulu Cami, 96 Ertoghrul, 18 Ertug Ahmet, 43 Erzerum / Arx Romanorum / Karim / Theodosiopolis, 231, 256 m. congr., 71, 77 mad. Çifte Minareli, 71 mad. Yakutiya, 74 Erzincan, 77, 116 Esir ‘Ali /Acemi ‘Ali / ‘Ali il Persiano , 157 Eskixehir / Sivrihisar, cpl. di Battal Seyyit Gazi, 156, moschea, 90 Esmahan Gevher Sultana, 183 Eugenio v papa, 268 Eunuchi 232, 242, 243 Evdir Han, 47 Fard Kir, 47 Farhad Paxa, 188 Fatehpur Sikri, 144, 241 Fatimidi, 15-16 Ferrara, 268 Firdusi, 13 Firenze, 195, 199, 210, 263, 268 Firuz Bey, 131 Fontana Maria Vittoria, 280 Fossati Gaspare e Giuseppe, 266 Fustat, 104 Gabriel A., 269-270 Gallipoli, 20 Gazi Orhan, 118, 196 Gebze, cpl. di Çoban Mustafa Paxa, 157 Genghis Khan, 16, 18, 20 Georgia, regno, 16, 26 Georgiani, 104 Gerusalemme, 277 cupola della Roccia, 200 Gevher Nesibe Sultan, 57 Ghazna, Ghaznavidi, 15 Ghirlandaio Domenico, 209, 209 Giannizzeri, 21, 117-118, 158-159, 172, 241-242, 262-263 Giona, figlio di Seljuk, 15 Giotto, 209 Giovanni viii Paleologo, 268 Giovanni di Paolo, 209 Giuseppe Paleologo, 268 Giustiniano, 241, 278 Ghiyat ad-Din Kay Khusrau ii, 43, 57 Goodwin G., 122, 131, 144, 156, 177, 234, 256, 262, 267 Gozzoli Benozzo, 269 Grant Ellis C., 215 Graz, 220 Guglielmo ii, 266 Guzel Ahmed Paxa, 234 Haci Bektax Veli, 117 Haci Ivaz, 127

Hakim Han / Tax Han, 47 Halveti, ordine, 132 Hama, 196 Han, stirpe, 12, 34 Harran, 26 Hasan Paxa, 255 Hasankeyf, ponte, 30 Haseki Hürrem, 163, 172 Hatun Yidiz, 94 Hayreddin Mimar, 148 Hayreddin Paxa / Barbarossa, 160, 224 Herat, 193 Hereke, 216 Hillenbrand R., 94 Holbein Hans, 209-210 Hoseyin, 172 Hulegu, 18 Ibn al-Athir, 14 Ibn Battuta, 74, 118 Ibrahim Paxa, 172, 215, 217, 246 Ilkhanidi, 18 Ilyas, 224 Inegöl, m. di Ixak Paxa, 141 Incir Han, 47 Intizami, 224 Ipxiroélu M.S., 219 Iranici, 13 Ixak Paxa, 255 Isfahan, 157, 241, 245 m. del venerdì, 69, 71, 94 ‘Ali Qapu, 144 Chihil Sutun, 144 Hasht Bihisht, 144 Israele, figlio di Seljuk, 15 al-Istakhri, 14 Istanbul, 12, 100, 138-150, 157, 170, 172, 178, 196, 198, 204, 215-216, 222-224, 230-232, 240, 248, 254, 262-266 complessi / külliye di Ahmed i / Ahmediye / M. Azzurra, 18, 194, 215, 234- 235, 235, 240, 246 di Atik ‘Ali Paxa, 141 di Bayazid ii, 141, 144, 150, 157, 198, 240, 245, 254 di Haseki Hürrem, Rosselana, 18, 160, 272 di Ismihan Sultana e Sokollu Mehmed Paxa a Kad=rga, 183, 234, 240 di Mehmed ii il Fatih, 137, 141, 143, 170 di Mihrimah Sultana a Edirnekap=, 254 di Mihrimah Sultana / Iskele Cami a Üsküdar, 163, 166, 174, 177 di Nur Banu a Üsküdar, 231 Nuruosmaniye, 254, 263 Solimano-Süleymaniye Cami, 170, 172, 174, 186, 188, 202, 234, 245, 254, 272 – türbe di Haseki Hürrem, 172, 272 – türbe di Solimano, 172, 272 di Xehzade, 163, 166, 178, 232, 234, 246 – türbe di Rüstem Paxa, 177 – türbe di Xehzade, 163 moschee di Davud Paxa, 140

di Firuz Agha, 150, 172 di Kara Ahmed Paxa, 172 di Kiliç ‘Ali a Tophane, 231 Laleli, 254, 262 di Mahmud Paxa, 139 di Mehmed Sokollu Paxa ad Azapkap=, 231 di Nisanc= Mehmed Paxa, 232 Nusretiye, 263 di Rum Mehmed Paxa a Üsküdar, 140 di Rüstem Paxa, 163, 166, 174, 202 Silivrikap=, 172 Yeni Cami / moschea Nuova a Emi nönü / Sirkeci, 198, 232, 265 chiese SS. Apostoli, 143 Sant’Irene, 149, 241 Pantocrator, 149 S. Salvatore in Chora / Kahriye Cami, 149 SS. Sergio e Bacco / Küçük Aya Sofya Cami, 149 Santa Sofia, 137, 149, 156, 163, 170, 174, 231-232, 234, 240, 249, 266 dello Studion, 149 S. Teodoro / Kilise Cami, 149 Theotokos Pammacharistos, 149 palazzi Beylerbey, 265 Çiraéan, 265 Dolmabahçe, 18, 264-265 – padiglione di Ihlamur, 255 Topkap= / Topkap= Saray=, 18, 116, 137, 144, 166, 234, 240, 264 – Bab-i Hümayun, 241 – Biblioteca di Ahmed iii, 243 – corte degli eunuchi Neri, 242 – Hammam di Selim ii, 243 – Ortakap=-Porta mediana, 241 – padiglione di Baghdad, 243 – padiglione di Revan, 243 – Porta della Felicità, 159, 243 – Tesoro, 243 quartieri e zone della città Aksaray, 263 Anadolu Hisar= / castello di Anatolia, 137 At Meydan= / Ippodromo, 183, 193, 240, 266 Bexiktax, mausoleo dell’ammi raglio Barbarossa, 160 Çemberlitax, colonna di Mar ciano, 240, 254 Eminönü, 174 Eyyüp, 18, 138 Galata/Pera, 223, 240, 262, 266 Galatasaray Lycée, 265 Haydarpaxa, 263 Porta di Edirne, 166, 240 Rumeli Hisar= / Castello di Rum, 137 Üsküdar, 264

Acquedotto di Valente, 150, 240

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Bagni di Haseki Hürrem, 18 Bedesten, 245 Çinili Köxk, 144, 146 Fontana di Ahmed iii, 246, 249, Scuola imperiale, 266 Terme di Zeuxippus, 174 Türbe di Mahmud ii, 264 Yerebatan, cisterna, 240

Ittiti, 9 Iznik/Nicea, 10, 16, 20, 47, 118, 122, 140, 144, 172, 177-178, 196- 202, 208, 224, 232-235, 279 m. di Haci Özbek, 118 Yexil Cami / Moschea Verde, 118 Jcoby David, 271 Jafet, 12 Jalal ad-Din Karatay, 50 Jamal ad-Din Mubarak ibn ‘Abd Allah, 100 Jand, 15 al-Jaziri, 116 Jin Xing, unione tribale, 12 Kadarè Ismail, 268 Kara Ahmet, 172 Kara Memi, 193 Karahisari Ahmad Shamsaddin, 172, 186, 188 Karaman, 18, 150 Imaret di Ibrahim Bey Karama noélu, 100 Karapinar, 216 Kars, 15 Kasabakoy / Kastamonu, m. di Mahmut Bey, 90, 87 Kaxic= Hasan, 235 al-Kashgari, 14 Kay Kavus i, 87, 100 Kay Kavus ii, 75, 100 Kay Khusrau i, 87 Kayseri / Qaysariyya / Cesarea, 15, 30, 42, 56-57, 60, 116, 150, 246 mad. Çifte., 57, 269 mad. Köxk, 60 mad. Haji Kilich, 60 cpl. di Mahperi Huand Khatun, 57, 60 Döner Kumbet, 60 Külük Cami, 57 Kayqubadiye, 87 Sultan Han, 35-36, Ulu Cami, 57 Khach Dorbatly, 94 Khazar, qaghanato, 13, 15 Khazari, 13, 15 Khirbat al Mafjar, 105 Khiva, m. congr., 90 Khurxah Ibn Mughith, 80, 86 Kirxhehir, tomba di Malik Ghazi, 94 Koluk ibn Abdullah, 55 Konya / Iconium, 15-16, 18, 26, 30, 42, 47, 60, 87, 105, 108, 116, 210, 216, 256 m. ‘Ala ad-Din, 47-48, 48, 50, 84, 87, 95, 104, 267 m. Sahib ‘Ata, 56, 90 m. Selimiye, 141, 143 mad. Ince Minareli, 50, 56, 96, 104, 267 mad. Karatay, 50, 55, 87 mad. Sirçali, 48 palazzo reale, 105

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Zazadin / Sa’ad ad-Din Han, 47 Kosovo, 268 Krahl R., 197 Kütahya, 197, 202, 223 Labrouste H., 263 Ladik, 216 Lamartine A. de, 248 Leonardo da Vinci, 271 Leone Isaurico, 241 Lepanto, 21, 280 Levni, 224 Lombardi Alfonso, 194 Londra, 271, 280 Loqman Axuri Seyyed, 224 Lorenzetti Ambrogio, 209 Loti Pierre, 138 Lotto Lorenzo, 209 Lucullo, 9 Luigi xv, 248 Lutfi Paxa, 160 Mackie L.W., 203 Mahmud i, 254 Mahmud ii, 118, 262, 264 Mahmud Paxa, 245 Mahmud Sanjar Shah, 108 Majorca, 202 Malatya, 47, 60, 77 moschea, 92, 94 al-Malik al-Sa‘id Kakhr ad-Din Bahram Shah, 80 Malik Shah, 15 Malcolm Noel, 267 Mamelucchi, 18 Manguberti, 95 Manisa, 127, 231 cpl. Muradiye, 231-232 Hatuniye Cami, 149 Ulu Cami, 94, 132 Mevlevihan, 119 Mantegna Andrea, 210 Manzikert, 10, 15, 23 Maometto il Profeta, 222, 243-245 Maometto ii, il “Fatih” (Conquistatore), 20, 137-138, 141, 189-194, 203, 210, 222-223, 240, 243, 245, 269, 271 Maraghah, Gunbad-i Kabud, 62 Marby, 210 Marco Eugenio, 268 Mardin, 26, 116 Martino iv papa, 268 Masud i, 15 Matrakç= Nasuh, 223 Matuz J., 188 Mawlawiyya, ordine dei “dervisci ruotan ti”, 18 Mecca, 20, 156, 224, 234, 268, 277 Ka’ba, 35, 204 Medici, 195, 215 Lorenzo de’ 269, 270, 271 Giuliano de’ 270 Lucrezia de’ 271 Medina, 20, 224, 268, 277 Medley M., 196 Mehmed i, 127 Mehmed ii , vedi Maometto ii, il Fatih (Conquistatore) Mehmed iii, 21, 232 Mehmed iv, 223, 248

Mehmed Aéa, 231-232, 234, 240 Melas, 216 Melling A.I., 266 Memling, 209 Mengücek, 77 Mengugechidi, 16, 77 Merv, 15 Mevlana, confr., 99, 100, 116, 119 Michele, figlio di Seljuk, 15 Mihrimah Sultana, 163, 174 Milano, 116 Milas, m., 131 Mileto, m. di Ilyas Bey, 118 Ming, dinastia., 196 Mirak Aqa, 193 Modun, 12 Moghul, dinastia, 116, 127, 187 Mohàcs, 224 Mongoli, 13, 18, 60, 71 Morone Domenico, 210 Mosè, figlio di Seljuk, 15 Mosul, 47, 105, 116 Mucur, 216 al-Muqannà, 14 Muhammad, 268 Murad i, 20, 118-119 Murad ii, 20, 136 Murad iii, 21, 224, 231, 242 Muradi, 223 Mustafa iii, 172, 252, 254 al-Muta‘sim, 18 al-Muta‘simi Yakut, 188 Muzaffer, 63 Nadir Shah, 256 Najm ad-Din Alpi, 116 Napoli, 263 Naqqax Baba, 193-194 Naqqax Osman, 223-224 Nayir Z., 275 Nemrut Daé=, 30 Nevxehir, 246 Afzikara Han, 42, 44 Niccolò da Buonaccorso, 209 Nicola i, 266 Nicopoli, 123 Niéde, 246 m. congr. di ‘Ala ad-Din, 74-75 m.di Sunéur Bey 75, 75 Ak mad. / mad. Bianca, 76, 77 Karatay Han, 42-43, 84 mausoleo di Hudavend Kha- tun, 75- 76 Nigari, Haydar Reis, 223 Niksar, Kirk Kizlar Kumbet, 94 Nilüfer Hatun, 119 Nizam al-Mulk, 16 Noè, 12 Nuh Seyyed, 223 Oghuz, stirpe, 11-12, 14, 18 Oljeitu, 94 Oney G., 104 Ortuchidi, 16, 87 Osman iii, 254 Osman, miniaturista, 224 Osman/Othman Khan, 18, 117 Osman b. ‘Abd Allah, 116 Otranto, 159 Otrar, 20 Otto Dorn K., 104 Parigi, 263

Pauliciani, 77 Pechino, Grande Muraglia, 12 Pergamo, altare, 266 Persiani, 156 Piccolpasso Cipriano, 199 Piero della Francesca, 210 Pietro il Grande, 21, 248 Pir-i Bakran, 86 Piri Reis, 222 Préault A. A., 266 Preto Paolo, 270 Pisano Antonio di, 268 Qalam Muhammad Siyah, 188, 219-220, 220 Qara Qitai, 16 Qaramanide, dinastia, 74, 76, 90 Qaraqanidi, 15 Qaraqoyunlu, 12, 20 Qipchaq, 30, 18 Qubadabad, 87 Qutlumush, 16 Raby Julian, 193, 196, 198, 210, 271 Raffaellino del Garbo, 209 Rodi, 159, 166, 202 Rogers M., 193, 198, 210, 216 Roma, 268 Romano iv, 15 Rossini Giovanni Francesco, 254 Rum Mehmed Paxa, 14 Rumi Jalal ad-Din, 18, 99, 116 Ruqn ad-Dawla Da’ud ibn Sokmen, 116 Ruqn ad-Din Kilich, v. Arslan iv Rus, 15 Russafa, 26 Rüstem Paxa, 166, 172, 174, 177, 204 Safavidi, 20, 71 Safiye, 232 Sahi Ata Fahraddin ‘Ali, 90 Sahib Ata, 100 Salomone, 220 Salonicco, 150 Saltuqidi, 16 Salviati Iacopo, 271 Salzmann, 202 Samara, 241 Samarcanda, 20, 197 San Pietroburgo, 248 Sanjar, 16 Sano di Pietro, 209 Sanudo Marin, 204, 215, 217 Sarajevo, 143 Sarre Friedrich, 196 Sasanidi, 30 Sayfaddin Torumtay, 94 Sciiti, 172 Xehzade, principe, 160, 202 Xehzade Bayazid, 207 Selçuk/Efeso, 26 m. di Isa Bey, 26, 132, 267 Selim i Yavuz, 20-21, 150, 156-157, 193, 197, 202-203, 215, 222, 272, 277 Selim ii, 183, 223-224, 232, 243 Selim iii, 263 Seljuk, 15 Serbi, 20 Settimio Severo, 30 Shah ‘Abbas, 245 Shah Cihan Khatun, 60

Shah Kulu, 193 Shah Isma’il i di Persia, 277 Shaikh Lutfallah, 157 Sheikh Hamdullah, 149, 188, 193 Sheikhülislam Ebusuud, 166, 188 Shiraz, 222 Xian, stele, 23 Xibiu, 212 Xiblizade Ahmad, 222, 222 Siirt, 112, 116 Sinan Bey, 222 Sinan Atik / il Vecchio, 143 Sinan Koça Mimar, 21, 136-137, 141, 144, 157-160, 163, 166, 170, 172, 177-178, 183, 186, 188, 202, 231-232, 234, 242 Sinop, 16 Xiungnu, stirpe, 12 Sivas / Sebask / Sebasteia, 47, 60, 77, 116 Ulu Cami, 62 mad. Bürüciye, 62-63, 269 mad. Çifte Minareli, 62-63, 69, 71, 64, 66-67 mad. Gök / mad. blu, 62-63, 69 mad. Xifaiye, 62, 62 Kay Kavus, türbe, 62 Siyavux Paxa, 232 Skopje, Isa Bey Cami, 143 Smirne, 216 Sogdiani, 14 Sokollu Mehmed Paxa, 231, 234, 235, 279 Solimano il Magnifico, 20-21, 143, 148, 157, 160, 163, 166, 172, 177- 178, 188-189, 193-194, 199-200, 202-203, 223- 224, 241, 245, 278, 279 Spallanzani Marco, 209, 271 Stoccolma, 210 Sunghur Bey, 75, 75 Susuz Han, 47 Tabriz, 20, 116, 126, 140, 150, 156-157, 188, 193, 197, 215 Moschea Blu, 210 al-Tabrizi Minuchir Badi al-Din, 220-222 Tang, 12-13 Tarabya, 248, 266 Tbilisi, 255-256 Tercan, mausoleo di Mama Hatun, 94 Termez, minareto di Ja’kurgan, 55 Tezcan H., 203, 216 Tiblisi, 95 Timur / Timur Lang / Tamerlano, 20, 62, 222 Timuridi, 12 Tiziano, 206 Toghrul Beg, 15 Tokat, Hatuniye Cami, 149 türbe di ‘Ali Tusi, 94 Tolui, 18 Torquemada Juan de, 268 Torumtay Sayfaddin, 94 Trebisonda, 188 Santa Sofia, 150 Trebisonda, regno, 16, 20 Turan Malik, 77, 80 Turchi Chagatai, 18, 20 Uiguri, 14 Unni, 12

Urfa, 15 Ürgüp, m. Taxkin Paxa, 98 Uxak, 210, 224 Venezia, 199, 206, 210, 212, 215, 217, 219, 242- 243 Santi Giovanni e Paolo, 212 Scuola di Sant’Orsola, 215 Vienna, 21, 100, 229, 263, 277, 278, 280 Vittoria, regina, 264 Vittorio Emanuele, 215 Vladivostok, 12 Von Bode W., 209 Ward R., 198 Wei Occidentali, 12 Wolsey, cardinale, 210 Yakub Shah, 150 Yakup Paxa, 132 Ya‘qub Beg, 219 Yazd, m., 69 Yirmisekiz Çelebi Mehmed Efendi, 248 Yuan, dinastia, 196 Zanghidi, 16 Zayn ad-Din Beshare, 74 Zen Pietro, 217, 279

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Crediti fotografici

© The al-Sabah Collection, Dar al-Athar al-Islamiyyah, Kuwait, n. lns 769C: 199(12) Foto Scala-Firenze, su concessione del Ministero per i Beni e le Attività Culturali: 211(33) Foto Scala-Firenze/bpk Berlin, foto Dietrich Graf: 215(39) © Eduard Widmer (Zürich): 49(24), 68(45) Ali Konyali (Istanbul) : 194(5) Archivio Jaca Book: 199(13), 224(53) Bams Photo -Vision: 238(4), 243(6) Cemal Emden (Istanbul): 124(5), 125(6), 127(8), 128(9), 130(11), 133(13), 134(14), 135(15), 137(17), 143(5,6), 161(2), 171(13), 175(16), 179(20), 183(26), 184(27), 187(29), 240(5), 248(11), 253(16), 255(18), 264(6), 265(7), 268(10) Giovanni Curatola (Firenze) : 160(1), 200(14,16), 202(19,20,21), 204(23,24), 208(29,30), 210(32), 213(36), 214(37), 216(42), 219(46), 220(47,49), 230(59,60), 231(61), 251(14) H.J. Budeit (Dortmund) : 84(62) Hadiye Cangökçe (Istanbul) : 100(3), 101(4,5), 103(6), 104(7), 105(8), 109(11,12), 110(14), 111(15), 112(16), 113(17,18,19), 116(21), 117(22), 191(1), 193(3), 194(4), 197(8,9), 205(25,26), 207(27), 208(28), 209(31), 219(44,45), 220(48), 222(51), 223(52), 224(54), 227(56) Luca Mozzati (Milano) : 23(1), 24(2), 25(3), 26(4), 28(5), 29(6), 30(7), 32(8), 33(9), 35(10), 36(11), 37(12), 38(13), 39(14), 40(15), 42(16), 43(17,18), 44(19), 45(20), 46(21,22), 48(23), 51(25), 52(26), 53(27), 54(28), 55(29,30), 56(31,32), 57(33), 58(34), 59(35), 60(36), 61(37), 63(39,40), 64(41), 65(42), 66(43), 67(44), 69(46), 70(47), 71(48,49), 72(50), 73(51), 75(52,53), 76(54,55), 77(56), 78(57), 81(58), 82(59,60), 83(61), 85(63), 86(64), 87(65), 88(66), 89(67), 91(68,69), 92(70), 93(71), 94(72), 98(1), 99(2), 108(9,10), 110(13), 120(1), 121(2), 122(3), 123(4), 126(7), 129(10), 132(12), 136(16), 140(1), 141(2,3), 142(4), 144(7), 147(9), 148(10), 149(11), 150(12), 151(13), 153(15), 154(16), 155(17), 156(18), 157(19), 163(4), 164(5), 165(6), 166(7), 167(8), 168(10), 169(11), 170(12), 172(14), 173(15), 175(18), 177(19), 180(22,23), 181(24), 182(25), 186(28), 234(1), 235(2), 237(3), 244(7), 245(8,9), 246(10), 250(12,13), 252(15), 254(17), 259(1), 260(2), 261(3), 262(4), 263(5), 266(8), 267(9) Reha Günay (Istanbul) : 162(3), 167(9), 175(17) Tiroler Landesmuseum Ferdinandeum : 115(20) Universiteitsbibliotheek, Leiden : 145(8)

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Dai volumi : Bisanzio, Costantinopoli, Istanbul, a cura di T. Velmans, Jaca Book, Milano 2008 : 225(55), 228(57), 229(58) Eredità dell’Islam. Arte islamica in Italia, a cura di Giovanni Curatola, 1993 : 196(7), 200(15), 216(41) Gülru Necipoflu, The Age of Sinan. Architectural culture in the Ottoman Empire, London 2005 : 179(21) Islam specchio d’Oriente, rarità e preziosi nelle collezioni statali fiorentine, Livorno 2002 : 216(40), 220(50) Parviz Nemati, The Splendour of Antique Rugs and Tapestries, pdn Communications, New York 2001: 218(43) Rogers-Ward, Suleyman the Magnificent, London 1988 : 192(2) Turks: A Journey of Thousand Years, 600-1600 A.D., a cura di Filiz Cagman, Nazan Olcer e David J. Roxburgh, London 2005 : 196(6), 199(10,11), 201(17,18), 203(22), 213(34,35) Le cartine 1 e 2 a pagina 17 e 3 a pagina 19 sono state disegnate da Daniela Blandino sulla base di Turks: A Journey of Thousand Years, 600-1600 A.D., a cura di Filiz Cagman, Nazan Olcer e David J. Roxburgh, London 2005. La pianta 4 di pagina 19 è una rielaborazione di Daniela Blandino dal volume Bisanzio, Costantinopoli, Istanbul, a cura di T. Velmans, Jaca Book, Milano 2008, p. 252. Le piantine della Documentazione complementare sono riprese dai volumi indicati in didascalia salvo la n. 13, ridisegnata da Daniela Blandino. Il tratto di pagina 152(14) è ripreso da: Bisanzio, Costantinopoli, Istanbul, a cura di T. Velmans, Jaca Book 2008, p. 326.


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