VAN EYCK
Liana Castelfranchi
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SOMMARIO
PREMESSA JAN VAN EYCK APPARATI
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CRONOLOGIA 149 INDICE DELLE TAVOLE
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BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE RAGIONATA
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INDICE DEI NOMI E DEI LUOGHI
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PREMESSA
Hubert o Jan van Eyck (?), Tre Marie al sepolcro, particolare, olio su tavola, 71,5 × 89 cm, Rotterdam, Museum Boymans-van Beuningen. (Vedi Tav. 14, pag. 51)
Nel 1903, Max Dvořák iniziava il suo brillante studio monografico intitolato significativamente L’enigma dell’arte dei fratelli van Eyck (Das Rätsel der Kunst der Brüder van Eyck) raccontando che un collega gli aveva chiesto dubbioso: «Ma è proprio necessario un altro studio sui van Eyck?». Questo spiritoso episodio mi è tornato più volte alla mente nell’affrontare ancora una volta, non senza temerarietà, il tema del grande Jan van Eyck e per di più nei limiti concretamente esigui di un saggio. A intimorire non è solo la grandezza storica della sua figura, che inaugura la moderna pittura olandese, ma il carico di problemi irrisolti relativi alle sue opere, che si sono trascinati via via lungo i decenni senza trovare soluzioni soddisfacenti o definitive. Alla radice di queste difficoltà stanno due formidabili ordini di problemi: le opere riconosciute unanimemente certe di Jan van Eyck appartengono solo all’ultimo decennio della sua attività e vengono inserite generalmente all’interno del gruppo di opere datate, che spaziano regolarmente tra il 1432 e il 1439. Resta dunque tutto da ricostruire l’iter giovanile di van Eyck, che sappiamo attivo almeno fin dal 1422-1424. Il secondo ordine di problemi – per molti il primo – sta nella distinzione fra le opere di Jan van Eyck e quelle del misterioso fratello Hubert, distinzione che spiritosamente, ma anche tristemente, è stata definita da Frits Lugt come «un osso gettato
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in pasto agli storici dell’arte da un demone della discordia e rosicchiato all’infinito». Lo studioso che si accosta a Jan van Eyck dovrebbe abbandonare saggiamente ogni certezza, persino ogni tentazione di raggiungere una certezza su questi problemi; ed è questa una severa prova per ogni studioso che cerchi di fare luce sull’artista amato, con il quale ritiene di avere ormai una lunga dimestichezza. L’apparizione di numerosi saggi monografici ha segnato quasi una nuova stagione di studi vaneyckiani, che per certi aspetti si riallaccia alla prima grande stagione di quegli studi all’inizio del ’900. Antiche ipotesi su una cronologia vaneyckiana molto precoce sono state riprese (Hans Belting), rivelandosi improvvisamente attualissime; attribuzioni a Jan ormai unanimemente accettate sono state messe in dubbio con argomenti nuovi (Otto Pächt). Questo studio su Jan van Eyck riterrebbe di aver già assolto il suo compito se cercasse di far interagire dialetticamente proprio questi studi e facesse emergere proprio dai molti problemi aperti la misteriosa multiforme poesia di questo grande artista.
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Jan van Eyck, Trittico di Dresda, Madonna con il Bambino in trono, particolare, datato 1437, olio su tavola, 27,5 × 21,5 cm tavola centrale, Dresda, Gemäldegalerie. (Vedi Tav. 22, pagg. 98-99)
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Jan van Eyck, Ritratto di uomo con il turbante (Autoritratto), particolare, datato 1433, olio su tavola, 25,5 × 19 cm, National Gallery, Londra. (Vedi Tav. 34 pag. 129)
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I. «Il grande maestro Johannes que prima fé l’arte d’illuminare libri» Difficilmente la storia dell’arte ammette al suo interno il carattere improvviso di una nuova esperienza, un’esperienza così dirompente da segnare la fine di un processo storico in corso e aprirne un altro. È questa una delle ragioni, forse la principale, per le quali l’apparizione sulla scena pittorica di Jan van Eyck, paragonata da Hulin de Loo a quella di «un albero possente di cui non si conoscono le radici», non ha cessato di intrigare e affascinare gli studiosi fino a oggi. Come si accennava nella premessa, le opere certe di Jan van Eyck appartengono tutte agli ultimi dieci anni della sua attività; si tratta di diciassette dipinti, elencati di seguito, quasi unanimemente accettati come autografi e che si distribuiscono con una notevole regolarità dal 1432 al 1439: Riportiamo qui per comodità l’elenco di queste diciassette opere, nell’ordine datogli da Charles Sterling (1976): Tymotheos, firmato e datato 1432, Londra, National Gallery. Annunciazione, 1432-1435, coll. Thyssen, Madrid. Madonna con Bambino, datato 1433, National Gallery of Victoria, Melbourne. Annunciazione, 1433 ca., National Gallery, Washington. Ritratto di uomo con turbante, firmato e datato 1433 Londra, National Gallery.
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Matrimonio degli Arnolfini, firmato e datato 1434, National Gallery, Londra. Vergine del cancelliere Rolin, 1434-1435 ca., Musée du Louvre, Parigi. Ritratto di Baudouin de Lannoy, 1435 ca., Staatliche Museen, Berlino. Ritratto del cardinale Albergati, 1435 ca., Kunsthistorisches Museum, Vienna. Madonna del canonico van der Paele, datato 1436, Groeningemuseum, Bruges. Ritratto di Jan de Leeuw, datato 1436, Kunsthistorisches Museum, Vienna. Madonna in trono e due santi, firmato e datato 1437, Dresda, Gemäldegalerie. Santa Barbara, firmato e datato 1437, Koninklijk Museum voor Schone Künsten, Anversa. Madonna di Lucca, 1437-1438 ca., Francoforte, Städelsches Kunstinstitut. Ritratto di Giovanni Arnolfini, 1438 ca., Staatliche Museen, Berlino. Ritratto di Margherita van Eyck, firmato e datato 1439, Bruges, Groeningemuseum. Madonna della fontana, firmato e datato 1439, Anversa, Koninklijk Museum voor Schone Künsten.
Jan van Eyck, però, risulta dai documenti già presente all’Aja nel 1422 al servizio di Giovanni di Baviera e in seguito, nel 1425, pittore di corte a Bruges al servizio di Filippo duca di Borgogna. I documenti specificano che egli è anche «valet de chambre» con tutti gli «honneurs, prérogatives, franchises, libertes, droits, prouffis, emoluments», dunque con una posizione e incarichi onorifici che fanno supporre un’età corrispondente almeno alla prima maturità; considerazione questa in genere trascurata ma forse importante perché ci orienterebbe oltre che sulla data plausibile della sua nascita, intorno al 1390 a Maaseik, non lontano da Maastricht, anche sul possibile inizio della sua attività a una data forse più precoce di quanto si ritiene comunemente in base ai documenti. Prima del 1426 era ancora vivo il fratello Hubert, che la famosa iscrizione alla base del Polittico dell’Agnello mistico dichiara maggiore di Jan nell’arte; di lui ci sono pervenuti solo alcuni documenti poco eloquenti e neppure un’opera certa.
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La presenza accanto a Jan di questo fratello quasi leggendario continua a tormentare gli studiosi, che hanno costantemente tentato di ricostruire un corpus di opere attribuibili a lui, attingendole alla “zona grigia” delle opere “eyckiane” o nell’ambito delle supposte opere giovanili di Jan, anch’esse, come si è detto, esposte a molte incertezze. Un punto chiave per la ricostruzione dell’attività giovanile di Jan van Eyck si collega alla precisa notizia del napoletano Summonte, che in una lettera di informazioni richiestagli da Marcantonio Michiel nel 1524, citava «il grande maestro Johannes que prima fè l’arte di illuminare libri, sive ut hodie loquimur miniare». L’affermazione del Summonte restò senza riscontri per secoli e su queste miniature – e dunque anche su un possibile tirocinio di Jan van Eyck in una bottega di miniatori – si continuò a fantasticare finché avvenne il fatto più inaspettato, e, cioè, la ricomparsa di miniature eyckiane. La storia di quel ritrovamento, i suoi protagonisti e l’infinita e tuttora aperta discussione critica su di essi rappresenta di per sé un’appassionante capitolo di storia della critica d’arte, che ebbe come protagonisti all’inizio del ’900 il francese Paul Durrieu e il belga Hulin de Loo. Il conte Durrieu, storico e specialista della miniatura francese tardogotica, aveva riconosciuto nel corso di ripetuti viaggi a Torino i caratteri eyckiani in un gruppo di fogli miniati che appartenevano a un frammento di un superbo libro d’Ore; ma, come racconta egli stesso, esitava a «pronunciare quel nome» che «per la sua grandezza gli ispirava timore». Quei fogli, che erano rimasti per secoli ignorati, erano conservati in condizioni eccellenti e Durrieu provvide nel 1902 per nostra fortuna a fotografarli e a pubblicarli, in un primo tempo come semplice atlante in onore del suo maestro Léopold Delisle; per nostra fortuna, dicevamo, perché due anni dopo, nel 1904, quei fogli perivano nell’incendio che distrusse la Biblioteca Reale di Torino, una delle maggiori perdite mai subite nel campo della storia dell’arte.
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Subito dopo aver visto l’atlante dei fogli miniati pubblicati da Durrieu, il professore d’università belga Hulin de Loo, che nello stesso anno 1902 aveva coraggiosamente aperto il problema “van Eyck” esponendo un gruppo di dipinti fiamminghi all’Esposizione di Gand del 1902, si affrettava a recarsi a Torino, diventando così il secondo e ultimo testimone oculare di quei fogli preziosi conservati. Lo stesso Hulin de Loo nel 1911 pubblicava un altro frammento delle stesse Ore, che si trovava a Milano, nella collezione Trivulzio, e che fu poi donato alla Biblioteca Reale di Torino, quasi a risarcimento del grave danno subito, prendendo poi il nome convenzionale di Ore Torino o Ore Milano-Torino. È interessante vedere come questi due studiosi, Durrieu e Hulin de Loo, così diversi anche umanamente, muovessero le loro ricerche da piani diversi, che risultarono poi felicemente complementari fra loro, ciascuno ponendo basi tuttora indispensabili per la ricerca. Da buono storico delle miniature francesi tardomedioevali, Durrieu si preoccupava di dare una data alle miniature, precisamente ante 1417, e la ricavava con lucida argomentazione, da un foglio sul quale avremo presto occasione di ritornare, La preghiera di un principe sulla spiaggia (Tav. 1). Diverso era invece l’approccio di Hulin de Loo, pioniere delle ricerche sui primitifs flamands, un approccio filologico che potremmo definire da connoisseur, rivolto alla distinzione delle varie mani che si susseguivano nella decorazione dei fogli, alla loro attribuzione, al giudizio estetico. A Hulin de Loo si deve quindi la famosa classificazione delle diverse mani sulla base delle lettere dell’alfabeto dalla ‘A’ alla ‘H’, dal gruppo più antico delle miniature a quello più tardo: la lettera ‘G’, destinata a rappresentare per gli studiosi eyckiani quasi una mistica cifra, comprende sette fogli e rappresenta il gruppo eyckiano – e più precisamente, per Hulin de Loo, di Hubert van Eyck – quello appunto che segna una svolta epocale, l’ingresso nel mondo “moderno” della pittura fiamminga.
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TAV. 1 Jan van Eyck (?), La preghiera di un principe sulla spiaggia, miniatura dal libro d'Ore Torino, f. 69v., ante 1417 o 1422-1424, 28 × 20 cm, conservato nella Biblioteca Reale di Torino e distrutto in un incendio nel 1904.
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La laboriosa classificazione di tutte queste mani è strettamente legata all’avventurosa vita del codice miniato. Esso era nato in Francia come libro d’Ore – Les Très belles Heures de Notre-Dame – commissionato da Jean de Berry e come tale presente nell’inventario del duca redatto nel 1413 dal suo agente artistico Robinet d’Estampes. Prima ancora della morte del duca, avvenuta nel 1416, per ragioni ignote, il codice era stato ceduto ed era stato diviso in due parti distinte, ognuna con un calendario proprio. Una di queste parti, quella in cui la decorazione era stata portata a termine, entrò in possesso di Robinet d’Estampes e passò per secoli ai suoi successori, finché, dopo la Seconda guerra mondiale, passò alla Biblioteca Nazionale di Parigi (nouv. acq. lat. 3093) (Tav. 2). Una seconda e più ampia sezione prese la strada del Nord ed entrò in una bottega olandese, dove fu oggetto di una ulteriore campagna decorativa, che a sua volta rimase interrotta per alcuni decenni. Per misteriose strade, questa porzione del codice valicò in seguito le Alpi; la ritroviamo infatti nel ’700 nella biblioteca del duca di Savoia. In seguito fu divisa ancora una volta, in due parti: una passata all’Università di Torino, che poi bruciò nell’incendio della Biblioteca, l’altra alla collezione Trivulzio di Milano che fu poi ceduta, come si è detto, alla Biblioteca di Torino. La datazione di quella seconda campagna decorativa, alla quale appartengono i sette incantevoli fogli assegnati alla famosa “mano G”, costituisce ancora oggi un primo problema appassionante. L’ipotesi in apparenza più semplice, e più frequentemente accettata da quanti – la maggior parte – attribuiscono a Jan questi fogli, è che essi siano stati miniati quando il pittore era alla corte di Giovanni di Baviera conte d’Olanda, e cioè tra il 1422 e il 1424. Assai più problematica, perché straordinariamente precoce, è invece la data proposta in origine da Durrieu e che tende a ritrovare nuovo credito negli ultimi studi. Essa si basa su uno dei fogli bruciati che raffigurava una Preghiera di un principe
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TAV. 2 L'annunciazione, miniatura da Les Très Belles Heures de Notre-Dame, f.1v., nal 3093, 1390-1410, Bibliothèque National de France, Parigi.
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sulla spiaggia: in essa un principe a cavallo prega con gli occhi rivolti verso una visione dell’Eterno; indossa un collare dell’ordine teutonico, istituito dai conti di Olanda e Hainaut ed è seguito sulla spiaggia da un gruppo di cavalieri con la bandiera di Baviera Olanda mentre gli si fa incontro un gruppo di dame. Il carattere strettamente realistico della scena induceva Durrieu a riferire la scena a Guglielmo vi di Olanda e iv di Hainaut, morto nel 1417, che, come narrano le cronache, due anni prima si era salvato da una pericolosa traversata marittima. Se lo stesso Guglielmo vi fosse il committente della miniatura essa sarebbe stata miniata prima del 1417, perché era da ritenersi poco verosimile che il committente del foglio fosse invece il fratello di Guglielmo, quel Giovanni di Baviera e Olanda (presso il quale sappiamo che operava Jan van Eyck già nel 1422) che aveva usurpato il trono del fratello alla figlia di questi, Jacqueline, ritratta anch’essa nel foglio miniato. Una datazione così “alta” – precedente addirittura il 1417 – del gruppo di fogli relativi alla “mano G” (sia essa riferibile a Hubert o a Jan) suona quasi inammissibile. La maggior parte degli studiosi conserva infatti la datazione più tradizionale e tranquillizzante degli anni 1422-1424 in cui Jan risulta al servizio di Guglielmo iv; e tuttavia l’ipotesi di una data così precoce riaffiora con nuovi argomenti storici o iconografici in studi successivi (Sterling, Belting). Naturalmente i sostenitori di una data intorno agli anni Venti – se non addirittura Trenta – del secolo ritengono che le novità strepitose di quei fogli siano troppo anticipatrici rispetto alla situazione storica della pittura e della miniatura di quegli anni: e basti per tutte ricordare che le Très Riches Heures du Duc de Berry, precedute dai famosi fogli del calendario dei fratelli Limbourg, ora a Chantilly, rimasero interrotte nel 1416. E tuttavia si può obiettare che anche posticipando di alcuni anni i fogli delle Ore Torino, e cioè ai primi anni Venti, i termini della questione non mutano granché.
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Alle pagine successive:
TAV. 3 Jan van Eyck (?), Natività del Battista, bas de page Battesimo di Cristo, 1422-1424, dalle Très Belles Heures de Notre-Dame, codice noto anche come Ore Torino – Milano, tempera e oro su pergamena, ceduto dalla città di Milano, 1935, inv. 467/M, fol. 93 v.
TAV. 4 Jan van Eyck (?), Messa dei morti, Basde-page con Scena di benedizione di una sepoltura, 1422-1425, dalle Très Belles Heures de Notre-Dame, codice noto anche come Ore Torino – Milano, tempera e oro su pergamena, ceduto dalla città di Milano, 1935, Inv. 467/M, fol. 116 r.
Panofsky – che pure era fra coloro che erano propensi a spostare se mai addirittura verso gli anni Trenta le miniature eyckiane delle Ore Torino – osservava infatti acutamente che non esisteva nulla di lontanamente paragonabile a esse neppure negli anni Venti. Quei fogli rimangono sempre misteriosamente isolati nel panorama della miniatura e della pittura del tempo: le composizioni di interni e di paesaggio, la figura umana sentita come parte del paesaggio sono tutte novità strepitose, destinate a rimanere senza seguito fino alla grande pittura di paesaggio e di interni del Seicento olandese. Le straordinarie novità di quei fogli sono talmente note, appartengono talmente al nostro “museo immaginario” che parrebbe inutile soffermarvisi. Andrebbe vissuta ancora oggi l’emozione di quelle incursioni nel regno del mondo fenomenico, realizzate da un pittore supremamente dotato che aveva il coraggio di vedere ogni cosa come meritevole di essere dipinta, sia esso l’interno di una casa borghese del primo Quattrocento che prenderà il nome di Nascita di san Giovanni Battista (Tav. 3), o la navata di una chiesa gotica, come sede di una Messa dei morti (Tav. 4), o, ancora più esaltante, la valle della Mosa, che diventa la valle del Giordano nel Battesimo di Giovanni battista (bas de page della Tav. 3). Castelli, boschi e il cielo stesso si specchiano nel placido fiume tranquillo e le piatte distese della landa fiamminga sotto il cielo basso nei bas de page della Preghiera di un principe e della Messa dei morti sono veri e propri “ritratti di paesaggio”. In queste pagine troviamo ora una costa vista dal mare in burrasca, come nel Viaggio dei santi Giuliano e Marta (Tav. 5), ora il mare visto dalla costa, come nella Preghiera di un principe, la visibilità mobile e frammentaria di una scena notturna, come nella Cattura di Cristo (Bacio di Giuda) (Tav. 6), dove il pittore dipinge addirittura ciò che non si può vedere, la qualità stessa di un’invisibile oscurità. Che questa realtà sia trovata con meravigliosa naturalezza, in modo apparentemente intuitivo, senza quell’apparato razionale che, proprio negli stessi anni, sosteneva a Firenze l’urgen-
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Alle pagine precedenti: Nascita di san Giovanni Battista, fondo pagina, particolare.
TAV. 5 Jan van Eyck (?), Viaggio dei santi Giuliano e Marta, miniatura dal libro d'Ore Torino, f. 55v., ante 1417 o 1422-1424, 28 × 20 cm, conservato nella Biblioteca Reale di Torino e distrutto in un incendio nel 1904. A fronte:
TAV. 6 Jan van Eyck (?), Cattura di Cristo (Bacio di Giuda), miniatura dal libro d'Ore Torino, f. 24r,. ante 1417 o 1422-1424, 28 × 20 cm conservato nella Biblioteca Reale di Torino e distrutto in un incendio nel 1904.
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za delle stesse scoperte, accresce ancor più il fascino e quasi il mistero di queste pagine. Chi ha miniato queste pagine sembra sospinto verso simili scoperte dalla semplice, inesausta curiosità del reale e da un’acutezza visiva quasi sovrumana. Il vicino e il lontano convivono grazie alla luce tersa e vera che avvolge ogni forma, gioca con l’ombra sul colore e svela le distanze, novità questa assoluta, o meglio, solo presagita in alcuni fogli del calendario limbourghiano. L’irrompere di queste novità “moderne”, infatti, non appare meno clamoroso se si osserva che molti legami collegano ancora questi fogli al mondo miniatorio che noi conosciamo del secondo e terzo decennio del secolo: la stessa composizione tripartita della pagina miniata – scena principale, capolettera figurato e scena a bas de page – riprende senza modifiche la parte più antica del volume; e il garbo delicato delle silhouettes delle figure, i panneggi ondulati portano ancora gli echi del weicher Stil, dello “stile morbido” internazionale. Questi palesi legami con quanto si andava producendo in quegli stessi anni nel campo della miniatura rendono ancora più straordinaria l’intuizione di esplorare la realtà attraverso una spazialità vera e luminosa, segnando l’aprirsi di un nuovo processo storico. Il gruppo di fogli tradizionalmente assegnato alla “mano G” comprende due raffigurazioni di interni, l’una profana, nella Nascita del Battista, l’altra religiosa nella Messa dei morti, ma in entrambe le scene è l’esperienza dello spazio e non il tema a risultare predominante. La Messa dei morti si potrebbe meglio intitolare Interno di chiesa durante una messa funebre –, e infatti l’artista non solo ci offre l’immagine di un interno vero di cattedrale gotica, ma ha l’audacia di rappresentare la chiesa in via di costruzione, lasciando scorgere le terminazioni dei costoloni e i mattoni del muro in costruzione che illusionisticamente sporgono al di fuori della cornice. Analogamente, nella Nascita del Battista il soggetto appare del tutto marginale rispetto all’affaccendarsi delle donne in una camera di partoriente all’interno di una casa borghese del tempo.
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Si è sempre tentato di dare un nome certo all’autore di queste sette pagine nelle quali si consuma questa svolta storica. E se la famosa “mano G” appare potersi nel complesso identificare – per la massima parte degli studiosi – con Jan van Eyck, anche sulla scorta della famosa attestazione del Summonte, permangono tuttavia degli interrogativi, di cui è giusto tener conto. Essi riguardano soprattutto la possibile – forse probabile – presenza del fratello Hubert come autore, o almeno co-autore, delle pagine; ipotesi sostenuta già dai primi studiosi e soli testimoni oculari dei fogli ormai perduti, Durrieu, che parlava sempre “dei” van Eyck, e Hulin de Loo, che identificava con Hubert la “mano G”. Inoltre, l’attento esame comparato delle pagine non può non rilevare che il gruppo dei sette fogli è meno omogeneo di quanto appaia a un esame complessivo: mentre cinque di questi fogli interpretano la scena essenzialmente come parte di un ambiente interno o paesistico, due di essi, la Virgo inter virgines (in realtà Matrimonio mistico di santa Caterina, Tav. 7) e la Scoperta della vera croce (f. 48v.) sono invece scene popolate da figure in primo piano. Inoltre, in queste pagine la tipologia delle figure è ancora quella della bellezza femminile del gotico internazionale, delicatamente falcata, quale si vedeva soprattutto nella produzione pittorica del basso Reno. L’ipotesi che accanto a Jan fosse presente nella decorazione dei fogli il fratello Hubert – ipotesi assai meno frequente e che invece potrebbe in parte risolvere gli interrogativi perduranti sull’autore dei fogli – non può essere scartata a priori, perché è storicamente assai plausibile: non si dimentichi che la decorazione del libro è di per sé e nella realtà storica del tempo un tipico lavoro d’équipe, di atelier, e il calendario dei tre fratelli Limbourg ne è un esempio celebre. E dunque, a una data già relativamente tarda per la miniatura gotica internazionale, il libro decorato diventa la sede di nuove scoperte e di nuove libertà realistiche, che
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TAV. 7 Jan van Eyck (?), Matrimonio mistico di santa Caterina (Virgo inter virgines), miniatura dal libro d'Ore Torino, f. 59r., ante 1417 o 1422-1424, 28 × 19 cm, conservato nella Biblioteca Reale di Torino e distrutto in un incendio nel 1904.
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negli stessi anni sono ancora sconosciute al campo “maggiore” della pittura su tavola. L’attribuzione a Jan van Eyck dei fogli delle Ore Torino-Milano comporta tuttavia un’altra sottile questione: in questi fogli, infatti, appare dominante una suprema qualità narrativa, la stessa che appare nelle due tavole compagne La crocifissione e Il giudizio finale ora al Metropolitan Museum di New York (Tavv. 8, 9), da sempre intimamente collegate per lo stile alle pagine miniate. A questa geniale narratività di Jan Hans Belting ha dedicato pagine illuminanti nel suo denso e stimolante saggio critico intitolato significativamente Jan van Eyck als Erzähler (Jan van Eyck come narratore). Anche queste due tavole, un tempo all’Ermitage di Pietroburgo, dono dell’ambasciatore russo Tatischeff, che le aveva acquistate in Spagna, entrarono nel dibattito critico pochi anni dopo la scoperta delle Ore Torino. E come «miniature meravigliosamente rifinite» erano apparse al pittore nazareno Passavant che ne dava per la prima volta notizia nel gennaio 1841, attribuendole ai van Eyck. Nel 1913 Durrieu si recava per vederle di persona a Pietroburgo, rendendosi subito conto che esse appartenevano allo stesso pittore delle Ore Torino, di cui, come egli stesso scrive, conservava ancora vivo negli occhi il ricordo. Il trasporto delle tavolette su tela, se non portò alla perdita della preziosa cornice originaria con iscrizioni, ci privava però delle grisailles frammentarie esistenti sul retro, come pure dei “pentimenti” del disegno sottostante. Il formato elegantemente anomalo delle due tavolette lunghe e strette (cm 56,5 × 19,5) ha fatto ritenere che si trattasse di due sportelli di un trittico il cui pannello centrale era perduto; tuttavia, nessuna delle tante ipotesi avanzate a individuare almeno il soggetto del terzo pannello attraverso disegni o tavole di evidente derivazione eyckiana come la Salita al Calvario di Bruegel il Vecchio dell’Albertina di Vienna o la tavola dello stesso soggetto del Museo cristiano di Esztergom, è da ritenersi soddisfacente, non fosse altro che per ragioni di formato.
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TAVV. 8 E 9 Jan van Eyck, La crocifissione, olio su tavola trasferita su tela, 56,5 × 19,7 cm, Metropolitan Museum of Art, New York. Jan van Eyck, Il giudizio finale, olio su tavola trasferita su tela, 56,5 × 19,7 cm, Metropolitan Museum of Art, New York.
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Resta così aperta la possibilità, per quanto curiosa, che l’opera sia nata proprio così, come dittico unitario che affianca i due misteri della redenzione umana, la crocifissione e il giudizio. Nel saggio dedicato alle due tavolette, nel 1920, Durrieu avanzava un’ipotesi audace, anche se formulata con la massima prudenza, e cioè che proprio a esse si riferisse la notizia di «una grande tavola in due pezzi di pittura, una con la Passione di Nostro Signore, l’altra con il Giudizio» (un grand tableaux en deux pièces de peinture), contenuta nell’inventario della collezione del duca di Berry del 1416. E poiché la tavola non risulta presente nell’inventario precedente del 1413, la loro esecuzione si collocherebbe necessariamente tra il 1413 e il 1416. Naturalmente, Durrieu si rendeva conto di quanto fosse rischioso identificare le due tavolette del Metropolitan con quelle registrate dall’inventario e questa consapevolezza traspare dalla prudente circonlocuzione della frase, che riportiamo per intero: «Mi sembra di affermare, solo per prudenza, [come] affatto verosimile che i due pannelli si trovassero nella collezione del duca di Berry tra il 1413 e il 1416»; di quel duca di Berry, si noti, che era stato per l’appunto il primo committente del prezioso manoscritto delle Ore poi interrotto e passato come frammento alla casa di Baviera Olanda. Di queste interessanti considerazioni tratteniamo per ora soprattutto quella dell’intima vicinanza di concezione e di stile tra le miniature e le tavole ora a New York. Al pari delle Ore Milano-Torino, le tavole sono state essenzialmente concepite come narrazione e come una narrazione che si sviluppa nello spazio e grazie allo spazio. Dato il formato fortemente verticale delle tavole, la lettura di questa narrazione non avviene, come di solito, da destra a sinistra, ma in senso verticale. Più precisamente, nel Giudizio la visione si sviluppa dall’alto in basso, dal cielo agli Inferi, offrendo uno spaccato dell’universo, mentre nella Crocifissione essa procede piuttosto da ciò che avviene nei piani inferiori e più avanzati, salendo poi in alto e arretrando verso le croci.
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Nella lettura di questo racconto della crocifissione, l’occhio può vagare in ogni direzione cogliendo ovunque nuovi particolari, senza che venga meno la profonda coesione di questo racconto, anzi la precisa simultaneità di tutti i dettagli. Tutto avviene nello stesso istante: il colpo di lancia, lo svenimento, il grido della Maddalena, gli scherni della folla. In primo piano, in basso a sinistra, Maria si accascia svenuta, vegliata dalle donne ammantate di nero e avvolta nell’abbraccio di Giovanni che le è stato affidato da Gesù come figlio (dettaglio della Tav. 8); essa sviene nell’attimo stesso, come vuole la tradizione, in cui Cristo ha ricevuto il colpo di lancia. A destra, la Maddalena è caduta in ginocchio e grida disperata torcendo le mani; accanto a lei una figura misteriosa, forse la Sibilla eritrea, la guarda silenziosa, estranea al suo dolore. Lo sguardo che la Maddalena disperata rivolge a colui che è crocifisso si inoltra attraverso lo spazio inerpicato (dettaglio della Tav. 8), creando così un collegamento tra la parte inferiore del quadro e quella superiore, tra i primi piani e quelli arretrati. La novità geniale del dipinto sta non solo nell’unità del quadro ma nella simultaneità di ogni istante di questo tumultuoso racconto dagli infiniti particolari narrativi. Lassù, nei piani arretrati, si consuma il dramma della crocifissione (dettaglio della Tav. 8) in mezzo alla folla che letteralmente assedia la base delle tre croci. Intenzionalmente, van Eyck mescola la plebaglia ai ricchi borghesi, gli sfaccendati curiosi ai soldati e agli aguzzini che formano una specie di muro di ostilità e di scherno: la folla è uno specchio della società del tempo, nella quale certamente i contemporanei potevano cogliere significati a noi nascosti e forse riconoscervi allusioni a personaggi del tempo. Al centro, il corpo insanguinato di Cristo si leva sul cielo che minacciosamente si oscura; il realismo minuzioso con il quale questo corpo è dipinto è sconvolgente, tanto da poter affermare che esso non ha nessun precedente. Il velo trasparente del perizoma non basta a celare la martoriata nudità di quel corpo; essa contrasta con il corpo dei due ladri ancora parzialmente vestiti e con gli occhi bendati.
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Jan van Eyck, La crocifissione, particolari.
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Jan van Eyck, La crocifissione, particolare.
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Anche su di essi van Eyck sembra aver meditato con dettagli minimi: le mani, strette dalle corde, si fanno violacee, il cattivo ladrone a destra si inarca nella violenza dello strattone ribelle, il corpo del buon ladrone – dalla superba anatomia – si placa aderendo alla croce. Si diceva che mentre lo spazio della Crocifissione si inerpica dai piani più prossimi fino alla lontana Gerusalemme, il Giudizio ci offre la visione di uno spaccato in verticale del mondo, da quello celeste a quello degli Inferi, dove la terra non è che un sottile piano intermedio, una crosta che si spacca dalla quale sorgono i risorti, così come emergono dai flutti del mare. La narratività riguarda qui non un fatto storico ma un ordine cosmico, la terra, il cielo, il mondo celeste e quello sotterraneo. E lì, fra terra e cielo, sotto la figura del Cristo giudice, si accampa Michele, splendida figura di arcangelo dalle immense ali colorate (dettaglio della Tav. 9) a occhi di pavone e dalla sfarzosa armatura. I suoi piedi poggiano sulle spalle del terzo protagonista della scena, l’orrendo scheletro della Morte, che a braccia e gambe spalancate (dettaglio della Tav. 9) esprime il suo dominio definitivo sui dannati e anzi sembra procrearli mimando la posizione del parto. Le personali meditazioni di van Eyck sulla pagina apocalittica si leggono soprattutto nella parte superiore, vera festa di tutti i santi, visione del tabernaculum dei cum hominibus (dettaglio della Tav. 9), come si legge in una delle iscrizioni sulla cornice e si colgono in minimi dettagli, per esempio nella figura di Maria, che accenna con discrezione al seno che ha allattato Cristo e raccoglie sotto il suo manto protettivo i risorti, o nell’incedere delle vergini nello stretto corridoio formato dai banchi degli apostoli, i quali siedono come certosini nel coro. In realtà, il maggior messaggio del Giudizio, come è giusto, non è affidato soltanto alla narrazione – ci troviamo di fronte a una visione metastorica e non a fatti – ma alla parola scritta, che ci rivela l’alto grado di dottrina biblica e patristica di van Eyck, ispirata al capitolo xxi-xxii del De Civitate Dei di Agostino.
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In queste scritte interne ed esterne al quadro, si rivela l’ars docta di van Eyck a livelli credo mai più raggiunti e che non hanno alcun corrispettivo nell’arte italiana. La ricca scelta delle scritte della cornice, desunte dal Deuteronomio, da Isaia e dall’Apocalisse, e la precisione dei loro contenuti intendono dare una chiave di lettura della scena rappresentata. Bibbia e tradizione vengono così utilizzate entrambe come fonti. Ma non è tutto: anche l’interno del dipinto è gremito di scritte, alcune delle quali cifrate e non ancora chiaramente decifrate: scritte topografiche (Chaos magnum, Umbra mortis, Terra oblivionis), i segreti nomi divini intorno allo scudo di Michele, fino al misterioso agla, un acrostico magico che ricomparirà anche nel Polittico dell’Agnello mistico. Sappiamo che la tendenza a cifrare il quadro con iscrizioni in molte lingue, e in genere l’uso di parole enigmatiche e di nomi segreti, era caratteristica della produzione di corte ed era volta a nobilitare l’opera. Tanta dottrina presuppone un probabile consulente teologico, uno spiritus rector, ma anche un fruitore in grado di capirla e di goderla e un concetto di ars docta che l’artista stesso condivide in prima persona. A stupirci, tuttavia, non è soltanto la raffinata cultura scritturistica che fa della tavoletta quasi una dotta omelia sul Giudizio universale, quanto lo straordinario rapporto fra testo e immagine, l’aderenza piena fra il pensiero teologico, soprattutto agostiniano, e la sua espressione artistica. L’attribuzione a Jan delle due tavole di New York, ampiamente condivisa anche se non unanime, ci svela dunque un primo aspetto di Jan van Eyck, un aspetto di acuto narratore, poiché questo carattere appare sostanzialmente identico siaquando minia sia quando dipinge su tavola. Eppure questa tesi, a ben pensare, è più ardita di quanto non appaia in generale, poiché di questa narratività non resta traccia nella produzione successiva di Jan, dove regna invece una silenziosa contemplazione. Sottolineando questo profondo divario, Otto Pächt esclude che approcci mentali tanto diversi si possano verificare in una stessa persona, perché equivarrebbero a un vero e pro-
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prio «terremoto psicologico». È questo un argomento ulteriore per introdurre la “variabile Hubert” (o addirittura quella di un anonimo “Maestro” delle Ore Torino) non solo per i fogli miniati, ma anche per il gruppo di opere che dovrebbero ricostruire l’attività giovanile di Jan prima del grande altare di Gand (1426-1432): un’impresa filologica tra le più ardue che ogni studioso eyckiano abbia tentato di compiere. Di fronte alla molteplicità di indirizzi presenti nelle opere generalmente attribuite al periodo giovanile di Jan, ci troveremmo in presenza di un artista prodigiosamente vitale, che appare agire sempre sotto l’impulso di geniali soluzioni sperimentali: questo impedisce di formulare cronologie troppo precise sulla base di un’evoluzione stilistica. È il caso, allora, di considerare l’ipotesi di un percorso evolutivo diverso, che riguarda piuttosto il “mezzo” espressivo o anche il tipo di opera (Hans Belting) e la sua destinazione (Charles Sterling). È stato per esempio notato che Jan van Eyck, dopo aver espresso il suo genio narrativo nella miniatura e nella tavola, dà vita in seguito a un nuovo “genere” di pittura: la piccola tavola di devozione, un’opera da contemplare più che da “leggere”, pur senza che essa perda del tutto la sua narratività. È il caso, innanzi tutto, della Madonna in una chiesa gotica dei Musei di Berlino (Tav. 10), che in origine doveva costituire un piccolo dittico, di dimensioni privatissime (32 × 14 cm), poiché la posizione a tre quarti della Vergine e la direzione del suo sguardo presuppongono l’esistenza di uno sportello destro con il donatore in preghiera. L’opera è quasi all’unanimità attribuita a Jan, non da ultimo per l’intima vicinanza tra questo interno di chiesa e quello della Messa dei morti (vedi Tav. 4), e la data generalmente attribuita a questo prezioso dittichetto è il 1426 circa. La Vergine sembra quasi muovere verso di noi, visione soprannaturale all’interno di una chiesa gotica. Vista più dal basso che non nelle Ore Torino, la grande navata lascia scorgere parte del jubé ricco di statue e trafori. Dalle finestre, dalle quali si arriva a scorgere il profilo degli archi rampanti esterni, entra
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TAV. 10 Jan van Eyck, Madonna in una chiesa gotica, 1426 ca., olio su tavola, 32 × 14 cm, Staatliche Museen, Berlino. Particolare a fronte.
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una calda luce solare che profila i pilastri e le volte e macchia il pavimento di piccole pozze luminose. Si tratta, come ha da tempo brillantemente dimostrato Panofsky, di una luce simbolica, soprannaturale perché proveniente da nord, come simbolica e allusiva è tutta la raffigurazione della Vergine che giganteggia irrealisticamente nella navata elevandosi sino al cleristorio, e dunque configurandosi come Mater Ecclesiae. Sulla perduta cornice della tavola si leggeva l’elogio di Maria tratto da un inno medioevale di lode che inizia con le parole Flos floriorum appellaris. Sul bordo della veste rossa della Vergine – un colore insolito invece del più frequente turchino – è ricamato e in parte visibile l’inno mariano tratto dalle lodi della festa dell’Assunta, stupendamente ricco di metafore luminose, tanto amato da Jan da ricorrere ancora nell’altare di Gand e in altre due Madonne: «Haec est speciosior sole, super omnem stellarum dispositionem, luci comparata invenitur prior. Candor est enim lucis aeternae, speculum sine macula Dei majestatis». L’architettura diventa così non solo il “ritratto di un interno di chiesa” ma il luogo dell’apparizione di un’icona mariana. E questa Madonna ha tutta la dolcezza della linea falcata cara allo stile gotico internazionale, come pure la gioielleria della corona di incredibile ricchezza e di fattura squisita è interamente ancora di gusto gotico internazionale; ma la tenerezza delicata del volto, delle mani, dei biondi capelli aerei già inaugura l’umanità nuova, un’umanità miracolosamente perfetta e pur tuttavia reale. Se le profonde vicinanze della Madonna nella chiesa con le miniature delle Ore Torino obbligano a collegare certamente l’autore dell’una e delle altre, per altre opere pure di alta qualità, è inevitabile entrare in quella “zona grigia” nella quale l’autografia di Jan è sempre stata in discussione e posta in alternativa con Hubert o con derivazioni da prototipi eyckiani. Attribuite invece quasi unanimemente a Jan, sono le due versioni delle Stigmate di san Francesco (Torino e Philadelphia) (Tav. 11), pur non esenti in passato da qualche dubbio.
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Jan van Eyck, Madonna in una chiesa gotica, particolare.
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Il testamento di Anselmo Adorno, morto nel 1483, sindaco di Bruges, parlava di due tableautins con il “ritratto” di san Francesco «Sinte Franciscus in portrature» che egli lasciava in dono alle figlie beghine, le quali avrebbero dovuto aggiungere nei due sportelli laterali i ritratti dei genitori. La commissione di una replica – invece di lasciare due quadri diversi – trova una sua spiegazione nella fama del pittore. L’esemplare di Torino, che è di dimensioni doppie rispetto alla copia di Philadelphia (rispettivamente 29,5 × 33,7 cm e 12,5 × 14,5 cm), è da considerarsi la versione originale. Pur nel cattivo stato del dipinto trasportato dal legno alla tela, si possono ancora distinguere, grazie anche a un ottimo restauro, le estreme finezze di pennello nella definizione delle rocce; la tavoletta conserva anche la memoria di molti pentimenti e il retro dipinto a finto marmo. Le due figure collocate in primo piano creano uno stacco sensibile e non perfettamente integrato con lo sfondo lontano, che non è più “narrativo”. Un’assoluta quiete, espressa anche dal sonno del compagno, domina la scena estatica. Francesco – un robusto borghese di Fiandra nonostante le stigmate – guarda tranquillo il cherubino-Cristo. Ma il legame più forte con la realtà è dato dal paesaggio roccioso della Verna che rivela nella sua precisione morfologica – secondo l’interessante ipotesi di Sterling – un ricordo personale visivo, colto nel corso di un probabile viaggio italiano di Jan. Le Stigmate di san Francesco segnano un ulteriore passaggio dall’intensa narratività delle prime opere al quadro “iconico” di devozione; è questa la ragione per cui le si collocano accanto a un’altra opera, attribuibile, tuttavia con maggiori esitazioni, a Jan, più spesso a Hubert: il Calvario dei Musei di Berlino (Cristo crocifisso tra la Vergine e san Giovanni Evangelista) (Tav. 12), di dimensioni un poco maggiori rispetto alle opere precedenti (43 × 26 cm) e in ottimo stato di conservazione. Qui la composizione è simile, eppure tanto diversa nell’interpretazione rispetto ai Calvari di stretta derivazione eyckiana miniaturistica, come la nota tavoletta della Ca’ d’Oro di Venezia (Tav. 13). Un solen-
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TAV. 11 Jan van Eyck, Stigmate di San Francesco, olio su tavola trasferita su tela, 29,5 × 33,7 cm, Galleria Sabauda, Torino.
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TAV. 12 Hubert o Jan van Eyck, Cristo crocifisso tra la Vergine e san Giovanni Evangelista, olio su tavola trasferita su tela, 43 × 26 cm, Staatliche Museen, Berlino.
TAV. 13 Copia da Jan van Eyck, Crocifissione, 1450 ca., olio su tavola, 45 × 30 cm, Galleria G. Franchetti alla Ca’ d’Oro,Venezia.
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ne silenzioso dolore è nelle due figure di Maria e di Giovanni, solitari spettatori del dramma, gli occhi colmi di lacrime e gli sguardi perduti nel vuoto: qui lo scorrere del tempo si è fermato, ogni atto è compiuto e non resta che piangere. Lo strazio fisico è indagato nelle facce distorte in una smorfia di dolore, nel flusso abbondante di sangue che scorre ovunque dai chiodi nella figura del Cristo, straordinariamente simile al Cristo della Crocifissione di New York. Le figure incombenti in primo piano formano un gruppo monumentale che sta davanti al paesaggio, dove un piano intermedio di rocce funge da collegamento tra le figure e lo sfondo di una Gerusalemme orientaleggiante. La voluminosa massa plastica dei mantelli può far pensare all’influsso diretto della scultura contemporanea borgognona e fiamminga. Nella stessa “zona grigia” di dipinti assegnati talvolta a Jan e più spesso a Hubert, si colloca anche la tavola delle Tre Marie al sepolcro del Museo Boijmans-van Beuningen di Rotterdam (Tav. 14), che appare come la prima e più antica raffigurazione della Pasqua, e cioè del passaggio di Cristo al Padre, evidente nel sepolcro vuoto. Nelle porzioni di raggi visibili a destra in basso la tavola tradisce l’esistenza probabile di un secondo pannello perduto, forse un Cristo risorto, con un accostamento dei due temi non nuovo, già presente nel Trittico Seilern (o Trittico della Deposizione) di Robert Campin (Londra, Courtauld Institute) oppure un Noli me tangere. Il fulcro narrativo – qui più forte che non nelle opere prima esaminate – è nel dialogo fra le Marie e l’angelo accampato sul coperchio posto di traverso sul sepolcro vuoto, come un ponte sull’abisso che separa la morte dalla resurrezione. Tutta la scena, priva di spazi mediani, si organizza lungo sequenze diagonali, quella formata dalla donna e dall’angelo, dai soldati, dalle rocce e dalla città di Gerusalemme, fino a formare uno schema quasi “a rombo”. I tre soldati, profondamente addormentati, hanno connotati esotici, fantasiosi copricapi, armi orientaleggianti e soprattutto dettagli squisiti di oggetti, come il cimitero ai piedi di uno di essi.
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TAV. 14 Hubert o Jan van Eyck, Tre Marie al sepolcro, 1425-1435, olio su tavola, 71,5 × 90 cm, Museo Boijmans-van Beuningen, Rotterdam.
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Il nome di Hubert è spesso chiamato in causa – ma anche quello di Petrus Christus – per l’interessante e meno studiata Annunciazione del Metropolitan di New York (Tav. 15), di insolita iconografia: le due figure piuttosto massicce, entrambe in piedi, sono viste come da un punto di osservazione sopraelevato ed eccentrico; esse stanno l’una di fronte all’altra sulla soglia di una cappella posata su un hortus conclusus di affascinante precisione e di insolita composizione. Prima di abbandonare questo difficile territorio giovanile eyckiano e approdare a quel testo figurativo unico e immenso che è il Polittico di Gand, si può tentare qualche riflessione conclusiva: negli ultimi contributi critici il dilemma Hubert/ Jan e più in generale il problema dell’autografia del gruppo di opere più antico sembra non solo riaccendersi ma radicalizzarsi. Il contrasto tra uno spirito quasi mercuriale, di inesauribile esplorazione del reale delle prime opere e, invece, uno spirito contemplativo, sostanzialmente immobile delle opere successive, sembra troppo profondo perché possa appartenere alla creazione di una sola personalità. Già quasi un secolo fa Georges Hulin de Loo, che attribuiva a Hubert le miniature delle Ore Torino, affermava che questi lavorava essenzialmente a memoria, mentre Jan lavorava «devant le modèle posé». All’opposto, uno dei più profondi “conoscitori” della storia dell’arte, Max Friedländer, ha sempre manifestato uno scetticismo appena dissimulato verso tutto quanto si riferiva alla persona di Hubert, mettendo in dubbio la stessa iscrizione ai piedi del Polittico di Gand e quindi assegnando a Jan tutto – o quasi – il gruppo di opere contestate. E infine, come già si è detto, Hans Belting dedica tutto il suo studio alla narratività di Jan: il passaggio ad altri successivi, diversi approcci mentali e a vari tipi di produzione sono da ascriversi alla sua geniale creatività. Ciò che vi è di più rivoluzionario nell’ipotesi antica e tenace, anche se minoritaria, che il miniatore dei famosi fogli della “mano G” delle Ore Torino sia Hubert e non Jan – o un mae-
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TAV. 15 Hubert van Eyck o Petrus Christus, Annunciazione, olio su tavola, 77,5 × 64,5 cm, Metropolitan Museum of Art, New York.
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stro anonimo – è che essa priverebbe Jan della posizione di geniale iniziatore della “moderna” pittura fiamminga. Grazie alla sua esplorazione della realtà, Jan resterebbe piuttosto il creatore di quella «costituzionale passività della visione» (Pächt), che anticipa l’immobile visione olandese secentesca delle “cose”. Come si è visto, ognuna di queste tesi, brillantemente difese da critici illuminati, contiene osservazioni lucide e fondate. È certamente segno di maturità critica da parte di ogni studioso, anche intimamente convinto della propria attribuzione, accettare che nessuna certezza assoluta possa dirsi acquisita. La storia dell’arte è, appunto, una disciplina storica e come tale ha un suo dinamismo evolutivo di cui lo studioso deve tenere conto: questo principio dovrebbe rappresentare per lui un costante rappel à l’ordre.
II. «Davanti al trono e all’agnello», il Polittico di Gand Non ci si può accostare al Polittico di Gand (Tavv. 16, 17) se non con quel sentimento di «timore e tremore» che si prova davanti a un’opera di grandiosa, splendida assolutezza ma anche carica di segreti. Il fatto che proprio il Polittico di Gand sia accompagnato da un’ampia iscrizione “informativa” ai piedi del polittico stesso, nella quale si afferma che Jan portò a compimento nel 1432 l’opera iniziata dal fratello Hubert e rimasta interrotta per la morte di questi nel 1426, arreca solo un’apparente chiarezza; in realtà ci risospinge verso la misteriosa identità di Hubert e soprattutto ci pone di fronte all’ineludibile problema – se si accetta l’autenticità della scritta – di un’opera eseguita a quattro e non a due mani soltanto. I molti dubbi avanzati sull’autenticità della scritta, che si tratti, cioè, di una scritta aggiunta assai più tardi, non ebbero mai conferma poiché vi sono almeno altrettante ragioni per ritenerla autentica, anche se non redatta da Jan stesso. Benché gli esami radiografici approfonditi, compiuti in occasione del
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restauro del 1950-1951, abbiano rivelato alcune evidenti aggiunte, interventi, ridipinture e soprattutto la presenza di strati di pittura più antichi, e quindi confermino fasi diverse di elaborazione, il mistero della parte avuta da Hubert, che l’iscrizione afferma «maior quo nemo repertus», è destinato a perdurare. Dovremmo essere comunque profondamente grati del fatto che una simile opera sia giunta miracolosamente fino a noi e sia sopravvissuta per più di cinque secoli a terribili vicende storiche. Per primi i calvinisti la rimossero trasferendola per ragioni iconoclaste nel palazzo del Comune; molto più grave però fu il sequestro e il trasferimento a Parigi, nel 1794, dei quattro pannelli centrali, donde fecero ritorno a Gand solo nel 1816, dopo Waterloo. Nello stesso anno gli sportelli laterali vennero venduti a un mercante d’arte e passarono a Berlino, come proprietà del re di Prussia; solo nel 1919 il trattato di Versailles li restituì al Belgio, dove vennero riuniti alla parte centrale, che nel frattempo era sopravvissuta a un incendio scoppiato nella chiesa. Nel 1934 il pannello con i Giudici giusti fu rubato e mai più ritrovato nonostante l’anonimo ladro, restituendo il retro del pannello stesso con San Giovanni Battista, avesse chiesto un riscatto. Un pericolo non inferiore il polittico lo corse durante la Seconda guerra mondiale, quando fu trasferito prima nel sud della Francia poi sotto il regime di Hitler a Neuschwanstein e da ultimo in una miniera di sale ad Alt-Aussee, dove i sali, aggredendo le vernici, minacciarono lo strato pittorico sottostante. Dopo la liberazione delle truppe americane il polittico tornò ancora una volta in Belgio e fu sottoposto negli anni successivi a una serie di esami scientifici approfonditi che precedettero il restauro e che rappresentarono una nuova occasione di studio. Non arrecarono certezze sui problemi antichi ma piuttosto portarono alla luce nuovi interrogativi. Per fare un solo esempio: come si spiega il fatto che la splendida corona ai piedi dell’Eterno, il cui capo è già inco-
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TAV. 16 Hubert e Jan van Eyck, Polittico dell’Agnello mistico, polittico aperto,1426-1432 ca., olio su tavola, 260 × 375 cm, cattedrale di San Bavone, Gand.
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TAV. 17 Hubert e Jan van Eyck, Polittico dell’Agnello mistico, polittico chiuso e particolare, 1426-1432 ca., olio su tavola, cattedrale di San Bavone, Gand.
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Alle pagine seguenti: Hubert e Jan van Eyck, Santi giudici; santi cavalieri di Cristo; santi eremiti; santi pellegrini, dal Polittico dell’Agnello mistico, olio su quattro tavole. Il primo pannello è scomparso nel 1934.
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Hubert e Jan van Eyck, Statue dei santi Giovanni Battista e Giovanni Evangelista tra i committenti Joos Vijd ed Elisabeth Borluut, dal Polittico dell’Agnello mistico, particolare.
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Hubert e Jan van Eyck, La corona del Padre Eterno in trono, dal Polittico dell’Agnello mistico, particolare.
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Hubert e Jan van Eyck, Annunciazione, dal Polittico dell’Agnello mistico, particolare.
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TAV. 18 Jan van Eyck, Trittico di Dresda, Annunciazione, trittico chiuso, datata 1437, olio su tavola, 33,1 × 13,6 cm, Gemäldegalerie, Dresda.
TAV. 19 Jan van Eyck, Annunciazione, dittico, 1432-1435 (?), olio su due tavole, 38,8 × 23,2 cm con cornice, Fundación Colección Thyssen-Bornemisza, Madrid.
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ronato da una tiara pontificale, risulti dipinta direttamente sul pavimento a mattonelle chiare e scure, a loro volta diverse da quelle dipinte in precedenza? Il mutamento più vistoso rivelato dai raggi x riguarda i pannelli esterni dell’Annunciazione, che risultava ambientata in una prima versione in due nicchie dipinte, al pari delle due statue sottostanti dipinte a grisaille. Di qui il dubbio che anche le due figure protagoniste, vestite entrambe in abiti insolitamente candidi, potessero in origine essere dipinte a grisaille, la stessa tecnica usata da Jan in due altre Annunciazioni (Tavv. 18, 19) (Dresda e Madrid). Il problema generale resta quello di una evidente eterogeneità dell’insieme, non solo tra pannelli esterni e interni, ma anche all’interno, tra parte superiore e inferiore. Eterogeneità che in passato aveva fatto avanzare l’ipotesi che l’insieme del polittico fosse il risultato di un’operazione di assemblaggio di pezzi nati separatamente. Tuttavia, la commissione di Bruxelles stabilì con certezza che le misure dei ventiquattro pannelli che compongono l’esterno e l’interno del polittico erano quelle originarie; dunque, se assemblaggio ci fu, esso fu all’origine, il che, in linea di principio, non elimina il sospetto che i vari “pezzi” fossero avviati separatamente da Hubert, morto nel 1426. Chi, nell’affrontare la lettura dei ventiquattro pannelli che compongono il polittico, ricercasse anzitutto un filo conduttore programmatico resterebbe almeno in parte deluso. L’esterno del polittico ha, in realtà, un suo fulcro abbastanza unitario nell’evento dell’Annunciazione, predetto in alto dai due profeti Zaccaria e Michea, mentre le due finte statue, potentemente scultoree, di San Giovanni Battista e San Giovanni Evangelista sono venerate in ginocchio dal committente Jodocus Vyd e dalla moglie Elisabeth Borluut, meravigliose statue policrome nelle nicchie ombrose, immobili eppure miracolosamente animate, straordinaria miscela di umanità borghese e di pietà secolarizzata.
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La composizione originaria dell’insieme del polittico a sportelli chiusi doveva presentarsi, dunque, senz’altro più unitaria e forse persino al limite della monotonia nella triplice successione di nicchie, prima che, come si è detto, l’ambiente dell’Annunciazione venisse trasformato in una stanza con soffito a travi, così angusta, però, da non poter ospitare le figure che in ginocchio. La novità geniale, introdotta certamente da Jan, sta in quel vuoto centrale fra le due figure, occupato da un placido interno borghese, appena una pausa tranquilla prima che l’occhio venga attratto velocemente e quasi risucchiato verso i due paesaggi urbani visibili dalle finestre. La relativa coerenza del polittico esterno si infrange all’interno in una sequenza quasi tumultuosa di scarti stilistici, di incertezze iconografiche, che pure finiscono per comporre quell’affascinante polifonia d’insieme che anche lo spettatore più ignaro arriva a cogliere. Tutti gli studiosi hanno rilevato, per cominciare, la qualità singolarmente monumentale delle tre figure che da sole compongono la parte centrale superiore del polittico: si tratta di una Deesis, ossia di una scena d’intercessione, composta dalla Vergine (una Vergine che curiosamente ha l’iconografia di una Vergine annunciata, con un libro in mano) e da Giovanni Battista; entrambi sono rivolti a una figura divina al centro, che alcuni elementi stanno a indicare come l’Eterno Dio. Sul bordo del manto il ricamo di perle compone le parole dell’Apocalisse rex regum et dominus dominantium (Apoc 17, 14); sulla Stola è pure ricamata la parola sabaoth che secondo sant’Agostino non sta a indicare una delle tre Persone, ma appunto il Re dei Re; ma sull’addobbo di broccato il motivo ripetuto del pellicano con le parole jehsus rex, dovrebbe togliere ogni dubbio che si tratti qui della seconda persona della Trinità. E la corona di fantastica ricchezza ai piedi della figura centrale ribadisce il concetto dell’eterna regalità del Signore. Sui gradini del trono una lunga scritta inneggia all’immortalità (vita sine morte in capite – iuventus sine senectute in fronte) e dunque ancora al Cristo morto e risorto.
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Ai lati della Deesis si dispongono due gruppi di Angeli musici ciascuno dei quali reca una scritta, rispettivamente melos laus deo (il canto è lode a Dio) e laudate eum in coris et organum; questi angeli privi di ali sono infatti intenti con professionale serietà a cantare e suonare. Di fronte a questa “scena musicale”, a questi strumenti, organo, leggii, strumenti a corda che hanno la precisione di nature morte, come non ricordare che i Paesi Bassi erano allora all’avanguardia della musica in Europa? Infine, ancora ai lati, sovrastati dalle finte sculture dell’offerta di Abele e Caino e dell’uccisione di Abele stanno le figure straordinarie dei progenitori Adamo ed Eva. Questi due pannelli sono gli unici a essere uniti al polittico con ganci, erano dunque parti mobili; sembra quasi una raffinata conferma di questo fatto la posizione dei progenitori, che avanzano obliquamente dalla nicchia, rompendo l’allineamento delle altre figure. La presenza in nicchie dei due progenitori, rappresentata a grandezza poco maggiore del naturale, li rende sostanzialmente estranei alla grandiosa epifania centrale; il loro gesto di pudore ci avverte che il loro peccato è già avvenuto e quindi la loro presenza nel contesto si colloca all’origine dell’opera di redenzione, rappresentata nella scena centrale. Al di là di queste considerazioni iconografiche, non c’è dubbio che queste due figure incarnino in modo perfetto, specie l’Adamo, una nuova realtà umana di esaltante bellezza profana: esse sono prive, cioè, di quel carattere ideale, assoluto, che è più tipico della nostra cultura umanistica e sotto questo aspetto è quasi ovvio notare come l’Adamo di van Eyck e quello di Masaccio nella cappella Brancacci siano i capostipiti di due mondi culturali profondamente diversi. «Avete guardato bene questo Adamo?», si chiedeva Sterling, «avete guardato la sua capigliatura? È un mondo in movimento in cui i peli si rizzano, si arrotolano e si separano molto in basso sulle spalle come se il pittore non arrestasse se non a malincuore la loro crescita selvaggia [leur sauvage poussée]».
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Hubert e Jan van Eyck, La Vergine, Padre eterno in trono e San Giovanni Battista, dal Polittico dell’Agnello mistico, particolari.
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Hubert e Jan van Eyck, Angeli musici, dal Polittico dell’Agnello mistico, particolare.
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Hubert e Jan van Eyck, Adamo ed Eva, dal Polittico dell’Agnello mistico, particolari.
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Hubert e Jan van Eyck, Eva, dal Polittico dell’Agnello mistico, particolare. A fronte: Hubert e Jan van Eyck, Adamo, dal Polittico dell’Agnello mistico, particolare.
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Hubert e Jan van Eyck, Adorazione dell'Agnello mistico, dal Polittico dell’Agnello mistico, particolare.
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Questo Adamo ci aiuta a comprendere fino a che punto può raffinarsi ciò che noi chiamiamo in termini troppo generici il realismo fiammingo; fino a che punto esso possa perfezionare la sua sapientissima empiria, fino a suggerire la muscolatura diversa dell’uomo e della donna, le mani e il viso dell’Adamo scuriti dal sole, quasi che il modello si fosse spogliato in quel mentre del suo abito. Sin qui, dunque, la lettura “in orizzontale” del polittico interno, il cui significato si dispiega però in tutta la sua complessità, anche teologica, solo nella parte inferiore e massimamente nella parte centrale. Immediatamente sotto la corona centrale, plana il volo aperto e immobile della bellissima colomba dello Spirito Santo, raffigurata entro un’aureola di raggi concentrici trascoloranti di luce, che si estendono a raggiungere i cortei dei santi. Proseguendo lungo l’asse verticale appare l’Agnello-Cristo, vivo e sgozzato sull’altare, dove su un antependio di broccato, simile a quelli che si mettevano sugli altari nei giorni festivi, si leggono le parole: ecce agnus dei qui tollit peccata mundi e jesus via veritas et vita. Infine, la lettura verticale del pannello centrale sbocca nella fontana di vita, il cui bordo di pietra reca incise le parole hic est fons aquae vitae procedens de sede dei + (et) agni. Quest’ultima iscrizione fa luce sull’intima connessione teologica di questi simboli: se dal sangue dell’Agnello sgozzato riversato nel calice eucaristico nasce la Chiesa, lo stesso sangue si traforma in acqua di vita, fonte eterna che sgorgando dalla fontana si tramuta in perle e gemme preziose e abbevera i prati del Paradiso su cui procedono i santi. Allegoria eucaristica, dunque, ma insieme allegoria battesimale. Non sappiamo chi fosse la guida teologica, che aveva suggerito questa sapiente simbologia. Si può notare che il capitolo vii dell’Apocalisse contiene già questa doppia simbologia, quando dice al versetto 7 che l’Agnello in mezzo al trono sarà il pastore e guiderà alle fonti dell’acqua della vita. E ancora
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al capitolo 22,1 si parla di «un fiume d’acqua limpida come cristallo che scaturiva dal trono e dall’Agnello». Che il simbolo della fontana di vita facesse parte di una devozione fiamminga e forse di un culto popolare si può pensarlo ricordando che ben due volte Jan riprende il tema della fontana di vita: la prima volta in una tavola perduta ma a noi nota attraverso una copia antica al Prado (Tav. 20) nella quale figura anche una Deesis; una seconda volta nella minuscola Madonna con Bambino alla fontana, firmata e datata 1439 (Tav. 21). Anche il culto popolare del Santo Sangue è legato al più celebre dei reliquiari fiamminghi, conservato nella cappella che porta lo stesso nome a Bruges. L’idea della metamorfosi del sangue nell’acqua della vita è prevalsa probabilmente per ragioni cultuali locali, ma il riferimento più forte resta quello ai due sacramenti costitutivi della fede cristiana, l’Eucaristia e il Battesimo. Questa lettura “verticale” del pannello centrale interno trova naturalmente la sua ultima e complessiva ragion d’essere nella grande e corale adorazione della fontana di vita e dell’Agnello, che nel capitolo vii dell’Apocalisse, versetto 9, viene descritta come una «moltitudine immensa che nessuno poteva contare di ogni nazione, razza, popolo e lingua. Tutti stavano in piedi davanti al trono e all’Agnello». Certamente il programma iconografico dell’altare di Gand si radica nella liturgia della festa di Ognissanti. Nel Polittico di Gand la moltitudine immensa che adora l’Agnello procede, convergendo da vari lati, verso il fonte della vita sui prati verdissimi di un dolce e vero paesaggio ondulato, dove si distribuiscono secondo un ordine preciso, per categorie: anzitutto la cerchia dei profeti inginocchiati a sinistra e degli apostoli inginocchiati a destra (quattordici con Mattia, Paolo e Barnaba); alle loro spalle, in piedi i patriarchi e a destra i martiri vestiti di rosso; nei piani arretrati a sinistra il gruppo dei confessori con palme in mano e, a destra, quello delle vergini. Non è stato, credo, mai notato che la scelta di questi gruppi di persone sembra corrispondere ai “cori’ delle litanie laureta-
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Alle pagine seguenti:
TAV. 20 Hubert e Jan van Eyck, Adorazione dell'Agnello mistico, dal Polittico dell’Agnello mistico, particolare.
Copia da Jan van Eyck, La fontana della Vita, olio su tavola, 181 × 116 cm, Museo del Prado, Madrid.
TAV. 21 Jan van Eyck, Madonna con Bambino alla fontana, datata 1439, olio su tavola, 19 × 12,2 cm, Koninklijk Museum voor Schone Kunsten, Anversa.
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Hubert e Jan van Eyck, Adorazione dell'Agnello mistico, dal Polittico dell’Agnello mistico, particolare.
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ne della Vergine (Regina Patriarcharum, Regina Prophetarum, Regina Apostolorum, Regina Confessorum, Regina Virginum, Regina Martyrum, cui si aggiunge Regina Sanctorum omnium). A questi gruppi se ne aggiungono altri nei pannelli laterali, che invece non rientrano nella liturgia dei santi, i Santi giudici, i cavalieri, i pellegrini, gli eremiti, la cui presenza potrebbe riferirsi ai pubblici uffici o ai santi patroni di Jodocus Vyd. Chiunque scorra con lo sguardo i gruppi formati dalle varie categorie di santi, senza preoccuparsi eccessivamente di individuare differenze di mano esecutiva, non potrà non stupirsi della moltitudine di vita presente in ciascuno di essi. Sebbene ciascun gruppo presenti una ben riconoscibile tipologia umana corrispondente al tipo di santità – delicate vergini, irsuti patriarchi, nobili e giovani cavalieri –, essa si esprime in una meravigliosa ricchezza di umanità, in una straordinaria varietà di tipi e di caratteri umani. Il senso complessivo di questa grande teofania, nei suoi termini più semplici e probabilmente più aderenti alla realtà storica del tempo, ci viene suggerito da un’antica cronaca fiamminga, la Kronijk van Vlaenderen: in essa troviamo una dettagliata descrizione di un “mistero” teatrale organizzato nel 1458 in onore del duca Filippo il Buono, che si svolgeva su di un palcoscenico e che doveva essere una trasposizione scenica del pannello centrale dell’altare di Gand. Il titolo infatti del “mistero”, Chorus beatorum in sacrificium agni pascalis, rifacendosi indirettamente all’Apocalisse, collega la festa di Ognissanti al sangue dell’Agnello immolato. Un paesaggio unitario si stende lungo tutti e cinque i pannelli del polittico inferiore e questa idea unificatrice appartiene al disegno originario dell’opera ed è quindi da assegnare a Hubert. Si tratta, ovviamente, del Paradiso, la cui iconografia si rifà abitualmente all’immagine dell’hortus conclusus e qui invece diventa paesaggio vero, sconfinato, con prati verdissimi, cespugli fioriti, cipressi, aranci e palme; ancora una volta lo “spazio” fiammingo si risolve in un’esplorazione incantata e
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Hubert e Jan van Eyck, Paesaggio, particolare dei Santi eremiti, dal Polittico dell’Agnello mistico, particolare.
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incantevole della realtà naturale, la cui stessa perfetta bellezza sta a rivelare, paradossalmente, la sua trascendenza: la bellezza terrena che riveste questo Paradiso esprime la gioia celeste di tutte le cose. Questa spazialità non è organizzata prospetticamente; essa sembra sia stata trovata dal pittore quasi cammin facendo. Anzi, nel paesaggio ci troviamo di fronte a una brusca recessione spaziale, unita a una forte riduzione della “scala” delle figure, come se mancasse la zona mediana: l’occhio raggiunge i piani più lontani attraversando una sorta di zona vuota. Il centro focale di questa spazialità, rappresentato dall’Agnello è un punto, se vogliamo, debole, nel senso che esso non è immediatamente percepibile, perché l’occhio lo raggiunge solo passando attraverso il gruppo di figure inginocchiate in primo piano che ci voltano la schiena. Altri contrasti di stile, a ben guardare, si riconoscono nei gruppi dei santi che avanzano verso l’Agnello: da un lato la varietà delle fisionomie fortemente individualizzate ci rinvia a quella inesauribile ricchezza di ricerca realistica che rappresenta la più grande novità eyckiana; dall’altro è evidente che è il gruppo nella sua totalità che finisce per far premio su ciascun individuo. Nei gruppi, specie quelli degli apostoli e dei profeti, si incontrano e si fondono felicemente la forza icastica di molte teste e la massa voluminosa dei panneggi, mentre in altri, come nelle vergini e in parte nei confessori, troviamo reminiscenze di stile “morbido”. Colpito da tanta profusione di immagini, sollecitato da tanti richiami simbolici, lo spettatore rinuncia fortunatamente a raccogliere il tutto in uno schema logico e si abbandona alla straordinaria luminosa felicità della scena. Ed è questa la prova più importante che l’opera a quattro mani, o meglio, il completamento dell’opera effettuato da Jan nel corso di ben sei anni, ha sortito l’effetto voluto. Tuttavia, la constatazione scientifica, attraverso vari esami radiografici, della presenza di diversi strati esecutivi ripropone fatalmente anche per il polittico l’eterno
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problema Hubert-Jan. Più di ogni altra opera, anzi, il Polittico di Gand, poiché sicuramente terminato da Jan, rende una volta ancora inevitabile il tentativo di riconoscere le parti attribuibili a Hubert. A questo proposito ci si accontenta spesso di notare alcuni dettagli evidenti: per esempio le piante di aranci dai bei tronchi solidi o la palma da dattero sono state dipinte sopra strati di pittura precedenti e quindi rivelano un intervento di Jan: sono un ricordo diretto del viaggio compiuto nel 1428-1429 in Portogallo e in Spagna. Ma se ci si addentra nello studio degli strati più antichi o della diversa trattazione delle figure, i problemi si infittiscono e ci si accorge che, ancora una volta, quasi nulla è del tutto certo perché la combinazione dei due stili di Hubert e di Jan, o meglio i cambiamenti “in corso d’opera” – come ci dicono le prove stilistiche e radiografiche – possono essere avvenuti in vari modi, tutti in realtà possibili. Per esempio: il disegno originario di Hubert poté essere portato avanti oppure modificato da Jan; oppure, lo stesso disegno di Jan poté essere modificato in seguito dal medesimo Jan, perché occorre sempre tenere presente che Jan portò avanti l’opera nel corso di ben sei anni – ammesso che ne abbia intrapreso subito, e non dopo qualche anno, l’esecuzione – e che quindi egli stesso poté apportare modifiche alle proprie soluzioni precedenti. Un’ipotesi equilibrata circa la distribuzione delle mani ci appare quella avanzata da Sterling: l’esecuzione originale di Hubert, prima che il lavoro si interrompesse bruscamente, doveva avere lasciato i pannelli a vari livelli di esecuzione, secondo la normale consuetudine di lavoro del tempo e Jan dovette portarli avanti con cambiamenti più o meno sensibili. Sterling specifica anzi che Jan dovette sforzarsi di mimetizzare al massimo i cambiamenti, perché non fossero riconoscibili e si deve ammettere che il suo scopo appare interamente raggiunto. Gli strumenti di questa armonizzazione sono la luce e la meticolosa precisione del disegno, che è come dire la resa della distanza atmosferica e il potenziamento della forma attraverso la nitidezza del rilievo.
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Un’altra osservazione assai equilibrata di Pächt ci dice che il repertorio formale di immagini dei due fratelli era forse meno distante di quello che noi immaginiamo e che quindi anche laddove il disegno spetta al più anziano dei due e l’esecuzione al più giovane, non è possibile separare il contributo dell’uno e dell’altro. Questa affermazione, tuttavia, potrebbe rimettere in questione attribuzioni che sembravano ormai consolidate dalla critica come quella del gruppo della Deesis, tradizionalmente assegnato a Hubert in base al carattere fortemente monumentale e plastico di queste tre figure che perfettamente esprimono l’immobile riposo di un ordine eterno. L’interpretazione scultorea e monumentale della figura, la qualità quasi stereometrica delle figure, collegata anche con la più avanzata scultura fiamminga e borgognona del tempo, è sempre apparsa più “antica” della qualità intimamente atmosferica e luminosa della pittura di Jan. Analoghe incertezze attributive sono frequenti nei folti gruppi che convergono verso l’Agnello, dove si possono riconoscere sia la varietà “narrativa” dei tipi umani sia la qualità bloccata e ferma dei gruppi, la forza plastica delle teste e dei panneggi: una qualità ben diversa da quella lievità pittorica di modellato, da quella impostazione aggraziata delle figure che solitamente viene spiegata con i legami che ancora collegano Jan al gotico internazionale. I problemi del Polittico di Gand, opera intrinsecamente a quattro mani, sono destinati a rimanere tali: come un pendolo, l’alternativa Hubert-Jan si ripresenta fatalmente e provoca lo studioso con ipotesi talora persino diametralmente divergenti, ciascuna delle quali tuttavia non è, in linea di principio, inverosimile. Saggezza vorrebbe che lo studioso riconoscesse l’impossibilità di separare nettamente gli interventi in un’opera così complessa e multiforme come il polittico e tuttavia il fascino di quest’opera spinge continuamente a scrutarla per scorgervi le tracce della sua genesi.
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Se sino a una data così avanzata come il 1432 lo studioso di Jan van Eyck ha dovuto quasi sempre rinunciare alla certezza assoluta di riconoscere la mano autentica dell’artista, solo dopo il Polittico di Gand eccoci finalmente in presenza di un gruppo di opere firmate e datate, di fronte alle quali ci è quindi finalmente concesso di scrutare in tranquillità lo stile di Jan e cercare di comprenderne il genio pittorico.
«Als ich chan» Resta sempre senza risposta la ragione per cui solo a partire da una certa data Jan van Eyck firmi e collochi temporalmente la maggior parte delle sue opere, dandoci così delle certezze che mancano, invece, per tutta la sua attività precedente. Di fronte a questa relativa abbondanza di prove documentarie, sembrerebbe facile “mettere in serie” le diciassette opere (v. nota alle pp. 11-12), la maggior parte piccole o piccolissime tavolette, sulla cui attribuzione vi è la quasi unanimità degli studiosi; sembrerebbe cioè facile disporre anche quelle prive di data in un ordine stilistico temporale con un buon margine di sicurezza. Non è così: vedremo che un criterio di lettura sulla base di una presunta evoluzione stilistica può essere ingannevole. Paradigmatico il caso del piccolo Trittico di Dresda (vedi Tavv. 18 e 22), da molti ritenuto opera relativamente precoce, databile intorno al 1430, finché un restauro del 1958 permise di recuperare sulla cornice la vera data di esecuzione: 1437. Uno scarto così notevole, nell’arco del solo decennio di attività eyckiana nota, obbliga ad affrontare questa attività matura di van Eyck non con criteri evoluzionistici, ma con un approccio metodologico che tenga conto invece di altri fattori. Per esempio: la minuscola Vergine con Bambino alla fontana del Museo di Anversa (vedi Tav. 21), firmata e datata 1439, dunque fra le ultime opere, se non l’ultima, appare un estremo omaggio, quasi un ritorno all’antica grazia e alle tradizionali simbologie del gotico internazionale.
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TAV. 22 Jan van Eyck, Trittico di Dresda aperto, Madonna con il Bambino in trono tra i santi Michele, Caterina d’Alessandria e un devoto, datato 1437, olio su tavola, 33,1 × 13,6 cm, Gemäldegalerie, Dresda.
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Un’altra opera tarda, la Santa Barbara di Nicomedia, dello stesso museo (Tav. 23), segna anch’essa un improvviso e isolato ritorno all’intensa narratività delle prime opere. Ora, lasciando da parte il capolavoro di Gand, che fa storia a sé, ci si accorge che le opere dell’ultimo decennio presentano una sorta di cesura notevole rispetto al gruppo di opere precedenti il polittico, caratterizzato, come si è visto, sia da una narratività più o meno intensa sia da accenti ancora legati al gotico internazionale. Pächt soprattutto insiste sulla visione essenzialmente statica e contemplativa delle opere del decennio 14321442 e tende a identificare in questa muta contemplazione, in questa passività di visione, il vero carattere della pittura eyckiana; cosa che non esclude l’appassionata analisi di ogni realtà, ma una realtà appunto sostanzialmente immobile, non narrativa. È vero, infatti, che questa produzione eyckiana su tavola, spesso firmata, si stacca in modo sensibile da quella che presumibilmente precede e in particolare dalla produzione miniata. Questo mutamento sottile ma radicale si deve allora ricondurre, come ritiene Belting, al mutamento del “mezzo”, e cioè alla creazione della tavola di devozione o della pittura da cavalletto? O piuttosto, come osserva Sterling, in questa stessa produzione su tavola si alternano due “linguaggi’, a seconda del formato del quadro: nei formati medi che superano i cinquanta centimetri e, soprattutto, nell’unico formato “maggiore” della Madonna con il canonico van der Paele, van Eyck (Tav. 24), adotta un’intensità di colore esaltato dalla luce, una plasticità di carni e una stereometria di panneggi, quasi una dimostrazione brillante di plasticità “moderna”, che lusingava il gusto dei committenti bruggensi borghesi. Mezzi, questi, ben diversi dal tocco leggero, dalla delicatezza, dalla grazia dello spirito gotico internazionale. Di fronte a queste apparenti contraddizioni, credo sia saggio riconoscere, come fa Sterling, che in Jan convivono espressioni stilistiche diverse e simultanee, secondo il tipo di opera, la devozione privata o invece quella pubblica, l’immagine iconica o il ritratto, e anche la stessa destinazione fisica dell’opera, la penombra di una chiesa
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TAV. 23 Jan van Eyck, Santa Barbara di Nicomedia, datata 1437, pennello e inchiostro bruno su tavola preparata per la pittura, 32,2 × 18,5 cm, Koninklijk Museum voor Schone Künsten, Anversa.
o l’interno di una casa borghese. Soprattutto è importante sottolineare come i due fondamentali “linguaggi” eyckiani, quello della massima concretezza realistica e quello dell’animazione delicata e lirica, non sono semplicemente alternativi ma sono dosati in modo molto vario e sottile, opera per opera. Questa nuova pittura eyckiana su tavola conferisce all’opera un aspetto di oggetto prezioso, inscindibilmente unito alla preziosa cornice dipinta, sulla quale vengono tracciate scritte esplicative, documentarie, colte, che fingono di essere incise ora sul legno ora sulla pietra o sul metallo. La cornice funge da finestra ideale che inquadra l’ambiente nel quale vive il personaggio; noi stessi ci collochiamo di fronte a quella finestra e contempliamo a nostra volta quella stessa scena o quel personaggio: spesso viene a stabilirsi un invisibile, quasi intrigante circolazione di sguardi tra i personaggi entro il quadro e chi guarda.
TAV. 24 Jan van Eyck, Madonna con il canonico Joris van der Paele, datata 1436, olio su tavola, 141 x 176,5 cm, Groeningemuseum, dalla chiesa di San Donaziano a Bruges.
La scritta sul bordo sottostante della Madonna con il canonico van der Paele ci informa che il canonico aveva donato nel 1434 due cappelle «in gr(em)io chori» e che la tavola era stata realizzata nel 1436. Quel «grembo del coro», quel deambulatorio, è lì davanti a noi con le sue forme massicce di un romanico colto e abbraccia tutti i personaggi in una continuità spaziale, assume la coerenza di un trono-nicchia espanso, che accoglie i personaggi pur senza rapportarsi a essi nelle proporzioni. Le misure del dipinto, 140,8 × 176,5 cm, sono del tutto eccezionali per van Eyck e contribuiscono a conferire alle figure isocefale fra loro – la Vergine con il Bambino, san Donaziano e san Giorgio che presenta il donatore van der Paele – un impianto monumentale, accresciuto dall’imponenza dei panneggi. I personaggi appaiono come immobilizzati in un infinitesimo di secondo, fissati in un attimo che li devitalizza e rende quasi goffo il gesto di san Giorgio di scoprirsi il capo in segno di omaggio. Il canonico inginocchiato davanti alla Madonna, al centro della “sua” chiesa, si è tolto gli occhiali, che gli servivano per
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leggere il breviario che gli è restato aperto fra le mani; il suo sguardo non è diretto alla Vergine, perché è del tutto interiore. Ogni realtà fisica, dalle grosse mani artritiche alla lunga sciarpa di petit gris, alle famose lenti degli occhiali, ai sontuosi oggetti liturgici del san Donaziano o all’armatura di san Giorgio – questi santi eyckiani senza aureola! –, diventa quasi ossessivamente palpabile grazie al fiotto di luce che la fissa e ne esalta il colore. Di fronte a questa scena appaiono particolarmente felici le espressioni usate da Charles De Tolnay per qualificare la poesia eyckiana: «cristallisation de l’espace» e «insensibilisation des personnages». Sul bordo superiore della cornice si leggono le parole del Libro della Sapienza (7,26.29) particolarmente care a Jan, già presenti sul bordo della veste della Madonna in una chiesa gotica (vedi Tav. 10) e che ritorneranno di lì a poco ancora una volta nel Trittico di Dresda: «Haec est speciosior sole et super omnem stellarum dispositionem luci comparata invenitur prior. Candor esse enim lucis aeternae et speculum sine macula Dei maiestatis». Questa predilezione del pittore per le parole che attribuiscono alla sapienza una qualità tutta spirituale e una bellezza luminosa autorizzano l’ipotesi che esse si riferiscano indirettamente alla stessa attività pittorica, anzi a interpretarle come metafora della pittura stessa, anch’essa specchio senza macchia, che attraverso la luce rivela la bellezza e la sapienza dell’Artista supremo. Appena un anno più tardi il piccolo Trittico di Dresda ci offre, in fondo, una variazione dello stesso tema, una Sacra conversazione con santi e donatori in un ambiente architettonico, ma quanto profondamente diverso dall’aggressivo illusionismo della Madonna con il canonico van der Paele! Lo squisito minuscolo trittichetto – misura appena 33,1 × 13,6 cm – invita a inoltrarci in una intimità affatto diversa e discreta. La diversità di stile è tale che, come già si è detto, l’opera veniva in passato abitualmente assegnata ai primissimi anni Trenta, prima che si scoprisse sulla cornice la data esatta,
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Jan van Eyck, Madonna con il canonico Joris van der Paele, particolare.
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ovvero il 1437. In fondo a una profonda navata romanica coperta da un prezioso tappeto e arricchita da capitelli scolpiti e da statue di profeti, appare piccola e isolata la figura della Vergine, seduta su un trono sontuoso di oro e cristallo, sotto a un ricco baldacchino di prezioso tessuto ricamato. La stretta correlazione tra spazio architettonico e trono rivela, ancora una volta, il carattere simbolico dell’architettura non realisticamente proporzionata alla figura. L’interno della chiesa si estende ai pannelli laterali, concepiti come navate laterali che ospitano i santi Michele e Caterina, patroni del committente inginocchiato, il probabile Michele Giustiniani. Sullo sfondo, alle spalle di Caterina, si apre, non più grande di un francobollo, una veduta di città. La cornice del trittichetto, trattata a modo di oggetto in finto marmo, reca incisa la citazione della Sapienza già usata altre due volte; a essa si aggiunge una bella e lunga citazione del Libro del Siracide (o Ecclesiastico) («Ego quasi vitis fructificavi suavitatem odoris...», 24,17 e sgg.). Altre lunghe scritte sulle cornici dei due pannelli laterali fanno di questo trittichetto un’opera di destinazione privatissima e meditativa, un oggetto di raffinata cultura che conferma una volta ancora il carattere colto della pittura di van Eyck. Sul retro dei pannelli laterali del trittichetto di Dresda l’angelo annunciante e la Vergine sono dipinti in grisaille come finte statue su piedestalli (vedi Tav. 18), entro nicchie dolcemente lambite dalla luce, mentre la candida colomba vola verso Maria e – supremo paradosso – getta la sua ombra sul fondo. La dolcezza sorridente dell’angelo e il grazioso moto di sorpresa della Vergine hanno la stessa delicatezza animata della Madonna al centro del trittichetto. Difficile dire se questa Annunciazione sia precedente o successiva rispetto all’Annunciazione della collezione Thyssen di Madrid (vedi Tav. 19). Anche questa è dipinta in grisaglia, ma con un tipo di illuminazione diversa e raffinatissima, poiché le figure, più intensamente statuarie sull’alto piedistallo e con
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Jan van Eyck, Santa Caterina, dal Trittico di Dresda, particolare.
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panneggi gonfi e angolosi, si riflettono sul fondo nero lucente come in uno specchio e proiettano la loro ombra sulla cornice esterna della nicchia. La lavorazione a finto marmo del retro degli sportelli di Madrid fa ritenere che i due pannelli siano stati concepiti (o trasformati in corso d’opera) in dittico autonomo. L’origine di queste tavole a grisaille come sportelli esterni di chiusura sembra venire dalla consuetudine di coprire i dipinti in tempo quaresimale con tele monocromo. Certamente il trattamento della luce raggiunge qui apici di virtuosismo e richiama alla memoria la singolare e calda raccomandazione che l’Alberti nel suo De Pictura rivolge ai pittori di esercitarsi a dosare la luce con due soli colori, il bianco e il nero. Il più celebre e certamente il più ricco di significato dei quadri eyckiani di devozione, di media dimensione e di soggetto mariano, è la Madonna del cancelliere Nicolas Rolin (Tav. 25), proveniente anticamente da una cappella della chiesa di Notre-Dame di Autun. Probabilmente, lo stesso Rolin aveva concepito l’opera a uso privato, destinandola alla sua “loggia di preghiera” in chiesa, collegata con un passaggio alla sua abitazione. Tenendo presente questa circostanza potremo meglio penetrare il senso di questa scena, dove il cancelliere e la Vergine, il donatore dell’icona e l’icona stessa si incontrano – si direbbe, alla pari – e condividono lo stesso spazio, l’uno di fronte all’altra, gli occhi negli occhi. Diversamente dalle altre immagini di devozione, la Madonna non occupa qui il centro del dipinto, quasi a sottolineare il fatto che qui non si tratta propriamente di un’icona dedicata alla Vergine: essa è lì solo per il cancelliere Rolin, che leva gli occhi verso di lei sollevandoli dal breviario aperto. Ancora una volta l’architettura reale – una sala del trono – è al tempo stesso uno spazio simbolico. Le linee prospettiche convergono al centro, attraversano la stanza e con-
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TAV. 25 Jan van Eyck, Madonna del cancelliere Nicolas Rolin, 1434-1435 (?), olio su tavola, 66 × 62 cm, Musée du Louvre, Parigi, dalla sacrestia della cattedrale di Notre-Dame ad Autun.
Alle pagine seguenti: Jan van Eyck, Madonna del cancelliere Nicolas Rolin, particolari.
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ducono il nostro sguardo verso la triplice arcata di una loggia che si apre su un giardino pensile ricco di fiori simbolici, dove due personaggi si affacciano a guardare il paesaggio fluviale. In questo intreccio di sguardi che si rimandano – il nostro, quello di Rolin, quello dei due passanti –, si snoda questa singolare vicenda contemplativa, nella quale lo spettatore si sente invitato a entrare. In questa “invenzione”del quadro di devozione di medio formato, come la chiama il Belting, rientra anche la Madonna di Lucca del Museo di Francoforte (Tav. 26) – così chiamata perché proveniente anticamente dalla collezione di Carlo Luigi, duca di Lucca –, la cui datazione oscilla intorno ai primi anni Trenta. La Madonna, molto vicina a quella di Dresda, siede su un trono a baldacchino e l’architettura l’avvolge come un guscio spaziale; meglio ancora, costituisce la cornice del nostro stesso spazio visivo. Non abbiamo qui uno spazio religioso ma un’atmosfera quasi domestica, dove tuttavia ogni dettaglio – la finestra luminosa, i pomi sul davanzale, le ampolle e il bacile d’acqua pura, i quattro leoni del trono – si carica di significati simbolici o allusivi. Uno sguardo d’insieme al gruppo di questi quadri di devozione non può mancare di mettere in risalto la persistenza e addirittura l’unicità del tema mariano, che domina pressoché incontrastato, se si eccettua il tema della Vera Icona di Cristo, giunto a noi solo attraverso alcune copie antiche (a Berlino e Utrecht le migliori) e nel quale van Eyck rinnova profondamente l’iconografia tardomedioevale della Veronica, il tema che esalta Maria, regina del cielo e madre della Chiesa. A esso si affianca quello della Vergine annunciata, presente oltre che nei dittici in grisailles già ricordati, in un’Annunciazione di medio formato della National Gallery di Washington (Tav. 27). La verosimile destinazione originaria di questa tavola alla Certosa di Champmol, e quindi a un ambiente ecclesiale, spiegherebbe l’insolita qualità lucente dei colori, mentre il
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TAV. 26 Jan van Eyck, Madonna di Lucca, 1437-1438 (?), olio su tavola, 65,5 × 49,5 cm, Städelsches Kunstinstitut, Francoforte, dalla collezione di Carlo Luigi di Borbone, duca di Lucca.
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suo formato molto allungato lascia aperta l’ipotesi che esistesse uno sportello compagno a dittico. L’iconografia dei due personaggi è tradizionale: essi si collocano in posizione leggermente eccentrica entro la grande navata di un ricco e maturo stile romanico, mentre la colomba vola sulla scia di sette raggi dorati. Contemplazione e dottrina si intrecciano nella scena, affollata ancor più del solito di richiami scritturali e di significati teologici nelle piastrelle del pavimento con scene dell’Antico Testamento intarsiate, nelle vetrate figurate e negli affreschi. È nel campo del ritratto che Jan van Eyck si qualifica come inventore, forse ancor più che negli altri generi pittorici. Più esattamente, spetta interamente a van Eyck la trasformazione del ritratto da cortese, e cioè di personaggi appartenenti a una sfera inattingibile di potenza e ricchezza, a ritratto borghese. Bisognerà subito sottolineare il peso specifico che nell’economia dell’attività di Jan van Eyck spetta ai ritratti: su diciassette opere giunte fino a noi ben otto sono ritratti, ma se a questi aggiungiamo, come è giusto, i ritratti dei committenti presenti in opere di devozione – Joos Vijd e la moglie, il cancelliere Rolin, il canonico van der Paele, gli Arnolfini –, risulterà che la ritrattistica occupa ben due terzi della attività eyckiana. Nei ritratti Jan posa il suo occhio penetrante non più su personaggi sacri, né sulle infinite realtà del mondo circostante, ma solo su quell’unico e irripetibile soggetto che è l’individuo, il cui volto reca il sigillo di una ricca realtà interiore, di quell’insieme di storia e accadimenti personali che l’hanno plasmato donandogli la sua assoluta singolarità, la sua haecceitas. I personaggi che popolano questa galleria di ritratti sono gioiellieri e mercanti, ma anche cardinali e consiglieri di corte. La novità vera è quella di non operare la scelta di una classe rispetto a un’altra, ma di aprirsi a un ventaglio di persone diverse, senza privilegiarne alcuna, segnando così il definitivo passaggio da una esclusiva civiltà di corte a una civiltà borghese. Molti di questi ritratti hanno dimensioni assai ridotte, alcuni addirittura minime, che rivelano la loro destinazione privatissima, quella
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TAV. 27 Jan van Eyck, Annunciazione, 1433 (?), olio su tavola trasferita su tela, 92,7 × 36,7 cm, National Gallery of Art, Washington, dalla Certosa di Champmol, Digione.
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di un piccolo cabinet di casa privata, per la gioia degli occhi del solo proprietario. Ancora una volta, Jan sembra anticipare la silenziosa ritrattistica olandese del Seicento. I personaggi di van Eyck emergono da un’oscurità indefinita che trapassa in una luce via via più intensa, come se un fascio luminoso fosse puntato sul viso, specchio dell’anima. A questa luce il volto viene esplorato con una meticolosa, paziente oggettività, scevra da ogni tentazione interpretativa. In apparenza Jan vuole solo descrivere, ma il risultato di questa esplorazione ci avvince al punto che chi guarda è spinto a interrogarsi sulla identità profonda di quella figura, sulla storia del tutto personale che ha disegnato quel volto. Non sappiamo, per esempio, chi sia il personaggio che si affaccia da un parapetto di pietra, sul quale sono incise le parole leal sovvenir, accompagnate da un nome in lettere greche «tymotheos» (Londra, National Gallery) (Tav. 28) e inoltre dalla firma e dalla data del pittore, 10 ottobre 1432. È probabile che si tratti, come ha brillantemente sostenuto Panofsky, di un musicista: Timoteo era infatti il nome di un grande musicista dell’antichità, dietro il quale si nasconde forse il nome del grande esponente del’ars nova musicale del tempo, Gilles Binchois. Assai sottile è l’ipotesi avanzata da Belting che le parole leal sovvenir alludano al ritratto come “memoria”, nel senso preciso di una memoria “leale”, cioè veritiera, di una persona non più esistente. Si può anzi osservare che l’incisione delle parole del motto sulla pietra, resa illusionisticamente persino nelle sue porosità e nei piccoli sbocconcellamenti, sembra alludere ai cippi sepolcrali antichi. Il volto, incorniciato dalle due bande del copricapo, è di una vivezza intensissima, con i tratti da contadino fiammingo nobilitati dall’alta fronte, dallo sguardo straordinariamente pensoso e insieme sognante. Tutti i ritratti datati di Jan van Eyck sono circoscritti a un breve lasso di anni. Al 1431 risale con tutta probabilità il disegno a punta d’argento per il ritratto di Nicola Albergati (Tav. 29), perché si sa che l’Albergati fece sosta a Bruges per tre giorni, tra l’8
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TAV. 28 Jan van Eyck, Ritratto di uomo (Tymotheos), datato 1432, olio su tavola, 34,5 × 19 cm, National Gallery, Londra.
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e l’11 dicembre 1431, in occasione del viaggio diplomatico per la pace tra Francia, Inghilterra e il duca di Borgogna. Il disegno non è solo un prezioso documento del “primo pensiero” di Jan, ma attraverso le molte meticolose note a margine, ci permette di avere un’idea del suo metodo di pittura, come se l’avessimo sorpreso segretamente al lavoro. Si tratta di promemoria per i colori, di raffinata precisione anche nel linguaggio: «gelächtich und witte blau wachtich» (gialliccio e bianco azzurrino), «die Lippe seer witawahtich» (le labbra molto bianchicce). È probabile che il Ritratto del Cardinale Albergati (Tav. 30) sia stato eseguito in un secondo tempo, forse protratto, comunque non più in presenza del modello: lo starebbe a indicare il grado di minore vitalità che ha appunto la tavoletta di Vienna. Resta intatto però, e persino forse accresciuto, il senso di superiore saggezza e di sereno distacco, di aristocratica spiritualità che emana da questo principe del clero nella cappa clausa rossa, il capo libero da copricapi, particolare eccezionale nella ritrattistica del tempo. Anche il Ritratto di Baudouin de Lannoy (Tav. 31), ciambellano del duca e governatore di Lille, è collocabile dopo il 1431, l’anno in cui Baudouin ricevette l’onorificenza del
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Jan van Eyck, Ritratto di uomo (Tymotheos), particolare.
A fronte:
TAV. 29 Jan van Eyck, Studio per il ritratto del cardinale Nicola Albergati, 1431, punta d’argento su carta tinta in grigio, 21,3 × 18 cm, Kupferstichkabinett, Dresda.W
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Toson d’oro che gli pende al collo; egli stringe nella mano il bastone del comando e veste una cappa di broccato color porpora tessuta d’oro di inaudita preziosità, pari a quella dei grandi personaggi gotico internazionali. Ma ancora una volta il viso – e soprattutto lo sguardo magnetico – ci pone in presenza di una persona a un tempo infinitamente vicina e concreta, e infinitamente remota, inattingibile, così come il ritrattino di un orefice di minuscole misure, 19 × 13,2 cm, noto come Uomo con anello (Tav. 32). Alcuni dubbi sono stati avanzati sulla autografia di Jan e sulla datazione del ritratto, poiché il copricapo a frappe è di fattura di poco più antica, ma non si saprebbe a chi altri assegnare questo viso di sconvolgente intensità, quasi di persona malata, la piega triste delle labbra, la barba non rasata, la mano gracile sul parapetto. A questa straordinaria obiettività del ritrattista allude la parola conterfeit (contraffatto) che leggiamo sulla cornice di un altro ritratto datato 1436, quello del ricco gioielliere Jan de Leeuw (Tav. 33), un termine che fa del ritratto un documento dipinto e che autentica per così dire l’identità del personaggio. L’iscrizione complessa appare illusionisticamente incisa su una cornice metallica e corre lungo i bordi, specificando persino la data di nascita del personaggio ritratto. Ancora una volta lo sguardo intensamente aggressivo rivolto allo spettatore trasmette l’impressione di una grande energia vitale, di una orgogliosa autosufficienza. Datato 1433 e firmato è il Ritratto di uomo con il turbante (Tav. 34), cui si aggiunge il motto di Jan van Eyck, als ich chan, trascritto in lettere greche. Il ritratto di questo personaggio ignoto prende il nome di “uomo con il turbante” per la presenza dominante di quel grande drappo di stoffa rosso, vero e proprio capolavoro di scultura dipinta, che sembra svelare un tratto di intelligente stravaganza in chi lo porta. Lo sguardo del personaggio è rivolto all’esterno del quadro, verso di noi; ci sentiamo noi stessi quasi scrutati da quello sguardo sensibile e
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Alle pagine precedenti:
TAV. 30 Jan van Eyck, Ritratto del cardinale Nicola Albergati, 1431, olio su tavola, 34 × 27,5 cm, Kunsthistorisches Museum, Vienna. Jan van Eyck, Ritratto del cardinale Nicola Albergati, particolare.
A fronte:
TAV. 31 Jan van Eyck, Ritratto di Baudouin de Lannoy, 1435 (?), olio su tavola, 26 × 19,5 cm, Staatliche Museen, Berlino.
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A fronte:
TAV. 32 Jan van Eyck, Ritratto di un orefice (Uomo con anello), 1430-1435 ca., olio su tavola, 19 × 13,2 cm, Museo Brukenthal, Sibiu.
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inquieto, di insaziabile curiosità. L’ipotesi, un tempo avanzata da pochi studiosi con grande cautela e molti dubbi, che si tratti di un autoritratto del pittore viene data, giustamente, come la più probabile negli ultimi studi eyckiani. A sostegno di questa ipotesi non è tanto lo sguardo diretto allo spettatore, quanto il fatto che il personaggio è ritratto senza mani, come appunto se fosse stato il pittore a ritrarre se stesso in uno specchio; e l’assenza delle mani è un fatto eccezionale nella ritrattistica eyckiana, tranne che nel ritratto dell’Albergati che fu dipinto senza il modello sotto gli occhi. Infine, e soprattutto, si potrebbe trattare di un autoritratto perché la firma e la data sulla cornice (johannes de eyck me fecit, anno mcccc33 21 octobris e in alto il motto als ich chan) comporterebbero, come negli altri ritratti, anche il nome del personaggio ritratto. Così ci si può concedere – una volta tanto – semplicemente di fantasticare che questo signore dall’età apparente di circa cinquant’anni, che ci guarda intelligente e disincantato, con un tocco di estro artistico nel turbante sofisticato, possa essere proprio il nostro pittore. Sappiamo invece con certezza che l’unico ritratto femminile dipinto da van Eyck – una donna dal viso e dal vestito di estrazione borghese – raffigura la moglie del pittore Margaretha van Eyck (Tav. 35), perché così è specificato sulla cornice (coniux meus johannes me complevit) con la data del 17 giugno 1439. Un ultimo ritratto virile di Jan, non datato probabilmente per la perdita della cornice, è quello di Giovanni Arnolfini (Tav. 36), l’astuto e importante uomo d’affari di Lucca, stabilitosi a Bruges sin dal 1421 e nominato poi consigliere di Filippo il Buono, che gli concesse anche il Toson d’oro. Ci piace immaginare che l’oggetto che tiene nelle mani e che, in genere, si riferisce alla professione della persona ritratta, sia una di quelle innovative lettere di credito internazionale introdotte per l’appunto dai banchi medicei. Le braccia formano come un solido parapetto al busto, che conferisce alla figura maggiore monumentalità e un tipo di composizione vicino alla ritrattistica italiana. Lo stesso Arnolfini
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Alle pagine precedenti:
TAV. 33 Jan van Eyck, Ritratto di Jan de Leeuw, datato 1436, olio su tavola, 24,5 × 19 cm, Kunsthistorisches Museum, Vienna.
TAV. 34 Jan van Eyck, Ritratto di uomo con il turbante (Autoritratto), datato 1433, olio su tavola, 25,5 × 19 cm, National Gallery, Londra.
TAV. 35 Jan van Eyck, Ritratto di Margaretha van Eyck, datato 1439, olio su tavola, 41,3 × 34,5 cm, Groeningemuseum, Bruges, dai beni della Gilda dei pittori e sellai di Bruges.
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Jan van Eyck, Ritratto di Margaretha van Eyck, particolari.
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TAV. 36 Jan van Eyck, Ritratto di Giovanni Arnolfini, 1438 (?), olio su tavola, 29 × 20 cm, Gemäldegalerie, Berlino.
Alle pagine seguenti:
TAV. 37 Jan van Eyck, Doppio ritratto dei coniugi Arnolfini (Matrimonio degli Arnolfini), datato 1434, olio su tavola, 81,8 × 59,7 cm, National Gallery, Londra, dalla collezione di don Diego de Guevara, consigliere dell’Imperatore Massimiliano i. Jan van Eyck, Doppio ritratto dei coniugi Arnolfini (Matrimonio degli Arnolfini), particolare.
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commissionava nel 1434 un eccezionale doppio ritratto (Tav. 37) che da tempo Panofsky ha dimostrato raffigurare in realtà il matrimonio dell’Arnolfini con Giovanna Cenami: un matrimonio privatissimo, fides laevata o fides manualis, cioè un matrimonio nel quale il giuramento veniva fatto levando la mano e unendo le mani nella stessa camera nuziale, qui raffigurata. Il doppio ritratto diventa così il solenne documento di un matrimonio, al quale assistono due testimoni, visibili nello specchio appeso alla parete alle spalle degli sposi, sopra al quale la frase scritta in bei caratteri gotici johannes de eyck fuit hic 1434 suona come la registrazione di un atto notarile. L’intimità realistica della stanza contiene in realtà tutta una sequenza di simboli: dall’unica candela accesa allo specchio circondato di scene della Passione, al cagnolino simbolo di fedeltà, alle calzature abbandonate per la sacralità del luogo. Lo specchio, in particolare, raccogliendo nella sua convessità tutta la scena, assume il significato di una metafora della pittura stessa: come lo specchio testimonia la realtà “al naturale”, così l’artista la riproduce “secondo arte”. I testimoni degli sposi vedono ciò che noi stessi vediamo, ma loro soltanto, catturati all’interno dello specchio, partecipano di una realtà che noi soltanto vediamo. Può essere interessante a questo proposito l’osservazione del Belting che i fabbricanti di specchi e i pittori appartenevano a Bruges alla stessa corporazione. Due opere molto tarde, la Santa Barbara (vedi Tav. 23) e la Madonna con Bambino alla fontana (vedi Tav. 21), entrambe al Musée Royal des Beaux-Arts di Anversa, di piccole se non addirittura minime dimensioni, ci riportano inaspettatamente a temi e intepretazioni antichi, quasi ricongiungendosi agli esordi eyckiani e dunque dimostrano ancora una volta l’impossibilità di ricostruire un soddisfacente iter stilistico eyckiano secondo una logica evolutiva. La Madonna con Bambino alla fontana, che misura appena 19 × 12 cm, è l’opera di van Eyck di dimensioni più piccole, se si esclude solo la copia del San Francesco in estasi di Philadelphia. L’immagine della Vergine ha la grazia aristocratica, l’animazione discreta e lirica, il drappeggio dolce-
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Jan van Eyck, Doppio ritratto dei coniugi Arnolfini (Matrimonio degli Arnolfini), particolare.
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Jan van Eyck, Doppio ritratto dei coniugi Arnolfini (Matrimonio degli Arnolfini), particolare.
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mente ondulato del gotico internazionale; il corpicino del Bambino, che gioca con un filo slegato di coralli, ha la morbidezza indefinita e il moto slegato dei lattanti. Non è necessario pensare che l’insolita iscrizione (joh[ann] es me fecit = c[om]plevit an[n]o 1439) si riferisca a un completamento successivo di un’opera antica, ma piuttosto a un’opera iniziata e compiuta nello stesso anno. A ben guardare, la composizione di questa incantevole tavoletta che si direbbe dipinta col fiato, è costruita sapientemente secondo piani paralleli: la Madonna in piedi e non seduta in trono si erge sullo sfondo di un tendaggio ricchissimo, sorretto da due graziosi angeli in volo palpitante, che si prolunga sul prato sin sotto i piedi della Vergine; nel breve spazio trovano posto ancora una fontana a quattro zampilli e un parapetto di pietra dove si affacciano stupendi fiori simbolici della pietà mariana, viole, gigli, ireos e mughetti. Anche la Santa Barbara, opera segreta e quasi misteriosa, eseguita nel 1437 ci restituisce un van Eyck ridiventato narratore grazie alla straordinaria scena della costruzione di una torre, che si erge dietro al capo della santa. La santa è seduta per terra, come una Madonna dell’umiltà, e il manto si dispiega in una vasta ruota molto simile a quella della Vergine con Bambino che legge (Madonna di Ince Hall) (Tav. 38), alla quale si richiama anche nel gesto di sfogliare il libro. L’opera è misteriosa perché si presenta come un disegno preparatorio senza esserlo in realtà: la totale assenza di colore – il cielo vagamente azzurro non è che un maldestro tentativo successivo di coloritura – è sostituita da un disegno a pennello fine su uno sfondo bianco trattato a gesso. Come spiegare l’estrema meticolosità del disegno, anche laddove non sarebbe necessaria, come nei capelli finissimi di santa Barbara? E come spiegare la ricca cornice di finto marmo variegato con la bella iscrizione ioh[ann]es de eyck me fecit 1437? Sembra quasi che per qualche ragione van Eyck abbia deciso di trasformare, in corso d’ope-
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Jan van Eyck, Santa Barbara, particolare.
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ra, in disegno monocromo un’opera iniziata come dipinto su tavola. Si diceva che la Santa Barbara ci restituisce d’improvviso un van Eyck “narratore”: alle spalle della santa l’ampio spazio del cantiere, aperto all’infinito sulla campagna, è popolato di figure minutissime, che s’affaccendano intorno alla grandiosa costruzione, forse ispirata alla Westturm del duomo di Colonia. La costruzione allude alla leggenda della santa imprigionata dal padre in una torre che ella fece trasformare in una cappella. Il vero tema del quadretto diventa dunque quello di un cantiere architettonico: esso si presenta a noi nel pieno della sua attività, con una folla di persone addette ai lavori, dai più umili operai con la carriola all’architetto stesso che, con la canna professionale in mano, cerca di farsi udire dall’operaio in cima alla torre.
TAV. 38 Jan van Eyck, Vergine con Bambino che legge (Madonna di Ince Hall), dopo il 1433, olio su tela, 26,5 × 19, 5 cm, National Gallery of Victoria, Melbourne.
Quando Max J. Friedländer con la sua abituale e felice concisione definiva Jan van Eyck «uno scopritore» si riferiva a quella straordinaria mescolanza di realismo e di fantasia nella rappresentazione degli infiniti aspetti dell’universo mondo. «[...] Con la stessa forza egli conquista tutta la realtà [...]. Conosce le stoffe come un tessitore, l’architettura come un capo-muratore, la terra come un geografo, la flora come un botanico». Van Eyck fu scopritore perché la pittura stessa si aprì con lui a nuove esplorazioni: dal paesaggio alla natura morta, al nuovo quadro di devozione al ritratto; fu scopritore anche nella ricerca dei mezzi, perfezionando quella tecnica pittorica a olio, sicuramente già in uso ma di cui egli certamente esaltò le possibilità di indagine luminosa. Fu a un tempo l’acutezza del suo occhio poetico e della sua curiosità d’indagine a stimolarlo a una tecnica più acuta e duttile e non già la tecnica a olio da lui inventata a consentirgli quegli esiti straordinari, come ingenuamente diceva van Mander, che confondeva le cause con gli effetti.
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In altre parole, van Eyck non arrivò a dipingere a quel modo grazie alla sua presunta scoperta ma certamente egli fu guidato a perfezionare la sua tecnica grazie all’osservazione e alla fantasia; fu l’esigenza investigativa del suo occhio poetico a stimolare una resa più acuta della realtà. L’assidua ricerca della realtà conferisce un certo carattere scientifico al metodo eyckiano, è la sua «ragione di dipingere», la sua ratio pingendi. In questo senso van Eyck è capostipite in Fiandra di categorie estetiche nuove, parallele alla ricerca artistica fiorentina degli stessi anni. Il binomio “arte e scienza”, tema consueto al pensiero del tempo – che noi potremmo tradurre con arte e ingegno, talento e capacità – risuona in una lettera che Filippo il Buono inviava nel 1435 alla camera dei conti di Lille per sollecitare i pagamenti che spettavano a Jan: «pittore di cui non è possibile trovare un suo pari in arte e scienza» (que nous trouverions point le pareil à notre gré ni si excellent en son art et science). L’umanista italiano Bartolomeo Facio, il primo in assoluto a esaltare la grandezza artistica di van Eyck, sottolinea le ricerche di Jan van Eyck sui colori; è la prima attestazione di un tema in seguito ricorrente, relativo alla cultura dell’artista, che è altra cosa dalla sua pratica artistica, dalla sua competenza, dalla sua ars. Il Facio, che scriveva intorno al 1450, doveva certamente conoscere il trattatello Della Pittura dell’Alberti del 1435, ricchissimo di questa terminologia concettuale, in cui si raccomanda che il pittore sia «dotto... nelle arti liberali». Queste osservazioni ci portano a rileggere con attenzione quello straordinario motto di van Eyck «Als ich chan» scritto, si noti, pur con qualche incertezza, in lettere greche (ALC ICH CAN) e ripetuto ben sei volte. Di primo acchito esso suona come una dichiarazione di toccante umiltà o anche di umile orgoglio dell’artista che sa di avere fatto tutto e solo ciò che è in suo potere: «come posso», «come ho potuto fare», «come so fare».
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È stato convincentemente dimostrato che il motto proviene dalla tradizione letteraria del tempo; i letterati chiudevano le loro opere con queste o simili parole di letteraria modestia, con le quali l’autore garantiva al lettore il proprio merito ed anche si assumeva l’intera responsabilità dell’opera. Nell’adottare quella formula – als ich chan – Jan van Eyck con quell’«io» fa dell’artista il protagonista assoluto della sua opera: e si presenta a noi come il campione di un nuovo, coltissimo umanesimo.
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APPARATI
CRONOLOGIA
La data di nascita di Jan van Eyck non è nota. La prima testimonianza esistente relativa a van Eyck proviene dalla corte di Giovanni di Baviera a L’Aia, che lo nominò pittore di corte con il grado di valet de chambre e lo dotò di due assistenti, come dimostrano alcuni documenti di pagamento risalenti al 1422-1424. Ciò suggerirebbe una data di nascita successiva al 1395, se non precedente, comprovata dall’aspetto dell’artista in quello che si ritiene il suo autoritratto (a sinistra) risalente al 1433. Tra le prime opere attribuite alla mano di van Eyck figurano le miniature delle Ore Torino-Milano – troncone del libro di preghiera Très belles Heures de Jean de Berry – tra le più alte testimonianze della cultura tardogotica europea, che per una ventina d’anni impegnò diversi artisti francesi, tra cui Jean d’Orléans, pittore della famiglia reale (già noto come Maître du Parement de Narbonne), con i suoi collaboratori, e i fratelli Limbourg. Il primo frammento, conservato presso la Biblioteca reale di Torino, è andato distrutto in un incendio nel 1904. Gli studiosi concordano nel pensare che il naturalismo e l’elegante composizione della pittura successiva a Jan van Eyck debbano molto ai miniatori dell’inizio del xv secolo, come l’anonimo maestro Boucicaut e i fratelli Limbourg, che lavoravano per i duchi di Borgogna. Alla morte di Giovanni di Baviera, nel 1425, van Eyck entrò al servizio del potente e influente principe Valois, il duca Filippo
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il Buono di Borgogna. Van Eyck risiedette a Lille per un anno e poi si trasferì a Bruges, dove visse fino alla sua morte, avvenuta nel 1441. I registri del tribunale documentano che Jan van Eyck fu nominato pittore di corte e valletto di camera il 19 maggio 1425 e fu compensato per le spese di un viaggio da Bruges a Lille nell’agosto di quell’anno. Oltre ai suoi doveri di pittore di corte, la posizione di cameriere era un titolo di distinzione che gli conferiva una posizione ufficiale a corte, uno status insolitamente elevato per un artista all’inizio del xv secolo. Per conto del duca intraprese una serie di missioni segrete durante il decennio successivo, di cui le più importanti furono due viaggi nella penisola iberica, il primo nel 1427 come membro della delegazione inviata per combinare il matrimonio di Filippo con Isabella di Spagna, il secondo nel 1428-1429 per cercare la mano di Isabella del Portogallo. Ulteriore indicazione di quanto l’arte e la persona di van Eyck fossero tenute in considerazione si trova in un documento del 1435 nel quale il Duca rimproverava i propri tesorieri per non aver pagato al pittore lo stipendio dovuto, sostenendo che Van Eyck se ne sarebbe andato e che non si sarebbe trovato da nessuna parte un suo pari quanto ad «arte e scienza».
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Opera in cui compaiono quelli che diventeranno i caratteri tipici della pittura di van Eyck, ovvero un naturalismo analitico e un grande lirismo, assai lontani dalle grandi tele del primo Rinascimento in Italia e dall’idealizzazione classica. L’opera è oggi conservata nella Cattedrale di San Bavone a Gand, in Belgio, al termine di una storia turbolenta, che l’ha vista sopravvivere alle rivolte iconoclaste del xvi secolo, quindi alla Rivoluzione francese e, in epoca più recente, al saccheggio nazista. Alla fine della Seconda guerra mondiale il polittico fu recuperato in una miniera di sale, e la storia del suo restauro, attorno al 1950, attirò l’interesse del grande pubblico e fece progredire notevolmente la disciplina dello studio scientifico dei dipinti. Non meno turbolenta è stata la storia dell’interpretazione di quest’opera. Poiché un’iscrizione afferma che a iniziare il polittico fu Hubert van Eyck, fratello maggiore di Jan, maior quo nemo repertus (più grande di chiunque altro), e che Jan – che si faceva chiamare arte secundus (secondo migliore nell’arte) – lo terminò, avvalorando così la tesi di un’opera a quattro mani.
Nel 1431, dopo i suoi numerosi e lunghi viaggi per il duca, Jan acquistò una casa a Bruges e sposò una donna molto più giovane di nome Margaretha, con cui ebbe dieci figli. Nel 1434, il duca Filippo fece da padrino al battesimo del primogenito e aumentò lo stipendio di Jan, donando alla coppia sei calici d’argento realizzati da un orafo di Bruges.
Eccezionalmente per il suo tempo, van Eyck firmava e datava spesso i propri dipinti sulle cornici, allora considerati parte integrante dell’opera (erano spesso dipinti insieme). Tuttavia, nel celebre Ritratto Arnolfini (Londra, National Gallery) riprodotto a sinistra, van Eyck ha iscritto sulla parete di fondo (pittorica), sopra lo specchio convesso, «Johannes de Eyck fuit hic 1434» (Jan van Eyck fu qui, 1434).
Oltre al lavoro a corte, van Eyck produsse dipinti per clienti privati, tra i quali spicca la Pala di Gand commissionata da Jodocus Vijd e sua moglie Elisabeth Borluut attorno al 1426.
Il dipinto è uno dei più analizzati dagli storici dell’arte, ma in anni recenti sono state messe in discussione diverse interpretazioni tradizionalmente accettate, come quella
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suggerita da Erwin Panofsky secondo cui l’opera era la «registrazione di un fidanzamento»; o quella secondo cui la donna ritratta fosse incinta, poiché il gesto della mano di sollevare l’abito ricorrerebbe nelle interpretazioni contemporanee di sante vergini (tra cui il Trittico di Dresda dello stesso van Eyck e la Madonna di Frick). Van Eyck muore il 9 luglio 1441, come attestano gli incartamenti relativi al suo funerale custoditi nell’archivio della cattedrale di San Salvatore. Nella primavera del 1442, il fratello minore Lambert farà seppellire Jan nella chiesa di San Donaziano a Bruges, oggi scomparsa, e rileverà il suo laboratorio portando a termine alcune delle sue numerose commissioni, mentre Filippo il Buono continuerà a sostenere la vedova Margaretha, aiutando una delle figlie a entrare in convento. Nella prima fonte più approfondita su van Eyck, la biografia del 1454 dell’umanista genovese Bartolomeo Facio, De viris illustribus, l’artista è definito «il principale pittore» del suo tempo, collocato tra i migliori artisti del primo Quattrocento, insieme a Rogier van der Weyden, Gentile da Fabriano e Pisanello. Ma il testo del Facio aggiunge anche un’informazione preziosa circa la preparazione culturale di van Eyck, definendolo artista istruito ed esperto di classici, in particolare degli scritti di Plinio il Vecchio sulla pittura.
INDICE DELLE TAVOLE
Tav. 1
L'annunciazione, miniatura da Les Très Belles Heures de Notre-Dame, f.1v., nal 3093, 1390-1410, Bibliothèque National de France, Parigi.
Tav. 3
Tav. 4
Jan van Eyck (?), Natività del Battista, bas de page Battesimo di Cristo, 1422-1424, dalle Très Belles Heures de Notre-Dame, codice noto anche come Ore Torino – Milano, tempera e oro su pergamena, ceduto dalla città di Milano, 1935, inv. 467/M, fol. 93 v. Torino, Palazzo Madama Museo Civico d’Arte Antica. Su concessione della Fondazione Torino Musei.
Jan van Eyck (?), Messa dei morti, bas-de-page con Scena di benedizione di una sepoltura, 1422-1425, dalle Très Belles Heures de Notre-Dame, codice noto anche come Ore Torino – Milano, tempera e oro su pergamena, ceduto dalla città di Milano, 1935, Inv. 467/M, fol. 116 r.Torino, Palazzo Madama - Museo Civico d’Arte Antica. Su concessione della Fondazione Torino Musei.
Tav. 5
Tav. 6
Jan van Eyck (?), Viaggio dei santi Giuliano e Marta, miniatura dal libro d'Ore Torino, f. 55v., ante 1417 o 1422-1424, 28 × 19 cm, conservato nella Biblioteca Reale di Torino e distrutto in un incendio nel 1904.
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Tav. 2
Jan van Eyck (?), La preghiera di un principe sulla spiaggia, miniatura dal libro d'Ore Torino, f. 69v., ante 1417 o 1422-1424, 28 × 19 cm, conservato nella Biblioteca Reale di Torino e distrutto in un incendio nel 1904.
Cattura di Cristo (Bacio di Giuda), miniatura dal libro d'Ore Torino, f. 24r., ante 1417 o 1422-1424, 28 × 19 cm conservato nella Biblioteca Reale di Torino e distrutto in un incendio nel 1904.
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Tav. 7
Tav. 8
Jan van Eyck, La crocifissione, olio su tavola trasferita su tela, 56,5 × 19,7 cm. © The Metropolitan Museum of Art/Art Resource/Scala, Firenze
Tav. 15
Hubert van Eyck o Petrus Christus, Annunciazione, olio su tavola, 77,5 × 64,5 cm, Metropolitan Museum of Art, New York.
Tav. 16
Tav. 9
Jan van Eyck (?), Matrimonio mistico di santa Caterina (Virgo inter virgines), miniatura dal libro d'Ore Torino, f. 59r., ante 1417 o 1422-1424, 28 × 19 cm, conservato nella Biblioteca Reale di Torino e distrutto in un incendio nel 1904.
Jan van Eyck, Il giudizio finale, olio su tavola trasferita su tela, 56,5 × 19,7 cm. © The Metropolitan Museum of Art/Art Resource/Scala, Firenze
Tav. 10
Jan van Eyck, Madonna in una chiesa gotica, 1426 ca., olio su tavola, 32 × 14 cm, Staatliche Museen, Berlino.
Tav. 17
Tav. 18
Tav. 11
Tav. 12
Tav. 19
Tav. 20
Tav. 13
Tav. 14
Tav. 21
Tav. 22
Jan van Eyck, Stigmate di San Francesco, olio su tavola trasferita su tela, 29,5 × 33,7 cm, Galleria Sabauda, Torino.
Copia da Jan van Eyck, Crocifissione, 1450 ca., olio su tavola, 45 × 30 cm, Galleria G. Franchetti alla Ca’ d’Oro,Venezia.
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Hubert e Jan van Eyck, Polittico dell'Agnello mistico, polittico aperto,1426-1432 ca., olio su tavola, 260 × 375 cm, cattedrale di San Bavone, Gand.
Hubert o Jan van Eyck, Cristo crocifisso tra la Vergine e san Giovanni Evangelista, olio su tavola trasferita su tela, 43 × 26 cm, Staatliche Museen, Berlino.
Hubert o Jan van Eyck, Tre Marie al sepolcro, 1425-1435, olio su tavola, 71,5 × 90 cm, Museo Boijmans-van Beuningen, Rotterdam.
Hubert e Jan van Eyck, Polittico dell'Agnello mistico, polittico chiuso, 1426-1432 ca., olio su tavola, cattedrale di San Bavone, Gand.
Jan van Eyck, Annunciazione, dittico, 1432-1435 (?), olio su due tavole, 38,8 × 23,2 cm, Fundación Colección ThyssenBornemisza, Madrid.
Jan van Eyck, Madonna con Bambino alla fontana, datata 1439, olio su tavola, 19 × 12,2 cm, Koninklijk Museum voor Schone Kunsten, Anversa.
Jan van Eyck, Trittico di Dresda, Annunciazione, trittico chiuso, datata 1437, olio su tavola, 33,1 × 13,6 cm, Gemäldegalerie, Dresda.
Copia da Jan van Eyck, La fontana della Vita, olio su tavola, 181 × 116 cm, Museo del Prado, Madrid.
Jan van Eyck, Trittico di Dresda, Madonna con il Bambino in trono tra i santi Michele, Caterina d’Alessandria e un devoto, trittico aperto, datata 1437, olio su tavola, 33,1 × 13,6 cm, Gemäldegalerie, Dresda. Foto Scala, Firenze/bpk, Bildagentur fuer Kunst, Kultur und Geschichte, Berlin.
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Tav. 23
Tav. 31
Tav. 32
Jan van Eyck, Madonna con il canonico Joris van der Paele, datata 1436, olio su tavola, 141 x 176,5 cm, Groeningemuseum, dalla chiesa di San Donaziano a Bruges.
Jan van Eyck, Ritratto di Baudouin de Lannoy, 1435 (?), olio su tavola, 26 × 19,5 cm, Staatliche Museen, Berlino.
Jan van Eyck, Ritratto di un orefice (Uomo con anello), 1430-1435 ca., olio su tavola, 19 × 13,2 cm, Museo Brukenthal, Sibiu.
Tav. 25
Tav. 26
Tav. 33
Tav. 34
Jan van Eyck, Madonna del cancelliere Nicolas Rolin, 1434-1435 (?), olio su tavola, 66 × 62 cm, Musée du Louvre, Parigi, dalla sacrestia della cattedrale di Notre-Dame ad Autun.
Jan van Eyck, Madonna di Lucca, 1437-1438 (?), olio su tavola, 65,5 × 49,5 cm, Städelsches Kunstinstitut, Francoforte, collezione Carlo Luigi di Borbone, duca di Lucca.
Jan van Eyck, Ritratto di Jan de Leeuw, datato 1436, olio su tavola, 24,5 × 19 cm, Kunsthistorisches Museum, Vienna.
Jan van Eyck, Ritratto di uomo con il turbante (Autoritratto), datato 1433, olio su tavola, 25,5 × 19 cm, National Gallery, Londra.
Tav. 27
Tav. 28
Tav. 35
Tav. 36
Jan van Eyck, Annunciazione, 1433 (?), olio su tavola trasferita su tela, 92,7 × 36,7 cm, National Gallery of Art, Washington, dalla Certosa di Champmol, Digione.
Jan van Eyck, Ritratto di uomo (Tymotheos), datato 1432, olio su tavola, 34,5 × 19 cm, National Gallery, Londra.
Jan van Eyck, Ritratto di Margaretha van Eyck, datato 1439, olio su tavola, 41,3 × 34,5 cm, Groeningemuseum, Bruges, dai beni della Gilda dei pittori e sellai di Bruges.
Jan van Eyck, Ritratto di Giovanni Arnolfini, 1438 (?), olio su tavola, 29 × 20 cm, Gemäldegalerie, Berlino.
Tav. 29
Tav. 30
Tav. 37
Tav. 38
Jan van Eyck, Studio per il ritratto del cardinale Nicola Albergati, 1431, punta d’argento su carta tinta in grigio, 21,3 × 18 cm, Kupferstichkabinett, Dresda.
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Tav. 24
Jan van Eyck, Santa Barbara di Nicomedia, datata 1437, pennello e inchiostro bruno su tavola preparata per la pittura, 32,2 × 18,5 cm, Koninklijk Museum voor Schone Künsten, Anversa.
Jan van Eyck, Ritratto del cardinale Nicola Albergati, 1431, olio su tavola, 34 × 27,5 cm, Kunsthistorisches Museum, Vienna.
Jan van Eyck, Doppio ritratto dei coniugi Arnolfini (Matrimonio degli Arnolfini), datato 1434, olio su tavola, 81,8 × 59,7 cm, National Gallery, Londra, dalla collezione di don Diego de Guevara, consigliere dell’Imperatore Massimiliano i: © The National Gallery, London/Scala, Firenze
Jan van Eyck, Vergine con Bambino che legge (Madonna di Ince Hall), dopo il 1433, olio su tela, 26,5 × 19, 5 cm, National Gallery of Victoria, Melbourne.
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BIBLIOGRAFIA La bibliografia su van Eyck è talmente vasta da rappresentare nel suo insieme e in particolare per alcuni temi uno specchio della storia della critica d’arte nel Novecento. La vastità e complessità degli studi eyckiani consigliano, in una sede come questa, di offrire solo una sintetica traccia per chi volesse inoltrarsi in tale tematica. Prescindendo dalle ben note e del resto assai brevi fonti antiche del Quattro e del Cinquecento (Bartolomeo Facio, Filarete, Summonte, van Mander), il dibattito critico su van Eyck ha inizio nell’ultimo decennio dell’Ottocento e appare subito polarizzarsi sui problemi attributivi, tuttora aperti, di opere eyckiane non firmate che possono essere riferite tanto al misterioso fratello Hubert quanto a Jan. Questo dibattito critico fa tutt’uno, sostanzialmente, con quello relativo alla ricostruzione dell’opera giovanile di van Eyck e, in modo particolare, ai suoi inizi come miniatore nelle Ore Torino-Milano, sulle quali esiste un’ampia bibliografia antica ormai di più di un secolo ma ancora attuale (v. più sotto). Non è eccessivo affermare che nella vastissima bibliografia eyckiana esistono pochissime monografie dedicate esclusivamente a Jan van Eyck, come quella di L. Baldass Jan van Eyck, London 1952; e anche questa non si sottrae alla disputa attributiva Hubert-Jan. Ma in genere le maggiori monografie sono dedicate «ai» van Eyck: la più antica, ancora utile per la pubblicazione dei testi d’archivio relativi ai van Eyck, è quella di W.H. Weale, Hubert and John van Eyck. Their Life and Work, Londra-New York 1908. Assimilabile a uno studio monografico è il brillante e ampio saggio di M. Dvořák, Das Rätsel der Kunst der Brüder van Eyck, apparso nel 1904 sul «Jahrbuch der
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kunsthistorischen Sammlungen» di Vienna, pp. 161-317, poi ripubblicato in volume, Monaco 1918. Così anche l’importante volume di Ch. De Tolnay, Le Maître de Flémalle et les frères van Eyck, Bruxelles 1939 e quello di H. Beenken, Hubert und Jan van Eyck, Monaco 1941, che dilata più di altri il catalogo di Hubert. Anche la monografia di grande impegno filologico di E. Dhanens, Hubert en Jan van Eyck, Anversa 1980 (trad. tedesca Hubert und Jan van Eyck, Königstein im Taunus 1980) presenta proposte attributive spesso diverse sul gruppo delle opere più antiche e in particolare sui fogli delle Ore Torino-Milano. Il libro contiene tra l’altro tutto il materiale d’archivio e soprattutto l’accurata trascrizione delle numerosissime iscrizioni scritturali o liturgiche presenti nelle opere eyckiane. Di utile consultazione, infine, gli apparati critici e filologici a cura di G.T. Faggin nel volume della collana Classici dell’arte, L’opera completa di Van Eyck, Milano 1968. Accanto a queste opere di taglio complessivamente monografico altri testi di rilevante importanza vanno cercati all’interno di studi più generali sull’antica pittura fiamminga. Innanzi tutto il primo volume della monumentale opera di M. Friedländer, Die Altnierderländische Malerei. Die van Eyck – Petrus Christus, vol. i, Berlino 1924 (trad. inglese con note di Nicole Veronee-Verhaegen, Early Netherlandish Painting, Leyde-Bruxelles 1967). Di lettura sempre assai stimolante per l’acutezza di interpretazione iconografica e stilistica i capitoli dedicati a Jan van Eyck del volume di E. Panofsky, Early Netherlandish Painting, Cambridge 1971. Anche il volume di O. Pächt, Die Begründer Altnierderländische Malerei, München 2002, che raccoglie un corso universitario tenuto dallo studioso nel 1972, a cura di Maria Schmidt-Dengler (trad. ingl. Van Eyck and the Founders of early Netherlandish Painting, Londra 2000, con introduzione di A. Rosenauer) contiene tre ampi capitoli dedicati a van Eyck con interessanti interpretazioni. Non è possibile qui neppure accennare alle diverse, talora opposte posizioni dei singoli studiosi sui problemi fondamentali della storiografia
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eyckiana: come si è detto, su di essi non si possono registrare che mobili convergenze non mai unanimi, mentre (cfr. Dhanens e Pächt) si è fatta strada la tendenza a togliere a entrambi alcuni “numeri’ tradizionalmente assegnati a Jan o a Hubert e a introdurre l’ipotesi di uno o più maestri anonimi della cerchia eyckiana. Oltre alle opere di carattere genericamente monografico sono da segnalare due contributi dedicati ad aspetti specifici dell’opera di Jan van Eyck, assai diversi l’uno dall’altro, ma entrambi assai importanti: il primo è l’ampio saggio di C. Sterling, Jan van Eyck avant 1426, in «Revue de l’art» 33, 1976, pp. 6-82, che ricostruisce il curriculum eyckiano prima del 1426, optando, tra l’altro, per una cronologia precoce dei fogli della “mano G” delle Ore Milano-Torino e proponendo un’equilibrata ricostruzione della collaborazione Hubert-Jan nell’Agnello Mistico. Non meno notevole il volumetto di H. Belting – D. Eichberger, Jan van Eyck als Erzähler, Worms 1900, nel quale vengono riesaminate le antiche ipotesi di Durrieu su una cronologia molto anticipata delle Ore Torino-Milano e soprattutto si insiste, come dice il titolo, sulla narratività del primo van Eyck; questa viene esaminata attraverso la lettura delle due tavolette di New York con la Crocifissione e il Giudizio. Da questi esordi “narrativi” inoltre il Belting propone un’interessante traccia di sviluppo dell’arte eyckiana verso la creazione di pitture di devozione su tavola. Lo stesso Belting ritorna sulla questione della «nascita del quadro» in un ampio saggio di taglio specificamente estetico e filosofico che riguarda la pittura fiamminga del Quattrocento e in particolare van Eyck, Die Erfindung des Gemäldes. Aesthetik und Weltbezug des neuen Staffeleibildes, che apre il volume di H. Belting e C. Kruse, Die Erfindung des Gemäldes. Das erste Jahrhundert der niederländische Malerei, Monaco 1994, con utili schede filologiche di Kruse e un’aggiornata bibliografia. La letteratura eyckiana conta un numero rilevante di opere specificamente dedicate alle Ore di Torino-Milano. Gli studi
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più antichi e, come si è detto nel testo, ancora pienamente attuali, sono quelli di P. Durrieu che per primo pubblicò in un album i fogli del codice perito poco dopo nell’incendio (Heures de Turin. Quarante-cinq feuillets à peintures provenant des Très Belles Heures de Jean de France, duc de Berry, Parigi 2018), facendo seguire all’album un saggio critico, Les débuts de van Eyck in «Gazette des Beaux Arts», 1903, pp. 5-18, 107-120. Analoga importanza riveste il volume di G. Hulin De Loo, Les Heures de Milan, Bruxelles-Parigi 1911, contenente la nota distinzione tra le diverse mani che hanno decorato il codice. La questione di Jan van Eyck miniatore è stata a più riprese studiata da A. Châtelet a cominciare da una postfazione alla riedizione dell’opera di Durrieu del 1902, Torino 1967. V. anche dello stesso Châtelet, Jan van Eyck enlumineur. Les Heures de Turin et de Milano-Turin, Strasburgo 1993. Un secondo gruppo di studi su un tema specifico riguarda il Polittico dell’Agnello Mistico di Gand. Ricordiamo anzitutto il volume di L. van Puyvelde, Van Eyck. The Holy Lamb, Londra 1947 (ed. originale Bruxelles 1946). Inoltre P. Coremans-A. Philippot-J. Sneyders, Van Eyck: L’Adoration de l’Agneau. Elements nouveaux interessants de l’histoire de l’art, Bruxelles 1951. I risultati degli esami di laboratorio sono pubblicati in P. Coremans, L’Agneau mystique au laboratoire, Examen et Traitement (in Les Primitifs flamands, iii, Contributions à l’étude des Primitifs Flamands), Anversa 1953. Inoltre L. Brand Philip, The Ghent Altarpiece and the Art of Jan van Eyck, Princeton 1971, contenente interessanti osservazioni ma anche criteri metodologici e ipotesi non sempre condivisibili. Di taglio più asciutto il bel volumetto di E. Dhanens, The Ghent Altarpiece, Londra 1973, ripercorre il programma iconografico proponendone le fonti in Rupert von Deutz; ricostruisce inoltre un possibile aspetto originario del polittico sull’altare e traccia equilibrate proposte per la divisione tra le parti di Hubert e di Jan.
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Non è possibile qui citare se non qualcuno dei molti contributi su altre opere di Jan o temi particolari: sui rapporti di van Eyck con l’arte italiana, v. M. Meiss, Jan van Eyck and the Italian Renaissance, in Venezia e l’Europa, atti del xviii Congresso internazionale di Storia dell’Arte, Venezia 1956, pp. 58 e ss. Sul significato del motto eyckiano v. R.W. Scheller, «Als ich chan» in «Oud Holland», lxxxvii, 1968, pp. 135-139. Sulle due tavole di Torino e di Philadelphia con le Stigmate di san Francesco v. Jan van Eyck’s Two paintings of Saint Francis Receiving the Stigmata, a cura del Philadelphia Museum of Art, 1997, e il catalogo della mostra Jan Van Eyck. Opere a confronto, con saggi di AA.VV., Torino 1997. Sulla ritrattistica eyckiana esistono numerosi studi tra i quali ci limitiamo a citare: D. Jansen, Similitudo. Untersuchungen zu den Bildnissen Jan van Eyck, Colonia/Vienna, 1988. Su ritratti singoli: E. Panofsky, Jan van Eycks Arnolfini Porträt, in «The Burlington Magazine», 1934, pp. 117 e ss.; e dello stesso Who is Jan van Eyck’s Timotheos in «Journal of the Warburg and Courtauld Institutes», xii, 1949, PP- 80 e ss. M. Meiss, «Nicholas Albergati» and the chronology of Jan van Eyck’s Portraits in «The Burlington Magazine», xciv 1952, 137-145, che mette in dubbio l’identità del personaggio ritratto così come anche J. Hunter, Who is van Eyck’s «Cardinal Niccolò Albergati», in «The Art Bulletin» lxxv, 1993, 207-218.
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INDICE DEI NOMI E DEI LUOGHI Adorno A. 46 Agostino santo 35, 76 Albergati N., cardinale 118, 120, 130 Alberti L.B. 108, 144 Alpi 16 Alt-Ausee, miniera di 55 Arnolfini G. 12, 130, 135 Baldass L. 159 Baudouin de Lannoy, ciambellano 12, 120 Baviera Olanda casa di 18, 30 Beenken H. 160 Belgio 55, 151 Belting H. 8, 18, 28, 41, 52, 100, 112, 118, 135, 161 Berlino 12, 41, 46, 55, 112 Binchois G. 118 Borluut Elisabeth 73, 150 Brand Philip L. 162 Bruges 12, 46, 86, 118, 130, 135, 149, 159 Bruxelles 73, 160, 162 Carlo Luigi di Borbone, collezione di 112 Cenami G. 135 Champmol (Digione), certosa di 112
Châtelet A. 142 Colonia, duomo di 162 Coremans P. 149 De Tolnay Ch. 104, 160 Delisle L. 13 Dhanens E. 160, 161, 162 Durrieu P. 13, 14, 16, 18, 26, 28, 30, 161, 162 Dvořák M. 7, 159 Eichberger D. 161 Ermitage, San Pietroburgo 28 d'Estampes R. 16 Europa 77 Facio B. 144, 152, 159 Faggin G. T. 160 Fiandra 46, 144 Filarete (Antonio Averulino detto) 159 Filippo iii di Borgogna, duca (F. il Buono) 12, 92, 130, 144, 149, 150, 152 Firenze 19 Francia 16, 55, 120 Friedländer M. J. 52, 142, 160 Gand 14, 41; Palazzo del Comune 32 Gerusalemme 35, 50
Giordano, valle del 19 Giovanni di Baviera e Olanda, conte 12, 16, 18, 149 Giustiniani M. 106 Guglielmo vi di Olanda e Hainaut, conte 18 Hitler A. 55 Hulin de Loo G. 11, 13, 14, 26, 52, 162 Hunter J. 163 Inghilterra 120 Isaia 40 Jacqueline di Olanda e Hainault 18 Jansen D. 163 Jean de Berry, duca 16 Kruse C. 161 L’Aja 12 Lille 120, 144, 149 Limburgo 12 Lucca 112, 130 Lugt F. 7 Maaseik 12 Maastricht 12 Maestro delle Ore di Torino 41 Meiss M. 163 Michiel M. 13
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Mosa, valle della 19 Neuschwanstein 55 Olanda e Hainaut, conti di 18 Pächt O. 40, 54, 96, 100, 160, 161 Paesi Bassi 77 Panofsky E. 118, 135, 151, 160 Parigi 16, 55, 152; Bibliothèque national 16 Passavant J.D. 28 Petrus Christus 52 Philippot A. 162 Reno 26
Rolin N., cancelliere 12, 108, 112, 114, 152 Rosenauer A. 147 Scheller R.W. 163 Schmidt-Dengler M. 160 Sneyders J. 162 Spagna 28, 95 Sterling Ch. 11, 18, 41, 46, 77, 95, 100 Summonte P. 13, 26, 159 Tatischeff, ambasciatore 28 Torino 44, 46, 162; Biblioteca Reale 13, 154; Università 14 Trivulzio collezione,
Milano 14, 16 van der Paele J. canonico 100, 102, 104, 114 van Eyck H. 7, 14, 26, 28, 46, 50, 52, 56, 62, 63, 68, 70, 160 van Mander K. 142, 159 van Puyvelde L. 162 Verna, monte della 28 Veronee-Verhaegen N. 160 Versailles, trattato di 55 Vijd J. (Vyd Jodocus) 114 von Deutz R. 162 Waterloo 55 Weale W.H. 159
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Grafica e copertina Jaca Book / Paola Forini
Stampa e legatura Tipolitografia Pagani Srl Passirano (BS) ottobre 2021
ISBN 978-88-16-60657-9 Editoriale Jaca Book via Giuseppe Frua 11, 20146 Milano; tel. 02 48561520 – 342 5084046 libreria@jacabook.it; ebook: www.jacabook.org Seguici su
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