001_006_Necropoli ok.qxp
5-08-2010
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MONUMENTA VATICANA SELECTA
MONUMENTA VATICANA SELECTA
PAOLO LIVERANI, GIANDOMENICO SPINOLA Con un contributo di PIETRO ZANDER
Forse nessun luogo al mondo, in un ambito territoriale così limitato, evidenzia un Patrimonio Artistico tanto differenziato ed alto nei suoi raggiungimenti espressivi. Il sito, dai suoi livelli archeologici precristiani e cristiani del primo S. Pietro al S. Pietro attuale con la piazza, i palazzi e i giardini, è stato luogo di impressionanti risultati in architettura, affresco, scultura e arti decorative; ma il Vaticano è parimenti il contenitore di raccolte archeologiche, artistiche e librarie che coprono migliaia di anni di storia dell’umanità, dagli Egizi all’arte dei nostri giorni. Dei volumi che affrontino il Patrimonio Artistico del Vaticano dovranno di volta in volta darsi dei limiti precisi e congrui. Non la scelta antologica di capolavori, ma l’affondo su importanti episodi artistico-culturali anche con diverse chiavi di lettura, con l’intento di costituire un ponte tra il contesto e i suoi raggiungimenti artistici. Patrimonio Artistico Vaticano perciò come lettura del manufatto, della fabbrica e dell’opera d’arte, contestualizzati o, se vogliamo, in reciproco scambio con la cultura, la teologia, la fede, le riforme, ma anche la politica e le ragioni di stato o, infine, la curiosità per altre culture del presente o del passato.
LE NECROPOLI VATICANE LA CITTÀ DEI MORTI DI ROMA
Introduzione di FRANCESCO BURANELLI
La presente iniziativa coinvolge le direzioni editoriali di Jaca Book e di Libreria Editrice Vaticana, e la direzione dei Musei Vaticani. La curatela è affidata a Francesco Buranelli, Roberto Cassanelli e Antonio Paolucci.
VOLUMI PUBBLICATI Heinrich W. Pfeiffer, S.J. LA SISTINA SVELATA ICONOGRAFIA DI UN CAPOLAVORO Nicole Dacos LE LOGGE DI RAFFAELLO L’ANTICO, LA BIBBIA, LA BOTTEGA, LA FORTUNA
MUSEI VATICANI
Alberta Campitelli GLI HORTI DEI PAPI I GIARDINI VATICANI DAL MEDIOEVO AL NOVECENTO
LIBRERIA EDITRICE VATICANA
Ristampa 2020
INDICE
LE SCENE DELL’ANTICO E DEL NUOVO TESTAMENTO
© 2010 by Editoriale Jaca Book Srl, Milano Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano Musei Vaticani, Città del Vaticano All rights reserved International Copyright handled by Editoriale Jaca Book Srl, Milano Prima edizione italiana ottobre 2010 Per tutte le immagini delle Necropoli sotto la Basilica di San Pietro © Fabbrica di San Pietro in Vaticano
Revisione di Roberto Cassanelli Copertina e grafica Jaca Book / Break Point
Stampa e legatura Grafiche Stella San Pietro di Legnago (VR) novembre 2020
ISBN
78-88-16-60632-6
INTRODUZIONE Pag. 7 Capitolo primo INQUADRAMENTO TOPOGRAFICO Pag. 11 Capitolo secondo I RITUALI: ASPETTI ANTROPOLOGICI E RELIGIOSI Pag. 23 Capitolo terzo LA NECROPOLI SOTTO LA BASILICA E LA TOMBA DI SAN PIETRO Pag. 41 Capitolo quarto LA NECROPOLI VATICANA SULLA VIA TRIUMPHALIS Pag. 141 Capitolo quinto LA NECROPOLI SOTTO LA BASILICA DI SAN PIETRO: CONSERVAZIONE E RESTAURO Pag. 287 NOTE Pag. 331 BIBLIOGRAFIA Pag. 345
Editoriale Jaca Book via Frua 11, 20146 Milano; tel. 02 48561520 libreria@jacabook.it; www.jacabook.it
INDICE DEI NOMI Pag. 347
INTRODUZIONE
«Città Eterna». È questo l’appellativo che, forse meglio di altri, sintetizza l’essenza stessa di Roma: già denominata in antico Urbs, «la Città» per eccellenza, Roma nella sua plurimillenaria storia riesce, pur vivendo alterne vicende, a offrire un’immagine di continuità storica e architettonica che ha pochi eguali al mondo. Il graduale stratificarsi ed ampliarsi della città ha creato un tessuto urbanistico unico che, con una continuità ininterrotta di vita, è capace di documentare l’«eternità» di Roma dai primi agglomerati di capanne protostoriche della leggendaria Roma della fondazione romulea, che la tradizione fa risalire al 21 aprile 753 a.C., fino alla metropoli dei nostri giorni. In questa sorprendente realtà assistiamo al graduale espandersi della città, scandito dai perimetri delle mura difensive che in determinati periodi storici, come cerchi concentrici, ne delimitarono il territorio. Nuovi edifici si sovrapponevano ai vecchi, le strade venivano ripavimentate alzandosi di livello, interi quartieri venivano progettati e costruiti, spesso mantenendo antichissimi orientamenti. Un continuo divenire che, nel corso dei secoli, ha creato quella irripetibile città di oltre quattro milioni di abitanti nella quale oggi viviamo. Tra gli «effetti collaterali» di questo espandersi dell’abitato urbano ci fu, fin da epoche antichissime, la sistematica distruzione delle sue necropoli, quelle sterminate città dei morti che, poste tradizionalmente fuori dell’abitato, prima sulle alture e nelle valli circostanti, poi lungo le strade consolari, vennero a mano a mano, gradualmente, occupate dalla città dei vivi. È per questo motivo che le tombe della prima età dei re sono state rinvenute nei pressi dell’area del Foro romano, mentre le sepolture di epoca orientalizzante, arcaica e repubblicana erano già sull’Esquilino, assai lontane dai luoghi dei primitivi stanziamenti, e a loro volta furono obliterate, dagli edifici di epoca successiva. Per non parlare dei sepolcreti di età imperiale che, lungo le strade consolari, si estesero in tutto l’agro romano, fino ad una distanza di qualche miglio dalle mura aureliane che, con la loro costruzione, determinarono una prima contrazione della città all’interno del nuovo perimetro difensivo. A queste sintetiche considerazioni di ordine topografico bisogna aggiungere le conoscenze demografiche sulla popolazione romana nel corso dei secoli, per rendersi conto, dati alla mano, dei milioni di sepolture andate disperse. Infatti all’epoca dei re etruschi (attorno al VI secolo a. C.) Roma contava una popolazione di circa 30.000 abitanti, in repentina crescita se, tre secoli più tardi, gli abitanti residenti erano quasi 190.000 e, nel II sec. d.C., arrivarono a
sfiorare la cifra di circa 1.500.000. Roma capitale dell’Impero divenne la città più popolata di tutto il mondo antico, e tale rimase fino alle prime invasioni dei Visigoti e dei Vandali degli inizi del V secolo. Questa breve premessa vuole semplicemente sottolineare l’importanza della conservazione e della tutela delle sopravvivenze archeologiche sia che si tratti di tombe isolate, sia di settori più estesi di necropoli che, purtroppo, secondo un fuorviante moderno compromesso di tutela, vengono molto spesso regolarmente scavate, documentate e poi rimosse per far posto all’espansione della città. Il risultato di questo modo di operare è stata la continuativa e sistematica cancellazione di sterminate «città dei morti» con la conseguente perdita di una ingente mole di dati storici e culturali tramandati dalla pietas dei familiari che, con sorprendente affinità con quanto ancora accade nei nostri cimiteri, documentavano con commovente sincerità di sentimenti non solo le generalità dei propri cari, ma anche le doti umane dei defunti e soprattutto il loro cursus honorum, fonte inesauribile di conoscenza per la ricostruzione della storia antica e della struttura della società romana. Sembra incredibile, soprattutto se la paragoniamo agli importanti ritrovamenti delle vicine città dell’antica Etruria, del Latium Vetus o della Magna Grecia, che Roma, capitale dell’Impero, città vissuta per tremila anni, che ha contato milioni di abitanti, tra cui re, consoli, imperatori, senatori, generali, scrittori, ma anche papi e santi che hanno fatto la storia, oltre a liberti e schiavi, non abbia potuto conservare, se non in minima parte, le proprie necropoli. Si sono salvate solo poche e sporadiche testimonianze di quelle che nei secoli dovevano essere le più vaste città dei morti; per avere una pallida idea del patrimonio archeologico disperso sarebbe opportuno visitare le necropoli della vicina Ostia, oppure dei più lontani siti archeologici di Pompei ed Ercolano e poi rapportare quelle realtà locali alla grandezza di Roma. È per questo motivo che acquisicono una grande importanza per la conoscenza storica della città le necropoli venute alla luce, in diverse occasioni nel corso del Novecento, in territorio vaticano e che furono, grazie alla lungimiranza delle autorità vaticane consigliate da esperti archeologi, integralmente musealizzate in loco. Una «tutela integrata» di sorprendente attualità che costituisce ancora oggi l’esempio di una salvaguardia vigile ed accorta, premiata dalla continua attenzione dei visita-
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INTRODUZIONE
tori che si recano agli scavi della cosiddetta «necropoli vaticana», sotto la basilica di San Pietro, e nei settori della necropoli lungo la via Trionfale, comunemente denominati dell’Autoparco e di Santa Rosa. Furono infatti gli scavi eseguiti negli anni 1940-1947 e successivamente tra il 1953 ed il 1957 - regnante Pio XII (Eugenio Pacelli, 1939-1958) - a riportare alla luce la «necropoli vaticana», settore monumentale di un tratto di necropoli lungo la via Cornelia fortunosamente conservato sotto la navata centrale della basilica di San Pietro. Gli scavi iniziarono alla morte di Pio XI (Achille Ratti, 1922-1939) che nel suo testamento aveva chiesto di essere sepolto nelle grotte vaticane; nel corso dei lavori, che prevedevano l’abbassamento del pavimento di circa 80 centimetri, venne rinvenuta l’elegante cornice di coronamento di un edificio funerario. L’elemento architettonico era ancora in situ, e costituiva la decorazione di quello che poi si sarebbe rivelato essere il sepolcro F, o dei Tullii e dei Caetennii maggiori. Da quel momento gli scavi si protrassero per tutto il pontificato di Pio XII, riportando alla luce ventidue ricchi monumenti funerari, splendidamente conservati ai lati di una stretta via, ma la scoperta più sorprendente che da allora ha sviluppato un interesse storico, archeologico e di devozione religiosa senza pari è stata l’individuazione della «tomba di Pietro». Una complessa sequenza di strutture funerarie nelle quali le testimonianze epigrafiche ed archeologiche hanno permesso di riconoscere la venerazione, ininterrotta per duemila anni, della sepoltura dell’Apostolo. Al centro della cupola michelangiolesca, al di sotto del baldacchino berniniano dell’altare della Confessione, in un «a piombo» quasi perfetto, giacciono in una antica necropoli i resti del «muro rosso», da cui proviene l’iscrizione «P4tr[oı] / ]ni» «Pietro è qui». La necropoli vaticana è stato il primo e lungimirante esempio di musealizzazione in situ di una necropoli antica ed oggi è ancora aperta e visitabile dal pubblico grazie anche all’applicazione delle più avanzate e sofisticate tecnologie di climatizzazione che consentono la perfetta conservazione delle strutture e dei manufatti antichi. Anche se molte pagine sono state scritte sul fascino e la magia della Roma sotterranea e se a livello specialistico era da secoli nota agli studiosi l’esistenza di vaste necropoli sulla pendice nord occidentale del colle vaticano, lambita dalla antica via Triumphalis, tuttavia entrando nei locali dell’Autoparco e del parcheggio di Santa Rosa, nel
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INTRODUZIONE
cuore della Città del Vaticano, l’emozione è fortissima e si ha la netta percezione di attraversare d’un colpo duemila anni di storia: in due grandi ambienti sotterranei, ai lati della via moderna, si assiepano l’una sull’altra lungo il pendio della collina, occupando anche i minimi spazi residui, oltre quattrocento tombe databili ad un periodo compreso tra il I ed il IV secolo dopo Cristo. Ricche edicole decorate con mosaici e stucchi, oppure povere sepolture in terra, occupano l’area con una tale densità che sembrava impossibile, agli archeologi che per primi si sono apprestati ad eseguire lo scavo scientifico, definire i limiti delle sepolture, spesso addirittura sovrapposte una all’altra. Si tratta di un settore della necropoli pagana che si stendeva lungo il percorso della via che, fin da età molto antica conduceva da Roma a Veio. A perpetuo ricordo della conquista della città etrusca e della sconfitta di un nemico acerrimo i Romani vollero denominare via Triumphalis il tratto della via più prossimo a Roma, lungo il cui tratto urbano, tra il ponte neroniano ed il Campidoglio, si svolsero per secoli i fastosi cortei dei generali trionfatori. Sul versante della collina vaticana che dominava il percorso extraurbano si sviluppò nei secoli uno sterminato cimitero, i cui resti sono spesso stati rinvenuti nel corso di scavi occasionali o di campagne archeologiche scientificamente condotte. Fin dal primo scavo del 1956, le autorità vaticane stabilirono sull’esempio di quello che era stato fatto per la necropoli sotto la basilica di San Pietro, la conservazione totale sul posto degli edifici, delle tombe singole e dei corredi che via via venivano riportati alla luce. Dunque, sia per l’estensione dell’area, sia per lo stato di conservazione delle tombe, la necropoli lungo la via Trionfale diviene, insieme alla necropoli vaticana, una delle più importanti testimonianze delle necropoli dell’antica Roma, un complesso archeologico ricco di una impressionante mole di dati sulla struttura sociale e sui rituali funerari dell’antica Roma.
mento, cioè, di quel complesso di sepolture che erano già state rinvenute nel corso della costruzione dell’adiacente Autoparco. A seguito della segnalazione venne stabilito che i responsabili scientifici dei Musei Vaticani sarebbero intervenuti nel cantiere dei lavori qualora vi fossero stati ritrovamenti archeologici. Così fu, allertati dalla notizia dei ritrovamenti, gli archeologi della Direzione dei Musei Vaticani poterono intervenire per scavarne un’ampia area e salvaguardare un cospicuo numero di tombe che si sarebbero rivelate un nuovo ed importantissimo settore della necropoli lungo l’antica via Trionfale, in perfetta continuità archeologica con le tombe scavate nel settore della fontana della Galea e dell’Annona e con l’area funeraria sotto l’Autoparco, rinvenuta negli anni 1956-58. Al termine dei lavori nel 2006, lo scavo e la sua sistemazione vennero presentate da chi scrive nel corso di una affollatissima cerimonia, nell’ambito delle celebrazioni del quinto centenario dei Musei Vaticani. Da allora migliaia di visitatori hanno fatto richiesta di visitare quel luogo straordinario nel quale lapidi ed iscrizioni ci parlano di un mondo antico, lontano nel tempo, ma vicino al nostro nei sentimenti e nella dolorosa percezione del distacco. Il puntiglioso annotare degli anni, mesi e giorni di vita dei propri cari, il documentare sulla pietra i loro nomi, le gentes, i nuclei familiari, i mestieri e le professioni, tutto ci indica come fosse fortissimo, allora come oggi, il bisogno di
sottrarre all’oblio quelle presenze, come si volesse ricordare a passanti e visitatori - in quel momento e per i secoli futuri - che lì, proprio in quel punto, giaceva «Tiberius Natronius Venustus di 4 anni…» il cui viso dai tratti finissimi scolpito nel marmo ci parla dell’insensatezza della morte di un bimbo, che di Cocceia Marciana, honesta foemina, si doveva lodare la sanctitas; che Tiberius Claudius Optatus, un uomo importante tabularius a patrimoniis dell’imperatore Nerone, piangeva la perdita della figlia Flora. E che uno schiavetto con il mantellino ed il cappuccio sulle spalle avrebbe atteso per sempre, appoggiato alla lampada accesa ed addormentato nel marmo, il padroncino che non avrebbe più fatto ritorno a casa. Per questo sono fiero di poter annunciare, oggi, mentre mi accingo a scrivere queste poche righe di presentazione, che si sta finalmente procedendo alla soluzione da me a suo tempo auspicata, della riunificazione dei due settori delle necropoli grazie allo scavo sotto la sede stradale che in superficie separa le due aree.
Francesco Buranelli Segretario della Pontificia Commissione per i Beni Culturali della Chiesa
Per questi motivi, quando nel novembre del 2001 – nel corso di una riunione del Consiglio dei Direttori del Governatorato dello Stato della Città del Vaticano – venne presentato il progetto di un grande parcheggio sotterraneo da realizzarsi nell’area del piazzale di Santa Rosa, la Direzione dei Musei Vaticani, competente anche per la tutela del patrimonio archeologico del Vaticano, fece subito presente che nella zona ci si doveva aspettare il ritrovamento di una necropoli di età romana, del prosegui-
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CAPITOLO PRIMO INQUADRAMENTO TOPOGRAFICO
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Non si può trattare il tema delle necropoli vaticane senza collocarle nel contesto dell’area in cui si trovano. Un’area periferica rispetto alla Roma imperiale, anche se destinata in età tardo-antica ad assurgere a ben altra notorietà grazie proprio a una delle sue tombe più povere: quella di un pescatore provinciale giustiziato da Nerone probabilmente nei giorni successivi al grande incendio che devastò la città nel 64 d.C. Su questa tomba, infatti, sarebbe sorta la più grande basilica cristiana e il termine «Vaticano» avrebbe acquisito progressivamente una connotazione molto forte come uno dei centri principali della cristianità, fino a diventare sede del vescovo di Roma e uno Stato le cui dimensioni sono inversamente proporzionali alla sua notorietà. Per impostare il tema, è opportuno iniziare considerando i periodi più antichi, quelli che vedono la formazione di Roma come città, nel senso che diamo storicamente alla parola, ossia non un semplice addensamento di popolazione, ma un luogo che manifesta attraverso la sua orga-
Pagina precedente: 1. Pianta del Vaticano, in evidenza le necropoli.
nizzazione topografica e spaziale una struttura sociale complessa e stratificata. È il momento in cui si definiscono anche i territori delle varie comunità – urbane o meno – che gravitano sul basso corso del Tevere, un periodo che il mito assegna ai primi re della città di Roma, attribuendo loro la responsabilità della sua organizzazione. A questo stesso momento possiamo far risalire anche l’ager Vaticanus, che ancora all’epoca di Plinio il Vecchio, nel I secolo d.C., sopravviveva come entità ormai nota forse solo agli eruditi antiquari. Plinio, infatti1, descrive questo ager – cioè questo territorio – come esteso per lungo tratto lungo la riva destra del Tevere (la ripa Veientana sul versante etrusco del fiume) partendo a monte da un punto che, sulla opposta riva sinistra, corrisponde a una posizione tra i centri di Crustumerium e di Fidene e che, procedendo verso sud per una dozzina di chilometri, doveva raggiungere e comprendere il colle del Gianicolo, chiamato «Monte Vaticano» dal poeta Orazio2. 2. L’ager Romanus Antiquus e gli agri minori confinanti alla fine dell’età del ferro (da Liverani 1999).
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3. Veduta di Roma (da Frutaz).
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Forse dobbiamo spingerci ancora più a sud includendo anche l’odierno quartiere di Trastevere, o per lo meno quella parte di esso compresa in età imperiale nel circuito delle mura Aureliane. Lo stesso Plinio il Vecchio3, infatti, colloca «in Vaticano» il campicello di Cincinnato, che fronteggiava il più antico porto militare di Roma, costruito sulla opposta riva sinistra4. Fino a pochi anni fa si riteneva che i Navalia – questo era il nome dell’area portuale – si trovassero relativamente a nord, verso il Campo Marzio5, tuttavia la recente identificazione di queste strutture nel grande edificio repubblicano, ancora conservato ai piedi dell’Aventino6 e precedentemente identificato con la porticus Aemilia, ha rimesso in discussione le idee tradizionali a riguardo. Indipendentemente dalla sua estensione però, l’ager Vaticanus doveva essere il territorio di una comunità che entrò presto a far parte di Roma a cominciare dall’età regia, traccia di una realtà geopolitica che ci fa intravvedere un Lazio assai più frammentato di quanto non appaia in età pienamente storica. All’incirca in questo periodo altri territori di analoga estensione e status (ager Latinus, Lucullanus e Solonius) sono attestati immediatamente all’interno o all’esterno dei confini del primitivo territorio di Roma7, ma presto verranno inglobati dalle principali città storiche e, infine, da Roma stessa. Questa situazione – che già all’epoca di Plinio doveva essere retaggio di un passato non più vitale – cambia nel II secolo d.C. Da quest’epoca non sentiamo più parlare di ager Vaticanus, ma solo del toponimo Vaticanum, assai più ristretto per estensione. Sulla base di una serie di indicazioni delle fonti antiche possiamo restringerlo alla collina vaticana e all’attuale piazza San Pietro, in breve un’area non molto differente da quella che oggi conosciamo con il nome di Città del Vaticano8. La prima attestazione proviene proprio da una famosa iscrizione della necropoli sottostante alla basilica di San Pietro9: qui – sulla facciata del sepolcro A, il più orientale tra quelli finora scavati – si trova l’iscrizione che riporta un estratto delle ultime volontà del defunto titolare del monumento funerario, un certo Gaius Popilius Heracla (cfr. tav. 2 p. 43), che chiede di essere sepolto IN VATIC(ANO) AD CIRCUM. È chiaro che una simile indicazione ha senso solo se riferita a un’entità territoriale di limitate dimensioni – dunque non un ager esteso per chilometri – inoltre si definisce in rapporto al circo Vaticano, sul quale torneremo tra poco. Prima però è necessario concludere il discorso sulla delimitazione del nuovo toponimo: si deve infatti ricordare che forse esso si estendeva a comprende-
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re anche l’area dell’attuale via della Conciliazione. Un tardo commentatore di Orazio – lo Pseudo-Acrone della prima metà del V secolo – parlando del sepolcro a piramide che si riconosceva ancora fino al primo Rinascimento in corrispondenza dell’angolo tra via della Conciliazione e via della Traspontina, lo pone in Vaticano chiamandolo – con denominazione del tutto arbitraria – sepulcrum Scipionis10. Il dubbio però che questa fonte si sia espressa in maniera approssimativa, citando cioè per semplicità il toponimo meglio conosciuto nelle vicinanze solo come punto di riferimento generico, è legittimo e dunque una tale possibilità andrà considerata con molta cautela. L’area dell’ager Vaticanus non era particolarmente rinomata a causa della vicinanza del Tevere e probabilmente delle frequenti inondazioni delle rive, essa aveva anzi fama di essere malsana11 e di produrre un vino cattivo12. Il Vaticanum, invece, grazie alla sua vicinanza con la città
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era attraversato da vie di una certa importanza e costituiva un luogo ambito per i giardini e le ville suburbane della nobiltà romana. In età imperiale era collegato a Roma da un paio di ponti: il più antico risaliva forse a Caligola, che verosimilmente l’aveva costruito per accedere rapidamente ai giardini ereditati dalla madre Agrippina, ma che nel Medioevo era chiamato pons Neronianus13 secondo quella tendenza popolare che attribuiva tutto ciò che rientrava in quest’area al famigerato imperatore, colpevole di aver bruciato Roma e di aver martirizzato Pietro. Il ponte non ebbe vita molto lunga: non compare nell’elenco dei ponti presente nei Cataloghi Regionari della fine del III secolo, probabilmente demolito per ragioni difensive in connessione con la costruzione delle mura Aureliane. I suoi piloni erano ben visibili nel XVIII secolo14 e ancora oggi, durante i periodi di magra, si intravedono sotto il pelo dell’acqua subito a valle dell’attuale ponte Vittorio Emanuele, tanto che qualche anno fa un giornalista sprovveduto tentò lo scoop facendoli passare per una scoperta inedita. Il collegamento tra le due rive rimase invece assicurato dal ponte Elio15, costruito dall’imperatore Adriano per garantire un comodo accesso al suo sepolcro, un ponte che è ancora in uso, pur attraverso i numerosi rifacimenti e restauri, con il nome di ponte Sant’Angelo. Proprio la presenza del sepolcro dell’imperatore, di fronte alla testata sulla riva destra, ne garantiva la sicurezza in periodi di incertezza politico-militare e infatti, già a partire dalle guerre gotiche del VI secolo d.C., il sepolcro venne trasformato in fortilizio per divenire infine l’imprendibile Castel Sant’Angelo che tutti conoscono. Attraverso questi ponti non solo si poteva accedere al Vaticano, ma ci si poteva immettere in due grandi direttrici viarie che si dividevano in un punto imprecisabile dell’attuale piazza San Pietro e lungo le quali si sarebbero disposte le necropoli discusse in questo volume. La via Trionfale puntava verso nord su monte Mario e sull’etrusca Veio (odierna Isola Farnese), invece la via Cornelia e un braccio dell’Aurelia, che per il primo tratto procedevano unite, si dirigeva verso ovest in direzione dell’altra grande vicina etrusca: Caere (odierna Cerveteri). Questa posizione rendeva la zona ambita, sia per le proprietà nobiliari suburbane – che permettevano ai loro proprietari di godere degli agi della campagna a una brevissima distanza dall’Urbe – sia per progetti di sviluppo urbano. Cesare aveva concepito un disegno faraonico e nell’estate del 45, meno di un anno prima del suo assassinio, aveva presentato la lex de Urbe augenda, la legge
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4. Progetto di Cesare di spostamento del Tevere.
sull’ampliamento della Città. Secondo Cicerone, essa prevedeva che «il Tevere venisse condotto da ponte Milvio lungo i rilievi del Vaticano, che il Campo Marzio venisse ricoperto di edifici e che invece la piana vaticana diventasse una specie di Campo Marzio»16. Per spostare il corso del Tevere verso ovest Cesare aveva già incaricato del progetto un ingegnere greco. Uno sguardo alla carta permette di immaginarsi il piano nelle grandi linee: tenendo conto della presenza di monte Mario, che si affaccia direttamente sul Tevere, il nuovo alveo si sarebbe dovuto aprire un po’ a sud-ovest di ponte Milvio. Si può immaginare che la linea scelta seguisse un percorso vicino a quello dell’attuale viale Angelico, curvando all’altezza di piazza del Risorgimento verso sud-est in modo da sfiorare la collina vaticana e ricollegarsi al vecchio corso subito dopo l’attuale ponte Vittorio Emanuele II. Si sarebbe tagliata così un’ampia ansa, facendo accelerare la corrente del fiume, mentre la superficie della piana vati-
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5. I piloni del pons Neronianus che emergono dal Tevere in estate a valle di ponte Vittorio Emanuele. 6. Ponte Sant’Angelo e il sepolcro di Adriano – oggi Castel Sant’Angelo.
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cana, unita a quella del Campo Marzio e, più a nord, a quella compresa nell’ansa del Tevere ai piedi delle colline dei Parioli, si sarebbe più che triplicata, permettendo enormi sviluppi urbanistici. Si trattava del più visionario dei progetti di Cesare, che nessuno degli imperatori che vennero dopo di lui si sentì di riprendere. L’idrogeologia del Vaticano fu così risparmiata e l’area rimase suddivisa in diverse proprietà: già all’epoca di Cesare nella piana dove avrebbe voluto deviare il fiume, sorgevano i giardini di Scapula, che facevano gola a Cicerone. Probabilmente il proprietario era quel Tito Quinzio Scapula, seguace di Pompeo, che si era suicidato subito dopo la sconfitta subita a Munda – città ispanica non lontana dall’odierna Cordoba – proprio a opera di Cesare. È verosimile che le sue proprietà fossero sul mercato a prezzi relativamente convenienti, data la disgrazia politica del proprietario. Cicerone sognava di costruirvi una tomba per la sua amata figlia, morta in giovane età, ma subiva la concorrenza di un altro ricco potenziale acquirente, il tribuno della plebe Lucio Roscio Othone17, né sappiamo con certezza come finì la vicenda. Le proprietà principali erano però quelle che sarebbero finite nelle mani della casa imperiale: gli horti di Agrippina Maggiore, ereditati dal figlio Caligola, e, poco più a est, gli horti di Domizia. I primi dovevano occupare la valle vaticana che si estende alla sinistra dell’attuale basilica di San Pietro, tra questa e la via Cornelia-Aurelia, e probabilmente si estendevano in direzione del Tevere fin verso il già citato ponte Neroniano18. Al centro di essi, nella valletta, Caligola costruì il suo circo, probabilmente parte in muratura e parte in legno, e al centro vi collocò il colossale obelisco fatto venire da Alessandria su una nave costruita appositamente. L’obelisco rimase al suo posto ancora molto dopo l’abbandono del circo, fino al 1586, quando papa Sisto V incaricò l’architetto Fontana di trasferirlo al centro di piazza San Pietro, di fronte alla nuova basilica rinascimentale19. La seconda proprietà appena ricordata si estendeva, invece, al di fuori dei limiti del Vaticanum inteso in senso ristretto, poco più a est. Gli horti di Domizia sarebbero divenuti famosi perché Adriano vi avrebbe costruito il suo sepolcro, ma qui si dovrà fare un paio di precisazioni: anzitutto, benché tale monumento sia noto anche nella letteratura specialistica come «mausoleo», tale denominazione è filologicamente arbitraria. Mai nelle fonti antiche viene chiamato così perché, nei primi tre
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secoli dell’era cristiana, l’unico mausoleo esistente a Roma era quello di Augusto. Solo nel IV secolo questa parola acquisisce il significato di «tomba imperiale», per cui iniziamo a sentir parlare di mausoleo di sant’Elena, di Costanza, di Onorio e Maria e, in genere, di vari membri della famiglia regnante20. A quell’epoca, però, il sepolcro di Adriano era da tempo al completo: dopo la sepoltura di Giulia Domna – moglie di Settimio Severo – e del figlio Geta, esso infatti non accolse più nessuna deposizione. La seconda precisazione concerne la Domizia che diede il nome alla proprietà. Nei manuali si discutono fondamentalmente due ipotesi: per alcuni si tratterebbe della prima moglie di Passieno Crispo e zia paterna di Nerone, che la fece uccidere nel 59 d.C. e si impossessò dei suoi beni21; per altri, invece, si dovrebbe pensare a Domizia Longina, moglie di Domiziano22. In realtà è possibile una terza ipotesi, più semplice e soddisfacente, che emerge dai recenti studi sulla famiglia dell’imperatore Adriano23. I legami di parentela di quest’imperatore, infatti, sono stati chiariti solo negli ultimi anni24, dimostrando che la madre deve identificarsi in Domizia Paulina Lucilla maggiore, mentre la sorellastra era Domizia Calvisia Lucilla minore, madre a sua volta di Marco Aurelio. A questo punto l’dea che Adriano abbia costruito il suo sepolcro negli horti ereditati dalla madre è abbastanza naturale, senza che sia più necessario ipotizzare passaggi di proprietà intermedi più o meno complessi25. Per terminare il discorso sugli horti di Domizia e sulle sepolture famose in essi presenti si deve aggiungere un altro elemento, che andrà meglio approfondito in altra sede, ma che non si può fare a meno qui di toccare brevemente. La recente riedizione da parte di Jean-Claude Grenier26 dell’iscrizione geroglifica dell’obelisco che ornava il circo Variano e che dal 1822 si erge sul colle Pincio, ha permesso infatti alcune importanti acquisizioni. L’obelisco, com’era già noto, fu commissionato da Adriano, il quale vi fece incidere un’iscrizione in onore dell’amato Antinoo, morto nel 130 in circostanze tragiche nel Nilo. Nel testo egizio si parla della tomba di Antinoo, ma il passo in questione (sul lato I, colonna A) ha una piccola lacuna, che è stata ora integrata in maniera più soddisfacente27. La traduzione del passo che qui interessa è quella proposta dall’ultimo editore: «Il Molto Fortunato che è nell’Aldilà e che riposa in questo luogo consacrato che si trova all’interno dei Giardini di proprietà del Principe a Roma». Senza entrare nei dettagli
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della discussione filologica, basti rilevare pochi elementi: innanzitutto il fatto che – qualsiasi cosa ne pensasse Antinoo – l’iscrizione lo designa come «Molto Fortunato» nel senso di «colui che è chiamato dagli dei», secondo una concezione che si potrebbe parafrasare con il famoso verso di Menandro «muore giovane chi al cielo è caro». Inoltre si afferma che l’obelisco sorgeva sulla tomba del giovane, che si trovava in una proprietà dell’imperatore a Roma. Il termine egizio sht che si traduce qui con «giardini» può considerarsi equivalente al latino horti e dunque l’editore propone si possa trattare degli horti di Domizia, dove Adriano stava preparando la sua stessa sepoltura, o in alternativa degli horti Sallustiani28. Questi ultimi erano forse la proprietà romana più amata dagli imperatori, che si estendeva in un’area che a nord era delimitata pressappoco dalla linea seguita successivamente dalle mura di Aureliano, tra porta Pinciana e porta Salaria, mentre a sud si può pensare che terminasse lungo un limite approssimativamente equivalente a quello mar-
cato oggi da via XX Settembre. In questa zona effettivamente furono rinvenute numerose sculture egizie ed egittizzanti: innanzitutto le statue colossali di granito della regina Tuya – madre di Ramsete II –, del faraone Amasi, di Tolomeo II Filadelfo, di Arsinoe II e di una principessa anonima, divise oggi tra il Museo Gregoriano Egizio in Vaticano29 e la Collezione Albani30. Inoltre vi si rinvenne la statua di ippopotamo oggi alla Ny Carlsberg Glyptotek31, ma soprattutto non va dimenticato l’obelisco che dal XIX secolo domina la scalinata di Trinità ai Monti32, ma il cui basamento tornò alla luce ancora negli anni ’30 del secolo scorso all’angolo tra via Sardegna e via Toscana33. La nuova lettura del testo geroglifico mette fuori gioco vecchie interpretazioni, che vedevano in questa proprietà imperiale la famosa Villa Adriana presso Tivoli, mentre una proposta più recente di riconoscervi i giardini detti Adonea, che sarebbero da riconoscere sul Palatino34, è stata scartata dalle ricerche archeologiche più recenti e
horti di Domizia horti di Agrippina
di horti di horti Lucullo Sallustio
horti Lamiani horti di Mecenate horti Spei Veteris
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7. L’obelisco di Antinoo nella sua attuale posizione, sul colle Pincio. 8. I giardini imperiali di Roma antica.
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INQUADRAMENTO TOPOGRAFICO
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dal riesame della documentazione35. Tra gli horti di Domizia e quelli di Sallustio, però, è facile preferire i primi: infatti – a parte la presenza del sepolcro di Adriano, che all’epoca della realizzazione dell’obelisco doveva essere già in costruzione – va rilevato che solo quelli si estendevano al di fuori del pomerio36, il confine giuridico-sacrale che segnava il limite tra città e territorio, tra potestà civile e militare e – quel che qui più importa – tra mondo dei vivi e mondo dei morti. In epoca imperiale, infatti, conosciamo un’unica eccezione37 all’antica legge, già presente nelle XII tavole dell’inizio della Repubblica, secondo la quale nessuno doveva essere seppellito all’interno della città: la deposizione di Traiano, le cui ceneri vennero poste nella cameretta alla base della sua colonna, tra la basilica Ulpia e le cosiddette Biblioteche del suo complesso forense. In sintesi il «luogo consacrato», cioè la tomba, di Antinoo sorgeva probabilmente sul lato destro del Tevere, non lontano dal monumentale sepolcro di Adriano, per continuare nella morte in qualche modo il legame che era esistito in vita. È chiaro inoltre che il circo Variano – il luogo di ritrovamento dell’obelisco a sud-est della città – non doveva avere alcuna relazione con la tomba di Antinoo. Dobbiamo invece pensare a un reimpiego voluto dalla famiglia dei Severi, gli imperatori che allestirono i loro Horti Spei Veteri (il giardino presso l’antico Tempio della Speranza) nei pressi dell’attuale basilica di Santa Croce in Gerusalemme e che in quell’occasione dovettero trasportare sulla spina del circo il prestigioso ornamento, a imitazione di quanto era già stato fatto per il circo Massimo e per il circo di Caligola e Nerone. Ciò avvenne in un’epoca – forse il regno di Elagabalo38 – in cui si doveva essere spenta ormai la venerazione per Antinoo. D’altronde solo un imperatore poteva permettere questo spostamento e ciò per due ordini di motivi: innanzitutto si trattava di uno spostamento tra due proprietà imperiali, in secondo luogo la spoliazione di una tomba in linea di massima era vietata dal diritto sacrale, ma eccezioni potevano essere concesse dall’unico che avesse autorità in questo campo, il pontifex maximus, la massima autorità religiosa romana. Date le prerogative che comportava questa carica, essa – dalla fine dell’età repubblicana al IV secolo d.C. inoltrato – venne riservata all’imperatore stesso. circo Variano e obelisco di Antinoo vennero infine tagliati fuori dal circuito urbano mediante la costruzione delle mura Aureliane e, privi di difesa, dovettero subire i danni inflitti dall’assedio dei Goti di Totila nel 547.
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Torniamo ora all’area vaticana. Se di essa faceva parte anche il tratto attraversato oggi da via della Conciliazione, si devono ricordare almeno un’altro paio di importanti sepolcri tardo-repubblicani o della prima età imperiale. Del primo, a forma di piramide, si è già accennato: oltre che con la denominazione arbitraria di sepulcrum Scipionis, era noto nel Medioevo come Memoria Romuli o Meta Romuli. Veniva infatti messo in parallelo alla piramide sepolcrale, che tutt’oggi si vede accanto a porta San Paolo e che – nonostante rechi tutt’ora il nome del suo titolare, Gaio Cestio – era definita simmetricamente Meta Remi, richiamandosi così ai due mitici fondatori dell’Urbe. Della piramide vaticana in realtà – nonostante qualche ipotesi recente39 – non conosciamo il titolare. Accanto ad essa doveva sorgere anche un sepolcro a due piani e a pianta circolare, raffigurato in vedute tardomedioevali. È probabilmente questo il monumento che, a partire dal XII secolo, le fonti chiamano Tiburtino o Terebinto di Nerone40, benché già in quel periodo dovesse trovarsi in pessimo stato di conservazione. Probabilmente il primo nome deriva dal suo originario rivestimento in travertino, mentre il secondo – oltre alla solita tendenza ad attribuire in Vaticano ogni emergenza romana a Nerone – deriva da identificazioni erudite con un arbusto di Terebinto che sarebbe sorto sul luogo della tomba dell’apostolo, secondo la versione greca dello Pseudo-Marcello41, l’ultima e più ampia redazione degli atti apocrifi di Pietro risalente al VI secolo; in altre fonti del XII secolo viene chiamato invece «Obelisco di Nerone»42. Ai piedi della collina vaticana sorgeva la struttura monumentale che più fortemente caratterizzava gli horti di Agrippina, il già citato circo di Caligola e Nerone. Sintetizzando una complessa vicenda, questo circo fu risistemato da Nerone, che lo frequentava volentieri per esibirvisi come auriga. Nelle vicinanze aveva costruito anche un teatro ligneo per tenervi le prove generali delle sue esibizioni canore. Probabilmente in questo stesso teatro – secondo una delle tre differenti versioni che circolavano a riguardo – avrebbe anche cantato il mitico incendio di Troia, mentre osservava ispirato quello assai più reale della stessa Roma, devastata da fuoco nel 64 d.C.43. Subito dopo l’imperatore aprì i giardini della sua proprietà vaticana ai senza tetto scampati alle fiamme e infine utilizzò circo e giardini per giustiziare i cristiani in forme crudelmente spettacolari: a essi, infatti, era stata addossata la colpa del disastro, utilizzandoli come capro
espiatorio nella famosa persecuzione in cui fu ucciso anche l’apostolo Pietro. Non è facile precisare aspetto e posizione del circo: doveva certamente occupare la valletta tra la collina vaticana e la via Aurelia-Cornelia con orientamento est-ovest, ma anche in questo caso vanno riviste criticamente le ricostruzioni correnti, ampiamente diffuse anche a livello divulgativo. Un importante studio di Filippo Magi44, infatti, ipotizzava un circo di grandi dimensioni: circa 580 metri di lunghezza per quasi 100 di larghezza. Si sarebbe esteso dall’altezza dei propilei meridionali di piazza San Pietro fin sotto la chiesa di Santo Stefano degli Abissini, alle spalle della basilica di San Pietro. La difficoltà di individuazione delle sue strutture sono indubbiamente legate al poderoso interro subito: nove metri dividono la pavimentazione attuale dalla pista del primo secolo45. Per sintetizzare i pochi dati certi: oltre all’orientamento e al livello del circo, conosciamo solo la posizione originaria dell’obelisco, collocato al centro della spina – la barriera che divide a metà nel senso della lunghezza la pista, per permettere alle bighe di corrervi intorno. Le dimensioni ipotizzate, invece, sembrano eccessive e non si accordano con i pochi dati di scavo disponibili: le murature che si trovano sotto i propilei meridionali fanno parte probabilmente delle sostruzioni per il terrazzamento dell’area, ma non del circo vero e proprio o dei suoi carceres – i box di partenza delle bighe – come riteneva il Magi. Sotto a Santo Stefano, inoltre, si trovano tombe romane a un livello di circa sette metri superiore a quello della pista del circo46 e anche sull’allineamento ipotizzato per il lato nord sotto piazza San Pietro è stato trovato un sepolcro a nove metri di profondità47, ma nessuna traccia delle sue gradinate. Non abbiamo dunque elementi per definirne meglio la pianta di questo circo, il quale non dovette nemmeno avere una vita eccessivamente lunga. Gli scavi condotti dal Castagnoli per ritrovare le fondazioni dell’obelisco in piazza dei Protomartiri Romani48 (cfr. tav. 5 p. 46) hanno infatti appurato che la pista del circo cadde in disuso e venne occupata da sepolcri a camera già nella seconda metà del II secolo d.C. e che, entro i primi anni del III secolo, venne interrata di quasi tre metri. Si dovette trattare di un’operazione pianificata in base a un cambiamento di destinazione d’uso e alla perdita di interesse nei confronti dell’area da parte della casa imperiale. Nel II secolo i giardini di Agrippina non sono più citati dalle fonti e le funzioni da essi svolte passano ad altri horti: la vicinanza al centro della città e la maggiore comodità
degli horti di Domizia e di quelli Sallustiani dovette convincere gli imperatori a questo passo. L’area venne lasciata dunque a disposizione dei sepolcri e uno in particolare di dimensioni notevolissime – circa 30 metri di diametro – venne costruito proprio al centro dell’area che un tempo era occupata dal circo. Non possiamo dare un nome neanche in questo caso al suo titolare, anche perché in età tardoantica venne sopraelevato, collegato alla basilica di San Pietro, dedicato a sant’Andrea fratello di Pietro e utilizzato come ingresso laterale alla basilica. Più tardi – fino alla demolizione nel 17751776 – servirà come sagrestia49. Chi costruì la rotonda funeraria nei primi anni del III secolo d.C., come mostrano i bolli di mattone rinvenuti nella muratura, doveva certamente essere un personaggio di altissimo livello, perché non è possibile trovare alcun monumento paragonabile al di fuori di quelli della casa imperiale. Quella funeraria, dunque, dovette diventare la destinazione principale dell’area, anche se non esclusiva. Una importante presenza tra II e IV secolo era quella di un santuario dedicato al culto misterico della Magna Mater, la grande madre orientale Cibele, definito Phrygianum, in quanto la dea aveva origine frigia, oppure noto nella cerchia dei devoti come Vaticanum, con significato specialistico del termine evidentemente diverso da quelli visti all’inizio. Addirittura Vaticanum divenne il nome per antonomasia del santuario di Cibele anche al di fuori di Roma: a Lione (antica Lugdunum) e a Kastel presso Mainz (Castrum Mattiacorum) due iscrizioni citano i locali santuari della Magna Mater rispettivamente come Vaticanum50 e Mons Vaticanus51. Si riproduce così – benché su scala più ridotta – quello stesso fenomeno per il quale il tempio dedicato a Giove, Giunone e Minerva nelle varie colonie di Roma prendeva il nome di Capitolium, dal nome del grandioso tempio che sorgeva sul Campidoglio a Roma52. Il Phrygianum oltre che da alcune fonti letterarie è attestato soprattutto da numerose dediche epigrafiche – purtroppo tutte rinvenute fuori posto – che commemorano il sacrificio di un toro (taurobolium) compiuto dai fedeli che lo consideravano un rito purificatore e salvifico. Una descrizione del rito alquanto grandguignolesca ci è fornita da Prudenzio53, il poeta e polemista cristiano del IV secolo, secondo cui esso sarebbe consistito in una sorta di battesimo di sangue: il toro sarebbe stato sgozzato su una griglia di legno sopra una fossa nella quale era sceso il fedele che veniva inondato dal sangue della vittima. Tuttavia un recente e più severo esame della documenta-
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zione ha posto seri e condivisibili dubbi su questa versione, troppo polemica per essere indenne da sospetti54. In ogni caso questo culto – pur conoscendo alti e bassi – nel corso del IV secolo convisse in concorrenza con la basilica cristiana dedicata al principe degli apostoli, almeno fino a quando la costituzione dell’imperatore Teodosio del 391 decretò la chiusura dei luoghi di culto pagano. A giudicare da alcuni indizi è probabile che si trattasse di un’area aperta con sacelli dedicati a Cibele, Attis ed eventualmente altre divinità della sua cerchia – sul tipo di quanto conosciamo nel Campus della dea a Ostia – e che la sua collocazione fosse a monte della basilica. Sempre a monte della basilica – area panoramica e più salubre – possiamo ritenere vadano collocate anche le proprietà di Quinto Aurelio Simmaco, il più autorevole dei senatori pagani alla fine del IV secolo d.C., e del genero Nicomaco Flaviano, entrambe citate nelle lettere del primo55. La costruzione della basilica di San Pietro, infine, spostò completamente gli equilibri e i fuochi urbanistici, ma in qualche maniera mantenne – almeno per un certo tempo – la vocazione funeraria di quest’area. Le necropoli circostanti, è vero, vengono poco alla volta abbandonate e sono poche le tracce di sepolture che possiamo ricondurre ancora ai primi del V secolo56. Questo tuttavia è un fenomeno generalizzato che si ripete con piccole differenze in tutto il territorio circostante alla città.
Contemporaneamente però proprio la presenza dell’apostolo e il suo culto costituirono un forte incentivo per i cristiani a farsi seppellire per quanto possibile vicino alla tomba del santo. Una necropoli essenzialmente cristiana è attestata nel IV secolo nell’area immediatamente a ovest e a monte della basilica. Purtroppo il suo scavo avvenne solo casualmente e fuori di un controllo scientifico nella prima metà del XIX secolo, durante lo sfruttamento della cava Vannutelli, luogo di estrazione di argilla per la vicina fornace. Vennero alla luce diverse iscrizioni57 e un paio di sarcofagi paleocristiani58, reperti giunti per la maggior parte nei Musei Vaticani. Tra le prime va notata soprattutto la piccola stele di Licinia Amias59, di discussa datazione: essa veniva infatti datata attorno al 200 d.C. e considerata come la più antica attestazione di sepoltura cristiana nell’area al di fuori della basilica, ma negli ultimi anni questa idea è stata contestata, in maniera probabilmente troppo radicale e senza argomenti definitivi60. In ogni caso al più tardi ai primi del V secolo dobbiamo considerare concluso l’utilizzo delle necropoli che sono oggetto del presente volume: le deposizioni successive saranno tutte strettamente legate alla basilica, da quella di Giunio Basso61 alla camera sepolcrale dei Probi-Anici62, alle sepolture di Onorio, Maria e della famiglia imperiale nella rotonda di santa Petronilla, all’estremità del transetto meridionale della basilica63, a quelle infine – soprattutto ecclesiastiche – nell’ambito della stessa basilica.
9. Ara del Phrygianum (Musei Vaticani).
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CAPITOLO SECONDO I RITUALI: ASPETTI ANTROPOLOGICI E RELIGIOSI
I RITUALI: ASPETTI ANTROPOLOGICI E RELIGIOSI
Nei capitoli che seguono si avrà un saggio della ricchezza della documentazione archeologica relativa alle usanze funerarie. Purtroppo a tale abbondanza di dati materiali non corrisponde una equivalente ricchezza di informazioni nelle fonti letterarie ed epigrafiche, dalle quali ci aspetteremmo invece una serie di chiarimenti che illuminino quanto emerso dagli scavi. Per quanto possa sembrare anomalo, infatti, non abbiamo nessuna fonte che ci chiarisca, per esempio, le motivazioni del passaggio dal rito dell’incinerazione a quello dell’inumazione1. Nelle necropoli la documentazione archeologica ci permette di constatare la decisa prevalenza delle incinerazioni in età tardo-repubblicana e durante la prima età imperiale, fino all’inizio del II secolo, mentre successivamente il rito inumatorio prende progressivamente il sopravvento e le necropoli si affollano di sepolture in fosse e – nei casi più ricchi – in sarcofagi marmorei. Se utilizziamo come campione le sepolture dell’area della Galea, constatiamo una progressione piuttosto chiara: la tomba 1b – databile intorno al 125 d.C. – fu costruita come colombario destinato esclusivamente a incinerazioni; le due inumazioni, ricavate nel pavimento a mosaico, appartengono infatti a una fase di riuso del III secolo d.C. La tomba 1a – del 130-140 d.C. circa – è purtroppo conservata solo in piccola parte, ma doveva presentare una grande quantità di urne cinerarie, circa 40, a fronte di una sola forma e di un sarcofago fittile per un totale di cinque inumazioni2. Un rapporto leggermente diverso – circa tre quarti di incinerati contro un quarto di inumati – è riscontrabile anche per la tomba 11, degli anni intorno al 140-150 d.C.3. Nella terrazza sottostante le quattro tombe a camera presentano una cronologia posteriore di mezzo secolo che si riflette in un ulteriore sbilanciamento tra i due riti. La tomba 8 – la più antica della serie, databile intorno al 160-180 d.C., sembra prevedere un rapporto di uno a due tra incinerazioni e inumazioni4. La mancanza del muro di fondo e di parte del lato sud impedisce, però, una valutazione sicura. Il rapporto si mantiene più o meno costante nelle tombe 6 e 7 – circa del 180-190 d.C.5. Infine la tomba 2 – risalente al 180-190 d.C. ma rifatta intorno alla metà del III secolo d.C. – non presenta incinerazioni né nella prima né nella seconda fase, ma solo inumazioni6. Il passaggio dall’uno all’altro rito è dunque molto graduale e sono documentate incinerazioni ancora nel III secolo d.C., per esempio nel settore dell’Autoparco. La completa sparizione del rito più antico si compie certamente anche grazie all’affermazione del cristianesimo, che da un lato accolse la tradizione giudaica, dall’altro
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Pagina precedente: 1. Necropoli dell’Autoparco, visione generale.
nutriva una forma di rispetto verso il corpo inteso come tempio dello Spirito Santo. Tale apporto tuttavia non fece che sancire il termine di un processo già chiaramente segnato: nella documentazione romana, l’ultima incinerazione che conosciamo con una datazione sicura è proprio in Vaticano, quella di Trebellena Flaccilla, la cui urna cineraria marmorea nel sepolcro T sotto la basilica di San Pietro contiene una monetina costantiniana del 317-3187, dunque appena successiva all’editto del 313, con il quale Costantino consentì ai Cristiani di praticare la propria religione. La documentazione letteraria è abbastanza informativa su quel che riguarda i riti accessori: l’esposizione del cadavere, i funerali e tutta la dimensione pubblica del rituale funerario, che – attraverso il tributo di onori al defunto – permetteva di esibire, rafforzare o riaffermare lo status del gruppo familiare8. Sulla dimensione per così dire privata del rito le informazioni restano invece scarne, frammentarie e non sempre coerenti. Si trattava di pratiche che erano note a tutti i componenti della comunità e delle quali non v’era quindi necessità o interesse a registrare o trasmettere la memoria. Inoltre la religione romana era costituzionalmente priva di una sistematizzazione teologica complessiva, ma piuttosto tendeva a codificare nelle grandi linee le prassi rituali, che aiutavano a regolare la vita nei momenti critici della morte e del passaggio delle generazioni, che intervenivano nella definizione dei rapporti tra gli dei e gli uomini, delle gerarchie all’interno dei due rispettivi gruppi e, infine, dei rapporti tra vivi e morti. Una pragmatica piuttosto che una filosofia teoretica, che lasciava prive di indicazioni normative le credenze nell’Aldilà e le modalità più specifiche di sopravvivenza oltre la morte: in breve tutte quelle domande esistenziali sulle quali oggi sembra impossibile non interrogarsi. Tutto ciò era certamente presente alla cultura antica, ma dipendeva da convincimenti personali o da tradizioni familiari e potevano coesistere fianco a fianco o addirittura sovrapporsi soluzioni molto diverse, sulle quali i dati archeologici forniscono indicazioni da utilizzare solo con notevole cautela. Questo quadro appare confermato dalle differenti sfumature che si intuiscono per esempio all’interno della stessa necropoli sotto la basilica vaticana. Qui troviamo, nel giro di pochi metri, espressioni assai differenti: si pensi alla sepoltura di Flavio Agricola nel sepolcro R, che manifesta un atteggiamento verso la morte derivato verosimilmente da una versione alquanto popolare dell’epicureismo, oppure alla tomba «degli Egizi», in cui – pur senza soprav-
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valutare l’evidenza iconografica degli affreschi – i riferimenti culturali della famiglia sembrano sensibili alle mode orientali, o infine si consideri la tomba «dei Valerii», un nucleo familiare particolarmente preoccupato di esibire le sue credenziali di cultura classica – letteraria e retorica – per quanto è possibile giudicare dalle scelte del programma decorativo. Cercheremo dunque di vedere innanzitutto quali fossero i riti di cui finora si è potuta delineare per via archeologica solo la cornice – per così dire – costituita dalle strutture funerarie rinvenute nelle varie necropoli esaminate. Dividendo i riti connessi al funerale da quelli che periodicamente commemoravano i defunti già trapassati9, inizieremo dai primi chiarendo preliminarmente che la traccia che si propone non è in nessun modo da intendere come una regola rigida, ma piuttosto come uno schema che veniva adattato di volta in volta alle disponibilità economiche della famiglia del defunto nonché alla sua condizione sociale. Esaminiamo dunque i riti di sepoltura: in prossimità della tomba, secondo Cicerone, veniva immolata una scrofa10, rito di grande importanza in quanto fondava la tomba come tale; è probabile che sul rogo – nel caso dell’incinerazione – venissero deposte offerte tra cui anche porzioni di carne11. Cerere non era una divinità infera, ma nella sua qualità di dea della terra era colei che accoglieva il corpo del defunto, così come faceva per esempio con le sementi delle coltivazioni. In altre parole questa dea presiedeva a quello spazio in cui avveniva l’assimilazione del defunto agli dei Mani. Non si trattava dunque di un sacrificio funerario propriamente detto e d’altronde il defunto non era ancora passato nel mondo dei morti, perché altrimenti sarebbe stato necessario celebrare un olocausto, cioè quel tipo di sacrificio che veniva offerto alle divinità infere. Infatti mentre in un sacrificio ordinario le carni della vittima potevano – e dovevano – essere mangiate dai partecipanti al rito, in un sacrificio agli dei degli inferi tutto veniva bruciato – come dice la parola greca «olocausto» – perché i vivi non potevano aver parte alcuna con le divinità del mondo dei morti. Le carni della vittima venivano ripartite dunque tra Cerere, che riceveva le interiora (exta), il defunto e i parenti in un banchetto che – durante gli ultimi due secoli della Repubblica – veniva chiamato silicernium. Una volta consumato il pasto comune, si accendeva il rogo su cui era posto il defunto che doveva essere incinerato. Spenta la fiamma e raffreddate le ceneri, i resti delle ossa erano raccolti, lavati e depositati nell’urna12. Nei casi di inumazio-
ne, invece, si può forse pensare che la parte della vittima destinata al defunto venisse bruciata su di un braciere accanto alla tomba. Successivamente si aveva un periodo di nove giorni di lutto13, o meglio di otto giorni secondo il computo moderno, poiché gli antichi calcolavano sia il giorno di inizio che quello finale. Al termine si celebravano due sacrifici: un olocausto ai Mani del defunto, le divinità infere, e il sacrificio di un ariete ai Lari, le divinità protettrici della famiglia. Alla fine, questa volta presso la casa, si teneva la cena novemdialis: il banchetto definito appunto «del nono giorno». Questo poneva termine al lutto e riuniva i parenti al resto della comunità, tanto che potevano essere invitati amici e vicini o – nel caso di personaggi di grande importanza – una moltitudine di persone che poteva arrivare fino a comprendere tutta la città. La logica di questi riti è chiara: essi accompagnavano il passaggio del defunto nell’Aldilà prima separandolo dalla famiglia e unendolo ai defunti – particolarmente significativo in questo senso era il sacrificio ai Mani – mentre in un secondo momento la famiglia veniva restituita alla comunità dei vivi. Tutto ciò era sottolineato anche dall’abbigliamento: all’inizio del periodo di lutto i parenti maschi indossavano la toga pulla, cioè la toga di colore scuro – nerastro o bruno –, le donne invece tra la morte del parente e la sepoltura usavano indossare il ricinum, successivamente chiamato mafurtium, un velo che copriva testa e spalle14, mentre durante il funerale avevano un mantello anch’esso pullus, cioè di colore scuro come le toghe maschili. Contemporaneamente il defunto era rivestito dei suoi abiti migliori, quasi con una sorta di inversione dei ruoli: in questo modo il defunto sembrava far parte ancora dei vivi, mentre i familiari erano marcati visivamente nella loro vicinanza al mondo dei morti. Solo al termine del lutto i parenti tornavano alle vesti normali, poiché avevano recuperato il loro ruolo nella società dei viventi e potevano tornare a esercitare i loro commerci o le magistrature. Una struttura solo parzialmente differente era quella dei Parentalia, le feste dei morti, che si celebravano ogni anno tra il 13 e il 21 febbraio e che ci sono descritte abbastanza dettagliatamente da Virgilio15 e da Ovidio16. Dopo le celebrazioni iniziali del ciclo (i Parentalia in senso proprio e ristretto) si aveva un periodo di lutto di otto giorni, che precedeva la celebrazione di un sacrificio con connesso banchetto in onore del defunto sulla tomba (Feralia). All’indomani veniva celebrato un secondo banchetto, che poneva termine al lutto e riuniva le famiglie.
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Lo schema di questa prima sezione era dunque simile a quello già visto per i riti della sepoltura. Il primo banchetto presso la tomba, nei casi più ricchi e fastosi, poteva prevedere anche la celebrazione di giochi funebri. L’iscrizione di Quintus Cominius Abascantus, da Miseno in Campania17, ricorda dettagliatamente i fondi lasciati dal defunto per tali celebrazioni, prevedendo i premi per i lottatori e le spese per l’organizzazione dei giochi, per l’olio, per i fiori con cui decorare la tomba (specificando le violette e le rose)18, nonché per il banchetto da offrire sul triclinio, menzionato espressamente sul terrazzo della tomba19 e, naturalmente, per il sacrificio in suo onore. Il secondo banchetto, invece, quello tenuto presso la casa per riunire la famiglia e concludere le celebrazioni, avveniva il 22 febbraio. La festa era nota come Charistia o Cara cognatio e prevedeva un sacrificio ai Lari, ma coinvolgeva – secondo Ovidio – anche la dea Concordia. Questo banchetto non aveva più nulla a che fare con i morti, ma solo con i vivi. Alla festa pagana, in epoca cristiana si sovrappose a Roma la festa della cattedra di Pietro20. L’ultimo tipo di festività dedicata ai defunti non era fissa, ma era una celebrazione della durata di un solo giorno, che poteva essere legata a un anniversario: si trattava della Parentatio e comportava un sacrificio commemorativo, o meglio un olocausto ai Mani del defunto, senza banchetto dunque. Volgendoci di nuovo alla documentazione archeologica è abbastanza agevole identificare i riscontri materiali ai riti appena descritti. Tali riscontri riguardano soprattutto i banchetti funerari celebrati in prossimità della tomba durante i Parentalia, poiché quelli celebrati durante il funerale dovevano svolgersi piuttosto in prossimità del rogo. Più volte si è infatti accennato al terrazzo soprastante ad alcuni dei sepolcri sotto la basilica Vaticana (sepolcri E, F, H, L, O), che poteva essere utilizzato per i banchetti funebri, mentre per le sepolture più modeste si deve pensare ad apprestamenti provvisori e di fortuna. È ben nota d’altronde la presenza nella necropoli del Porto di Ostia di letti tricliniari in muratura di fronte alle tombe21. Nella necropoli sotto la basilica di San Pietro è stato scavato anche un pozzo nella zona antistante al sepolcro H, che doveva evidentemente servire per questi riti. Ancora una traccia dell’uso di decorare le tombe con fiori si riscontra nelle decorazioni dipinte e scolpite: rose sono riconoscibili in diversi sepolcri22 anche perché a maggio o a giugno si celebravano le feste dei Rosalia durante le quali delle rose venivano portate alle tombe dei propri cari23.
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3, 4. Necropoli di Porto, davanti all’ingresso del sepolcro i letti tricliniari per il banchetto funebre.
Anche sugli altari funerari, necessari per bruciare la parte del sacrificio dedicata ai defunti, sono spesso scolpiti festoni e ghirlande di fiori e di frutti. Non si deve pensare a una decorazione fine a se stessa: nel mondo antico il concetto stesso di decorazione era radicalmente diverso da quello moderno. In altre parole, il soggetto di una decorazione pittorica o scultorea doveva legarsi tematicamente e funzionalmente all’uso dell’ambiente in cui si trovava o dell’elemento che rivestiva. I festoni floreali sulle are, dunque, non erano altro che la pietrificazione – per così dire – delle ghirlande che effettivamente accompagnavano i riti dei defunti. Prova ne sia un dettaglio non sempre evidente, ma facilmente riscontrabile per esempio nelle are di Tiberius Claudius Optatus e di Passiena Prima, nella necropoli di Santa Rosa24, dove al di sopra della cornice si notano ancora i forellini con tracce dei ganci in corrispondenza delle estremità delle ghirlande scolpite: essi servivano durante le festività ad appendere vere ghirlande di fiori, che si sovrapponevano a quelle marmoree, la cui verosimiglianza in ogni caso doveva essere migliorata dall’uso del colore, un tempo normalmente e abbondantemente utilizzato sui candidi marmi, ma oggi quasi sempre completamente svanito. Solo poche tracce di questo trattamento cromatico si conservano ancora in pochi casi fortunati, come nel coperchio del sarcofago di [F]L(AVIA) VERA E AUR(ELIA) AGRIPPINA dalla tomba dei sarcofagi nella necropoli di Santa Rosa.
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Elementi che documentano le visite periodiche dei parenti dei defunti si sono conservati in maniera particolarmente evidente nella stessa necropoli di Santa Rosa, grazie al fatto che – almeno una parte di essa – fu precocemente seppellita da una frana già nel corso dell’età adrianea. Nel piccolo colombario XVI, per esempio, giacevano in un angolo tre brocchette, latinamente «urceoli», simili a quelli raffigurati sul fianco sinistro di ogni ara. Essi erano necessari per versare le libagioni di vino, olio o latte ai defunti. Un numero considerevole di lucerne, inoltre, è stato trovato a diretto contatto con le urnette, subito sopra il coperchio in terracotta che chiudeva l’olla – il vaso a forma di pentola che murato nella nicchia del colombario costituiva il ricettacolo più diffuso per le ceneri dei defunti. Il costume di accendere una lucerna sui resti del parente scomparso è attestato anche in altre aree sepolcrali. Forse meno frequente a Ostia25, è meglio attestato in altre necropoli italiane come ad Angera26, presso Varese, e a Voghenza27, presso Ferrara. Si conservano diverse testimonianze, soprattutto epigrafiche, che trasmettono istruzioni per gli eredi a questo riguardo: dai più preoccupati per la cura della propria dimora finale, che chiedono una accensione quotidiana28, o addirittura perenne29, a chi lascia disposizioni per un’accensione di lucerna tre volte al mese30 – alle calende, alle none e alle idi31 – fino a casi più misurati, ove è richiesta solo un’accensione a mesi alterni32.
Ulteriore onnipresente traccia di questi sacrifici compiuti in onore dei defunti è data dalla preoccupazione di mantenere fisicamente una via di comunicazione con loro, per lo più mediante un tubo di terracotta che dalla superficie del terreno raggiungeva l’urna cineraria o anche la fossa, in modo che le libagioni potessero raggiungere le ceneri o il corpo del defunto. L’importanza di questo rito doveva essere notevole visto che ci si preoccupa, in caso di cambiamento di proprietà del terreno, di garantirsi comunque l’accesso ai propri defunti, come testimonia l’iscrizione del colombario 7 della necropoli dell’Autoparco33. Al tempo stesso, pur di mantenere questo accesso diretto, si passava sopra agli evidenti inconvenienti di ordine igienico che dovevano sorgere quando il tubulo immetteva in una inumazione. Una preoccupazione costante della cultura romana era quella di mantenere, anche nella tomba, il nocciolo della propria di identità. Tale preoccupazione si realizzava innanzitutto nell’uso di iscrizioni incise su marmo, ma anche semplicemente dipinte, come è chiaro per esempio nel colombario 1 della necropoli dell’Autoparco34, dove tutte le lastrine dei loculi hanno perso il nome, verosimilmente dipinto, che si è conservato invece solo nell’unico caso in cui fu anche inciso. L’identità romana aveva inoltre una fondamentale componente sociale, in quanto veniva spesso indicato, oltre al nome, il ruolo svolto in vita dalla persona: il suo curriculum – come diremmo oggi – nei casi socialmente più elevati o almeno il lavoro svolto, anche se da semplice servo. Quando il censo lo permetteva, venivano conservate anche le sembianze fisiche; alcune tombe mostrano una forte preoccupazione in questo senso da parte dei loro proprietari e in particolare nella tomba «dei Valerii», sotto la basilica vaticana, troviamo replicata l’immagine del defunto nella statua in stucco, nel ritratto in marmo ad altorilievo, nella maschera funeraria presa direttamente sul volto del cadavere, nel ritratto che forse questa immagine ha ispirato35. Nelle altre necropoli – utilizzate da famiglie o gruppi sociali meno economicamente favoriti – i ritratti sono più rari: va ricordato il piccolo Tiberius Natronius Venustus nella necropoli di Santa Rosa36, o la stele di Ma con il figlio Crescens nella necropoli dell’Autoparco37, o ancora i ritratti riconoscibili sui sarcofagi. Così come le iscrizioni potevano dar luogo, nei casi più elaborati, a esercizi poetici e retorici che ci conservano talvolta testi di un certo valore letterario – così le immagini permettevano un gioco metaforico non molto dissimile, anche se realizzato con un linguaggio che aveva
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5, 6. Corredo delle tombe della necropoli di Santa Rosa: in basso i tre orcioli per le libagioni dalla tomba XVI.
7-10. Lucerne dalle sepolture della necropoli di Santa Rosa.
I RITUALI: ASPETTI ANTROPOLOGICI E RELIGIOSI
I RITUALI: ASPETTI ANTROPOLOGICI E RELIGIOSI
potenzialità e vincoli differenti da quelli della parola scritta. Il messaggio figurato è infatti al tempo stesso più vago, ma anche più intuitivo e connotante, almeno per coloro che – a differenza dell’osservatore moderno – partecipavano della stessa cultura e dello stesso immaginario collettivo. Farsi raffigurare come Valerinus Vasatulus sul suo sarcofago a cavallo in una vivace caccia non vuol dire necessariamente che il giovane sepolto nella necropoli sotto la basilica vaticana fosse un valente cacciatore38. Nel linguaggio figurato romano la caccia era segno di virtù e semplicemente questo era il messaggio che gli osservatori del rilievo percepivano in maniera immediata e intuitiva. In altri casi si possono trovare anche defunti nelle vesti di personaggi divini: ciò non voleva significare una pretesa di divinizzazione o la devozione a una specifica divinità. Più semplicemente, se il marito dedicava alla moglie un ritratto in cui questa appariva raffigurata nelle vesti di Venere, egli voleva significare che la defunta aveva la grazia e la bellezza della dea, con una metafora simile a quella che avrebbe espresso a parole definendola affettuosamente la sua Venere39. In altri casi la sovrapposizione del ritratto del defunto sul corpo di un personaggio di un mito classico e ben noto serviva a inserire la vicenda umana in un contesto più elevato, in una vicenda anche tragica, ma che il mito e la letteratura avevano ormai trasfigurato e che permetteva di proiettare la vicenda privata e personale in un quadro e in un ordine che la rendevano esprimibile e – in qualche modo – significativa, oltre ovviamente a rendere il dolore di chi rimaneva tollerabile. In secondo luogo un’espressione così codificata secondo una retorica dell’immagine fortemente formalizzata attestava agli occhi dello spettatore l’alto livello culturale e sociale raggiunto dal defunto e dalla sua cerchia familiare. Piuttosto, quel che da sempre ha posto qualche difficoltà agli interpreti di tali immagini è il fatto che in un certo numero di casi si trova sul rilievo – peraltro completamente rifinito – il ritratto del defunto lasciato sbozzato senza che fosse portato a termine. È il caso del citato sarcofago di Valerinus Vasatulus40, ma anche del sarcofago con un ritratto entro un clipeo sorretto da due vittorie alate, rinvenuto nella tomba dei sarcofagi (VIII), nella necropoli di Santa Rosa41. Su questo fenomeno si sono affaticati in molti e la bibliografia è vasta e articolata42: la risposta più facile è stata quella di ipotizzare che – visti i tempi di realizzazione del sarcofago certamente alquanto lunghi – esistessero produzioni di serie già pronte nelle
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botteghe degli scultori, tra le quali i parenti del defunto potevano scegliere al momento del funerale il tipo più adatto. Per ragioni contingenti di vario tipo non sempre si aveva l’opportunità o la possibilità di terminare il lavoro facendo eseguire sulla testa sbozzata il ritratto secondo le fattezze del defunto stesso. Una simile spiegazione, di per sé perfettamente verosimile, si scontra però contro l’osservazione che esistono casi – come il sarcofago «Dogmatico»43, oggi nel Museo PioCristiano in Vaticano – che, per le loro straordinarie dimensioni e per il repertorio iconografico unico prescelto, rendono impossibile pensare a una produzione che non sia stata eseguita su specifica commissione. Altre spiegazioni ipotizzano che il sarcofago fosse preparato durante la vita, come del resto spesso avveniva per l’intera tomba, ma che per una forma di superstizione il committente non si fosse voluto vedere raffigurato da morto sul suo sarcofago. Infine teorie più fantasiose, che proiettano audacemente preoccupazioni postmoderne sulla mentalità antica, vi vedrebbero un affievolimento del carattere identificante del ritratto, sentito come non più necessario, in una sorta di instabilità identitaria. In realtà – tralasciando i motivi accidentali che impedivano di portare a termine un ritratto – tutta la questione acquista maggiore chiarezza se la si considera proprio dal punto di vista opposto, ossia quello del ruolo eminentemente identificante del ritratto, che – nell’ambito del linguaggio figurativo – è in tutto equivalente alla funzione del nome proprio. Non può tacersi infatti che un gran numero di sarcofagi, pur presentando una tabella pronta per accogliere l’iscrizione con il nome del defunto, restano privi dell’iscrizione e presentano dunque un fenomeno del tutto analogo sul versante epigrafico. In questo secondo caso, si potrebbe naturalmente ipotizzare che l’iscrizione fosse stata dipinta e che fosse successivamente svanita. In effetti conosciamo una serie di sarcofagi con il ritratto scolpito e con l’iscrizione mancante, mentre l’inverso è assai raro, anzi a mia conoscenza posso citare solo un caso, quello del sarcofago di Maconiana Severiana44. Il presupposto che nome e ritratto fossero equivalenti da un punto di vista funzionale e semiotico è un dato abbastanza intuitivo, ma è possibile confortare questa asserzione con ulteriori argomenti. Tra i vari possibili ne basterà citare un paio: il primo è il confronto con il caso, ben noto nell’archeologia romana, della damnatio memoriae, il provvedimento che veniva preso contro personaggi privati e imperatori – si pensi a Nerone o a Domiziano – che si fossero macchiati di particolari delitti o indegnità.
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11. Sarcofago cosìddetto «Dogmatico» dalla basilica di San Paolo, Museo Pio Cristiano in Vaticano (Archivio Fotografico dei Musei Vaticani).
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I RITUALI: ASPETTI ANTROPOLOGICI E RELIGIOSI
I RITUALI: ASPETTI ANTROPOLOGICI E RELIGIOSI
Quando qualcuno veniva colpito da tali provvedimenti, venivano cancellati da tutti i monumenti pubblici sia i suoi ritratti che il suo nome iscritto, per rimuoverne la memoria pubblica. In aggiunta si potrebbe citare anche un brano famoso del Vangelo di Matteo, in cui Cristo, riferendosi alla moneta del tributo a Cesare, chiede ai farisei e agli erodiani: «Di chi è questo ritratto e l’iscrizione?»45. È chiaro dal contesto che i due elementi – il nome dell’imperatore e il suo ritratto presenti sul denario – venivano considerati equivalenti. A partire dall’assunto di questa equipollenza tra nome e immagine e tornando alla problematica del ritratto non finito dei sarcofagi, si può ricordare che nelle iscrizioni della fine della repubblica e della prima età imperiale – in particolare in quelle che attestavano la proprietà del sepolcro ed elencavano gli aventi diritto alla sepoltura – i Romani erano attenti a specificare chi fosse vivente e chi già defunto: accanto ai primi infatti segnavano una V – abbreviazione per vivus – accanto ai secondi invece la lettera greca Q, abbreviazione che viene definita theta nigrum e che sta per q(an>n) o (2naqoı) in quanto indica una persona defunta. Scendendo in epoche più tarde possiamo trovare situazioni diverse, ma che corrispondono alla medesima logica e allo stesso tipo di preoccupazione: nei mosaici paleocristiani e altomedioevali, per esempio, si faceva una chiara distinzione iconografica tra i santi, che portavano l’aureola, e il dedicante, per esempio un pontefice ancora vivo al momento della dedica, il cui capo era iscritto in un nimbo quadrato, che lo evidenziava e allo stesso tempo lo differenziava da chi era già nella condizione beatifica della visione di Dio. Gli esempi si potrebbero ulteriormente moltiplicare, ma basterà aggiungere ancora il caso narrato dalle lettere di Paolino di Nola46, il santo vescovo del V secolo, a cui l’amico Sulpicio Severo aveva chiesto un ritratto da mettere nel battistero delle sue due basiliche di Primuliacum, in Gallia, di fronte a quello di san Martino di Tours. In un primo tempo Paolino si negò recisamente47, ma in seguitò accettò di soddisfare la richiesta dell’amico, a patto che venissero apposte due iscrizioni ai ritratti per evitare malintesi. Secondo i testi proposti dallo stesso Paolino, san Martino avrebbe rappresentato l’immagine dell’uomo celeste (secondo la celebre espressione di san Paolo), Paolino invece, peccatore penitente, il vecchio uomo terreno ovvero, come dice nel secondo dei carmi spediti a Severo: «Il venerabile ritratto dell’uomo testimonia Martino / la seconda immagine riporta l’umile Paolino»48, dove umile va inteso nel senso etimologico: da humus, dunque legato ancora alla terra49.
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Detto altrimenti Paolino temeva che la giustapposizione del ritratto di un santo veneratissimo, come san Martino, e del suo proprio ritratto inducesse a una equivalenza tra i due e portasse a rivolgere le proprie preghiere al vescovo ancora vivente invece che al santo. Al di là delle preoccupazioni morali e propriamente cristiane, non possiamo fare a meno di riconoscere qui lo stesso meccanismo riscontrabile nei sarcofagi pagani. Apporre il nome o il ritratto su di un sarcofago, dunque, voleva dire non solo dichiararne il titolare, ma anche – in mancanza di indicazioni specifiche differenti – affermarne la presenza all’interno della tomba. Nel corso dei Parentalia o di altre celebrazioni private (parentationes), ciò avrebbe potuto comportare fraintendimenti con il rischio che membri della familia potessero offrire i sacrifici per i defunti anche a persone viventi. Il rischio non era del tutto teorico se si pensa che la familia poteva comprendere oltre al nucleo ristretto – secondo l’accezione moderna del termine famiglia – anche i servi e i liberti con le loro rispettive famiglie fino a formare un gruppo numericamente assai consistente. Un simile errore rituale, naturalmente, non deve essere visto secondo categorie morali cristiane, ma come un qualcosa che alterava lo status degli attori coinvolti, confondendo le parti e generando un pericoloso disordine in un nodo fondamentale per la cultura antica, ossia proprio nella rigida distinzione tra vivi e morti che abbiamo visto accuratamente segnalata nei rituali funerari e sacrificali sopra descritti. Possiamo dunque ritenere che il romano previdente si preoccupasse in anticipo di preparare la sepoltura propria e dei congiunti, scegliendo anche i sarcofagi necessari, ma lasciando in bianco l’iscrizione e il ritratto. I casi della vita potevano modificare le scelte più accuratamente pianificate: per pensare ad avvenimenti comuni, la morte prematura di membri più giovani della famiglia poteva modificare la destinazione dei sarcofagi – non è raro infatti scoprire che un ritratto sbozzato preparato per una donna fosse rilavorato come maschile o viceversa – oppure una morte in viaggio poteva rendere difficoltoso o impossibile il rientro della salma. Ancora una causa di possibile mutamento di destinazione era quella di un matrimonio, per cui una figlia passava in un’altra famiglia e dunque veniva sepolta in un altro sepolcro, oppure del secondo matrimonio di una vedova che così avrebbe seguito nella sepoltura il secondo marito50. Il caso specifico è forse documentabile in quanto possediamo alcuni esempi in cui un sarcofago a due posti – bisomo, nella terminologia archeologica – reca sulla fronte un doppio
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ritratto in cui uno solo dei due coniugi è portato a finitura nei suoi tratti fisionomici, mentre il secondo rimane allo stato di abbozzo. Per citare casi concreti si può ricordare il sarcofago di Flavius Faustinus, morto nel 354 d.C., il cui sarcofago – conservato al Museo Pio Cristiano in Vaticano – presenta un clipeo con il ritratto di Faustinus completamente rifinito, accanto a quello solo sbozzato della moglie51. Anche al Museo Nazionale Romano si trova un caso simile52: sulla cassa del sarcofago sono raffigurati miracoli di Cristo, sul coperchio invece la tabella è rimasta priva di iscrizione, mentre ai lati sono due clipei: quello di sinistra è occupato da un ritratto femminile orante completamente finito, mentre quello di destra ha solo un ritratto maschile sbozzato. Infine il sarcofago di Pullius Peregrinus53, della collezione Torlonia, mostra il ritratto di Peregrinus completo, mentre quello della musa che gli sta di fronte, e che evidentemente era riservato alla moglie, è solo sbozzato. Tra i numerosi temi di riflessione che emergono dall’esame degli scavi di queste necropoli, merita attenzione ancora un’ultima evidenza – di per sé modesta e poco appariscente – ma che proprio per questo non trova facili riscontri in necropoli simili e invece apre spazio a considerazioni anche metodologiche sui limiti della documentazione archeologica. Nella necropoli di Santa Rosa, infatti, un settore ha restituito una serie di piccole fosse riempite di ceneri senza alcuna traccia né di cinerario, né
di corredo, se si fa eccezione di pochi casi in cui, assieme alle ceneri, sono stati rinvenuti dei chiodi54. Va innanzitutto chiarito che non si tratta di ceneri provenienti dal rogo – come nel caso di fosse di una certa ampiezza rinvenute nell’ambito di necropoli di area centroeuropea – ma di piccole quantità, paragonabili a quelle che si rinvengono nelle urne più comuni. Inoltre, benché chiodi siano attestati con funzione apotropaica in alcune sepolture55, la loro presenza isolata di fronte alla totale mancanza di qualsiasi altro elemento che accompagni la sepoltura spinge a ipotizzare un diverso tipo di spiegazione. Si deve ricordare infatti che tra le urne cinerarie di marmo esistono numerosi esempi di cinerari che costituiscono un caso chiaro di imitazione di forme in materiali deperibili. Esiste per esempio una serie abbastanza nutrita di urnette con quattro pieducci, che imita in maniera evidente cassette lignee56. La presenza di chiodi, dunque, si potrebbe spiegare facilmente pensando appunto a cinerari realizzati in legno di cui la versione litica sarebbe una imitazione più duratura e costosa che mantiene una forma considerata tradizionale, così come d’altronde sono attestate nella necropoli di Porto di Ostia casse lignee per inumazioni57. In altri casi possiamo anche pensare fossero state utilizzate ceste di vimini: anche questo tipo infatti ci è documentato nelle urnette marmoree, che imitano la forma dei canestri sia a Roma58, sia, ancor più frequentemente, nella regione di Aquileia59. Evidenze paragonabili erano state
12. Sarcofago di Flavius Faustinus, Museo Pio Cristiano in Vaticano (Archivio Fotografico dei Musei Vaticani).
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finora segnalate in altre aree dell’impero, per esempio a Treviri o in Britannia60, ma sembrerebbe che non siano state segnalate in precedenza in Italia centrale. Ovviamente – se è giusta questa ipotesi – si dovrà immaginare che le ceneri fossero avvolte preliminarmente in un tessuto61, per evitare che i resti del defunto si perdessero filtrando attraverso le fessure del canestro. Che evidenze di questo tipo siano finora sfuggite all’attenzione può essere dovuto a causalità della conservazione dei contesti, alla natura del suolo, così come all’esilità stessa dei resti. Pur nella loro scarsa consistenza, però, esse provano l’esistenza di una differenziazione ancora maggiore di quanto finora si potesse sospettare tra sepolture che potevano usufruire di edifici più o meno elaborati, arricchiti con decorazioni ad affresco, in stucco o in pietra, nei quali i resti umani erano raccolti in urne o sarcofagi marmorei e – all’altro estremo della scala sociale – deposizioni di estrema povertà, come quelle appena descritte. Se l’interpretazione proposta è corretta, siamo inoltre costretti a ipotizzare l’esistenza di altri apprestamenti in materiale deperibile, come per esempio stele o piccoli recinti, che essendo realizzati in legno o con siepi62, non hanno potuto sopravvivere fino a noi e dunque alterano in qualche misura la nostra percezione del fenomeno funerario, impedendoci di riconoscere le sepolture della fascia socialmente più debole.
Al tempo stesso si deve pure sottolineare come la suddivisione interna delle necropoli – almeno per quel che riguarda le aree considerate – non doveva essere soggetta a una rigorosa pianificazione. È chiaro che l’area sottostante alla basilica Vaticana è preferita da sepolture di un certo livello economico e sociale, ma allo stesso tempo si deve constatare negli altri nuclei una certa eterogeneità – forse spiegabile parzialmente con differenze cronologiche, non sempre facilmente apprezzabili – ma in ogni caso troviamo in stretta prossimità sepolcri di una certa dignità, che si sforzano di utilizzare gli spazi in maniera abbastanza razionale, e sepolture che invece occupano in maniera assai irregolare gli spazi liberi – o ritenuti tali – fino a zone di sepoltura assai povere come nelle incinerazioni in urne lignee – se è giusta la interpretazione sopra proposta – o come più tardi nelle inumazioni prive di corredo e coperte a stento da pochi laterizi di reimpiego. In definitiva da queste notazioni, benché sintetiche e non sistematiche, emerge come, attraverso una lettura più fine della apparente uniformità data da alcune opzioni fondamentali della cultura antica di fronte alla morte, sia possibile intravedere una estrema varietà di scelte, di atteggiamenti e di credenze, nonché una stratificazione sociale e culturale articolata e complessa: è questo il motivo che rende lo studio delle necropoli e degli usi funerari romani tanto importante per la comprensione della città dei vivi.
13. Urna cineraria imitante una cesta di vimini, Aquileia, Museo Nazionale Archeologico. 14. Necropoli di Santa Rosa, veduta del settore nord-occidentale. 15. Necropoli di Santa Rosa, veduta del campo a inumazione sud-orientale. Pagine seguenti: 16. Necropoli di Santa Rosa, sepolcro III, nicchia con decorazione a stucco: Medea e le Pleiadi.
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CAPITOLO TERZO LA NECROPOLI SOTTO LA BASILICA E LA TOMBA DI SAN PIETRO
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E LA TOMBA DI
La necropoli vaticana scavata al di sotto della basilica di San Pietro è senza dubbio la più famosa dell’area, anzi potremmo dire che è la necropoli vaticana per antonomasia. Questo è dovuto certamente all’importanza storica, topografica e archeologica dello scavo, per il quale non si hanno a Roma esempi comparabili per livello qualitativo e stato di conservazione. Tuttavia una notorietà ancora maggiore è dovuta alla presenza, nella stessa necropoli, di una tomba di straordinario interesse: quella dell’apostolo Pietro, nucleo generatore a cui si deve il motivo della costruzione della sovrastante basilica e di tutto il successivo complesso monumentale vaticano. Il capitolo dedicato a questo settore, dunque, dovrà essere maggiormente articolato per rendere conto di una serie di problemi che, anche se in taluni casi superano l’ambito più ristretto relativo ai sepolcri e alle usuali problematiche archeologiche, sono indispensabili per una comprensione più ampia del significato complessivo di questi scavi, su cui si è appuntata l’attenzione di specialisti di molte discipline e si è accumulata una bibliografia immensa. Si pensi che nel 1964 fu necessario un volume di 260 pagine per raccogliere 870 schede bibliografiche relative alle pubblicazioni apparse fino allora sul complesso di problematiche suscitate da queste scoperte1. Oggi, a quarantacinque anni di distanza, non basterebbe un volume altrettanto corposo per recensire gli studi che sono seguiti a quella data. È evidente, d’altra parte, che questi temi potranno essere qui ripresi solo in maniera sintetica e fortemente selettiva; in compenso lo sguardo d’insieme permetterà di cogliere alcune connessioni che possono sfuggire a una visione di dettaglio e, soprattutto, il senso generale della discussione fin qui svolta. Inoltre – poiché è in programma un ulteriore volume di questa stessa serie dedicato alla basilica – quest’ultima sarà toccata solo incidentalmente per quel che è indispensabile alla comprensione delle problematiche generali. All’epoca di Nerone, il pendio meridionale della collina vaticana declinava fino a raggiungere una linea che doveva costituire il limite di rispetto del circo. In quell’epoca, però, questa parte del colle non era ancora occupata da sepolcri monumentali, che sorgevano semmai in aree poste più a est – più vicine dunque al ponte Neroniano – o più a sud – nella fascia compresa tra il circo e la via Cornelia-Aurelia. In epoca tardo-repubblicana o augustea, infatti, si datano la piramide che sorgeva in corrispondenza dell’inizio di via della Conciliazione – la cd. Meta Romuli – e l’adiacente sepolcro circolare che – sem-
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Pagina precedente: 1. Pianta e sezione della necropoli vaticana sotto San Pietro.
pre nel Medioevo – veniva chiamato Tiburtino o Terebinto di Nerone2. A sud del circo, invece, una camera sepolcrale fu rinvenuta dal Magi durante la costruzione dell’Aula delle Udienze Paolo VI3: si trattava di un colombario, cioè di un edificio funerario che prevedeva, almeno originariamente, solo incinerazioni. La soglia della porta – aperta a sud verso la vicina via Cornelia-Aurelia, si trovava allo stesso livello dell’arena del circo vaticano e la sua datazione risaliva a un momento tra Nerone e Domiziano, dunque alla seconda metà del I secolo d.C. In via di ipotesi si potrebbe pensare che traccia di un’altro sepolcro simile, non troppo distante, ci sia conservata dall’iscrizione funeraria di Tiberius Claudius Abascantus, Tiberius Iulius Tyrus e Nonia Stratonice4, databile alla stessa epoca. L’iscrizione, oggi dispersa, era venutaalla luce nei primi decenni del XVI secolo poco più a est, durante i lavori di ampliamento del palazzo del cardinale Lorenzo Pucci, quello che più tardi sarebbe diventato sede del Sant’Uffizio – oggi Congregazione per la Dottrina della Fede. È solo nel secondo secolo che, terminata la disponibilità degli spazi in prossimità del ponte e lungo la via Cornelia, le tombe della necropoli avrebbero aggirato da est il circo e avrebbero cominciato a occupare le pendici della collina, attestandosi sulla linea di rispetto a nord del circo stesso: sono le tombe monumentali più antiche scavate in quest’area (tombe A-G, O, S), quelle che – tra l’età di Adriano e i primi anni dell’età antonina – si dispongono subito a monte di quello stretto viottolo, che gli scavatori hanno chiamato iter e che tutt’oggi costituisce l’asse est-ovest del sepolcreto. Se infatti esaminiamo la cronologia relativa delle camere funerarie e il loro fisico addossarsi l’una all’altra, è evidente che l’occupazione del suolo procedeva a partire da est e che il sepolcro A, quello di Popilius Heracla che l’iscrizione dichiara costruito IN VATICA(NO) AD CIRCUM5, non è solo il più orientale, ma anche il più antico tra quelli del suo tipo. All’epoca della sua costruzione, inoltre, non esisteva ancora il sepolcro Y, che attualmente gli si erge di fronte a sbarrare la visuale verso valle, e dunque l’indicazione ad Circum poteva essere intesa nel senso più pregnante: «al margine dell’area del circo». Potremmo dire, senza forzare troppo le cose, che i parenti di Heracla, riuniti per le cerimonie funebri sul terrazzo che copriva il sepolcro, potevano godere la vista degli spettacoli delle corse delle bighe che si svolgevano nella pista sottostante, pochi metri più a sud. Solo nella seconda metà del II secolo, come si è detto, il
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2. Iscrizione del sepolcro di Popilius Heracla nella necropoli vaticana.
Pagine seguenti: 3. Veduta dell’iter che attraversa la necropoli vaticana in senso est-ovest; in primo piano il sepolcro F.
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LA NECROPOLI SOTTO LA BASILICA SAN PIETRO
LA NECROPOLI SOTTO LA BASILICA E LA TOMBA DI SAN PIETRO
E LA TOMBA DI
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circo viene abbandonato e occupato da sepolcri – uno di essi è stato rinvenuto proprio a ridosso delle fondazioni dell’obelisco6 – che invadono o superano verso valle il limite dell’iter (sepolcri H, U, T, R)7. Torniamo però al momento iniziale, quello in cui il circo ancora svolgeva appieno la sua funzione. In età neroniana questo edificio e i giardini circostanti furono teatro della persecuzione con cui l’imperatore intese gettare sulle spalle dei cristiani la colpa dell’incendio che aveva devastato gran parte della città nel 64 d.C. Alcuni furono crocifissi, altri arsi come torce umane, altri ancora sbranati dalle belve inscenando pantomime mitologi-
che8. Secondo buona parte degli studiosi, nel corso di questa persecuzione trovò la morte per crocifissione9 anche l’apostolo Pietro. Una cronologia leggermente diversa è invece quella che si ricava da san Girolamo10, che si rifà a sua volta alla Cronologia (perduta) di Eusebio di Cesarea: secondo questi scrittori il martirio di Pietro sarebbe avvenuto tre anni più tardi, nel 67. La differenza, evidentemente, non è sostanziale: ben altri sono i temi di questa vicenda che sono stati dibattuti con passione e sui quali è forse oggi possibile una posizione più equilibrata, che tenga conto anche di alcune recenti acquisizioni. 4. L’iter della necropoli vaticana durante gli scavi prima della ricostruzione del pavimento delle grotte (1941-42). 5. Assonometria degli scavi alla base dell’obelisco vaticano con le tombe addossate (da Castagnoli 1959-60).
LA SEPOLTURA DI PIETRO
sulla via Ostiense. Visto il contesto, con la parola «trofei» vanno intese le tombe dei due apostoli, il cui martirio viene così equiparato a un trionfo della fede sulla morte e sul peccato. Da un punto di vista archeologico una serie importantissima di elementi – benché non sempre di facile lettura e interpretazione – è emersa dai grandi e difficoltosi scavi che furono compiuti al di sotto del pavimento delle grotte vaticane in due momenti sotto il pontificato di Pio XII (1940-49, 1953-57). La metà occidentale della basilica, infatti, si dispone oggi su tre livelli. Il primo è quello del pavimento attuale della chiesa, ma subito al di sotto si estendono gli ambienti delle grotte, dove sono conservate memorie relative alla storia della basilica e numerosi sepolcri pontifici. Il livello del pavimento di questi ambienti è sostanzialmente quello della basilica costantiniana, che i primi progetti della nuova chiesa rinascimen-
Finora si è parlato dello sviluppo complessivo della necropoli considerando solo i sepolcri monumentali dall’età adrianea in poi. Non si è però considerata la possibilità di rinvenire in un’epoca anteriore tombe più modeste: questo infatti è il caso della tomba in cui sarebbe stato deposto l’apostolo Pietro. L’argomento per la sua complessità e importanza merita una discussione specifica. La prima notizia storica sicura sulla sepoltura dell’apostolo, è quella trasmessaci dal già citato Eusebio di Cesarea11, il primo storico della Chiesa. Questi cita Gaio, un presbitero che scrive attorno al 200 in polemica con Proclo, eretico montanista, il quale vantava la tomba dell’apostolo (o del diacono) Filippo a Ierapoli in Frigia. Gaio gli contrappone invece i «trofei» degli apostoli Pietro e Paolo visibili a Roma rispettivamente in Vaticano e
A fianco: 6. Assonometria dell’area circostante al Campo P (da Esplorazioni 1951). R1
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tale intendevano mantenere. Tuttavia, quando Antonio da Sangallo il Giovane subentrò come architetto alla direzione della Fabbrica di San Pietro (1520), apportò alcune importanti modifiche all’originario progetto del Bramante. Oltre a irrobustire i pilastri della cupola, abolendone i nicchioni, decise di dare una proporzione più classica alle navate e a tal fine sopraelevò di circa tre metri il pavimento, sostenendolo con una serie di volte che formarono ambienti accessibili, ossia le famose grotte vaticane. Nel secolo appena trascorso Pio XII decise di abbassarne la pavimentazione per guadagnare spazio: iniziarono allora a emergere i sepolcri romani, che già a più riprese nei secoli precedenti erano stati intravisti. Nonostante le difficoltà della seconda guerra mondiale, in corso in quegli anni, il pontefice diede inizio alla prima stagione di scavi, dalla quale emersero le strutture funerarie oggi visitabili al terzo e più profondo livello. La storia architettonica della basilica spiega anche il perché gli scavi si siano fermati a est con il sepolcro A, quello di Popilius Heracla: oltre questo limite inizia l’estensione della basilica progettata dal Maderno che, per ragioni di capienza, ne trasformò la pianta da croce greca a croce latina, prolungandola notevolmente. Tutta la parte orientale della costruzione, dunque, rispetta il livello impostato dal Sangallo, ma fonda il pavimento su di un terrapieno invece che su arcuazioni. Ciò significa che un’eventuale prosecuzione degli scavi in direzione dell’ingresso della basilica, a differenza dei precedenti interventi, non potrebbe più avvenire tranquillamente sotto le volte delle grotte, ma dovrebbe smontare il pavimento della basilica, interferendo pesantemente con la liturgia che vi si celebra. Gli scavi, eseguiti nel settore immediatamente circostante all’altare papale e addirittura in parte sotto di esso, rivelarono una situazione particolarmente intricata, ma – in estrema sintesi – arrivarono a identificare un’area scoperta in mezzo agli altri edifici funerari, che fu chiamata Campo P12. Benché lo stato di conservazione fosse in parte pregiudicato dalle fondazioni delle strutture costruite nei secoli successivi – tra le quali sono da contare anche le colonne del baldacchino bronzeo del Bernini – si poté riconoscere sul lato occidentale dell’area scoperta il muro di cinta, detto semplicemente «muro rosso» dal colore del suo intonaco. Alle sue spalle correva un viottolo in salita (detto clivus dagli scavatori), che permetteva l’accesso all’adiacente recinto funerario Q. Sul lato orientale del muro rosso, quello che dava sul Campo P, si trovava invece una semplice edicola con due colonnine, che inquadravano due nicchie sovrapposte, ricavate nello
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7. Disegno ricostruttivo del «trofeo di Gaio».
stesso muro rosso. Ad esse va aggiunta, sullo stesso asse verticale, una terza nicchia sotterranea, di cui si parlerà fra un momento. Per ora basti dire che l’edicola, il muro rosso e il vialetto retrostante furono costruiti tutti in un’unica fase la cui cronologia si ricava da una serie di bolli impressi sui mattoni, prodotti al più tardi nel 161 d.C13. L’edicola, inoltre, fu subito riconosciuta concordemente come il «trofeo» di cui parla Gaio. Le due colonnine – una delle quali oggi non più in posto – dovevano sostenere un piano di marmo per dar risalto alla nicchia maggiore. Al di sopra di questa sorta di mensola – di cui restano le impronte anche nel muro rosso – esisteva una seconda nicchia più piccola, ma dotata di una finestrina. Il coronamento dell’edicola è perso e quello a timpano triangolare, indicato nelle ricostruzioni correnti, è puramente indicativo e ipotetico. La nicchia maggiore coincide oggi con la Nicchia dei Palli nella Confessione al di sotto dell’altare, quella nicchia – cioè – che appare rivestita da un mosaico medioevale (molto integrato) raffigurante Cristo, nella quale vengono deposti i palli, ossia le corte stole caratteristiche degli arcivescovi, prima che vengano loro consegnate come segno del vincolo particolarmente stretto che li lega alla sede apostolica di Pietro. In corrispondenza dell’edicola e al di sotto del piano antico di campagna, invece, doveva trovarsi una fossa che si incassava parzialmente anche nella fondazione del muro rosso a formare la terza nicchia sotterranea a cui si è accennato sopra, peraltro di forma alquanto irregolare. La fossa, in cui ci si aspettava di rinvenire le reliquie dell’apostolo, risultò invece sconvolta e priva di resti umani. Attorno all’edicola vennero alla luce diverse deposizioni riferibili a varie epoche. Le due più antiche erano anteriori alla monumentalizzazione del Campo P: la prima è la tomba q, una fossa coperta di tegole a cappuccina, una delle quali conserva un bollo dell’età di Vespasiano. Questo indice cronologico, però, non sembra sicuro, poiché il livello relativamente alto a cui è stata rinvenuta la tomba fa pensare piuttosto a un’epoca alquanto posteriore e in tal caso il bollo sarebbe spiegabile con un reimpiego14. Più affidabile la datazione della tomba g, una cassa di terracotta molto profonda, coperta da tegole e da una struttura in muratura, che può datarsi, ancora una volta grazie un mattone bollato, agli anni 115-123 d.C15. In una fase successiva alla realizzazione del «trofeo di Gaio», venne inserito in esso un muro, spostando la colonnina di destra. Si tratta del muro g, detto anche muro dei graffiti, perché coperto da una fitta serie di graf-
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MURO
ROSSO
8. Mosaico con raffigurazione di Cristo nella Nicchia dei Palli. 9. Pianta del «trofeo di Gaio» (da Esplorazioni 1951). 10. Assonometria ricostruttiva sezionata del trofeo con le tre nicchie sovrapposte (da Prandi). 11. Assonometria ricostruttiva sezionata del «trofeo» con l’aggiunta del muro g (da Prandi).
tomba 28
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15. Frammento d’intonaco con il graffito pétros éni.
qui»). Le due parole – unica attestazione del nome di Pietro tra le centinaia di graffiti presenti – si trovano purtroppo sul margine di una lacuna per cui non è possibile escludere del tutto letture diverse17. Si può raccogliere qualche ulteriore elemento in relazione all’ipotesi della Guarducci: il primo è costituito da un’osservazione che meriterebbe un’attenta verifica. La basilica costantiniana sorse con il «trofeo di Gaio» posto nel punto focale dell’abside. L’orientamento della chiesa, tuttavia, non è esattamente quello della necropoli o del circo, ma ne diverge di pochi gradi. Questa stessa divergenza sarebbe esattamente riscontrabile nel muro g, il quale venne pure compreso nella memoria costantiniana. Gli architetti dell’imperatore e di papa Silvestro, perciò, avrebbero stabilito l’orientamento della fabbrica proprio su questo piccolo muro, che ai loro occhi avrebbe avuto un’importanza straordinaria18. Anche questo argomento tuttavia non è risolutivo poiché – se verificato – proverebbe solo che all’inizio del IV secolo il loculo era altamente considerato e sarà dunque stato considerato la sepoltura dell’apostolo. Più interessanti sono le recenti ricerche sulla tomba di san Paolo nella basilica sulla via Ostiense19. Qui, infatti, al di sotto dell’altare pontificio al centro del transetto, è stata identificata una cassa marmorea – secondo ogni evidenza un sarcofago – che non è collocato al livello della
16. Rilievo grafico del graffito pétros éni.
CAMPO
AREA
P
Q
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13. Colonnina sinistra del «trofeo di Gaio», a sinistra un piccolo tratto del muro rosso rivestito da una lastra di marmo bianco.
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FOGNOLO
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fiti devozionali. Tale muro era appoggiato di testa al muro rosso, ma in maniera non perfettamente ortogonale, e conteneva un loculo ricavato al suo interno dopo la sua costruzione. Tale loculo, rivestito di lastrine di marmo, sarebbe stato rinvenuto sostanzialmente vuoto dagli scavatori. Alcuni anni più tardi, invece, la nota epigrafista Margherita Guarducci iniziò a studiare i graffiti lasciati dagli antichi pellegrini sul muro g. Nel corso di tali ricerche – sulla base della testimonianza di Giovanni Segoni, capo degli operai che avevano lavorato agli scavi – ritenne di poter identificare in magazzino una cassetta di ossa, che sarebbero state rimosse dal loculo all’insaputa degli archeologi. Tali ossa – secondo la sua ricostruzione – sarebbero appunto quelle di Pietro: in epoca non ben precisabile – ma comunque prima dell’intervento di Costantino che aveva racchiuso il trofeo in una specie di custodia di muratura, la cosiddetta memoria – le ossa sarebbero state riesumate dalla fossa e collocate nel loculo, dopo essere state avvolte in un panno di porpora intessuto di fili d’oro, di cui esisteva ancora qualche traccia16. A sostegno di questa interpretazione, la Guarducci portò la testimonianza di un graffito, che proveniva dal rivestimento d’intonaco del muro rosso nel punto in cui vi si appoggiava il muro g, anche se purtroppo non rinvenuto in situ. Vi si leggono due parole greche altamente suggestive, che la studiosa integrò P4tr[oı] / ]ni («Pietro è
14. Pianta del Campo P e dell’area circostante con le inumazioni (da Prandi).
CLIVUS
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12. Muro dei graffiti, in basso il loculo con le ossa attribuite dalla Guarducci a san Pietro.
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basilica originaria costantiniana, ma a quello sopraelevato del pavimento della fine del IV secolo, cioè della basilica teodosiana di seconda fase. Se è giusta la lettura che si offre come più immediata, si tratterebbe del corpo dell’apostolo che, anche in questo caso, sarebbe stato esumato dalla deposizione originaria e rialzato a un livello compatibile con la nuova sistemazione architettonica della chiesa, in altre parole un innalzamento che non ne mutava la posizione planimetrica. Inoltre – proprio nei giorni in cui si scrivono queste righe – è stato annunciato che, mediante un endoscopio, si sono potuti identificare all’interno del sarcofago piccoli resti di ossa e di due tessuti: uno di lino color porpora intessuto di fili d’oro e un secondo blu20, una situazione che nel suo complesso non può che richiamare quella ricostruita dalla Guarducci per le ossa di Pietro, fatta salva la distanza cronologica tra le due esumazioni. Questi sono i dati principali, che sono stati interpretati però in maniera fortemente divergente dagli studiosi che si sono occupati del problema21. Come è facilmente comprensibile, non tutti hanno accettato la ricostruzione proposta dalla Guarducci e le critiche vanno dalla negazione dell’identificazione delle ossa – visto che le complesse vicende sopra descritte tra lo scavo e il fortunoso rinvenimento non lasciano una completa tranquillità a riguardo – per arrivare fino a posizioni più radicali, che negano anche la presenza originaria di una deposizione in corrispondenza della fossa sotto il trofeo22. Uno dei principali problemi è l’osservazione che, tra la morte dell’apostolo (64 o 67 d.C.) e il primo dato certo successivo (la costruzione del «trofeo di Gaio», diciamo entro il 161), si apre un arco temporale di circa un secolo, in cui non si hanno elementi testuali o archeologici che permettano di capire come si fosse conservata memoria della sepoltura in mancanza di una ricorrenza liturgica o di una qualche forma di registrazione. Sappiamo infatti che, ancora verso la metà del III secolo, la celebrazione della festa dell’apostolo il 29 giugno non avveniva in Vaticano, ma presso le catacombe oggi dette di San Sebastiano23, sulla via Appia, mentre contemporaneamente quella di san Paolo era già celebrata lo stesso giorno sulla via Ostiense, dunque presso la sua tomba. A San Sebastiano si è trovato effettivamente un complesso composto da un porticato e da spazi per banchetti, sulle cui murature sono graffite invocazioni agli apostoli Pietro e Paolo24. A questa importante obiezione si può rispondere in diverse maniere: innanzitutto è logico che il culto dei martiri sia fiorito solo a partire da un momento della vita della Chiesa in cui si iniziavano a verificare le prime serie divergenze teologiche e le prime eresie, in quanto solo allora si prese coscienza dell’importanza della tradizione
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17. Assonometria parzialmente ricostruttiva dell’area di San Sebastiano dedicata al culto degli apostoli (da Prandi 1936).
apostolica: in altre parole si sentì il bisogno di richiamarsi ai fondatori della comunità quali garanti della trasmissione del patrimonio di fede. Il «trofeo di Gaio» in Vaticano è infatti la prima attestazione archeologia di un culto di questo tipo così come lo è, sul piano testuale, la passione di san Policarpo, vescovo in Asia Minore, che si data agli stessi anni. In secondo luogo, non sembra impossibile che un ricordo possa trasmettersi per via orale per un secolo: in termini umani questo arco temporale corrisponde a tre generazioni e può essere coperto con un solo passaggio di informazioni da nonno a nipote25. Infine va considerata la nuova interpretazione che di recente Stefan Heid26 ha proposto per la lettera ai Romani di Ignazio di Antiochia. Verso il 110 il vescovo viene trasferito a Roma, condannato a essere gettato in pasto alle belve del circo, ma scrive ai Romani un’importante lettera pregandoli di non far nulla per impedire il suo martirio: allora sarà discepolo di Gesù Cristo, quando il mondo non vedrà il suo corpo27. È implicito che, con questo tipo di martirio, il mondo non vedrà il suo corpo perché – divorato dalle fiere – non avrà una tomba e dunque non potrà essere venerato. Ignazio
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prosegue facendo il confronto tra la sua pochezza di prigioniero condannato e la dignità degli apostoli Pietro e Paolo, apostoli e liberi in quanto hanno già affrontato il martirio. Se si traggono tutte le conseguenze da questa comparazione, dobbiamo riconoscere che c’è un’ulteriore implicazione: il santo antiocheno fa intendere allusivamente che non vuole per sé una tomba circondata dalla venerazione come invece sono quelle degli apostoli Pietro e Paolo. Questa sottile deduzione ci offre dunque la testimonianza che cercavamo proprio a metà dell’arco di quel secolo in cui mancano notizie sulla sepoltura apostolica. La discussione ha raggiunto toni particolarmente accesi in anni passati, ma ciò è almeno in parte dovuto a non aver marcato a sufficienza la distinzione tra i diversi piani su cui si pone il problema28. Bisogna infatti considerare almeno tre livelli: quello storico della morte di Pietro a Roma, quello archeologico della identificazione della tomba e, infine, l’ultimo che riguarda la devozione per le reliquie. Posta in questi termini la questione, appare subito evidente come il primo livello sia di gran lunga il più importante: è infatti questo il nocciolo duro della tradizione che, benché in modi per lo più allusivi e non del tutto espliciti, è tuttavia coerente nel riportare la notizia della morte di Pietro a Roma sotto Nerone. Questo fatto non viene ormai più messo seriamente in dubbio e, con un’eccezione, studiosi di diverse tendenze – sia cattolici sia protestanti – concordano in ultima analisi su di esso29. Per il secondo livello, quello dell’identificazione della tomba, abbiamo la ragionevole certezza che già attorno alla metà del II secolo essa venisse identificata con il «trofeo di Gaio», mentre per il periodo anteriore abbiamo visto le diverse interpretazioni proposte e le complesse problematiche, ma al tempo stesso va riconosciuto che in definitiva non esistono motivi per negare a priori questa possibilità e che le diverse posizioni degli studiosi sono legate in maniera considerevole alla fiducia che accordano alla tradizione successiva. Infine, per quanto riguarda il riconoscimento delle reliquie non abbiamo certezze ma, senza voler svalutare l’importanza dell’aspetto devozionale, questo piano del discorso non può che considerarsi subordinato ai precedenti. Il problema dell’identificazione delle ossa, in altre parole, non pregiudica né la ricostruzione storica, né il significato e il ruolo ecclesiale del vescovo di Roma, né infine l’importanza della basilica vaticana. LA NECROPOLI Chiarite le questioni preliminari, è giunto il momento di affrontare l’esame della necropoli. Una prima osservazio-
ne terminologica sarà a questo punto utile. Nella letteratura corrente si parla tradizionalmente di «mausolei» per intendere le camere funerarie che la compongono, ma questo termine non è esatto e verrà qui evitato. Il termine latino è semmai monumentum, nel senso di ciò che fa memoria del defunto: lo si trova infatti riferito alla tomba nell’iscrizione già citata di Popilius Heracla 2. A Roma, d’altra parte, per i primi tre secoli della nostra era esisteva un solo mausoleo: quello di Augusto30. Nemmeno per il famoso sepolcro di Adriano – che pure spessissimo viene detto mausoleo nella letteratura scientifica e divulgativa – le fonti antiche usano questa parola31. Solo nei territori romani dell’Africa settentrionale il termine mausoleo si trova effettivamente impiegato per designare camere funerarie simili a quelle della necropoli vaticana, ma si tratta evidentemente di un uso regionale e provinciale32. A Roma, invece, il termine avrà una evoluzione solo a partire dal IV secolo quando lo troviamo impiegato per indicare unicamente le sepolture imperiali – dunque con un’accezione specifica molto ristretta. Si è accennato nelle pagine precedenti al grande interro che ricopre la necropoli ma è necessario chiarirne in maniera più esplicita la genesi. La necropoli era prevalentemente pagana e – prescindendo dalla presenza del «trofeo di Gaio» – solo nelle sue ultime fasi iniziò a mostrare anche qualche traccia di sepolture cristiane. Quando Costantino conquistò Roma eliminando il rivale Massenzio nella battaglia di Ponte Milvio (312), proclamò l’editto di tolleranza di Milano (313), concedendo la libertà di culto alla Chiesa. Tra le sue prime preoccupazioni fu quella di dare sostegno e visibilità a questa nuova comunità religiosa, che usciva finalmente dall’ombra già con una strutturazione piuttosto robusta, ma che era sostanzialmente priva di luoghi di culto in cui l’assemblea dei fedeli potesse riunirsi per la liturgia e per riconoscersi come comunità. Iniziò quindi la costruzione di diverse basiliche, tra cui a Roma la prima dovette essere la cattedrale dedicata al Salvatore, detta successivamente San Giovanni in Laterano. Quasi subito, però, rivolse la sua attenzione al luogo dove la tradizione indicava la sepoltura dell’apostolo Pietro. Il prestigio e il significato di questo martire furono la ragione delle dimensioni straordinarie della costruzione, che dovette superare ostacoli tecnici e legali gravissimi, in quanto non si volle in alcun modo toccare la posizione della sepoltura. Questa si trovava sul fianco del colle con una doppia pendenza: più ripida in direzione nord-sud, più lieve in direzione ovest-est. Inoltre la presenza tutt’intorno della necropoli, le cui tombe erano tutelate dal diritto e dalla consuetudine, non era un problema da poco. Con una delle tipiche contraddizioni di
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quest’epoca di trasformazioni, per costruire la più grande basilica cristiana Costantino dovette agire in qualità di Pontefice Massimo, la più alta autorità sacerdotale pagana competente in materia di diritto sacrale. In questa veste poté dunque autorizzare i colossali lavori, che portarono allo sbancamento della collina a monte della tomba e all’interro di quelle a valle, fino a una quota di almeno sette metri, per creare le sostruzioni e la grande piattaforma su cui sarebbe sorta San Pietro. È grazie a questo interro che la necropoli si è potuta conservare in uno stato straordinario, se paragonato alla maggior parte degli altri casi simili. Le tombe della necropoli erano state viste occasionalmente più volte nel corso della costruzione della basilica rinascimentale, dei lavori nella Confessione o, infine, in quelli attorno all’altare pontificio come quando – nel 1626 – fu realizzato il baldacchino bronzeo del Bernini33. Tra questi rinvenimenti – che nei casi più importanti saranno ricordati più avanti – va menzionato almeno quello del sarcofago di Giunio Basso avvenuto sotto Clemente VIII (1597) durante l’ampliamento della confessione34. Il defunto era un personaggio giunto al vertice della carriera politica dei suoi tempi: all’epoca dell’imperatore Costanzo II, nel 359, era stato nominato Prefetto della città di Roma all’età di 42 anni, ma era morto lo stesso anno35. Il sarcofago è un caposaldo per l’arte paleocristiana sia per la sua precisa datazione, sia per la qualità altissima dei suoi rilievi, sia, infine, per la complessità del suo programma figurato. Sulla fronte appare infatti decorato con una serie di scene derivate dall’Antico e dal Nuovo Testamento organizzate su due registri sovrapposti, ciascuna racchiusa in una cornice architettonica secondo la tradizione dei sarcofagi a colonne. L’ordine delle scene non è cronologico o narrativo, ma piuttosto gerarchico, con il
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Salvatore raffigurato al centro. Nel registro superiore troviamo la scena chiave: Cristo, giovane e imberbe è raffigurato secondo una variante dello schema detto della Traditio legis: con la sinistra infatti consegna un rotolo contenente la nuova legge a Pietro, inteso come colui che presiede la comunità apostolica, mentre alla sua sinistra è Paolo, l’altra colonna della Chiesa di Roma. Proprio sulla figura dei due santi martiri, infatti, essa fondava la sua origine apostolica e la sua autorevolezza tra le altre chiese locali. Il Cristo si rivolge direttamente allo spettatore manifestandosi in quella frontalità che viene utilizzata con insistenza nell’arte tardoantica e paleocristiana: allo stesso tempo egli interpella lo spettatore e si impone con l’autorevolezza della sua posa. Benché di fattezze giovanili è seduto su una sorta di trono dalle gambe scolpite a forma di leone e sopraelevato su un gradino. Posa inoltre i piedi su una figura barbata che emerge dal terreno a mezzo busto ed è coperta sul capo da un mantello rigonfio, che disegna un arco, mentre viene trattenuto con le due mani alle estremità. È la raffigurazione del Cielo o, alla greca, del Kosmos, che deriva dall’arte romana, ma che viene risignificata per conferire al Salvatore una sovranità sull’universo e alla nuova legge una valenza che trascende il tempo e lo spazio. Nelle raffigurazioni della fronte del sarcofago si legge tutta una serie di richiami alla basilica di San Pietro e alla sua decorazione: a differenza delle altre edicole che racchiudono le scene laterali, le due poste al centro di ciascun registro che accolgono l’immagine di Cristo sono le sole a essere delimitate da colonne decorate a bassissimo rilievo da tralci di vite entro cui si riconoscono piccoli putti vendemmianti. È facile riconoscere in esse le colonne vitinee che circondavano la tomba dell’apostolo Pietro nell’abside della basilica e che, secondo il Liber Pontificalis (34.16), lo stesso Costantino aveva fatto venire dall’oriente. Tutt’oggi esse possono essere ammirate, inserite nelle nicchie superiori dei quattro pilastri che reggono la cupola36: esse costituivano una chiara allusione alla sepoltura di Pietro tant’è vero che lo stesso Bernini vi si ispirò nella realizzazione del suo baldacchino bronzeo. Anche l’iconografia del Cristo, seduto sul Kosmos mentre consegna la legge, sembra d’altronde un’allusione sintetica ai due mosaici che dovevano decorare la basilica: quello sull’arcone trionfale, che divideva le navate dal transetto, con il Cristo seduto sul globo del mondo, e quello nell’abside, che doveva utilizzare lo schema della Traditio legis37. Continuando l’esame del registro superiore, ai lati della scena centrale e in significativo parallelismo, si riconosce a sinistra la scena dell’arresto di Pietro e simmetricamente, a destra, l’arresto dello stesso Cristo, mentre alle estremità si trovano a sinistra il sacrificio di Isacco – figura del sacrificio salvifico di Cristo – e a destra il giudizio di
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Pilato. Se scendiamo al registro inferiore, troviamo al centro ancora una volta il Cristo, questa volta raffigurato nel suo ingresso a Gerusalemme. Lo schema iconografico qui utilizzato gioca di finezza con l’immaginario presente allo spettatore antico, al quale l’ingresso di Cristo doveva richiamare l’adventus degli imperatori (ma anche degli alti funzionari), cioè il loro arrivo solenne e cerimoniale in città, al cospetto della popolazione e del senato o dei decurioni. Un tale richiamo avviene però mediante una sorta di contrappunto: il carro imperiale trainato da cavalli è sostituito qui da una cavalcatura modesta, l’asino, e tutta la scena allude a un adventus sì regale, ma al tempo stesso portatore di pace e salvezza, che rifugge dalla manifestazione del trionfo bellico e del potere terreno38. Sempre sul registro inferiore, a sinistra della scena centrale troviamo l’immagine di Adamo ed Eva ai lati dell’albero del bene e del male, in posa pudica per aver appena commesso quel peccato originale che il Cristo ha redento con la sua incarnazione. All’estremità è invece Giobbe seduto nella sua disgrazia dopo avere perduto la sua fortuna, i suoi affetti e la sua salute: simbolo al tempo stesso della condizione di dolore dell’uomo, ma anche della sua incrollabile fiducia in Dio. Alla destra, è Daniele (con testa di restauro) nella fossa dei leoni, ancora una volta immagine di colui che s’affida completamente a Dio, mentre all’estremità è scolpito Paolo che viene condotto al martirio, necessario complemento alla scena dell’arresto di Pietro già vista sul registro superiore. Si tratta nel complesso di una delle più alte realizzazioni tra i sarcofagi dell’epoca, specchio dell’alto livello della committenza. La bottega di scultori che ne è responsabile è capace di rielaborare motivi tradizionali con una certa originalità; i personaggi sono rappresentati con uno stile classicista, che si manifesta nella scelta di un natura-
lismo organico ancora notevole, se si considera la media della produzione di sarcofagi figurati coevi. Il rilievo è insolitamente alto e le figure si stagliano contro il fondo in modo da essere valorizzate dal forte chiaroscuro; la cornice architettonica isola le scene, ne gerarchizza l’importanza relativa e scandisce il ritmo figurativo, anche se la distribuzione delle scene tiene conto di criteri compositi e ha portato a molte discussioni tra gli specialisti. Il sarcofago di Giunio Basso, venne rinvenuto all’estremità occidentale della basilica, proprio all’apice dell’abside sulla linea della tomba di Pietro, dunque in una posizione altamente privilegiata che si spiega solo con l’altissimo livello del defunto. Sepolcro A, «di Popilius Heracla» Una trattazione topograficamente coerente della necropoli, tuttavia, non può che cominciare dall’altra estremità, dal sepolcro A, già più volte citato, di Popilius Heracla39. Ad esso si possono dedicare solo poche righe: dell’importantissima iscrizione infatti si è già trattato a più riprese (cfr. tav. 2 pag. 43). Si può aggiungere che l’iscrizione è costituita da un estratto del testamento di Heracla con precise istruzioni per la costruzione del suo sepolcro (monumentum). Queste comprendono sia le risorse finanziarie da destinare alla costruzione, che il luogo in cui sarebbe dovuto essere costruito: in Vaticano in prossimità del circo «presso il sepolcro di Ulpius Narcissus», che dunque dobbiamo ritenere si trovi sepolto pochi metri più a est sotto l’ampliamento della basilica dovuto al Maderno. Il costo del sepolcro, 6.000 sesterzi, è pure un dato interessante: non possiamo sapere quanto ricca fosse l’ornamentazione interna e anche le dimensioni complessive sono ricostruibili solo per comparazione
Vecchio S. Pietro
Mausoleo di Onorio
A fianco: 18. Benedetto Drei, Pianta delle Grotte Vaticane (1635) con i lavori attorno alla confessione di San Pietro. 19. Sezione della collina vaticana con la sovrapposizione della basilica costantiniana alla necropoli e con i vari innalzamenti del terreno fino all’età moderna (da Biering – von Hesberg 1987, rielaborazione Liverani).
1900
S. Andrea
Nuovo S. Pietro
IV sec. I sec.
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20. Sarcofago di Giunio Basso, basilica di San Pietro, Museo del Tesoro.
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21. Sarcofago di Giunio Basso, dettaglio del Cristo che consegna la nuova legge a san Pietro di fronte a san Paolo.
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22. Sepolcro B, «di Fannia Redempta», parete interna ovest.
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con gli altri sepolcri completamente scavati; del sepolcro è stata infatti liberata dall’interro solo la porta d’ingresso, stretta tra i contrafforti di contenimento della terra e di sostegno alle strutture soprastanti. Si può comunque ipotizzare che occupasse un’area di circa 25 metri quadrati e dunque non era tra i più vasti e imponenti. Tuttavia – per avere un termine di confronto – va ricordato che questa cifra corrispondeva al soldo di cinque anni di un legionario40, il che da un lato dà la misura dell’investimento necessario per l’acquisto del terreno e l’erezione dell’edificio funerario, dall’altro della capacità economica che poteva raggiungere un certo numero di liberti. Di fronte al sepolcro A, a meno di due metri, è un’altro muro antico, quello posteriore del sepolcro indicato con la lettera greca Y, che fa parte delle camere funerarie costruite sul finire del II secolo d.C., quando il limite di rispetto dell’area del circo venne meno e la necropoli poté occuparne gli spazi. Neanche questo sepolcro, però, è stato scavato e se ne riconosce solo l’angolo nord-occidentale41. Sepolcro B, «di Fannia Redempta»
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Il sepolcro che segue cronologicamente, si addossò alla parete occidentale del sepolcro A a breve intervallo di tempo42. Il nome con cui è noto non corrisponde in realtà alla sua fondatrice, ma semplicemente a una donna che vi fu sepolta in epoca relativamente tarda dal marito Aurelius Hermes, liberto imperiale forse di Settimio Severo e Caracalla43. Ignoriamo il nome dei proprietari originari, perché l’iscrizione a fianco della porta fu rimossa. Al momento della costruzione, che risale all’età dell’imperatore di Adriano, il sepolcro si presentava composto da due ambienti: un cortile recintato da un muro alto quasi tre metri, da cui si accedeva alla camera vera e propria attraverso un ampio arco. La camera – coperta con volta a crociera – presentava la solita divisione delle pareti a nicchie alternate nella parte superiore, mentre quella inferiore è mascherata dagli arcosolii aggiunti più tardi. È solo in un secondo momento che la camera vera e propria venne separata più nettamente dal cortile: attorno alla metà del III secolo, infatti, fu pavimentata con un mosaico in bianco e nero di stile alquanto schematico e rigido, con due colombe simmetricamente disposte ai lati di un cratere, mentre il resto del pavimento era decorato da esili girali vegetali. Contemporaneamente, sulla linea dell’arcone, si pose un’ampia soglia in travertino a marcare il passaggio con il cortile. Nel corso della seconda metà
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dello stesso secolo l’arcone venne chiuso con un muro in opera listata, un tipo di muratura di realizzazione abbastanza rapida, caratterizzato da un paramento esterno in cui si alternano filari di mattoni e di blocchetti di tufo. Il passaggio veniva ora assicurato da una porta, mentre la luce doveva entrare da un paio di finestre ricavate nella parte alta dell’arcone. Forse in questo momento l’iscrizione, che si trovava in origine a destra della porta del cortile, fu spostata su questo muro, che ne conserva l’incasso sopra l’architrave. Contemporaneamente, nella camera principale, vennero realizzati gli arcosolii per le inumazioni visibili nella parte bassa delle pareti: in questo periodo, infatti, il rito dell’incinerazione era quasi sparito e c’era bisogno di nuove fosse per le deposizioni. In un momento finale, ormai durante i lavori del cantiere costantiniano della basilica, la porta del cortile venne chiusa e la parete rialzata fino al piano della basilica. Si costruì allora nella parte orientale del cortiletto una scaletta in muratura che, sia pure in maniera disagevole, dovette permettere di accedere dall’alto alla tomba fino all’ultimo, fin quando cioè si dovette procedere all’interro completo della tomba. La decorazione pittorica mostra varie fasi che dobbiamo collegare alle varie ristrutturazioni subite dalle strutture. Le pitture più fini sono indubbiamente quelle della prima fase: su un fondo bianco nella nicchia centrale della parete frontale si riconosce il pavone, attributo caratteristico di Giunone, di fonte a un cratere – verosimilmente di vetro – colmo di fiori e frutti. Sulla parete sinistra, invece, la nicchia centrale era ornata dai simboli di Venere: si riconosce ancora parte di una cassetta d’oro da toeletta, dalla quale una colomba estrae una collana, mentre forse una seconda colomba è simmetricamente disposta a destra. Sulla cassetta è uno scettro con una corona di fiori, allusivo al potere della dea. La corrispondente nicchia della parete destra lascia intravedere appena una lancia, forse allusione a Marte. In origine le nicchie dovevano essere inquadrate da colonnine come nel sepolcro G, che dovette essere decorato dalla stessa bottega, ma le aggiunte in stucco vennero eliminate nella ridecorazione della seconda metà del III secolo. Nella parte alta sono notevoli le lunette decorate da quadri con due uccelli affrontati ai lati di coppe su un esile stelo, ma il programma più interessante doveva trovarsi nella volta, ancora sostanzialmente conservata. Lo schema degli affreschi è organizzato con cinque medaglioni a croce di cui quello centrale, di dimensioni maggiori, mostra ancora – benché in parte svanita – la quadri-
ga di Helios, divinità che ebbe notevole fortuna nel III secolo e che viene raffigurata di tre quarti con il braccio destro sollevato a reggere la frusta, vestita con il chitone a maniche lunghe e il mantello purpureo svolazzante dietro le spalle, mentre il capo è incorniciato di un nimbo circolare. Gli altri quattro medaglioni raffiguravano le stagioni: probabilmente a ovest è la primavera e sul lato opposto l’autunno, mentre sul lato meridionale è l’inverno. Perduto infine il medaglione dell’estate. In un secondo momento, come si è detto, venne steso un sottile strato di calce che servì di base a una nuova decorazione. Buona parte di essa è documentata solo da foto d’epoca perché rimossa dai primi restauri, che intesero recuperare la prima fase decorativa. Si trattava di uno stile alquanto più grossolano, con una ripartizione lineare delle superfici in cui si inserivano immagini di volatili e racemi vegetali. La parte inferiore delle pareti, invece, compresi gli arcosolii realizzati in quella stessa occasione, aveva una decorazione a finti marmi. Sepolcro C, «dei Tullii e dei Caetennii»
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Di fronte al sepolcro B fu costruito all’inizio del III secolo il piccolo sepolcro C. Il suo ingresso è purtroppo bloccato da una fondazione cinquecentesca e l’accesso è assai difficoltoso e può avvenire solo dalla volta, sfondata dagli operai di Costantino44. È un peccato perché si tratta di uno dei sepolcri più fini della sua epoca, a causa della ricchezza e varietà delle decorazioni, superate solo dall’adiacente sepolcro F. Il tono è stabilito già dal pavimento, rivestito di opus sectile con uno schema geometrico di formelle ricavate da una decina di marmi differenti dai colori più vari: breccia di Sciro, marmo Caristio, di Chios, bigio di Capo Tenaro, bardiglio di Luni, ardesia, breccia corallina dalle cave della Bitinia, Pavonazzetto dalla Frigia e il cosiddetto Africano, in realtà proveniente da Teos in Asia minore, quello che gli antichi chiamavano Luculleo. Le pareti ospitano due livelli sovrapposto di arcosolii per inumazioni, visto che in quest’epoca il rito incineratorio era caduto in disuso. Il loculo superiore della parete occidentale era decorato con un rilievo a racemi vegetali in stucco di grande qualità. Le pareti sono bianche per dare maggior risalto alle scene mitologiche affrescate a decorazione degli arcosolii. Nei tre del registro inferiore sono raffigurate scene di divinità marine, sopra i quali pendono strisce rosse, una stilizzazione che allude a ghirlande o nastri. Più in particolare l’arcosolio settentrionale è dedicato al trionfo di Venere, che risalta nella sua nudità sullo sfondo scuro di un panneggio sostenuto ai lati da un centauro marino e da un tritone. A sinistra un piccolo erote cavalca un delfino tra le onde, mentre a destra il pendant è perduto. L’arcosolio orientale ha una conservazione peggiore: a sinistra si intuisce un erote accompagnato da due delfini,
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segue un ippocampo cavalcato da un secondo erote, al centro si indovina una nereide dal manto rosso a cavallo di un centauro marino, mentre il gruppo all’estremità destra è ormai indecifrabile. La pittura meglio conservata è quella dell’arcosolio occidentale: su un essere marino non meglio identificabile, dal corpo avvolto a spire, siede un erote dalle ali azzurre aprendo la scena a sinistra, segue un ippocampo realizzato con tratto veloce condotto da un centauro marino, che si volge verso il centro della composizione. Regge un bastone pastorale e, alla sua sinistra, svolazza un mantello azzurro. Il suo corpo si tende in due spire attorcigliate su cui si appoggia semisdraiata una nereide dal vivace manto rosso, che le lascia scoperto il corpo dalla cintola in su. L’incarnato di colore chiaro spicca sul colore della veste, sul tono verdastro dell’ippocampo e sul blu delle onde. A destra restano solo tracce di un ultimo ippocampo cavalcato da un erote. Incontriamo una maggiore elaborazione sugli arcosolii del registro superiore, incorniciati da ghirlande di fiori e frutta su cui si posano volatili. Le differenze nei frutti alludono alle diverse stagioni dell’anno: dalla primavera all’autunno. Alle estremità delle ghirlande erano sileni e, al centro, una maschera di Pan – parte del ben collaudato repertorio dionisiaco – in genere purtroppo malamente conservate. Questo repertorio è coerente con il tema delle scene principali all’interno degli arcosolii. La pittura in migliore stato è quella della parete settentrionale, che raffigura una scena abbastanza complessa: il ritrovamento di Arianna a Nasso da parte di Dioniso. A sinistra l’eroina cretese giace con il braccio sinistro alzato e piegato dietro il capo, nel gesto caratteristico del sonno secondo le tradizioni iconografiche antiche. Il busto nudo risalta sul manto rosso, mentre la veste – dalla cinta in su – è di un giallo carico. Un lembo del mantello viene sollevato da un satiro del corteggio del dio, che la scopre ammirato sia nel senso proprio sia metaforico del termine. Il personaggio si volge verso Dioniso per richiamare la sua attenzione e il dio avanza appoggiandosi a un satirello. È vestito di un ampio manto, regge un tirso con la sinistra, mentre tende la destra verso la fanciulla addormentata in un dialogo silenzioso. Come contorno si riconoscono ancora una menade all’estrema sinistra. Al di sopra della figura di Arianna, sullo sfondo, un satiro emerge seminascosto da una roccia; all’estrema destra infine, dietro al Dioniso, è ancora una coppia formata da un sileno barbato e da una menade. Sotto questo affresco, al centro del loculo, era un emblema – un riquadro di mosaico finissimo – purtroppo quasi completamente perduto. Si distinguono solo uno sfondo costituito da un velario appeso a un colonnato, che deve indicare l’interno di un palazzo in cui si svolge una scena, forse mutuata dal repertorio tragico. Nell’arcosolio orientale assistiamo invece all’incontro tra Marte e Rea Silvia. I colori sono assai evanidi, ma si
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23. Sepolcro C, arcosolio inferiore settentrionale, trionfo di Venere.
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24. Sepolcro C arcosolio inferiore occidentale, Nereidi e centauri marini.
25. Sepolcro C arcosolio superiore settentrionale, Dioniso e Arianna.
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LA NECROPOLI SOTTO LA BASILICA E LA TOMBA DI SAN PIETRO
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distinguono almeno i contorni delle figure. La vestale, che dal dio concepirà i gemelli fondatori di Roma, dorme secondo uno schema invertito ma analogo a quello di Arianna. Accanto a lei, all’estremità destra del campo figurato, è un personaggio maschile che deve rappresentare il Sonno. Di fronte a Rea, al centro della composizione, è il dio guerriero che osserva la donna: indossa l’elmo ed è armato di spada, lancia e scudo, mentre la parte inferiore del corpo è avvolta dal manto scarlatto, segno dell’autorità militare, il paludamentum. Davanti a lui un piccolo erote attira la sua attenzione su Rea. Nella metà di destra si distingue una figura femminile velata, che siede con la mano portata al mento nel tipico gesto di chi osserva preoccupato: va probabilmente interpretata come la dea Vesta. Due piccole figure appena leggibili di pastori la separano dal dio Marte. L’ultima scena, nell’arcosolio orientale, è la più compromessa. Si tratta di una scena di ambito dionisiaco, forse relativa all’infanzia del dio. A cominciare da sinistra si distingue una figura femminile che alza l’avambraccio destro, forse in segno di stupore, seguita da un satiro che sostiene un bambino con il braccio sinistro. Più a destra è una seconda figura femminile in posizione simile alla prima, che guarda un cigno ai suoi piedi. L’affianca una coppia formata da una figura femminile panneggiata e un satiro. Chiude la scena una donna che si inchina offrendo un cesto di fiori. Il programma decorativo è chiaramente differenziato: nella parte inferiore sono raffigurati soggetti marini, assai diffusi nei sarcofagi del periodo, mentre gli arcosolii superiori sono riservati a storie di amori difficili in cui però la divinità si unisce all’essere umano, una sorta di riflessione figurata che – mediante le categorie della mitologia ereditata dalla tradizione – cerca di inquadrare la vicenda umana e comprendere la sua fine inevitabile in un disegno più ampio, che collega l’umano e il divino e che cerca di rendere sopportabile il dolore di chi resta, dando al tempo stesso spazio alla speranza per i defunti. Una datazione precisa del sepolcro, in mancanza di bolli o di altri indizi sicuri, è difficile poiché si deve basare solo sulla valutazione dello stile delle pitture, che in quest’epoca manca di punti di riferimento sicuramente datati. Le figure sono allungate e trattate con qualche pretesa di monumentalità, le larghe ombreggiature accompagnano i corpi ma senza conferire loro una vera profondità e volumetria: questi tratti possono ricordare, oltre alle pitture del vicino sepolcro F, il ratto di Proserpina dal colomba-
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rio dei Caecilii di Ostia45, o meglio la scena dei Campi Elisi dell’ipogeo degli Ottavii, leggermente più tarda46, nonché alcuni affreschi meno noti dalla Domus Transitoria del Palatino47. Si può pensare quindi a una datazione severiana, all’inizio del III secolo48. Sepolcro C, «di Lucius Tullius Zethus» Del sepolcro C, costruito in opera listata subito dopo il B ma ancora in età adrianea49, conosciamo il nome del proprietario, che figura nell’iscrizione al di sopra della porta d’ingresso50: Lucius Tullius Zetus lo costruì per la sposa Tullia Athenais, per i figli Tullia Secunda e Tullius Athenaeus, nonché per i loro liberti e liberte. L’iscrizione si preoccupa di indicare anche le dimensioni della pianta dell’edificio: 12 piedi romani per 18, che corrispondono a quelle tutt’oggi constatabili (m 3,58 x 5,40). Era questa una precauzione spesso utilizzata per evitare abusi e occupazioni illegali. L’iscrizione è coronata da un fregio elegantemente giocato sulla differenza di colore del cotto dei mattoni, mentre ai lati è inquadrata da due finestrine. L’interno è abbastanza semplice: coperto con volta a botte, ha le pareti intonacate di bianco, il pavimento decorato da un mosaico bordato da una greca e campito con girali vegetali. Per la maggior parte la decorazione è a tessere bianche e nere, ma alcuni tocchi di tessere colorate ne ravvivano i dettagli; al centro doveva essere un riquadro più pregiato – un emblema – purtroppo mancante. Sotto il mosaico devono trovarsi alcune incinerazioni, come si deduce dai fori per i tubuli, che servivano a immettervi le libagioni durante le festività dei defunti, per permettere anche a questi di partecipare alla festa. Le pareti laterali accoglievano arcosolii nella parte inferiore e nicchie per incinerazioni in quelle superiore, mentre quella di fondo era occupata solo da incinerazioni. Le nicchie centrali erano sempre quelle principali, a doppia altezza con catino superiore decorato a conchiglia, e dovevano essere affiancate in origine da colonnine in stucco, come nel sepolcro G. Al di sopra correva un coronamento a timpani e lunette semicircolari alternati. Sulla parete di fondo, quella più onorevole, furono addossate in un secondo tempo a non molta distanza di tempo dalla costruzione due are-cinerario: quella di destra accolse le ceneri di Tullius Athenaeus51, quella di sinistra, invece, presenta un’iscrizione alquanto inusuale. Inizialmente, infatti, vi fu inciso un testo52, che dichiara che nell’urna è deposta Tullia Secunda, la figlia del titola-
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re del sepolcro. In un secondo momento, però, vennero aggiunte tre righe che asseriscono che la madre cedette il cinerario a Passulena Secundina, verosimilmente una parente che non faceva parte del nucleo familiare ristretto in quanto portava un gentilizio differente. Tullia Secunda in effetti era andata sposa a Marcus Caetennius Antigonus e venne sepolta assieme a lui nel sepolcro F53, che pure apparteneva a un ramo della famiglia, come si vedrà fra poco. Dunque il primo testo era per lo meno prematuro. Come specificano le ultime righe, allora, la madre destinò a Secundina il cinerario ormai destinato a rimanere vuoto, poiché la figlia Secunda chiaramente avrebbe seguito il marito in un altro sepolcro. Benché la madre non sia nominata è evidente che deve trattarsi di Athenais e che ciò avvenne quando il marito Zethus era già defunto. Quest’ultimo nel frattempo doveva avere trovato posto nell’urna al centro della parete, nella posizione più importante, la cui iscrizione è purtroppo perduta. È possibile che le righe relative a Tullia Secunda nel frattempo fossero state stuccate per mascherarle, non corrispondendo alla realtà. Che un sepolcro riservato a un membro della famiglia riceva una diversa destinazione non stupisce – un paio di casi sono noti nel sepolcro H «dei Valerii» – più difficilmente spiegabile è invece il fatto che il nome della persona fosse già stato inciso sull’urna dichiarandone implicitamente l’avvenuta morte, quando era cura costante di coloro che si preparavano il sepolcro segnalare di avervi provveduto in vita, in modo da non permettere che i riti funerari andassero destinati a persone che, non essendo defunte, non ne avevano diritto54. La decorazione originale non è ben conservata e in parte è coperta da un ridipintura di seconda fase. In basso doveva correre una zoccolatura a finto marmo. Al di sopra, sulla parete est, sono evanide tracce di una scena di caccia, mentre sulla parete di fondo, sopra al cinerario di sinistra, è l’immagine di un auriga della squadra degli azzurri – la factio Veneta, una delle due principali che si contendevano le vittorie nelle corse delle bighe. Il corridore ha la destra alzata a reggere una corona, mentre la sinistra doveva impugnare un ramo di palma entrambi simboli di vittoria. Davanti a lui si intuisce il tiro a quattro cavalli della sua quadriga. Sembra probabile che la scena circense dovesse estendersi su tutta la parete: sulla destra si intuiscono tracce evanide di una quadriga simmetrica, forse da attribuire a un auriga dei verdi – ossia della factio Prasina, principale rivale degli azzurri nelle corse circensi – mentre al centro è una palma, simbolo di
vittoria, da cui pendono due festoni simmetrici. Al di sotto si riconosce l’originaria decorazione dello zoccolo della parete – coperto dai cinerari che qui sono stati addossati in un secondo tempo – e che era costituita da un cespo di verzura schizzata in maniera frettolosa. Nella muratura che si sovrappone a questo zoccolo è ancora chiara al centro l’impronta di un vaso baccellato probabilmente in marmo, che doveva servire da cinerario. Questa scena circense è una delle prime occorrenze, se non la prima, di questo soggetto in ambito funerario e pone diversi interrogativi. Da un lato si potrebbe infatti leggere la scena di caccia sulla parete orientale come una venatio – cioè uno spettacolo di caccia alle belve offerto pure nel circo – e dunque ipotizzare che Zethus, verosimilmente un liberto, avesse funzioni organizzative nell’ambito di questi spettacoli. In questo caso però non necessariamente andrebbe ipotizzato un legame con il vicino circo di Caligola e Nerone perché, oltre alla sua condizione privata, in età adrianea esso sembra fosse declinante, forse anche per le maggiori attenzioni che l’imperatore dedicava agli horti di Domizia. Resta una seconda possibilità di lettura e cioè che la caccia e i giochi circensi vadano letti in chiave privata, piuttosto che come allusione professionale, che si debbano cioè vedere la caccia come simbolo di virtù e le corse di quadrighe come simbolo di vittoria e metafora della vita, significato che nei sarcofagi trova numerosi paralleli con alcune attestazioni precoci già in età adrianea. Tornando alla parete nord, le pitture delle nicchie superiori sono quasi completamente perdute, tranne quella della nicchia inferiore destra dove si riconosce ancora un pavone, simbolo di Giunone, presentato frontalmente con uno scettro appoggiato a una colonna alla sua sinistra. Le altre nicchie presentano per lo più scene campestri o decorazioni vegetali, ma nelle nicchie più settentrionali dell’ordine inferiore le pareti laterali verso il fondo, quelle immediatamente visibili dal visitatore che si affaccia alla tomba, mostrano tracce di nature morte con attributi divini: a destra un elmo dorato con una lancia e uno scudo allude a Minerva, o eventualmente a Marte, a sinistra una capra di montagna con accanto uno scettro avvolto in bende svolazzanti sono attributi di Dioniso. Il soffitto, solo parzialmente conservato, doveva essere quello più vivacemente colorato. Era infatti decorato a cassettoni delimitati da cornici di stucco, con il fondo colorato di rosso porpora o di un nero-bluastro su cui spiccano vasi e motivi vegetali.
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26. Sepolcro C, parete settentrionale, auriga della squadra degli azzurri.
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27. Sepolcro C, «di Lucius Tullius Zethus».
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Sepolcro D Ignoriamo il nome della famiglia titolare del sepolcro D, costruito appena dopo il C55. L’iscrizione che doveva trovarsi accanto alla porta d’ingresso non si è conservata in quanto fu smurata dagli operai costantiniani per le opere di consolidamento in maniera simile a quanto già si è visto nel sepolcro B. Anche il D, sebbene più semplice, presentava una simile articolazione con una corte scoperta d’ingresso recintata da un muro alto poco meno di tre metri, mentre solo la camera più interna era coperta a volta. Dunque, per il cantiere della basilica petrina, la porta venne privata degli stipiti di travertino e murata, sopraelevando tutto fino al livello del nuovo piano di campagna e per di più inserendo nello spessore della porta una serie di corpi d’anfora incastrati l’uno nell’altro a formare una tubazione – ben visibile attraverso la breccia riaperta dagli scavi archeologici – che serviva a smaltire le acque piovane dal piano superiore. L’interno non ha una ricca decorazione e anzi parte dell’intonaco è caduta, rendendo visibile il paramento interno in opera mista di reticolato in tufo con ricorsi e ammorsature di mattoni, una tecnica assai caratteristica per l’età di Traiano e Adriano. Era stato progettato come colombario, cioè per accogliere unicamente incinerazioni, e solo in un momento successivo, all’epoca di Settimio Severo, una deposizione venne ad aggiungersi nell’angolo sud-occidentale del cortiletto d’ingresso, coperta di tre tegole bollate56. Le pareti hanno una singola fila di nicchie: si distinguono per dimensione le due al centro delle pareti laterali del cortiletto e quella al centro della parete di fondo, l’unica a pianta semicircolare. Il pavimento non esisteva, o meglio era probabilmente costituito di tavole di legno. Sepolcro F, «dei Marcii» Dirimpetto ai sepolcri C e D è il muro di fondo del sepolcro F, costruito – come gli altri della fila a valle – in un momento più avanzato del periodo d’uso della necropoli, dopo l’abbandono del circo. Il suo ingresso è rivolto a sud verso la viabilità principale, come tutti gli altri sepolcri, ma si apre a una quota di qualche gradino inferiore a quella del viottolo che lo separa da C e D. Appare costruito con paramento laterizio all’esterno – nobilitato da paraste angolari corinzie – e in opera listata all’interno, ma completamente decorato con affreschi e stucchi. La volta, distrutta al momento dell’interro, era a crociera.
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28. Sepolcro F, «dei Marcii», mosaico con la morte di Penteo.
Il sepolcro ospitava essenzialmente inumazioni poiché le uniche nicchie per incinerazioni sono quella sulla parete d’ingresso, ai lati della porta. Restano visibili solo le due nicchie sovrapposte sul lato occidentale della porta: le altre due simmetriche sul lato est sono state distrutte con l’angolo del sepolcro, parte della facciata e della porta dalle fondazioni rinascimentali del colonnato destro della navata principale della basilica di San Pietro57. Ai lati della porta, sulla facciata, dovevano essere due emblemi musivi a colori, sorta di quadretti di mosaico fine realizzati direttamente su un bipedale, il caratteristico mattone romano quadrato così chiamato dalla sua misura di due piedi per lato. Resta solo il mosaico di sinistra poiché, anche in questo caso, il simmetrico esemplare a destra della porta è sparito a causa delle fondazioni rinascimentali. Quello sopravvissuto è conservato in maniera parziale, ma è opera di notevole finezza per l’epoca della sua realizzazione: raffigura la morte di Penteo58, soggetto della nota tragedia di Euripide, Le Baccanti. Il re di Tebe, che si rifiutava di ammettere il culto di Dioniso nella sua città, viene ucciso e fatto a pezzi dalle Baccanti, donne invasate dal sacro furore del dio, durante un rito sul monte Citerone. Si vede solo il pino su cui Penteo si è rifugiato assediato dalle Menadi armate di lance e spade e da una tigre. All’interno il pavimento è costituito da un magnifico opus sectile geometrico di mattonelle di marmi pregiati, dello stesso tipo di quello già descritto per il sepolcro C. Le pareti sono occupate da due file di arcosolii sovrapposti, in tutto quattro per parte sui lati e due sul fondo. Le sepolture della fila superiore sono inserite in una sorta di cassa in muratura, la cui parete esterna è decorata a stucco a imitazione di una fronte di sarcofago strigilato, la tipica decorazione a baccelli cavi e ondulati simmetricamente disposti ai lati di una tabella rettangolare centrale, destinata forse per iscrivervi i nomi dei defunti. La conservazione migliore si ha sul lato orientale a sinistra di chi entra. Le pareti – e quel poco che resta della volta – sono coperte di un intonaco di colore rosso vivo, che serve di base alla decorazione dipinta e che si stacca in maniera cromaticamente netta rispetto al pavimento chiaro marmoreo e al fondo degli arcosolii della fila inferiore. Negli spazi tra di essi si distinguevano tracce di cesti di frutta e – negli angoli – di figure umane evanide con le braccia sollevate e un’aureola, una sorta di telamoni. Sul lato occidentale al di sopra dell’arcosolio resta anche traccia del pavone sinistro di una coppia simmetrica, simbolo di immortalità,
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davanti al quale si indovina una colonna gialla con un’asta appoggiata, che doveva sostenere un cesto di frutti. All’interno degli arcosolii inferiori, lo sfondo è azzurro chiaro e le scene sono tutte di carattere acquatico, come del resto abbiamo già visto nel sepolcro C. In quello settentrionale, nascosto dall’imponente sarcofago centrale, è dipinto un corteggio marino suddiviso su due registri sovrapposti, nel tentativo di suggerire una certa profondità prospettica. Negli arcosolii laterali, tutti con scene ambientate sulle rive del Nilo, fiume paradisiaco per eccellenza, sono ancora leggibili le pitture dei due verso il fondo. Vi si riconoscono dei pesci e diversi uccelli acquatici in mezzo alle canne palustri: soprattutto anatre, ma anche fenicotteri, cigni e forse un cormorano. Gli arcosolii del registro superiore, invece, sono incorniciati da ricche ghirlande di fiori e frutti sostenuti da eroti sospesi nell’aria. Uccelli si poggiano simmetricamente nelle lunette mentre nello spazio tra un arcosolio e l’altro due Sileni barbati con il nimbo – una sorta di aureola utilizzata soprattutto durante la tarda antichità per le figure divine e a volte per quelle imperiali59 – emergono da calici di acanto. Nella destra reggono ciascuno un vaso per il vino, il kantharos, e un timpano o un tirso. Nelle lunette – queste a fondo rosso a differenza delle inferiori – erano dipinte scene mitologiche, di cui sono riconoscibili ancora solo quelle a sinistra dell’ingresso. Si trattava delle scene più importanti di tutta la decorazione, che può essere ancora ricostruita grazie alle foto di scavo, quando la leggibilità non era ancora così compromessa dalle stratificazioni dei sali dell’umidità di risalita. Sul lato principale, quello nord, era raffigurato Dioniso che ritrova Arianna addormentata, soggetto già incontrato nel sepolcro C: a destra era la principessa cretese semisdraiata, mentre nella metà opposta si stagliava il dio in posa quasi frontale; nella lunetta dell’arcosolio sinistro della parete orientale appariva il tema parallelo romano dell’incontro tra Rea Silvia e il dio Marte, ancora una volta raffigurato secondo lo schema incontrato già nel sepolcro C. Sulla lunetta destra della stessa parete era rappresentato invece un tema tipico dell’oltretomba: Eracle – a sinistra – presenta al re Admeto la moglie di questi, Alcesti, avvolta nel chitone e nel mantello. A seguito di un oracolo che decretava la morte del re, si era offerta in sostituzione del marito, ma Eracle era disceso agli inferi e l’aveva strappata al regno dei morti, riportandola nuovamente sulla terra. Sul lato occidentale, il meglio conservato, si trovano due miti insoliti: nella lunetta di sinistra Hermes è riconosci-
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29. Sepolcro F, «dei Marcii», arcosolio superiore ovest, acquerello ricostruttivo di A. Levi (1945).
30-32. Sepolcro F, «dei Marcii», arcosolio superiore ovest, foto storiche della decorazione pittorica.
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bile dal petaso – il cappello alato – e dal kerykeion – l’asta con i serpenti incrociati –, davanti a lui sono tre figure femminili, forse le tre figlie di Aglauro e Cecrope, re di Atene: Erse, Aglauro e Pandroso. Alle sue spalle siede invece una figura ammantata. Al centro, tra due delle figlie, è un oggetto di sagoma cilindrica non meglio leggibile. Nella lunetta di destra invece si deve riconoscere al centro Leda, raffigurata di tre quarti di spalle mentre si volge quasi completamente nuda, dietro di lei una serva, alle estremità sono probabilmente due personificazioni di luoghi: una ninfa giacente a sinistra e un giovane seminudo a destra. Al centro del sepolcro, infine, troneggia il grande sarcofago che Quintus Marcius Hermes aveva fatto realizzare da vivo per sé e per la moglie Marcia Thrasonis60. È questa sepoltura imponente, che ha dato il nome all’intero sepolcro. Il titolare è raffigurato sulla fronte del coperchio a sinistra, con i capelli ricci, la toga e in mano un volume arrotolato, allusione alle sue competenze amministrative, mentre due eroti alati sorreggono alle sue spalle un velo che – nel linguaggio dell’epoca – intendeva esaltarne la figura. Nella metà opposta due vittorie alate compiono lo stesso servizio per la moglie, che regge nella sinistra un pomo o una melagrana – segno di vita e rinascita – mentre il gesto della destra va letto forse come quello dei tres digiti porrecti, le tre dita sollevate61 in segno di allocuzione. La cassa principale è un superbo esempio della produzione dell’avanzata età severiana: una nicchia centrale, inquadrata da due colonne tortili che reggono un arco, incornicia la figura di un giovane Dioniso ebbro, che si appoggia con la sinistra a un tirso e con la destra regge una tazza a due manici per vino, un kantharos, mentre un satirello gli sta al fianco per sostenerlo. Ai lati sono due pannelli strigilati – la decorazione a baccellature ondulate che abbiamo già visto replicata in stucco sugli arcosolii superiori – mentre alle estremità una menade e un satiro suonano e danzano completamente rapiti dall’estasi del dio. Colpisce la politura perfetta e luminosa della superficie marmorea, che gli conferisce una perfezione un poco manierata. La datazione del sepolcro non può approfittare di elementi sicuri e l’inquadramento stilistico delle pitture in questo periodo è ancora privo di punti fermi. I migliori paralleli sia tematici sia stilistici sono già stati notati con il sepolcro C e di conseguenza dobbiamo considerarlo pressappoco contemporaneo datandolo tra gli ultimi anni del II secolo d.C. e gli inizi del III.
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Sepolcro E, «degli Aelii» Nonostante i danni dovuti ai lavori del cantiere costantiniano, la facciata del sepolcro E appare ancora particolarmente curata62. Gli stipiti e l’architrave della porta sono stati infatti asportati e così, purtroppo, l’iscrizione che era inserita al di sopra e la finestrina di destra. Tuttavia il paramento in laterizio è un ottimo esempio della finezza che poteva essere raggiunta in questi casi, mentre le edicole che incorniciavano l’iscrizione perduta e le due finestrine ai lati sono eseguite con gusto, scolpendo il laterizio stesso per dar forma ai capitelli corinzi e alle cornici, giocando al tempo stesso sulle differenze cromatiche dovute alla cottura dei mattoni e formando – nelle lesene ai lati dell’iscrizione – un disegno a doppia treccia di semplice, ma sicuro effetto. L’interno era pavimentato con un mosaico bianco e nero dal disegno piuttosto semplice a triangoli, quadrati ed elementi lanceolati, ma si riconoscono anche delle svastiche, simbolo solare. Le pareti, come usuale, erano divise tra gli arcosolii, destinati a coprire le fosse per le inumazioni nella fascia inferiore, e le nicchie per le olle cinerarie nella parte superiore. Le nicchie principali erano inquadrate da colonnine di stucco scanalate, conservate solo in parte. Ancora più sopra, l’ultima fascia decorativa sotto la volta è costituita da un coronamento di timpani triangolari alternati ad archetti. La simmetria tra le pareti non è tuttavia completa a causa di una scala a due rampe, che occupa parte della parete destra, e che conduceva sul terrazzo superiore del sepolcro, dove verosimilmente si tenevano i banchetti funebri. Nell’arcosolio della parete di fondo è l’iscrizione di Titus Aelius Tyrannus63, un liberto imperiale che ebbe un incarico di segretario – a commentariis – nell’amministrazione della Provincia Belgica. La sua deposizione doveva essere la più importante del sepolcro e gli venne dedicata dalla moglie Aelia Andria e dal suocero Aelius Valerianus, verosimilmente proveniente anch’egli dalla familia Caesaris, cioè dal corpo dei servi dell’imperatore. La decorazione delle pareti è prevalentemente su fondo bianco: nella parte inferiore gli arcosolii sono decorati con finto marmo, sul registro superiore invece le nicchie principali hanno un bel fondo rosso, mentre quelle minori rettangolari sono inquadrate da linee rosse e violette e presentano sul fondo un repertorio di immagini distribuite in modo da corrispondersi simmetricamente: coppe su alto piede cilindrico, ghirlande di frutta, pigne – simbolo di immortalità e rinascita – fiaccole, corone di fiori, reti-
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33. Sepolcro F, «dei Marcii», sarcofago di Quintus Marcius Hermes.
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34. Sepolcro E, interno.
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35. Sepolcro E, facciata.
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36. Soffitto a cassettoni del sepolcro E.
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37. Sepolcro E, oinochoe in onice.
celle piene di petali appese assieme a una coppia di flauti, animali (cervi e pappagalli)64. Inoltre la fascia al di sopra delle nicchie a contatto con la volta è decorata sulla parete ovest con un canestro di fiori ai lati del quale è disposta simmetricamente una coppia di pavoni – da intendere in questo caso come allusioni alle stagioni – mentre sulla parete di fondo, ai lati del catino della nicchia decorato a conchiglia, sono crateri giallo oro – vasi da simposio – con accanto un grappolo di uva a sottolinearne il significato. Del soffitto – originariamente decorato a cassettoni a fondo scuro – resta solo qualche sezione negli angoli, poiché fu sfondato dagli operai della basilica costantiniana per poter interrare il sepolcro durante i lavori di fondazione. Vanno ricordati infine alcuni vasi di alabastro di altissima qualità rinvenuti nelle nicchie: in particolare una brocca di onice (oinochoe), con una delicata decorazione alla base dell’ansa a testa di Medusa, e un cratere dello stesso materiale, entrambi ancora sigillati in quanto furono utilizzati come cinerari. Si tratta di una pratica abbastanza diffusa, ricordata in maniera allusiva anche nelle fonti: si
pensi a Papinio Stazio che canta «l’onice lucente che chiuse le tue ossa nel suo grembo»65. Mentre questi vasi devono risalire ancora a età adrianea, una terza urna, in marmo bianco e di forma più semplice, è ancora murata in una delle nicchie rettangolari della parete occidentale e contiene una moneta di Iulia Mamea (madre dell’imperatore Alessandro Severo, 222-235). La datazione del sepolcro si basa sullo stile e sulla sequenza delle tombe: il sepolcro «degli Aelii» fu infatti costruito dopo il D, ma prima di F, dunque dobbiamo attribuirlo agli ultimi anni dell’età di Adriano (117-138) o ai primissimi di Antonino Pio (138-161). Sepolcro F, «dei Tullii e dei Caetennii maggiori» Adiacente al sepolcro E e ad esso immediatamente successivo fu il primo a emergere nel gennaio del 1941, quando iniziarono i lavori per abbassare il pavimento delle grotte vaticane66. Le sue dimensioni sono ragguardevoli, seconde solo a quelle del sepolcro «dei Valerii», ma la fronte presenta una curiosa asimmetria. La porta infatti è spostata a destra rispetto all’asse centrale, mentre al di sopra la cornice dell’iscrizione – purtroppo perduta – e le adiacenti finestrelle sono perfettamente centrate. Ciò è dovuto alla scala interna che incomincia subito alla destra dell’ingresso e si snoda su due rampe girando anche lungo la parete orientale per raggiungere il terrazzo superiore, utilizzato verosimilmente per i banchetti funebri, come d’altronde avviene anche nei sepolcri E e H. Al di sopra della porta – che conserva gli stipiti e il grande architrave di travertino – la cornice dell’iscrizione principale e delle adiacenti le finestrelle è decorata superiormente da un coronamento di volute vegetali e palmette realizzato in cotto di colore più chiaro del paramento murario. Ai lati si trovano due ulteriori pannelli decorativi: a sinistra una tavola di laterizio, scolpita a bassissimo rilievo, raffigura una pernice su uno sfondo campestre; a destra era invece un edificio disegnato giocando – anche in questo caso – sui toni più chiari e più scuri del laterizio, ma purtroppo alquanto danneggiato. Si tratta di una architettura complessa e non facilmente inquadrabile nelle tipologie usuali: nella metà inferiore si riconosce un podio con una grande scalinata, che sale tra due fiancate in prospettiva, al di sopra di ciascuna delle quali è un colonnato, sul piano superiore – ma in primo piano – dovevano elevarsi due colonne a reggere la copertura che suggerisce una volta cassettonata, forse a pianta centrale. Al centro si inseriva probabilmente un’apertura per dare luce al pianerottolo della scala interna. Verosimilmente l’asportazione dell’iscrizione, delle mostre marmoree delle finestrine e i danni al pannello a soggetto architettonico sono dovuti ai lavori costantiniani, durante i quali la necropoli fu sepolta per realizzare la terrazza di base della basilica vaticana.
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38. Sepolcro F, facciata con dettaglio del pannello in laterizio con pernice. 39. Facciata del sepolcro F.
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All’interno il pavimento originario – solo in parte conservato – era costituito da un mosaico bianco e nero con motivi vegetali, mentre lungo i lati maggiori erano incassate una serie di lastrine di marmo bianco con un foro: si trattava dell’imbocco dei tubuli che immettevano nelle incinerazioni sottostanti al pavimento e che servivano – durante i riti annuali dei defunti – a versare le offerte liquide. Le pareti erano divise nella maniera usuale tra arcosolii, nella parte inferiore, per accogliere le inumazioni e nicchie, in quella superiore, per le incinerazioni. L’articolazione di questa parte, però, era scandita in maniera particolarmente netta e decorata riccamente e con colori assai vivaci, abbandonando dunque il fondo chiaro utilizzato in altri sepolcri. I lati lunghi ospitavano ciascuno due nicchie semicircolari a doppia altezza con catino decorato a conchiglia, incorniciate da colonnine in stucco – non più conservate – e coronate da una trabeazione su cui sporgeva un timpano. Tra di loro erano le nicchie minori rettangolari poste su doppio livello. La parete di fondo aveva una sola nicchia maggiore, chiaramente quella più importante dell’edificio, coronata superiormente da un timpano e inserita in un arcone absidato con catino affrescato, che amplificava l’enfasi architettonica, reduplicandone l’effetto su scala maggiore e attirando immediatamente l’attenzione del visitatore. La scena affrescata nel catino absidale è stata restaurata di recente, recuperando alla leggibilità l’immagine, precedentemente molto offuscata. Manca purtroppo della parte superiore sinistra, ma quanto resta è sufficiente a inquadrare il soggetto: è rappresentata la nascita della dea Venere, che sorge dal mare assisa su un manto violetto (il busto è perduto) ed è inquadrata tra due tritoni che emergono a mezzo busto dalle acque (quello di sinistra è quasi completamente perduto). L’effetto doveva avere una certa grandiosità, anche per la collocazione, che la valorizzava in maniera particolare, e la scena è probabilmente la più antica che ci sia giunta di questa iconografia, più tardi spesso utilizzata nei rilievi dei sarcofagi67. Il lato occidentale, invece, al di sopra delle nicchie ha una scena bucolica al centro della quale spiccano un ariete e un toro tra bassi alberi e arbusti. La scena probabilmente continuava sulla parete di ingresso, la meno riccamente decorata, dove si riconoscono ancora una pernice e degli alberi con altri uccelli. La volta fu demolita dagli operai di Costantino, ma si conserva quanto basta a comprenderne il disegno complessivo: una crociera decorata a cassettoni.
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Gli arcosolii laterali hanno il fondo bianco decorato con fiori e uccelli, mentre esternamente la parete che li inquadra ha un tono purpureo carico, su cui si stagliano candelabri e delicati cigni bianchi che reggono esili ghirlande, disposte simmetricamente. Questa decorazione, però, è mascherata sui lati occidentale e di fondo in quanto, per ricavare nuove sepolture, vennero costruiti banconi in muratura lungo le pareti davanti agli arcosolii. La sepoltura più tarda tra queste è sul lato ovest e ha restituito bolli laterizi dell’inizio de IV secolo68, di poco anteriori al momento in cui la necropoli venne sepolta sotto la basilica costantiniana. Al centro della camera troviamo invece un documento risalente alla prima generazione, quella dei fondatori: qui troneggia infatti l’ara funeraria dedicata a Marcus Caetennius Antigonus e alla moglie Tullia Secunda69. Quest’ultima era la figlia di Lucius Tullius Zethus, che avevamo già incontrato trattando il sepolcro C, dove – come si è detto – si conserva un’ara-cinerario originariamente destinata a lei e in seguito ceduta a una parente70. Il sepolcro F, dunque, apparteneva in origine ai Caetennii e infatti si conservano diverse iscrizioni relative a membri di questa famiglia: nella nicchia sinistra della parete di fondo è l’urnetta di
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40. Interno del sepolcro F.
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41. Nascita di Venere, affresco del catino absidale della parete nord del sepolcro F.
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42. Scena bucolica, parete occidentale del sepolcro F.
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43. Iscrizione sepolcrale cristiana di Aemilia Gorgonia, sepolcro F.
Marcus Caetennius Tertius71, un liberto della famiglia; in una nicchia della parete est è l’urnetta di Marcus Caetennius Ganymedis72, un’altro liberto; nella nicchia di destra della parete nord è l’urnetta di un terzo liberto, Marcus Caetennius Chryseros73. Evidentemente, attraverso il matrimonio di Tullia Secunda, anche i Tullii, benché titolari già del sepolcro C, ottennero il diritto di sepoltura nel sepolcro F. Nel bancone addossato al lato di fondo, infatti, in posizione centrale, è l’iscrizione che forse chiudeva il loculo retrostante e che ricorda la sepoltura del diciannovenne Lucius Tullius Hermadion74, sepolto dal padre omonimo. Questi aveva riservato a se stesso un’urnetta75 con tabula ansata retta da due eroti, che si trova nella stessa tomba, nella nicchia centrale della parete di fondo. È interessante osservare il passaggio generazionale e rituale: siamo verosimilmente nel III secolo e il padre ha scelto per sé il vecchio rito dell’incinerazione mentre per il figlio aveva preferito l’inumazione, che ormai si era affermato come rito prevalente. Appaiono infine ulteriori nomi estranei alle due famiglie e di cui non riusciamo a ricostruire i rapporti parentelari con gli altri defunti. Nella stessa sepoltura del giovane Hermadion venne aggiunta una seconda deposizione la cui iscrizione – in un latino alquanto scorretto – fu incisa nello spazio rimasto libero sulla destra della lastra originaria: si tratta del venticinquenne Siricius, sepolto dalla moglie76 e probabilmente morto tra la fine del III e l’inizio del IV secolo. Nello stesso bancone, all’estremità occidentale, è la lastra che chiude un sarcofago di terracotta e ricorda un bambino di sei anni, Marcus Aurelius Hieron, figlio omonimo di un militare di lunga ferma di Marco Aurelio77. Sulla parete di destra, invece, nell’arcosolio più settentrionale, è la lunga iscrizione con cui Aurelia Eutychiane dedica la deposizione del marito Aurelius Nemesius proclamando orgogliosamente le sue doti musicali e la sua funzione di magister chori orchistolpalae et pantomimorum, ossia di capo di un coro che accompagnava danze acrobatiche e pantomimi78. Infine vediamo apparire, probabilmente ai primi del IV secolo, perfino una sepoltura cristiana: una fossa scavata nel pavimento è coperta da una lastra con l’iscrizione di Aemilia Gorgonia79, sepolta a ventott’anni dal marito. Oltre alla terminologia (anima dulcis, dormit in pace), anche l’apparato figurativo fa identificare la giovane moglie come cristiana: sulla sinistra, infatti, si riconosce una donna in atto di attingere acqua da un pozzo, simbolo di vita eterna. Non si tratta però dell’episodio evange-
lico della Samaritana al pozzo – che pure avrà influenzato iconograficamente la scena – ma della stessa defunta, come specifica la didascalia soprastante: Anima dulcis / Gorgonia. Sotto al testo principale, infine, due colombe affrontate inquadrano una invocazione a caratteri più piccoli con l’ultimo saluto del marito, che parla in prima persona: «Feci per la moglie dolcissima». Dal punto di vista della cronologia, la costruzione del sepolcro è ben databile grazie a diversi bolli laterizi che risalgono al decennio 140-150 e anche il mutamento nell’iconografia e nella scelta dei colori dominanti degli affreschi può essere considerato rappresentativo dell’evoluzione stilistica che si avverte tra l’età di Adriano e quella di Antonino Pio. Sepolcro Z, «degli Egizi»80 Di fronte ai sepolcri E ed F, nella fila più a valle si trova una camera funeraria di particolare interesse per il suo programma figurativo, unico nel panorama romano. Essa sorge sul pendio originario della collina vaticana, a un livello inferiore rispetto allo stradello – l’iter che attraversa tutta la necropoli – ma gli volge le spalle aprendosi verso valle. La parete d’ingresso, tuttavia, non esiste più in quanto è stata troncata per edificare le fondazioni del colonnato meridionale della navata principale della basilica. È infatti attraverso un antico varco di cantiere in tali fondazioni che avviene oggi l’accesso dei visitatori alla tomba e all’intera necropoli. La struttura della tomba è piuttosto semplice anche perché – essendo stata costruita alla fine del II secolo, in un periodo cioè in cui l’inumazione era il rito prevalente – non ebbe bisogno di prevedere la fitta articolazione delle pareti in piccole nicchie, necessaria per accogliere le incinerazioni. Lungo ciascuna delle tre pareti81 sono due arcosolii che si raddoppiano con un ordine superiore destinato ad accogliere sarcofagi, come in forma semplificata si è visto già nei sepolcri C e F. La volta è a vela con un finestrino aperto sulla sommità di ogni parete, il pavimento era lastre di marmo, ma ne sopravvivono solo piccoli tratti sul lato settentrionale, che assomigliano allo schema decorativo del sepolcro F. L’unico aggetto rispetto alle pareti è un pilastrino tra i due arcosolii della parete di fondo, la cui funzione non è chiara. Le pareti sono coperte di un intonaco dal fondo uniforme rosso-arancio. Qui è una ulteriore evidente differenza rispetto alle pareti chiare di tradizione adrianea o a quelle dai forti contrasti che si osservano in età antonina
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(sepolcro F). La lettura di questi affreschi è enormemente migliorata dopo i recenti restauri e forse solo gli scavatori poterono osservare altrettanto bene gli affreschi. In ogni caso, per il fenomeno della risalita capillare dell’umidità e della sua successiva evaporazione, che depositava sulle superfici i sali formando un velo biancastro sempre più spesso, le immagini rimasero per decenni sagome difficilmente decifrabili. Ora si distingue una partizione della parete, suddivisa orizzontalmente da una fascia rossa che passa poco al di sopra della sommità degli arcosolii superiori. Una fascia chiara più sottile passa in alto, alla base della finestrella, mentre altre linee verticali inquadrano le figure principali. Al centro è una figura divina egizia che avanza di profilo verso sinistra, con il lungo scettro Uas nella destra mentre la sinistra stringe una croce lobata, l’Ankh simbolo della vita. Il torso è stretto in una sorta di corpetto blu con la decorazione rishi a squame, mentre un corto e attillato gonnellino dello stesso colore ha una decorazione a triangoli e rosette. La testa è facilmente riconoscibile come quella di Horus con il caratteristico becco e occhio di falco. Il capo è coronato dal disco solare. La figura sembra sorgere da un basso basamento, come se si trattasse di una statua. Al di sotto della fascia rossa è delineato un rettangolo: come una sorta di pilone o basamento. La figura è inquadrata in un largo rettangolo delimitato da una linea chiara con gli angoli superiori attraversati ciascuno da un semicerchio pendente. Ai lati altri due riquadri più stretti accolgono altre due figure: a sinistra – benché ridotto a una silhouette – si riconosce il bue Apis con il disco solare tra le corna rivolto verso Horus, a destra invece si indovina l’immagine forse di un volatile (forse un Ibis?) posto su un alto zoccolo. Alle estremità della parete, infine, sono due testine di Gorgone, del tutto normali per l’ambiente romano imperiale. Su quanto resta delle pareti laterali, la suddivisione dei campi è simile: a sinistra, sulla base delle foto di scavo, è stato letta una possibile sfinge, che però, per coerenza con il resto delle figurazioni, potrebbe essere forse interpretata come Anubis (?) nelle sembianze di sciacallo accovacciato; la figura di destra, invece, è chiaramente riconoscibile con il dio Thoth, in forma di babbuino anch’esso accovacciato, coronato da un disco solare tra le corna, rivolto verso l’ingresso perduto della tomba. Quanto alla datazione – nonostante la rarità dei confronti – dobbiamo porre la costruzione e decorazione della tomba nella prima età severiana, all’inizio del III secolo d.C., per ragioni di cronologia relativa – la tomba è ante-
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riore anche se di poco al sepolcro F– e di tipologia. Quel che ha colpito i primi commentatori è che l’iconografia dei personaggi principali, sia pure con qualche ingenuità e goffaggine, ripete immagini egizie che non appaiono filtrate attraverso una reinterpretazione ellenistico-romana. Questo aveva fatto ritenere che la famiglia committente avesse un reale e forte legame con l’Egitto e la sua cultura e che avesse dunque fornito dei modelli alla bottega che realizzò gli affreschi. Gli studi più recenti tendono invece a sfumare questa affermazione, poiché sono possibili alcuni confronti con pitture pompeiane82 o – in epoca tarda – con le tarsie marmoree della basilica di Giunio Basso83, che rendono meno rara questa iconografia. Si può parlare dunque di un interesse dei committenti per il mondo egizio ed eventualmente per forme di religiosità di derivazione egiziana, il che si accorderebbe con l’assenza di incinerazioni, ma non è prudente andare oltre. Questo significa anche che non si può mettere troppo l’accento sulla differenza stilistica tra gli affreschi e i sarcofagi in marmo che vi si sono trovati – perfettamente inseribili nella produzione romana – come se l’utilizzo di questi ultimi segnasse un cambiamento nelle idee religiose della famiglia titolare. Più semplicemente non esistono a Roma sarcofagi egittizzanti e anche una partecipazione personale a culti egizi non escludeva altre forme più tradizionali – soprattutto nelle scelte figurative, che erano determinate anche da altri fattori. Un certo eclettismo delle scelte religiose è infatti attestato a Roma e d’altronde un sarcofago di alto livello qualitativo era necessario per connotare l’alto livello sociale del defunto e – per riflesso – della famiglia. La scelta di rappresentazioni mitologiche tratte da un repertorio ben collaudato, da un lato manifestava una cultura raffinata, dall’altro permetteva di inquadrare il lutto in narrazioni tradizionali che consentivano di mettere in parallelo la vicenda umana e temporale della famiglia e quelle divine e atemporali degli dei e degli eroi. In altre parole era questo un modo per attribuire un senso ai passaggi critici della vita – quali appunto la scomparsa di un familiare – rileggendoli alla luce di categorie che, prima ancora che religiose nel senso moderno del termine, avevano la capacità rassicurante e familiare di un’antica tradizione. Negli arcosolii della tomba, infatti, sono esposti numerosi sarcofagi, per lo più strigilati, ossia con quella caratteristica decorazione a baccelli ondulati simmetricamente disposti diffusissima nel III secolo, che veniva spesso alternata a pannelli figurati posti alle estremità e al centro
44. Sepolcro Z, «degli Egizi», parete di fondo.
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45. Sepolcro Z, testa di Gorgone.
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46. Il dio Horus, sepolcro Z, parete di fondo.
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47. Sepolcro Z, parete sinistra, Thot nelle vesti di Babbuino.
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del campo frontale della cassa. La fronte dei coperchi invece ripete collaudati repertori con cortei di esseri mitologici marini. Il sarcofago più rappresentativo, tuttavia, è certamente quello la cui cassa è decorata con il mito di Arianna. Figlia del re di Creta Minosse, aiutò l’eroe Teseo a uscire dal Labirinto dopo aver ucciso il Minotauro e lo seguì innamorata, ma venne abbandonata da questi sulla spiaggia dell’isola di Nasso. Caduta in un profondo sonno venne ritrovata dal dio Dioniso, che ne fece la sua compagna. La scena è di altissima qualità e in un perfetto stato di conservazione, che permette addirittura di apprezzare tracce della policromia originaria, particolarmente evidente nei resti di rosso presenti sul manto dell’Arianna. La scena è costruita sapientemente, con Dioniso che avanza sul suo carro trainato da un centauro all’estremità sinistra del campo figurato. Tutto attorno l’atmosfera è quella dell’ebbrezza divina che riempie di sé ogni personaggio del corteggio e che si manifesta nell’abbandono alla musica e alla danza. Pur in questa eccitazione generale, al centro della scena si ha un attimo di sospensione del ritmo, dovuta alla presenza di Arianna seminuda, nella classica posizione del dormiente, con il braccio destro sollevato sopra la testa e il manto che si apre a vela ad amplificare il suo gesto e a far da sfondo alla bellezza del suo corpo. Le menadi, i satiri e gli eroti del corteo si fermano estasiati e si volgono al dio, che sta arrivando, per indicargli la scoperta. Il corteggio decora anche la fronte del coperchio, sia pure con un rilievo meno alto. Il repertorio dionisiaco era senza dubbio quello più diffuso in quest’epoca e trasmetteva – non sappiamo se solo in forma metaforica e poetica o più propriamente religiosa – una speranza di rinascita e partecipazione alla vita divina così come era successo ad Arianna. La datazione deve essere collocata nella media età severiana: le proposte più recenti tendono infatti ad abbassarne l’epoca rispetto all’inquadramento inizialmente avanzato84. In questo sepolcro il vero cambiamento di orientamento religioso si riscontra solo in una deposizione femminile della seconda metà del III secolo, che si trova sotto l’arcosolio della parete sinistra, in un sarcofago di terracotta. Sul fondo dell’arcosolio fu dipinta in rosso un’iscrizione che – già frammentaria e difficilmente decifrabile all’epoca della scoperta – è ora quasi del tutto svanita. Il nome non era riconoscibile, ma accanto all’iscrizione erano i simboli della palma e della colomba, caratteristici delle deposizioni cristiane85.
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Sepolcro G, «del Docente» Quando fu costruito, il sepolcro era ancora isolato e solo in un secondo momento vi si addossarono a destra il sepolcro F e, ancora più tardi a sinistra e alle spalle, il sepolcro H86. Era anche uno dei pochi coperto da un tetto a doppio spiovente invece che a terrazza. Parte della copertura in tegole fu ritrovata durante gli scavi e vi si poterono leggere diversi bolli87 dell’età dell’imperatore Adriano, che permettono una datazione sicura dell’intero edificio. Attualmente sia la sua fronte sia il suo interno sono visibili solo in maniera parziale e difficoltosa a causa delle fondazioni successive: un arcone di rinforzo del cantiere costantiniano maschera buona parte della facciata, che era coronata da una fila di grandi rosette attorno a una patera centrale e giocava sulle diverse tonalità del colore dei mattoni. L’interno, invece, è occupato in parte da una fondazione cinquecentesca e da alcuni pilastri in cemento armato di rinforzo, aggiunti nel 1948 durante gli scavi per esigenze statiche. Nonostante questo, il sepolcro conserva ancora buona parte della volta affrescata, tranne che nella parte meridionale, forata dagli operai di Costantino quando dovettero riempirlo di terra. All’interno, come è usuale, le pareti sono divise in zone sovrapposte: in quella inferiore si aprono gli arcosolii per le inumazioni, in quella superiore le nicchie a pianta alternativamente semicircolare e rettangolare per ospitare le incinerazioni. Al centro di ogni parete c’è una nicchia a doppia altezza fiancheggiata da colonnine e chiusa superiormente da un catino decorato a conchiglia, mentre ai lati si aprono nicchie minori su due livelli, alcune delle quali furono murate e nuovamente affrescate in una seconda fase, probabilmente assai tarda, di poco anteriore alla chiusura del sepolcro. Sulle nicchie richiuse furono dipinti vasi ripieni di fiori e uccelli con uno stile impressionistico e un po’ frettoloso. Questa ridipintura interessò in maniera estensiva le pareti e probabilmente la volta: nella nicchia centrale della parete settentrionale, per esempio, fu dipinto un pavone in posizione frontale, ma durante i restauri seguiti allo scavo la ridipintura fu asportata da buona parte delle superfici per recuperare l’aspetto originario e ne resta solo una documentazione fotografica in bianco e nero. La prima fase, invece, è di mano più raffinata: la volta è decorata con festoni e riquadri vivacizzati da piccoli animali, vasi ed elementi vegetali, ma soprattutto l’attenzione viene catturata da una immagine dipinta sopra al tim-
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48 Sarcofago con Dioniso e Arianna, sepolcro Z.
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49. Dettaglio del sarcofago con Dioniso e Arianna, tracce di colore rosso.
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pano centrale della parete frontale, ben visibile appena si entra. Raffigura un personaggio barbato seduto di tre quarti su uno sgabello mentre stende un rotolo su un tavolino. Indossa un’ampia veste di un pretenzioso color violaceo porporino, mentre davanti a lui attende in piedi un personaggio di statura minore, espediente figurativo per sottolineare la sua sottomissione gerarchica. Il colore bruno della sua veste, inoltre, indica che si tratta di un abito quotidiano di lavoro, una tunica pulla. All’epoca dello scavo fu interpretata come una lezione impartita da un maestro al suo scolaro e di qui deriva il nome del sepolcro «del Docente», ma più verosimilmente si tratta di un amministratore intento a verificare i conti di fronte a un servo. Sepolcro H, «dei Valerii»
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La tomba H, o «dei Valerii» è senza dubbio la più grande e ricca dell’intera necropoli88. La sua struttura si articola in un recinto d’ingresso lungo le cui pareti si aprono nicchie per incinerazioni, evidentemente riservate a servi e liberti della famiglia. Dal recinto si accedeva alla camera principale, che – sull’architrave della porta – reca l’iscrizione del proprietario89, Gaius Valerius Herma, che edificò il sepolcro per se stesso, per sua moglie Flavia Olympia, per i figli Valeria Maxima e Gaius Valerius Olympianus, nonché, come era usuale, per i suoi liberti e liberte e i loro discendenti. Herma doveva essere un liberto, come si deduce dal fatto che, a differenza della moglie, egli non indica il patronimico. Doveva aver raggiunto una ragguardevole posizione, poiché possedeva i mezzi per erigere un sepolcro familiare di tutto rispetto, inoltre doveva aver raggiunto anche un certo livello culturale, aspetto che viene fortemente esibito nella decorazione interna e che potrebbe forse corrispondere a una carriera in ambito amministrativo. L’interno del sepolcro è una camera alquanto vasta con una scaletta sulla destra che permetteva di accedere al terrazzo superiore, utilizzato per i riti e i banchetti funebri90. L’edificio funerario si inserisce tra i due sepolcri adiacenti – la tomba I, «della Quadriga», a sinistra e quella G, «del Docente», a destra e per questo ha una forma a L con un piccolo ambiente che si estende alle spalle della tomba G. L’epoca di costruzione può essere stabilita con sufficiente sicurezza grazie a un mattone bollato ancora in situ, databile tra il 155 e il 16191, mentre alla stessa epoca riconduce lo stile dei magnifici stucchi e il tipo dei ritrat-
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ti. La camera è infatti decorata con un programma ricco e complesso, che non trova uguali a Roma e in Italia. Mentre nella parete d’ingresso sono ricavate ancora nicchie per incinerazioni simili a quelle del recinto d’ingresso, gli altri lati hanno una scansione architettonica assai movimentata. Il pavimento era coperto di lastre di marmo, la parte inferiore delle pareti è invece dipinta a imitazione di marmi policromi e in essa si aprono gli arcosolii destinati ad accogliere i primi sarcofagi. Al di sopra di questa fascia, le pareti sono ricoperte di stucco bianco e articolate in un vivace alternarsi di nicchie a pianta semicircolare e quadrata, opera di una bottega di alta qualità che lavorava secondo un programma decorativo raffinato e accuratamente pianificato. La suddivisione tra la fascia inferiore con le sepolture e quella superiore con gli stucchi è netta e non comporta semplicemente a un cambio di decorazione, ma anche l’adozione di criteri gerarchici e organizzativi differenti, come si vedrà meglio più avanti. Nella fascia inferiore le deposizioni poste negli arcosolii della parete di fondo – quella settentrionale – sono destinati alla famiglia dei proprietari. Nell’arcosolio centrale doveva essere il committente della tomba, Gaius Valerius Herma, insieme alla moglie Flavia Olympia92. Sotto l’arcosolio di sinistra venne deposto il figlio Gaius Valerius Olympianus, morto ancora bambino alla tenera età di quattro anni, mentre quello di destra fu destinato alla figlia Valeria Maxima, di poco più fortunata del fratello, in quanto visse dodici anni. Le morti precoci erano abbastanza frequenti nella società romana dove la mortalità infantile era elevata, ma si può sospettare che proprio la morte dei familiari abbia costituito la spinta alla costruzione dalla tomba da parte di Herma. Che i figli fossero già morti al momento della costruzione si deduce dalle dimensioni ridotte degli arcosolii ad essi destinati: se infatti così non fosse, il posto che spettava loro di diritto sarebbe stato commisurato all’altezza di un adulto. È probabile che neanche la moglie fosse viva all’epoca poiché nell’iscrizione dedicatoria sulla porta, Herma è l’unico dedicante. Questa situazione ha fatto ipotizzare che la famiglia fosse rimasta vittima della grande pestilenza che nel 166 falcidiò la popolazione dell’impero93, tuttavia questo spostamento della datazione avrebbe conseguenze a catena che complicherebbero la vicenda costruttiva dei sepolcri vicini – che da questa data in parte dipendono – cosicché va considerata con molta cautela ed è preferibile mantenere la datazione tradizionale. La decorazione della parte superiore delle pareti è senza
50. Sepolcro G, dettaglio dell’affresco «del Docente».
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51. Sepolcro H, «dei Valerii», parete di fondo.
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52. Sepolcro H, «dei Valerii», parete sinistra.
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dubbio quella che attira immediatamente l’attenzione di chi si affaccia nella tomba. Le nicchie principali accoglievano statue in stucco poste ciascuna su di un piccolo basamento, imitazione sostitutiva di più costose statue in marmo. Nella nicchia centrale della parete frontale doveva essere la figura più importante, segnalata dalla posizione e dall’altezza maggiore della nicchia. Di questa statua purtroppo conosciamo solo un’ombra o meglio un’impronta sul fondo: essa infatti fu distrutta dai lavori del cantiere costantiniano, che – rialzando il livello della necropoli fino al tetto dei sepolcri – realizzò la terrazza su cui sorse la basilica costantiniana di San Pietro negli anni ’20 del IV secolo94. Per far questo gli operai scoperchiarono le tombe e costruirono dei setti murari trasversali prima di procedere all’interro. In questo modo ottennero una sorta di struttura a casseforme che imbrigliava le terre, evitando slittamenti e cedimenti, che avrebbero potuto minare la solidità dell’edificio sovrastante. Uno di questi setti – rimosso durante lo scavo archeologico – attraversava a metà la camera sepolcrale passando per la porta – dalla quale vennero asportati gli stipiti ora sostituiti da una muratura moderna di restauro – e andando ad appoggiarsi proprio al centro della nicchia. Quel che possiamo ricostruire è una figura maschile in nudità eroica, drappeggiata con un corto mantello gettato dietro le spalle, che passa sugli avambracci e ricade ai lati. La mano sinistra doveva sorreggere un’asta, come testimonia una linea di fori per sostegni metallici che la ancoravano alla parete, mentre i piedi erano calzati da stivaletti. Come apparirà chiaro fra un attimo, si doveva trattare di una divinità, per la quale si è proposta l’identificazione con Apollo o Mercurio, figure rappresentate generalmente con tratti giovanili e slanciati e con il corpo nudo, ma non si possono scartare del tutto altre possibilità. Nella nicchia a scarsella immediatamente a sinistra sono i resti di una statua di Minerva affine al cosiddetto tipo Velletri, ancora identificabile grazie alla testa elmata, mentre di quella a destra l’interpretazione è dubbia. L’attuale figura ha una testa di Selene – come è facile capire grazie al crescente lunare sulla fronte – ma purtroppo si tratta di un’integrazione arbitraria dell’epoca dello scavo. I recenti restauri hanno chiarito oltre ogni ragionevole dubbio che si tratta di una testa non pertinente, leggermente più piccola, mentre la testa originale doveva essere coperta da un velo, di cui si leggono ancora le tracce sul fondo. Anche in questo caso, dunque, rimaniamo in dubbio sull’identità della figura per insufficienza di elementi caratterizzanti. La presenza di Minerva, in ogni caso, e l’altezza maggiore della nicchia centrale ci assicurano che si tratta di una triade di divinità e l’ipotesi di riconoscere Mercurio – o alla greca Hermes – nell’immagine centrale sarebbe in tono con le attribuzioni funerarie di questo dio, che potrebbe essere presente anche in qualità di nume tutela-
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re del committente Herma, per l’evidente richiamo nel cognome. Nelle nicchie ai lati della triade si riconoscono invece figure di tipo alquanto differente: si tratta di due uomini maturi vestiti alla greca, con il manto che lascia scoperta parte del petto. I loro sguardi convergono verso un punto centrale della stanza: il personaggio di sinistra sembra un poco più giovane e ha barba e capelli corti e curati, al contrario la figura di destra appare più avanzata negli anni, con una capigliatura e una barba più lunga, fluente e mossa. Dobbiamo riconoscervi due filosofi o forse un filosofo in quello di destra e un retore in quello di sinistra95. Torneremo tra un attimo su questa associazione tra filosofi e divinità. Va però segnalato che i catini di queste due nicchie presentano pure una decorazione a bassorilievo simmetrica: sopra al filosofo di sinistra è infatti una figura femminile semisdradiata con la parte inferiore del corpo avvolta in un manto e la superiore nuda dalla cintura in su, i capelli sono intrecciati di spighe e frutti, mentre nella mano sinistra regge una cornucopia. Sullo sfondo sono accennati a bassissimo rilievo una roccia e un albero. Nella nicchia del filosofo di destra, invece, è una figura maschile in posa simmetrica, la barba è lunga e fluente e a incorniciare la capigliatura sporge a mo’ di corona una chela. Nella destra sostiene un remo e nel gomito sinistro passa un’ancora. È facile riconoscere la coppia di personificazioni della Terra e dell’Oceano che chiudono, per così dire, la serie di figurazioni della parete nord come tra due parentesi, dando loro un senso di completezza che ne esalta il significato riferendolo a una realtà cosmica, non certo limitata all’ambito familiare della camera in cui sono racchiuse. Le nicchie erano separate da erme, sempre realizzate in stucco, purtroppo alquanto fragili e dunque per lo più perdute. Gli esemplari meglio conservati sono quelli che si sono potuti ricostruire nella parete occidentale. Le estremità della parete settentrionale, infine, sono occupate ciascuna da due nicchie a scarsella di dimensioni ridotte, sovrapposte l’una all’altra. Esse non hanno funzione puramente decorativa, ma servono a ospitare nel piano di base due olle cinerarie ciascuna. Il fondo è decorato di stucco a basso rilievo, con le immagini affrontate sul registro superiore di un satiro in corsa – molto mal ridotto – e di una menade raffigurata nell’ebbrezza della danza dionisiaca, con un timpano – una sorta di tamburello – nella sinistra e un tirso nella destra. Nelle nicchie inferiori, invece, la simmetria si inverte e si contrappongono a sinistra una menade in corsa, con il tirso sulla spalla, e a destra un piccolo Pan danzante, che stringe la sua siringa (strumento musicale a fiato con più canne) nella mano destra e un’anfora di vino nella sinistra, tenuta per il puntale come fosse una clava. Per concludere la descrizione, bisognerà accennare brevemente al prosieguo della parete di fondo sulla destra, nell’ambiente minore retrostante al sepolcro G.
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Nell’arcosolio inferiore è deposta Valeria Asia, probabilmente assieme al suo patrono Valerius Princeps, che possiamo ritenere fratello di Valerius Herma. Al di sopra, invece, la nicchia ospita l’immagine – solo parzialmente conservata – di Hypnos, allusione al Sonno della morte e forse promessa di risveglio, mentre il catino superiore è decorato con due amorini che al posto delle solite ali piumate hanno ali di pipistrello, adatte al volo notturno, e sostengono una cornucopia che, fatto rarissimo negli stucchi romani, è realizzata in un impasto che assume tonalità dorate, così come i sottostanti papaveri, ennesima allusione al riposo finale. Anche qui, ai lati della nicchia principale, sono due coppie di nicchie minori a scarsella sovrapposte, con due satiri e due menadi alternati in uno schema chiastico. Le pareti orientali e occidentali hanno un carattere assai differente, pur nel rispetto dello schema generale. Nella parete orientale, subito a destra di chi entra, c’è spazio per una sola nicchia a piena altezza, ai lati della quale si collocano le solite coppie di nicchie sovrapposte destinate a cinerari. La figura che occupa la nicchia maggiore è un uomo in toga, di età matura con segni di avanzata calvizie, sguardo ispirato e bocca socchiusa. Al di sopra, nel catino che copre la nicchia, sono raffigurati a bassorilievo gli strumenti della sua professione: un dittico di tavolette cerate per appunti ed esercizi scolastici, uno stilo, una ciotolina, forse per sciogliere l’inchiostro96, e una bacchetta forse da maestro. L’espressione del personaggio si intona con questi elementi e la bocca socchiusa suggerisce l’atto di recitare versi, dettare o impartire una lezione. Nella mano sinistra reca una sorta di tavoletta su cui erano dipinte tre lettere [—-]MAE, ora meno ben conservate, che sono state interpretate come parte del nome [HER]MAE al genitivo. Nel personaggio potrebbe forse identificarsi il patrono di Gaius Valerius Herma97. A questo va aggiunto un dettaglio, che rafforza tale proposta: la toga è di un tipo particolare per il quale è difficile citare confronti precisi98, è alquanto più corta del modello in uso nell’età di Marco Aurelio, inoltre, mentre il sinus – l’ampia piega ricadente sotto al ginocchio destro – è compatibile con gli esempi del secondo secolo, il balteus – l’orlo che passa trasversalmente sul petto e che in genere ricade con una morbida piega sopra la vita – è diritto come negli esemplari del primo secolo d.C. Si ha l’impressione che si sia voluta raffigurare un’immagine fuori moda se non addirittura all’antica, per indicare che il personaggio faceva parte di una generazione passata e aggiungere forse un tono di autorità al suo aspetto. Il patrono di Herma, ovviamente, non doveva essere sepolto in questa tomba e infatti non è neppure nominato nell’iscrizione sull’ingresso. Nell’arcosolio sottostante è sepolta invece Dynate, moglie di Gaius Valerius Eutychas su concessione di Herma in qualità di suo patrono. Passiamo all’ultimo lato, quello occidentale, a sinistra di
chi entra. Su questo lato si trovano tre nicchie principali: al centro è – come sempre – il personaggio più importante, una figura maschile togata con il capo velato perché raffigurato nell’atto del sacrificio: nella mano destra infatti ha la patera per le libagioni. Il volto è solo parzialmente conservato ma si riconosce un uomo barbato. Nel catino che chiude superiormente la nicchia sono rappresentati a bassorilievo una cassetta con accanto un rotolo di papiro parzialmente aperto a sinistra e un astuccio di stili con piccolo calamaio incorporato, allusione all’educazione letteraria del personaggio. Si deve trattare del titolare del sepolcro, Gaius Valerius Herma, raffigurato solennemente nella toga del cittadino romano. Si può aggiungere che – a differenza di quella del suo patrono raffigurato sulla parete di fronte – la sua toga è perfettamente intonata all’epoca. Va da sé che la vecchia identificazione del personaggio in questione con l’imperatore Marco Aurelio99 – proposta a causa di una certa aria «antonina» – non viene più accettata oggi alla luce sia del contesto, sia di una più rigorosa metodologia di studio dei ritratti. Si parla in questi casi piuttosto di assimilazione del ritratto privato a quello imperiale oppure di «volto del tempo» (Zeitgesicht) per caratterizzare certi modelli fisionomici particolarmente fortunati in determinate epoche. Le nicchie laterali ospitano a sinistra un personaggio femminile di età giovanile. Anche qui gli oggetti raffigurati nel catino della nicchia aiutano l’identificazione: si tratta di una cista, contenente verosimilmente gli oggetti per la toletta, di un unguentario contenente profumo e di uno specchio, tutti elementi del mondo muliebre che ben si intonano a una ragazza nubile in attesa delle nozze. Deve trattarsi della figlia Valeria Maxima. L’altra nicchia, invece, accoglie il ritratto di una donna più matura, al di sopra della quale sono raffigurati elementi che si confanno a una matrona: un cesto per la lana, spola e fuso e un oggetto circolare non identificato. Anche in questo caso è facile riconoscervi la moglie di Herma, Flavia Olympia. Le nicchie principali sono separate come al solito da coppie di nicchie minori a scarsella sovrapposte, destinate ad accogliere cinerari e decorate con l’usuale repertorio dionisiaco di satiri e menadi alternati. Da notare le erme che in questa parete sono meglio conservate, poste a scandire gli spazi, tutte di fattura estremamente abile e in parte recuperate grazie all’attento restauro degli ultimi anni. Tentiamo una sintesi: gli spazi delle pareti nella parte superiore mostrano una chiara suddivisione tra la parete di fondo e quelle laterali. La prima costituisce una sorta di larario in cui, accanto alle divinità protettrici, sono posti anche due personaggi che agli occhi di Valerius Herma dovevano rivestire una funzione particolare: forse due maestri, forse due modelli intellettuali le cui opere avevano costituito un riferimento privilegiato per la sua formazione culturale100. Non stupisce eccessivamente questa mescolanza di divino e umano se si pensa alla reli-
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53. Sepolcro H, «dei Valerii», parete destra.
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giosità di questo periodo, che inizia a miscelare aspetti più propriamente religiosi a insegnamenti filosofici che, anziché restare astratti e accademici, orientavano lo stile di vita. Si tratta di una tendenza che si svilupperà pienamente in età tardoantica portando a quella caratteristica forma ibrida di religiosità civile o di filosofia misticheggiante e allegorizzante, in cui la cultura letteraria e filosofica acquisisce sempre maggiore peso non solo per le sue qualità spirituali, ma anche come segno di status, come patente di nobiltà intellettuale, che permette, anche a coloro che non hanno nobili natali, una certa ascesa sociale. Personaggi come Herma – e forse come già il suo patrono – sottolineano la padronanza di una tradizione culturale e delle forme espressive di una tecnica letteraria e oratoria elaborata ed esigente, l’unica che permettesse non solo di ottenere ascolto presso l’élite, ma anche di inserirsi nell’amministrazione statale, che progressivamente verrà retta sempre più da burocrati formati nelle scuole dell’impero e sempre meno da magistrati educati in privato, nel quadro dalle tradizioni familiari di servizio alla res publica. L’insistenza sui segni della cultura, dunque, non va letta – con indebita modernizzazione – come snobismo intellettuale, né in una prospettiva soltanto spirituale e privata, ma, più in generale, nel quadro dei valori della società dell’epoca, impersonati in questo momento storico dallo stesso imperatore Marco Aurelio, dedito a una severa disciplina filosofica, intesa come necessario fondamento per la sua azione politica. Le pareti laterali, come s’è visto, sono invece dedicate decisamente al versante umano e al titolare dell’edificio funerario: la famiglia fondatrice è schierata sulla parete occidentale con la moglie e la figlia maggiore ai lati del pater familias, mentre il figlio minore non viene raffigurato a causa dell’età troppo precoce della sua scomparsa. Sulla parete di fronte viene infine presentato quello che probabilmente va riconosciuto come il patrono, le cui orme – almeno a giudicare dagli attributi professionali – vennero seguite dallo stesso Herma e furono verosimilmente alle origini della sua stessa fortuna. Se torniamo a quanto accennato all’inizio della descrizione della tomba si vede ora meglio che cosa si intendesse per differenziazione nella gerarchia degli spazi. In poche parole questa risulta dal fatto che i personaggi raffigurati nelle sculture in stucco della parte superiore delle pareti non hanno alcuna relazione necessaria e diretta con i defunti sepolti negli arcosolii inferiori: Valerius Herma e i suoi familiari sono infatti rappresentati sulla parete occi-
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dentale, ma sepolti in quella settentrionale. Questo deriva dall’adozione dei principi comuni a tutta l’architettura romana, secondo i quali la parete frontale di qualsiasi complesso – la più visibile – è perciò stesso la più importante e onorevole. A questo primo criterio va aggiunta ovviamente una forte esigenza di simmetria come principio di organizzazione dello spazio. È dunque la sepoltura della coppia titolare della tomba che deve aver posto nell’arcosolio al centro della parete di fondo, ma quando si sale alla fascia superiore, quella decorata, la rappresentazione segue altre priorità e il pater familias deve cedere il luogo più onorevole ai personaggi che costituiscono i numi tutelari e i riferimenti morali e culturali della famiglia. Va notato inoltre che l’immagine dei Valerii di prima generazione – per così dire – è resa presente in maniera insistente non solo nelle statue in stucco della parete ovest, nell’iscrizione sull’ingresso e in quelle particolari sugli arcosolii. Dalla camera provengono infatti due teste ritratto di marmo101: la prima è maschile, barbata con i capelli scolpiti in ciocche corpose e aggettanti fortemente marcate dal gioco di ombre dei profondi solchi, secondo il gusto coloristico dell’età antonina. La seconda è femminile, con il velo sul capo trattenuto dalla mano sinistra con gesto ricercato, i capelli divisi in bande al centro della fronte e una pettinatura complessa, che nella parte superiore avvolge una treccia su se stessa a turbante, a imitazione dell’acconciatura in voga a corte nella tarda età adrianea e nella prima età antonina. L’espressione è quella autorevole, ma riservata, di una matrona e sorge spontanea l’attribuzione dei due ritratti a Valerius Herma e alla moglie Flavia Olympia anche in considerazione delle somiglianze con i tratti sopravvissuti delle statue in stucco: le due teste dovevano far parte di un rilievo posto all’ingresso del sepolcro. Se un frammento di piede, pure rinvenuto nel sepolcro, è attribuibile allo stesso complesso avremmo un rilievo a figura completa piuttosto che una semplice coppia di busti. Va anche osservato che la pettinatura di Olympia appare leggermente rétro, il che ben si accorderebbe con l’ipotesi sopra espressa, secondo la quale la tomba sarebbe stata costruita dopo la sua morte. Un secondo ritratto femminile, questa volta un busto in stucco, è stato pure rinvenuto nella tomba e presenta una stretta somiglianza con il ritratto in marmo, cosicché può essere attribuito anch’esso a Olympia, benché forse la raffiguri in una età leggermente più avanzata: è stato ipotizzato che questo ritratto potesse essere esposto nei pressi della sepoltura della donna, dunque presso l’arcosolio centrale della parete nord102.
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54. Testa femminile in marmo di Flavia Olympia. 55. Testa maschile in marmo di Gaius Valerius Herma.
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Un bustino in stucco minore del naturale e di fine fattura raffigura invece una giovane donna e potrebbe restituirci le fattezze della figlia Valeria Maxima, ma è presente anche un ulteriore bustino di un fanciullo, che si è fortemente tentati di identificare con il piccolo Gaius Valerius Olympianus103. Benché manchi la parte destra del volto la qualità del ritratto è di livello assai notevole e si segnala anche per due ulteriori particolari. Il primo è che – nonostante la capigliatura corta del bambino – sul retro del capo, nella parte destra, è evidente una ciocca che si allunga dall’occipite fin dietro l’orecchio. Si tratta di un elemento comune a diversi altri ritratti infantili, che veniva tradizionalmente interpretato come assimilazione del fanciullo all’immagine del piccolo Horus, segno di una iniziazione al culto misterico di Iside, madre del dio. Studi più sistematici e recenti hanno dimostrato, invece, come tale acconciatura – generalmente limitata a fanciulli al di sotto dei dieci anni – si incontri anche in ritratti di fanciulle, anche se in numero più ridotto, per le quali l’assimilazione a Horus è improponibile. Inoltre fanciulli con questa caratteristica ciocca si ritrovano in connessione con il culto di altre divinità quali Dioniso, Demetra e con i misteri eleusini, cosicché sembra interpretabile in maniera più generica. Non la si dovrà pertanto leggere come segno di una iniziazione vera e propria, ma piuttosto di affidamento a una delle divinità appena citate104. Nei ritratti funerari infantili questo segno esprime la speranza che la divinità – quale essa sia – si prenda cura della vita ultraterrena del piccolo defunto, interpretazione che viene rafforzata in questo caso dalle abbondanti tracce di doratura che coprono il ritratto, un elemento che conferisce all’immagine un’aura nobilitante ed eroizzante e suggerisce l’appartenenza a un mondo superiore. I ritratti in stucco non sono molto diffusi, probabilmente anche per la fragilità del materiale che ne ha conservati pochi esemplari105, e dunque il corredo di questa tomba è alquanto eccezionale. Ad essi, però, vanno aggiunti anche alcuni frammenti di un altro tipo di raffigurazioni affini. Si tratta di maschere funerarie in gesso realizzate per calco diretto sul volto del defunto106. Una prima rappresenta il volto di un fanciullo di pochi anni e potrebbe essere servita come modello per la realizzazione del bustino dorato di Gaius Valerius Olympianus. Oltre a questa maschera, che è un positivo ricavato da un calco, esistono due matrici frammentarie relative ad altri due volti: la prima è presa da un uomo barbato e conserva solo la metà sinistra del volto. Anche in questo caso la tentazione di vedervi le fattezze di Valerius Herma è molto forte.
La seconda, in due elementi che si compongono insieme, è tratta dal volto di un bimbo di neanche un anno, del quale non abbiamo altri ritratti e di cui non possiamo ipotizzare il nome. Il rinvenimento di simili maschere è noto a Roma e in diverse regioni dell’impero (Lione in Francia, Alessandria ed Hermopolis in Egitto, El-Jem e Sousse in Tunisia, Alacer do sal in Portogallo, probabilmente anche Atene e Leptis Magna)107, ma va aggiunto a quelle già note un ulteriore esempio vaticano, purtroppo perduto. Pirro Ligorio, il famoso architetto e antiquario di Pio IV, ricorda infatti che nel 1543, durante gli scavi per le fondazioni di un settore delle mura vaticane, quello del bastione del Belvedere, vennero alla luce alcuni edifici funerari romani: in uno di essi era «un morto il quale non haueua la sua testa alloco suo ma tramezzo le gambe; et in luoco dela testa era posta una forma o cavo di gesso doue era formata la effigie di quello, la qual forma si serua nella guardarobba del Papa»108. Come si è detto, nella tomba «dei Valerii» si osserva un’insistenza notevole sulla conservazione dell’immagine fisica e dei tratti fisionomici dei defunti. Si deve ricordare anche che, durante gli scavi, alcune delle inumazioni risultavano sottoposte a un trattamento volto a conservare o a prolungare l’integrità del corpo, verosimilmente una forma di mummificazione semplificata rispetto alle pratiche egizie109. Tutto ciò è tanto più notevole in quanto nella stessa tomba è ancora abbondantemente attestata l’incinerazione, rito che peraltro sembra riservato ai membri meno favoriti della familia, schiavi e forse liberti di minore importanza. Questa osservazione ha spinto a indagare ulteriormente nelle concezioni spirituali di questo gruppo di defunti, anche tenendo conto del lungo periodo di utilizzo della tomba. L’edificio sepolcrale, infatti, non era destinato ad accogliere solo i familiari più stretti di Herma, ma era stato costruito con una previsione più ampia: poteva infatti ospitare circa 170 deposizioni e di fatto – fino al suo interro sotto la basilica costantiniana – arrivò a contenerne fino a 250. Della spiritualità e dell’orientamento culturale della famiglia del fondatore si è già detto: alcuni hanno voluto andare oltre riconoscendovi anche la presenza di una componente egittizzante110, a causa della presenza dei corpi mummificati, delle maschere funerarie – pratica frequente in Egitto – del fanciullo con la ciocca, della vecchia identificazione della statua nella parete di fondo con Selene, di una possibile assimilazione tra Minerva e Iside e infine di una relazione tra i motivi dio-
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56. Testa maschile in stucco con tracce di dorature, Gaius Valerius Olympianus (?). 57 Testa femminile in stucco, Valeria Maxima (?).
58. Maschera funeraria infantile. 59. Maschera funeraria infantile, Gaius Valerius Olympianus (?).
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nisiaci dei satiri e delle menadi e il culto isiaco. Tutti questi elementi, però, sembrano fragili: alcuni – come si è accennato – sono venuti a cadere in base a osservazioni ulteriori, mentre gli altri non sono sufficientemente connotanti111. Resta difficile perciò identificare con precisione le motivazioni religiose o filosofiche degli usi funerari della famiglia. Più interessante è osservare qualche indizio, che ha fatto pensare che alcuni suoi membri fossero divenuti cristiani nell’ultimo periodo di utilizzazione del sepolcro. In tal caso il sepolcro avrebbe avuto un particolare valore in quanto collocato assai vicino alla tomba dell’apostolo Pietro. Si tratta di tre diverse testimonianze, che necessitano però di una discussione critica per poter essere interpretate correttamente. Nella camera funeraria – una volta esauriti gli spazi previsti originariamente negli arcosolii – vennero collocati anche sarcofagi che occuparono lo spazio centrale. Tra essi è un sarcofago di notevole livello qualitativo, attualmente esposto nel recinto d’ingresso della tomba112. Esso è databile per ragioni tipologiche e stilistiche verso il 270: sulla cassa è scolpita una scena che conoscerà notevole fortuna nella produzione funeraria di quegli anni e raffigura una movimentata caccia al leone, con un giovane cavaliere dalla corta barba nel ruolo protagonista, in posizione centrale. Deve trattarsi del defunto, il quale non necessariamente doveva essere un appassionato di safari: nel linguaggio figurativo romano, infatti, la caccia è segno di virtù nel senso di valore fisico e coraggio. Il coperchio, invece, ha come sempre un rilievo più basso e meno accurato e anzi taluni hanno dubitato, forse a torto, della sua originale pertinenza alla cassa: al centro una tavola ansata sorretta da due eroti alati accoglie l’iscrizione di dedica, a sinistra si riconosce un carro trainato dai buoi carico degli animali uccisi durante una battuta di caccia, mentre a sinistra due geni con una fiaccola accesa – simbolo di vita – sostengono un velo che funge da sfondo a un busto dal volto non finito. All’estremità destra si trova infine un pavone, simbolo di immortalità. Il ritratto sbozzato è assai frequente nei sarcofagi di questo periodo in quanto veniva rifinito eventualmente con il ritratto del defunto al momento del suo effettivo utilizzo, quando cioè ne riceveva il corpo113. In questo caso il ritratto sul coperchio non è stato terminato e, in ogni caso, lo si sarebbe dovuto rilavorare radicalmente, poiché era stato preparato come femminile, dunque inadatto al titolare effettivo del sarcofago e al soggetto decisamente maschile della figurazione. Si ritenne sufficiente rifinire con le fattezze del defunto la testa del cavaliere al centro
della cassa, nella figurazione principale, e incidere l’iscrizione dedicatoria sul coperchio. Questa recita: «Agli Dei Mani. Valerinus Vasatulus visse 31 anni, 3 mesi, 10 giorni, 3 ore. La moglie Valeria Florentia fece per il suo marito, di animo benemerente. La sua deposizione (avvenne) il 7 settembre»114. Nel complesso non si vedono segni evidenti della fede del defunto. Trattandosi di un sarcofago della fine del III secolo – periodo in cui l’arte cristiana è ai primi passi e a stento è riconoscibile come tale – l’iscrizione e la figurazione rispettano tutte le convenzioni usuali nel mondo romano, come la puntuale registrazione della durata della vita, che doveva probabilmente avere un significato per l’oroscopo del defunto, oppure la menzione degli dei Mani, le divinità dei defunti. Questo elemento, anzi, sembrerebbe tipicamente pagano, se non fosse che la sua presenza doveva essere un elemento ormai convenzionale, forse apposto autonomamente dagli scultori dei sarcofagi perché la sua presenza qualificava la sepoltura come res sacra e la poneva sotto la tutela della legge e della consuetudine. Sono infatti noti più di un centinaio di casi di tombe cristiane tra le più antiche dove questa formula è presente115. Quel che tuttavia è importante, nei casi cristiani, è il fatto che il nome del defunto che segue la formula DM sia al caso nominativo o al dativo, dunque staccato da quanto lo precede. Se al contrario fosse al genitivo, la dedica andrebbe intesa come posta agli dei Mani del defunto stesso, cosa ovviamente incompatibile con la fede cristiana. Nel presente caso, dunque la formula DM, presa da sola, non è veramente discriminante né in senso cristiano, né in senso pagano e dobbiamo tornare a esaminare l’insieme globalmente. Come si è visto, a un primo esame il sarcofago sembra rispettare tutte le convenzioni dei monumenti pagani, o come si dovrebbe dire più correttamente, dei monumenti profani. Alcuni piccoli dettagli hanno fatto sospettare che Valerinus possa essere un cristiano116: si tratterebbe della presenza di due palmette graffite agli angoli superiori della tabella ansata, nonché – nel testo dell’iscrizione – della qualifica benemerenti e soprattutto della menzione della depositio, cioè del giorno della sepoltura, che per i cristiani segnava l’inizio della nuova vita. I primi due criteri sono davvero molto fragili e non reggono a un serio esame, mentre tradizionalmente si dà assai più peso alla presenza della data della depositio. Anche in questo caso, tuttavia, uno studio più sistematico ha dimostrato che tra le iscrizioni precostantiniane questa indicazione si ritrova sia nelle iscrizioni cristiane sia in quelle profane, dove anzi è statisticamente preva-
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60. Sarcofago con caccia al leone dalla tomba «dei Valerii».
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Pagine seguenti: 61. Area antistante al sepolcro H, in basso al centro l’imboccatura del pozzo per attingere l’acqua necessaria ai riti funebri.
lente: solo in epoca posteriore diverrà – soprattutto in ambito romano – un segno effettivamente caratteristico dell’epigrafia cristiana117. Siamo così costretti a revocare in dubbio l’ipotizzato cristianesimo di questo personaggio. Più chiara – ma pure con qualche limite – è una seconda iscrizione della tomba «dei Valerii»: quella di Flavius Istatilius Olympius118, morto a 35 anni e lodato per il suo spirito giocondo e alieno dai litigi. Sulla prima riga, accanto al nome del defunto, compare il cristogramma, ossia l’abbreviazione formata dalle due lettere greche C e P sovrapposte, le prime due del nome di Cristo. Il margine di dubbio che può rimanere non riguarda la fede cristiana di Olympius, ma semmai la pertinenza dell’iscrizione a una deposizione della tomba. Non è noto infatti il contesto preciso di rinvenimento, eccettuato il fatto che fu ritrovata in una seconda fase, a scavi terminati, durante i restauri compiuti negli anni 1953-54119. Inoltre il cristogramma è un elemento che in epoca precostantiniana appare solo in pochissimi casi dubbi oppure come abbreviazione e non come simbolo120. Questo caso dovrebbe quindi datarsi al brevissimo periodo che corre tra la battaglia di Ponte Milvio del 312 e la costruzione della basilica che – come si è accennato – va datata agli anni ’20 del 121 IV secolo . Resta perciò un margine di dubbio sulla sua effettiva pertinenza al corredo epigrafico della tomba o se non debba piuttosto ritenersi proveniente da sepolture scavate in epoca successiva nel pavimento della basilica. Un ultimo documento, certamente il più notevole, ha pure le sue difficoltà interpretative: esso è costituito da disegni e iscrizioni tracciati nella nicchia centrale della parete di fondo, a sinistra della gamba della scomparsa figura divina in stucco discussa più sopra. Si distinguono due teste schizzate l’una al di sopra dell’altra in maniera alquanto schematica e accompagnate da alcune iscrizioni a carboncino. La Guarducci122, la nota epigrafista già citata a proposito della tomba di Pietro, interpretò la testa inferiore come immagine di Pietro e quella superiore come Cristo. Accanto a quest’ultima, un gruppo di segni di difficile interpretazione sarebbe da leggere come abbreviazione di CHR(ISTUS), mentre, ai lati della testa, la studiosa riconobbe ulteriori iscrizioni formate di segni minuti in parte sovrapposti l’uno all’altro, che interpretò come riferite a Cristo e contenenti complesse allusioni teologiche. Accanto al volto di Pietro, infine, riconobbe un’ulteriore iscrizione di carattere più semplice e leggermente sgrammaticata che, nello scioglimento delle abbreviazioni e con le integrazioni proposte dall’editrice, reciterebbe «Pietro prega Cristo Gesù per i santi uomini cristiani sepolti presso il tuo corpo!»123. Le due teste sono tutt’ora visibili, perché disegnate prima delle iscrizioni con un pigmento a cui era stato aggiunto un legante organico, come hanno dimostrato indagini recentissime condotte con riprese fotografiche multispet-
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trali124. Invece le iscrizioni – a carboncino ma senza legante – sono svanite assai presto e ne rimangono solo foto d’epoca, che ovviamente non possono sostituire l’esame diretto, soprattutto se si tiene conto delle difficoltà di lettura e interpretazione di questi documenti. Per questo motivo nessuno ha potuto in seguito verificare le letture proposte, che restano così sospese in una sorta di limbo epigrafico. Anche l’interpretazione ulteriore che la Guarducci proponeva, e che cioè si trattasse – almeno per le iscrizioni più antiche – di testimonianze della fine del III secolo di persone che frequentavano la tomba125, è stata messa in discussione: sembra infatti più semplice considerarle dovute a qualcuno degli operai del cantiere costantiniano, disegnate negli anni o forse nei mesi in cui la tomba era in procinto di essere interrata. Sarebbe altrimenti strano che iscrizioni simili venissero disegnate ai piedi di una statua di Mercurio o di una simile divinità pagana126. Le tracce più importanti di cristianizzazione della necropoli andranno dunque cercate altrove. Sepolcro I, «della Quadriga»
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Posta nella fila più antica dei sepolcri, quella a monte, la tomba «della Quadriga»127 è accessibile solo attraverso un varco aperto nel 1946 nell’angolo sud-orientale128, per permetterne lo svuotamento e l’accesso. La facciata era stata infatti inglobata in un muro di fondazione costantiniano, che ha riutilizzato anche gli stipiti della porta originaria. Le dimensioni della camera sono modeste – se comparate ai sepolcri adiacenti – ma lo stato di conservazione è abbastanza buono, soprattutto dopo i recenti restauri, e in particolare è conservato quasi completamente il pavimento musivo, che dà il nome al sepolcro e che è danneggiato solo all’estremità settentrionale da una fossa aperta in una fase tarda. Si tratta di un mosaico in bianco e nero, in cui si riconosce facilmente un tema funerario caratteristico: Plutone, il dio degli inferi, rapisce Persefone, portandola sulla sua quadriga, preceduto da Hermes, il dio che – tra le numerose competenze – ha anche quella di accompagnare le anime nell’oltretomba. Secondo il mito, la madre di Persefone – Demetra, dea della terra, della fertilità e delle messi – dopo il rapimento si ritirò dall’Olimpo e la terra divenne arida e improduttiva. Gli dei allora si riunirono per decidere di restituirle la figlia, ma nel frattempo costei aveva mangiato un seme di melograno offertole da Plutone. Era troppo poco per trattenerla per sempre nel-
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l’oltretomba, ma al tempo stesso la giovane aveva pur sempre accettato qualcosa del mondo infero. La decisione salomonica fu che trascorresse sei mesi con la madre e sei con il marito: così sarebbe nata l’alternanza delle stagioni. La scena occupa il riquadro centrale del pavimento, la fascia che funge da cornice è decorata sul lato d’ingresso da due tigri disposte araldicamente ai lati di un cratere, mentre sui lati lunghi sono scene di caccia in cui leoni inseguono gazzelle, intervallati da cesti di fiori che corrispondono illusionisticamente a quelli simili, dipinti al centro delle pareti laterali. Il ratto di Persefone è un tema largamente utilizzato nell’arte funeraria fino ad epoca tarda129: in questo caso lo stile è disegnativo, con linee bianche per evidenziare i dettagli interni delle figure, tratteggiate con una certa disinvoltura ma senza eccessiva attenzione ai volumi; inoltre la figura di Hermes sembra giustapposta in maniera non del tutto integrata nel resto della figurazione, sia per le dimensioni che per la posa frontale e un po’ teatrale che contrasta con il dinamismo della quadriga. Tali caratteristiche, unitamente alla considerazione dei confronti migliori – in particolare del mosaico di soggetto simile dalla via Portuense130 – orientano per una datazione nella tarda età antonina, in contemporanea con la seconda fase decorativa degli affreschi. Le pareti sono organizzate secondo il sistema usuale, ma le dimensioni della tomba hanno permesso di ricavare in costruzione solo due arcosolii, uno per parte nelle pareti laterali. Al centro della parete di fondo, si impone alla vista la nicchia semicircolare con catino a conchiglia marcato da una fascia blu perimetrale: la sua posizione è ulteriormente esaltata dall’inquadramento tra colonnine tortili di stucco, che reggono un frontoncino triangolare. Il fondo della nicchia spicca invece per il suo rosso vivace e ai suoi lati si aprono due nicchie minori rettangolari, sovrastate da riquadri affrescati su fondo pure rosso. Tali riquadri sono dipinti con scene mitiche intonate all’ambiente: la loro leggibilità è fortemente compromessa dalla tecnica di realizzazione, una pittura a tempera aggiunta in un secondo momento sul fondo rosso, mentre solo in parte i recenti restauri hanno recuperato i dettagli perduti. Sulla destra si riconosce la coppia di Ercole e Alcesti, personaggi protagonisti di un mito di morte e risurrezione: Admeto, per aver dimenticato un sacrificio ad Artemide, sarebbe dovuto morire, ma Apollo gli concesse di essere sostituito da un parente. La moglie Alcesti si offrì al suo posto, ma Ercole – ospite di Admeto – com-
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62. Mosaico con il ratto di Persefone.
Pagine seguenti: 63. Sepolcro I, «della Quadriga»,parete sinistra, dettaglio con figura femminile. 64. Sepolcro I, «della Quadriga», parete di fondo.
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65. Sepolcro I, affresco con pavone.
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battendo con Thanatos (la Morte) riuscì a strapparle la donna e a riportarla al marito. Sul riquadro a sinistra della nicchia invece è una seconda coppia con una figura seduta e abbandonata sulla sua destra, vestita solo di un manto accanto a un personaggio in posa frontale alle sue spalle. L’interpretazione è assai discussa, il primo editore vi aveva riconosciuto, per coerenza con la tematica generale della decorazione, la morte della stessa Alcesti131, ma l’ultimo restauro ha chiarito piuttosto che la figura reclinata è maschile, potrebbe dunque essere preferibile l’interpretazione alternativa avanzata, ossia la morte di Adone accanto ad Afrodite132. Le pareti laterali mostrano una simile articolazione, ma lo stato di conservazione e la mancanza di elementi caratterizzanti univoci rende ancor più difficile l’identificazione delle silhouettes nei riquadri subito a destra e a sinistra dell’ingresso, gli unici decorati. A sinistra, infatti, si vede una figura femminile dalle vesti svolazzanti e con un nastro o una ghirlanda nelle mani, che è stata intesa come una Stagione133 – il che forse incontra qualche difficoltà essendo la figura priva delle sue compagne – o secondo altri come Laodamia134. Nel riquadro immediatamente a sinistra, dopo il restauro, si è resa visibile una figura maschile stante ridotta a poco più di un ombra. Sulla parete di fronte, invece, in posizione simmetrica è raffigurato un altro personaggio maschile in piedi e nudo – con solo un mantello gettato sulla spalla sinistra – mentre si appoggia alla lancia: l’immagine è chiaramente quella di un eroe, ma anche qui i pareri sono discordi: si tratterebbe di Admeto135, marito di Alcesti, per coerenza con il resto della decorazione, o di Protesilao136, il marito di Laodamia morto sotto le mura di Troia, per il quale la moglie ottenne dagli dei ancora un giorno di vita. Al di sopra delle nicchie laterali, sono dipinti su fondo bianco dei prati fioriti con uccelli – un pavone e un’anatra –, sulla parete di fondo un riquadro rosso è decorato con un candelabro tra due cigni, mentre il fondo chiaro della parete è popolato da uccelli di vario tipo. Si potrebbe pensare a immagini allegoriche, che alludono a divinità: i cigni sarebbero dunque legati ad Apollo, il pavone a Giunone e l’anatra a Venere. Restano infine tratti della volta cassettonata e decorata di stucchi a rilievo – si indovina la presenza delle personificazioni delle stagioni – su sfondi dai vivaci colori. Come si è accennato gli affreschi della tomba mostrano due successive fasi decorative, probabilmente non molto distanti cronologicamente. Della prima è sopravvissuto solo qualche scarso lacerto, ma risale al momento della costruzione della tomba, che si pone verso il 160 d.C., in ogni caso in un momento immediatamente successivo alla tomba H, «dei Valerii», a cui si addossa; la decorazione attualmente visibile – mosaico pavimentale compreso – è invece essenzialmente della seconda fase, di una decina d’anni più tarda.
Sepolcro L, «dei Caetennii minori» Costruito in laterizio è successivo al sepolcro I «della Quadriga», ma è anteriore al sepolcro M «degli Iulii», che ne utilizza il muro occidentale137. Potrebbe porsi ancora entro il terzo quarto del II secolo d.C. Il suo nome deriva dal fatto che i suoi proprietari sono imparentati con i Caetennii del sepolcro F, ma le dimensioni di questa camera sono inferiori. Al momento dello scavo la sua facciata era completamente coperta da un muro del cantiere costantiniano della basilica, muro che tagliava a metà l’iter che collega tutta la necropoli in senso est-ovest. Solo nel 1946 – tre anni più tardi – si poté aprire il varco attualmente percorribile e mettere in luce la fronte dell’edificio. Su di essa è l’iscrizione principale, tra due finestrelle a feritoia e inquadrata da una cornice a ovoli di cotto: la dedica è posta agli dei Mani di Caetennia Hygia, morta ventunenne, da parte del padre Marcus Caetennius Hymnus e del fratello Marcus Caetennius Proculus. Sopra l’iscrizione è incastonato un piccolo rilievo raffigurante un’ascia e ai lati due anforette; sulla destra della facciata si riconosceva un riquadro murato dagli operai costantiniani: doveva trattarsi di una finestrella per dare luce al pianerottolo di una scala che saliva alla terrazza superiore – in modo analogo al sepolcro F – oppure di un rilievo marmoreo distaccato durante le operazioni di cantiere in età costantiniana e tamponato in muratura. Ora questo dettaglio è nascosto da un arcone moderno realizzato per motivi statici. Gli stipiti in travertino riportano ancora le misure del sepolcro: 13 piedi di larghezza sulla fronte e 19 di profondità (in agro). L’interno è stato scavato solo parzialmente in quanto riempito per più di metà dallo spesso muro, che costituiva la catena di fondazione su cui si innalzava il cosiddetto arcone trionfale della basilica costantiniana, l’arco cioè che permetteva il passaggio tra la navata principale e lo pseudo-transetto in cui si trovava la memoria costantiniana della tomba di Pietro. A nord, addossata al retro del sepolcro stesso, si vide la fondazione e un breve tratto di alzato di una tarda esedra di non chiara interpretazione138. Fu in ogni caso possibile scavare lungo l’interno della parete occidentale, ricavando almeno un’idea della sua architettura interna. Il pavimento è disfatto, ma le pareti sono articolate secondo lo schema tradizionale: arcosolii nella parte inferiore, nicchie per incinerazioni in quella superiore. Nella fascia superiore si alternano nicchie a tutta altezza – con catino a conchiglia inquadrate ai lati da colonnette di stucco – e nicchiette quadrate su due livelli sovrapposti. Il tutto è coperto da una trabeazione coronata da timpani alternati a triangolo ed ad arco. Nel timpano nord fu rinvenuto un bollo del 142 che offre un termine di datazione139, ma non così utile come potrebbe sembrare, poiché – come si è detto – il sepolcro è comunque successivo a quello «della Quadriga», dunque più tardo
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di almeno una ventina d’anni rispetto al bollo. Nel 1942, infine, venne rinvenuta un’iscrizione sepolcrale fuori posto nel sepolcro C, dedicata agli dei Mani di Caetennia Procla, morta ventenne, dal marito Marcus Aurelius Filetus. In base al nome si potrebbe ipotizzare una parentela con il Caetennius Proculus che, assieme al padre, dedicò questo sepolcro140, ma ovviamente data la situazione del sepolcro non è possibile trovare una conferma definitiva. Sepolcro M, «degli Iulii» o «del Cristo Sole» Il più piccolo dei sepolcri della necropoli141 è allo stesso tempo uno dei più famosi nella storia dell’arte cristiana e compare regolarmente in tutti i manuali per la sua volta a mosaico. A differenza della maggior parte degli altri, questo sepolcro era già stato visto nel Rinascimento in occasione di lavori edilizi nella basilica: nel 1574, infatti, si volle edificare una sorta di portichetto davanti all’altare di papa Sisto I, che era subito a destra dell’ingresso all’area presbiteriale142. Nello scavo per fondare due colonne «fu ritrovata una bella sepoltura (...) tutta di musaico antiquo con figure che parevano cavalli, più presto giudicai fosse di gentili. (...) Alla finestrella di detto sepolcro o camera era una tavola di marmo busciata per dar lume e in mezzo a detta tavola di marmo era queste lettere»143. Segue, nel documento citato, la trascrizione dell’iscrizione principale della tomba, che era dedicata al piccolo Iulius Tarpeianus – morto a poco meno di due anni – dai genitori Iulia Palatina e Maximus144. Poiché il bimbo porta il nome della madre e il padre non ha gentilizio, Palatina doveva essere una liberta che conviveva con un servo. Il sepolcro fu costruito in un passaggio rimasto tra i sepolcri L ed N, sfruttandone le pareti esterne collegate con due setti in laterizio e una bassa volta a crociera. Le sue origini pagane sono testimoniate da un’unica nicchia sul fondo, contenente due incinerazioni e murata nella seconda fase decorativa. Per il resto vennero trovate solo inumazioni al di sotto del pavimento, mancante: sull’asse centrale è infatti una sorta di arcosolio sotterraneo largo poco più di mezzo metro con una deposizione e ai suoi lati sono altre due fosse, ognuna con due sepolture sovrapposte, separate da quella centrale da mattoni posti di taglio. Sopra il livello pavimentale a ridosso della parete orientale era l’ultima inumazione, la tomba a cassone t. La prima fase del sepolcro è di difficile datazione perché occultata completamente dalla decorazione successiva; un termine cronologico è dato dalla costruzione dei sepolcri adiacenti, a cui è ovviamente posteriore, ma resta un margine di incertezza e la presenza di incinerazioni potrebbe far propendere per un momento ancora entro la seconda metà del II secolo d.C. Abbiamo maggiori elementi, invece, per la profonda ristrutturazione della sua
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decorazione, che corrisponde anche a un cambiamento negli orientamenti religiosi della famiglia proprietaria. Lo zoccolo delle pareti presenta una decorazione piuttosto severa e sobria, che imita un rivestimento a lastre marmoree. Il fondo è chiaro con i listelli scuri o rossi, mentre i riquadri o cerchi al centro dei vari campi sono di colore giallo – allusione al marmo numidico. La decorazione più interessante è però quella della parte superiore delle pareti e della volta. Quest’ultima è la meglio conservata, nonostante il foro centrale – quello a cui si affacciarono gli scopritori rinascimentali – e la caduta di un terzo delle tessere nell’angolo nordoccidentale. Quasi completamente cadute anche le tessere della decorazione parietale, ma per fortuna l’immagine è ancora perfettamente leggibile grazie alla sinopia, il dettagliato disegno preparatorio del mosaico. Sulla volta appare una figura giovanile nimbata e radiata, che indossa una lunga veste cinta sul petto e un mantello svolazzante, nella mano sinistra regge il globo, mentre procede in piedi su una quadriga di cavalli bianchi lanciata al galoppo da est verso ovest, volgendosi leggermente alla sua sinistra. Il fondo è realizzato con tessere gialle e innervato da una lussureggiante vite che spande i suoi tralci su tutta la superficie, lasciando solo al centro un campo ottagonale per la quadriga. Alcune delle tessere dell’aureola e della veste dell’auriga celeste sono dorate. Se possedessimo solo questa scena, saremmo portati immediatamente a definirla come una tradizionale immagine di Helios, il sole che attraversa il cielo rappresentato dalla volta145. Tuttavia le scene ancora leggibili sulle pareti – soprattutto adesso grazie ai restauri che hanno rimosso le abbondanti salificazioni dalla superficie – orientano la lettura in tutt’altro senso. Sulle pareti infatti sono riconoscibili le silhouettes di tre scene, sempre circondate dagli onnipresenti tralci di vite: a sinistra si indovina un buon pastore, purtroppo mancante nella parte inferiore, con una pecora sulle spalle e una seconda appena intuibile ai suoi piedi; assai meglio conservato il disegno della parete di fondo, che mostra un pescatore che ha appena catturato un grande pesce all’amo, mentre un secondo nuota accanto al primo fuggendo. Sulla parete destra, infine, è la scena più complessa e più connotante: su una nave con la prora rivolta verso destra, due marinai alzano le braccia mentre una figura cade in acqua nelle fauci di un mostro marino. È la scena di Giona ingoiato dal pesce nel quale, secondo il racconto biblico, rimarrà tre giorni: figura della morte e risurrezione di Cristo. Nessuna delle altre due scene – presa isolatamente – potrebbe manifestare in maniera univoca un significato cristiano. Infatti, nel corso del III secolo, proprio nei rilievi dei sarcofagi immagini di pastori con pecore in spalla e di pescatori fanno parte di quel repertorio bucolico, che sostituisce progressivamente le immagini mitologiche utilizzate in precedenza. Solo Giona, pur riutilizzando schemi di tradizione classica, è sufficientemente tipico da non
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Pagina precedente: 66. Sepolcro M «degli Iulii», volta musiva con Cristo-Helios.
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67. Sepolcro M «degli Iulii», parete nord con zoccolo a finto marmo e sinopia di un mosaico rappresentante un pescatore.
68. Sepolcro M «degli Iulii», parete destra con zoccolo a finto marmo e sinopia di un mosaico rappresentante Giona ingoiato dal pesce.
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LA NECROPOLI SOTTO LA BASILICA E LA TOMBA DI SAN PIETRO
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69. Sepolcro N, urnetta cineraria di Gaius Clodius Romanus, dettaglio fianco sinistro.
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70. Sepolcro N, urnetta cineraria di Gaius Clodius Romanus, dettaglio fianco destro.
poter essere attribuito che al repertorio cristiano. Questo caposaldo comporta un riorientamento della lettura di tutto il complesso: il pastore e il pescatore – che in ambito pagano potevano essere compresi come coppia allusiva alla terra e al mare – acquistano chiare risonanze neotestamentarie. Possiamo dunque riconoscervi il Buon Pastore della parabola evangelica, mentre l’immagine del pescatore di anime viene utilizzata nel Nuovo Testamento in diverse occasioni, senza contare il significato del pesce come simbolo cristologico ed eucaristico. A questo punto anche il carro di Helios deve essere risemantizzato in chiave cristiana e bisogna scorgervi il Cristo-Sole, di cui – con accentuazioni diverse – esiste ampia traccia nella patristica146. La datazione di questo straordinario ciclo oscilla147 nella seconda metà del III secolo: si tratta di un momento in cui l’arte cristiana sta formando il suo repertorio. Lo fa ovviamente a partire dal vocabolario preesistente della tradizione classica, cercando in essa i temi figurati più adatti, ma anche quelli che potessero risultare neutri da un punto di vista religioso, o comunque capaci di essere utilizzati in un nuovo linguaggio e riempiti di nuovi contenuti. È un processo paragonabile in tutto e per tutto a quello che avviene in ambito letterario, quando i Padri della Chiesa utilizzano con intelligente selezione le armi della retorica classica per esprimere un nuovo mondo simbolico e ideale e una nuova sensibilità, mettendo questi strumenti al servizio dell’omiletica, dell’apologetica e della catechesi148. Un simile complesso ha un valore straordinario in quanto è il primo mosaico cristiano e rappresenta un anello essenziale per la comprensione dello sviluppo iniziale di quest’arte. In seguito, nel corso del IV secolo, lo schema di un personaggio che sale in cielo su un carro sarebbe stato utilizzato sia su sarcofagi, in particolare per l’immagine del profeta Elia rapito in cielo149, che – almeno in un caso – per un mosaico monumentale: quello della cappella di Sant’Aquilino nella basilica di San Lorenzo a Milano, di controversa lettura, ma che secondo alcuni rappresenterebbe appunto Cristo Sol Invictus150. Infine la scelta di questa iconografia attesta la presenza di un gruppo familiare convertito, verosimilmente nella sua interezza, al cristianesimo: come si è visto negli altri sepolcri più a est, le sepolture cristiane sono alquanto rare e poco appariscenti, oltre che spesso un poco più tarde151. Per comprendere le scelte di questa famiglia è difficile decidersi tra due ipotesi alternative: si potrebbe pensare infatti a un sepolcro di famiglia i cui proprietari si siano convertiti e abbiano deciso di trasformare la decorazione
in maniera più consona al loro credo, oppure a una nuova famiglia subentrata nella proprietà del sepolcro, che eventualmente potrebbe essere stato scelto anche per l’attrazione spirituale costituita dalla vicinanza della tomba di Pietro. Sepolcro N, «degli Aebutii e dei Volusii» Gli scavi degli anni ’40 del secolo passato non poterono vedere molto più della facciata di questa camera sepolcrale. L’interno, infatti, era occupato dal pilastro che serviva da sostegno alla grande statua di Pio VI scolpita dal Canova e posta al centro della confessione, davanti all’altare pontificio della basilica soprastante. Solo nel 1979, quando la statua fu spostata all’estremità orientale delle grotte, il pilastro fu demolito liberando l’ambiente152. L’iscrizione sulla facciata è particolarmente interessante in quanto comprende due testi su due registri sovrapposti, ma contemporanei. La prima iscrizione è dedicata a Marcus Aebutius Charito, che si costruì la tomba da vivo riservandola anche – come consueto – ai suoi liberti, ma senza nominare altri membri della famiglia, il che fa ritenere che fosse rimasto celibe. Quando l’edificio sepolcrale era ancora in costruzione dovette subentrare anche un’altra famiglia: infatti la seconda dedica è posta agli dei Mani di Gaius Clodius Romanus, diciannovenne, da parte dei genitori Lucius Volusius Successus e Volusia Megiste, che dichiarano di avere acquistato il sepolcro per metà (in parte dimidia)153. Quando l’interno del sepolcro fu scavato, venne ritrovata nella nicchia centrale della parete destra l’urnetta di Romanus154. di forma quadrata aveva sulla fronte l’iscrizione che ripete la dedica posta sull’iscrizione principale. Sui fianchi invece sono rappresentati a sinistra due balsamari chiusi da un tappo e sulla destra un thymiaterion, un bruciaprofumi di foggia elaborata a calice, assieme a una lucernetta. Si tratta di un’iconografia poco consueta, ma per i balsamari – a parte quello raffigurato in stucco nella nicchia di Valeria Maxima del sepolcro H – si può citare un’urna da Lucca datata alla seconda metà del I secolo d.C.155, mentre il thymiaterion potrebbe essere avvicinato ai due sostegni visibili su un’urnetta romana della fine del 156 I-inizi del II secolo d.C. . Particolarmente interessante è il dettaglio del rinvenimento all’interno dell’urna di una moneta databile in età traianeo-adrianea157, che porterebbe a rialzare la datazione della tomba, stabilita dai suoi primi scavatori su base alquanto esile in base alla relazione tra la quota di spiccato dell’edificio e quella degli edi-
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fici adiacenti. Una datazione relativamente alta si troverebbe invece in armonia sia con i confronti sopra citati per l’urnetta, sia con gli affreschi dell’interno che, benché rovinati, mostrano un repertorio vegetale su fondo bianco, con ghirlande, fiori e – sopra la porta – un bel candelabro vegetale, tutti elementi che ben si potrebbe collocare in età adrianea, sia infine con la presenza di un unico arcosolio per inumazioni nella parete di fondo, che indicherebbe un momento in cui ancora prevale nettamente il rito incineratorio. Per il resto le pareti laterali sono articolate con nicchie alternativamente a pianta semicircolare e quadrata su due livelli, mentre la parete di fondo, sopra l’arcosolio, ha una grande nicchia con calotta a conchiglia, al di sopra della quale sono affrescati due pavoni, simbolo di immortalità già altre volte incontrato negli affreschi della necropoli158. La volta a botte è conservata solo in piccola parte e così il pavimento, in mosaico bianco e nero decorato a girali vegetali.
71. Sepolcro N, urnetta cineraria di Gaius Clodius Romanus, fronte.
Si può ricordare, infine, che durante gli scavi si rinvenne davanti al sepolcro, all’altezza dell’iscrizione della facciata, un bel sarcofago paleocristiano del primo quarto del IV secolo159, evidentemente calato in una sepoltura dal pavimento della basilica, con un fregio continuo raffigurante la caratteristica trilogia di scene petrine (battesimo dei suoi carcerieri, predizione del rinnegamento e arresto), scene tratte dal Nuovo Testamento (guarigioni del cieco nato e dell’emorroissa, resurrezione di Lazzaro) così come dal Vecchio (Mosè riceve la legge, Daniele avvelena il drago dei Babilonesi, sacrificio di Isacco). Al centro della cassa campeggia una figura femminile orante, che – per i tratti del volto individualizzati – deve essere riconosciuta come la titolare della deposizione, mentre sul coperchio, ai lati dell’iscrizione – purtroppo priva di nome – è la scena di Giona gettato in mare e dei tre fanciulli nella fornace. Sepolcro V e area di fronte al sepolcro N Di fronte ai sepolcri L ed M si vede l’angolo nord-occidentale del sepolcro V160, che non poté essere indagato, in quanto al suo interno continuava il muro trasversale di fondazione dell’arcone trionfale, già discusso per il sepolcro L. Il suo ingresso si apriva verso sud, come avviene per tutti i sepolcri della fila più a valle, e con essi deve condividere una datazione non anteriore alla seconda metà del II secolo. In corrispondenza di questi sepolcri l’iter, che provenendo da est serviva la necropoli dividendo le due file di sepolcri, era bloccato da tombe a cassone in muratura poste di traverso – ora non più conservate – che si erano addossate da un lato al sepolcro L, «dei Caetennii minori». Le loro tracce sono rimaste, sul lato opposto del viottolo, anche sulla cortina settentrionale del sepolcro V, che a sua volta si era addossato a queste tombe. Essendo perciò V successivo a L, arriviamo anche per questa via a datarlo verso la fine del II secolo. In questo momento dunque, chi avesse percorso l’iter avrebbe dovuto compiere una deviazione aggirando da sud il sepolcro V per raggiungere la piazzola, lastricata di mattoni, sul cui lato nord si aprivano i sepolcri M, N e O, mentre a ovest era delimitata dal sepolcro U. A quest’ultimo infine si addossavano ulteriori tombe a cassone sovrapposte, di cui resta traccia sulla cortina, restringendo ancora lo spiazzo. La piazzetta dovette essere infine sbarrata dai muri del cantiere costantiniano che servivano a imbrigliare l’interro per il rialzamento del terrazzo su cui sarebbe sorta la
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72. Sepolcro N, porta d’ingresso. 74
73. Sarcofago paleocristiano di età costantiniana con scene vetero e neotestamentarie.
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basilica: è ancora visibile parte del muro che univa in direzione est-ovest lo spigolo sud-occidentale di L con quello sud-orientale del recinto di O. Sepolcro O, «dei Matucci» Già nel 1822 questo sepolcro era stato intravisto, nel corso dei lavori per gettare la fondazione che doveva sostenere la statua canoviana di Pio VI al centro della confessione, davanti all’altare papale161. Tale fondazione, come già nel caso dell’adiacente sepolcro N, non permise che un’esplorazione molto parziale durante gli scavi degli anni ’40 del secolo scorso162 e solo nel 1979 lo spostamento della statua consentì di accedervi completamente. Il tipo architettonico è alquanto originale, se comparato con gli altri sepolcri della stessa necropoli: la camera funeraria, infatti, è circondata su fronte e lati da un recinto che forma una sorta di corridoio perimetrale con accesso decentrato sull’angolo sud-orientale e che, sul lato occidentale, accoglie una scala in muratura che sale alla terrazza superiore. Mentre la camera è realizzata in laterizio, il recinto è in opera mista di reticolato – la caratteristica muratura romana in tufelli disposti a scacchiera con orientamento a 45° – con ammorsature e angoli in laterizio, una tecnica tipica del periodo traianeo-adrianeo. Altra indicazione di relativa antichità è il fatto che in costruzione vennero previste esclusivamente incinerazioni; inoltre uno sguardo alla pianta generale rivela chiaramente come il muretto meridionale del recinto si allinea con grande precisione sullo stesso filo della fronte dei sepolcri più antichi che sorgono più a est (A-G), segno che – quando fu edificato in età adrianea – il circo più a sud era ancora in funzione e condizionava la posizione dei sepolcri con la sua area di rispetto163. Tale datazione è infine confermata anche dal bollo su un mattone bipedale della finestrina a sinistra dell’iscrizione dedicatoria, sopra l’ingresso della camera164. L’iscrizione stessa è una dedica al patrono Titus Matuccius Pallas da parte di due suoi liberti, Titus Matuccius Entimus e Titus Matuccius Zmaragdus, che esercitavano l’attività di tessitori o mercanti di teli di lino165. L’interno è piuttosto austero: il pavimento – conservato solo in parte – era in laterizio; la volta – anch’essa conservata in misura molto parziale – era a crociera. Le pareti sono scandite da riquadri gialli e verdi separati da larghe fasce purpuree, impreziosite da una semplice decorazione vegetale in bianco. Le pareti laterali ospitano nicchie per incinerazioni su due livelli, ma in due di esse, sul lato orientale, furono inserite in un momento tardo inumazio-
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Pagine precedenti: 74. Piazzetta davanti ai sepolcri N, M, L con il muro di fondazione costantiniano.
ni infantili. La parete di destra aveva una porta che dava nel sottoscala, le cui pareti erano decorate con l’usale alternanza di grandi riquadri verdi e gialli, tranne che per la parete in cui si apriva la porta, affrescata con rose su fondo bianco. In un secondo tempo tale andito fu occupato da un grande sarcofago in terracotta e l’accesso venne murato, infine la scala venne sfondata da sepolture calate dall’alto, ossia dal pavimento della basilica. Anche la parete di fondo della camera principale era stata nascosta da sepolture calate dall’alto, ora rimosse per ripristinare la situazione originaria: qui infatti si apriva una nicchia ampia e poco profonda con un catino decorato da un affresco a fondo azzurro, purtroppo quasi completamente perduto. Si potrebbe pensare a una scena marina di carattere simile a quella della nicchia di fondo del sepolcro F. La parte inferiore della parete, invece, alternava due riquadri gialli con ghirlande a uno centrale verde; nella parte inferiore era un basso bancone, verosimilmente destinato a sostenere l’urna del patrono, Titus Matuccius Pallas, che doveva trovarsi nel luogo più onorevole. Nel sottoscala furono trovati alcuni frammenti di iscrizioni uno dei quali deve provenire dalla tomba stessa, in quanto conserva la dedica a Titus Matuccius Demetrius, morto a ventiquattro anni, posta dal liberto suo compagno Titus Matuccius Hermaiscus166.
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Sepolcro T, «di Trebellena Flaccilla» Il sepolcro venne costruito insieme a quello adiacente U, con cui condivide dimensioni, tipo e decorazione167. Entrambi si addossarono alla parete meridionale del recinto del sepolcro O, ma risultano posteriori anche al sepolcro S, in quanto un condotto fognario che passa accanto a quest’ultimo venne tagliato dalla loro costruzione. L’esterno ha un paramento in laterizio, l’interno è in opera listata, a ricorsi alternati di laterizio e tufelli; il pavimento è in lastre di marmo. Il nome deriva dal rinvenimento, nella nicchia subito a sinistra dell’ingresso, di un’urnetta che ora campeggia in posizione assai più evidente, per ragioni espositive. La defunta, in effetti, non avrebbe di per sé alcun motivo di notorietà e l’urnetta stessa è scolpita in un pezzo di marmo di reimpiego. La sua forma è molto semplice, con una tabula ansata che occupa tutto il lato frontale e reca la dedica agli dei Mani di Trebellena Flaccilla, posta dalla madre Valeria Tecina. Il nome di quest’ultima ha fatto sospettare un possibile legame con i Valerii della tomba H, ma il gentilizio è alquanto
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75. Nicchia della parete di fondo del sepolcro O.
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Pagine seguenti: 79. Sepolcro U.
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Pagina 130: 80. Parete sinistra: nell’arcosolio aquila che afferra un serpente, nella nicchia superiore Lucifer.
diffuso e la datazione della deposizione è assai più tarda, come si vedrà. Tutto l’interesse dell’urnetta sta nel fatto che al suo interno fu rinvenuta, tra le ceneri, una moneta costantiniana della zecca di Lione databile tra il 317 e il 318: si tratta dunque non solo della più tarda sepoltura datata prima della costruzione della basilica168, di cui costituisce uno dei termini più precisi di datazione, ma anche della più tarda incinerazione nota a Roma. Per spiegare questo fatto dobbiamo pensare a un particolare tradizionalismo di stampo pagano, ovvero si deve immaginare che la morte sia avvenuta fuori Roma cosicché, per riportare i resti della defunta nella tomba di famiglia, la scelta dell’incinerazione si sarebbe imposta per ragioni pratiche. Non conosciamo il primo fondatore del sepolcro, poiché l’iscrizione principale sulla facciata è perduta. L’unica altra iscrizione che proviene verosimilmente dalla tomba è la dedica – pertinente a un arcosolio – posta da Samiaria Hermocratia al marito Decimus Laelius Alexander e al ventenne figlio Decimus Laelius Lucilianus169. All’interno il sepolcro presenta arcosolii lungo i lati e il fondo, mentre al di sopra le pareti laterali mostrano una nicchia centrale inquadrata da colonnine in stucco e con catino a conchiglia, affiancata da due nicchiette quadrate sovrapposte per lato. I colori delle pareti sono vivaci: dominano il rosso e il giallo. Sul fondo della nicchia centrale di destra è affrescata una testa di Dioniso da cui si staccano girali vegetali, che si espandono ai lati e sui cui poggia un uccello per parte. Nelle nicchiette quadrate si
vede un calice di verzura con un uccello e rametti di rose. Nell’arcosolio occidentale è dipinta una pantera che insegue un cervo dalle corna ampiamente ramificate, purtroppo ridotti a sagome: nelle foto di scavo si indovinano ancora degli alberi che formavano il paesaggio dello sfondo. Il simmetrico arcosolio orientale è chiuso e vi si è anteposto un bancone, quello frontale è illeggibile. Al centro della parte superiore della parete di fondo doveva essere invece un gruppo di cui si riconosce solo parte di un amorino, mentre sulla destra è conservato un delfino che si avvolge al tridente di Nettuno. Quanto infine alla datazione, possiamo basarci sui rapporti strutturali con gli altri sepolcro vicini, inoltre il gusto per campiture a colori forti e una tecnica impressionistica ed essenziale fa pensare alla fine dell’età antonina, forse la fine del II secolo d.C.170.
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Sepolcro U Per struttura, dimensioni e tecnica edilizia il sepolcro U è del tutto simile al gemello sepolcro T171. Anche la distribuzione delle nicchie e la scelta dei colori si ripete, ma in questo caso le pitture sono meglio conservate e leggibili, specie dopo il recente restauro: gli arcosolii sono tutti affrescati con immagini di animali sul fondo chiaro: nell’arcosolio di fronte all’ingresso due tortore volano affrontate, l’arcosolio di destra è decorato da un pavone che avanza verso sinistra tra due alberelli e quello di sinistra, in
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parte mancante, ha un’aquila che piomba su un serpente. Per quanto riguarda la fascia superiore della parete, quella del lato di fondo è molto rovinata dalle fondazioni rinascimentali, che non permettono di riconoscere altro che le gambe di un cavallo in moto verso sinistra. Più interessante è invece la decorazione delle nicchie centrali delle pareti laterali: in quella occidentale si riconosce l’immagine – delineata con mano sicura e rapida – di un giovane vestito solo di un manto svolazzante, montato su un cavallo bianco, che sale rampante verso sinistra. Ha in mano una fiaccola e il capo, sottolineato da una aureola, è coronato da una stella: il personaggio è facilmente riconoscibile con Lucifer, la stella del mattino. Di fronte a lui – nella nicchia opposta – è una sagoma assai meno ben conservata, ma tuttavia agevolmente ricostruibile. Raffigura il suo simmetrico compagno Vesper, che cavalca in discesa verso destra, la stella della sera. L’unica stranezza è che ci si aspetterebbe una posizione invertita: Lucifer è infatti dipinto sul lato del tramonto e viceversa Vesper, ma forse questo è chieder troppo al pittore, il cui intento era piuttosto quello di decorare il sepolcro inserendovi allusioni alla complementarietà tra alba e tramonto, così come negli arcosolii l’aquila che afferra la serpe allude a Giove e il pavone alla sua divina consorte Giunone. Nelle nicchie quadrate minori laterali, infine, si ripete la decorazione già vista in T con rametti di rose su fondo bianco e un calice di verzura. La datazione è la stessa del suo sepolcro gemello.
Pagina 131: 81. Parete destra: nell’arcosolio un pavone, nella nicchia superiore Vesper.
Sepolcro S di Flavius Agricola Aggirando da sud i sepolcri T e U si incontra il sepolcro S, ad essi antecedente come s’è detto172. Ci si avvicina alla zona più importante della necropoli, al centro della quale si trova il «trofeo di Gaio» già discusso, ma per questo stesso motivo questa camera funeraria e le altre che si esamineranno in sequenza sono anche quelle più danneggiate sia dalle sepolture di epoche successive – era infatti un privilegio assai ambito in età tardoantica e medioevale essere sepolti presso l’apostolo – sia dalle strutture della confessione, con il suo corridoio semianulare e le cappelle collegate, nonché infine dal baldacchino innalzato nel 1626 da papa Urbano VIII Barberini su disegno di Gianlorenzo Bernini, quello che ancora adesso costituisce uno dei tratti più caratterizzanti della basilica. In particolare la storia di quest’ultimo intervento merita un breve excursus: sia per spiegare le interferenze con le strutture d’età romana, che più volte verranno ricordate, sia per l’interesse peculiare della vicenda e per alcuni rinvenimenti avvenuti in tale occasione, che integrano il panorama archeologico e storico del complesso della necropoli173. Già in precedenza, nel XVI secolo e ai primi del XVII, si erano avuti rinvenimenti di iscrizioni o di sepolture in quest’area critica174. Tuttavia, quando vennero scavati i fondamenti delle quattro colossali colonne bronzee destinate a reggere il baldacchino barocco, si ebbe una vivace
76 Urnetta di Trebellena Flaccilla. 77. Affresco dell’arcosolio occidentale del sepolcro T. 78. Sepolcro U, arcosolio della parete di fondo con volo di tortore.
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82. Dettaglio della nicchia della parete sinistra con la stella Lucifer. 83. Pianta con la sovrapposizione della necropoli e delle strutture della confessione (da Prandi 1963).
discussione per il timore reverenziale che incuteva la prospettiva di avvicinarsi alla tomba dell’apostolo. L’Archivio della Biblioteca Apostolica Vaticana conserva traccia di queste dispute: lettere contrarie175, relazioni favorevoli all’impresa176, relazioni storiche177. I documenti più interessanti sono, però, le relazioni che vennero compilate sullo scavo stesso, di un dettaglio e un’accuratezza veramente notevoli per l’epoca, segno dello straordinario interesse (e in alcuni casi del timore), che a tutti i livelli della curia si nutriva per quest’impresa. Ne esistono una in latino del notaio capitolino Giovanni Battista Nardone178 e una in italiano di Ugo Ubaldi179, a cui si possono aggiungere le note, più stringate, del diario del Torrigio180. I lavori erano seguiti da alcuni canonici di San Pietro appositamente deputati, i soli autorizzati a metter mano sui resti, le ossa e i reperti. Perfino il canonico Antonio Maria Aldobrandini fu costretto a fare richiesta scritta per essere ammesso a visitare gli scavi181. Le cautele e le discussioni costrinsero ad alcuni aggiustamenti del progetto berniniano, il che spiega per esempio l’anomala pianta rettangolare del baldacchino182. Quel che è più interessante da un punto di vista archeologico, però, sono alcuni rinvenimenti di cui si è conservata memoria
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nella documentazione e, in particolare, proprio quelli all’interno del sepolcro S. Qui, infatti, emerse la statua di un personaggio adagiato sulla kline, il lettino da convivio, secondo un tipo di ritratto funerario diffuso nella media età imperiale. L’uomo è avvolto in un manto che gli lascia scoperta la metà superiore del corpo, con una coppa da libagione nella mano sinistra e la destra portata al capo per reggere una corona di fiori. Il volto barbato ha i tratti e lo stile caratteristico dell’epoca di Antonino Pio e può datarsi attorno al 160 d.C.183. Quel che colpì i contemporanei fu l’iscrizione relativa al suo sepolcro, che non solo ci informa sul nome del defunto, ma gli dà la parola; è lo stesso Flavius Agricola, che apostrofa direttamente il lettore e spettatore mediante un breve componimento in distici elegiaci: «Tivoli è patria per me, io sono l’Agricola che chiamano Flavio: proprio io sono qui a giacere, come mi vedete; così pure trai mortali, negli anni che i fati (mi) concessero, coltivai la mia animuccia, né mai fui a corto della bevanda di Bacco. E prima mi precedette Primitiva, moglie dilettissima, Flavia ella stessa, devota della casta dea Iside, tanto premurosa quanto piena di dignità nell’aspetto,
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con la quale trascorsi tre decine di anni dolcissimi. E a compenso della sua stirpe mi lasciò Aurelio Primitivo, che coltivasse con la sua devozione i nostri onori, e serena mi serbò una dimora per sempre. Amici che leggete vi esorto: versate il liquore di Bacco e bevete molto, cingete le tempie di fiori e l’unione di Venere non rifiutate alle belle fanciulle; dopo la morte terra e fuoco consumano il resto»184.
riore della parete, inoltre, si sono conservate tracce che permettono di ricostruire la consueta articolazione di nicchie a pianta rettangolare e semicircolare alternate. Quelle della parete occidentale vennero però demolite in un secondo tempo per far posto a un’inumazione. I rapporti di sovrapposizione con i sepolcri vicini e lo stile del ritratto di Agricola inducono a datare il sepolcro attorno alla metà del II secolo d.C.
Il componimento unisce un linguaggio diretto ed esplicito a qualche ricercatezza e gioco di parole: la prima riga, ad esempio, gioca sul gentilizio, potrebbe infatti anche tradursi altrettanto bene «Tivoli è patria per me, io sono il contadino che chiamano Flavio», mentre più avanti, approfitta del cognome della moglie per insistere sulla priorità della morte di quest’ultima con un’allitterazione un po’ pedante (Praecessitque prior Primitiva). Infine nelle ultime raccomandazioni agli amici che restano, l’esortazione a bere molto e a cingersi il capo di fiori è rafforzata dall’esempio personale, visto che il suo simulacro sta compiendo esattamente gli stessi gesti. Non sono però questi gli aspetti che colpirono di più la corte pontificia, ma piuttosto, per così dire, quell’epicureismo popolare che informa di sé tutto il componimento, invitando a godere la vita finché possibile e inneggiando alle gioie dispensate dalle belle ragazze. Evidentemente imbarazzava un personaggio che coltivava una filosofia spicciola così poco consona alla santità del luogo e alla vicinanza delle reliquie dell’apostolo deposte lì vicino. La statua finì nella collezione di famiglia Barberini finché – al principio del secolo scorso – tramite il commercio antiquario prese la via dell’esportazione fuori d’Italia per raggiungere una sede meno severa, mentre l’iscrizione venne distrutta dopo la scoperta, per fortuna non senza essere stata prima ricopiata. Anche della statua, d’altronde, restano disegni dell’epoca, che ne hanno permesso una sicura identificazione. Degli scavi seicenteschi restò traccia anche in un poliandrio, un ricettacolo che accolse pietosamente i resti umani emersi durante i lavori di fondazione, riconosciuto durante gli scavi archeologici degli anni ’40185. Durante quest’ultimo intervento, pur se condotto con le notevoli limitazioni imposte dalle fondazioni berniniane, si poté appurare che il sepolcro era stato edificato prevedendo sia il rito dell’inumazione sia quello dell’incinerazione: sono stati visti arcosolii nelle pareti occidentale e settentrionale, mentre nel pavimento musivo sono inserite lastrine marmoree forate, che permettevano di versare le offerte di libagione ai defunti sepolti nelle urne sottostanti. Nella parte supe-
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Sul lato occidentale del sepolcro S passa un viottolo privato in salita, chiamato clivus dagli scavatori, che separa S dal sepolcro R. Di quest’ultima camera funeraria non rimane molto: già tagliata dalle fondazioni della cripta semianulare della basilica medievale, fu intravista successivamente nei lavori attorno alla Confessione del 1615, mentre la fondazione della colonna sud-occidentale del baldacchino berniniano la riempì per la maggior parte186. Si è potuto in ogni caso riconoscere che la suddivisione delle pareti era quella solita: inferiormente erano gli arcosolii, superiormente le nicchie tra colonnine di stucco, con decorazioni affrescate di tipo vegetale. Solo in una seconda fase venne scavato un vano al di sotto del pavimento originario per una profondità di 2,30 metri, una sorta di cripta riempita progressivamente dall’alto di deposizioni. Fu con un certo stupore misto a timore che gli scavatori del secolo scorso si resero conto in questa maniera che la colonna del baldacchino si reggeva praticamente sul vuoto. Una volta che gli antichi proprietari del sepolcro ebbero esaurito lo spazio della cripta, collocarono sul pavimento della camera altri tre sarcofagi. Il primo di essi è particolarmente significativo: sia di per sé sia per la cronologia di utilizzo del sepolcro. Si tratta di una cassa decorata da strigilature sulla faccia anteriore, con al centro un arco che inquadra due figure su una base, a imitazione di un gruppo scultoreo. Sono rappresentati Meleagro e Atalanta: due dei più famosi cacciatori della mitica caccia al cinghiale Calidonio, con un’iconografia non molto frequente in questa versione. La fronte del coperchio, invece, aveva un decorazione tratta da un repertorio assai più usuale: ai due lati della tabella destinata ad accogliere l’iscrizione – purtroppo mai realizzata o solo dipinta e dunque svanita – si dispiega una fila di esseri marini: a sinistra dei ketoi (sorta di serpenti marini) e a destra dei tritoni. All’interno erano deposti insieme un adulto e un infante; assieme ad essi era anche un gruzzolo di monete di varia epoca: la più antica
84-85. Sarcofago infantile a lenos dal sepolcro S.
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86-88. Sarcofago paleocristiano strigilato tra R e R’.
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risaliva a Domiziano, le due più tarde a Settimio Severo187, databili rispettivamente al 193 e al 194. Poiché, però, per il trattamento degli occhi dei due eroi, dei capelli di Meleagro, nonché della veste di Atalanta la cassa deve essere datata in un momento leggermente anteriore188 – al decennio 180-190 – ci troviamo davanti a un reimpiego oppure a due deposizioni successive. In quest’ultimo caso le monete sarebbero state aggiunte assieme alla seconda deposizione. Insieme al sarcofago, ne venne rinvenuto un secondo infantile, di forma ovoidale con strigilature e due riquadri alle estremità della fronte dove è raffigurata due volte la defunta assistita da una ancella: a sinistra in cattedra con la lira, a destra su uno sgabello accanto a una meridiana. Un terzo sarcofago era infine quasi totalmente privo di decorazione, con una tabella anepigrafe sulla cassa e dei viticci sul coperchio. Per la storia edilizia dei sepolcri immediatamente più a nord, del vialetto e dei due recinti settentrionali – il Q e il Campo P – il sepolcro R deve datarsi subito dopo la metà del II secolo. Ancora più a ovest si intravidero appena esigui resti, che vennero interpretati come l’attacco delle murature di un’ulteriore camera sepolcrale, completamente distrutta, che venne chiamata R’. Sepolcro R’ Sull’allineamento della facciata di R, subito a nord ma a una quota superiore a causa della pendenza naturale del terreno, è il sepolcro R’, quasi completamente distrutto dalle fondazioni del corridoio centrale della confessione e dalle deposizioni calate dal pavimento soprastante della basilica costantiniana189. Se ne conserva quasi solo la facciata d’ingresso. Dal poco che ne rimane tuttavia, sembra si dovesse trattare di una camera alquanto irregolare, con il lato d’ingresso sul clivus più stretto di quello di fondo, dove si apriva invece un arcosolio utilizzato per diverse sepolture sovrapposte le une alle altre e separate da tegole. La prima e più profonda, quindi quella che data il sepolcro, aveva tra le tegole di copertura un bollo databile tra 146 e 161 d.C.190, lo stesso tipo che fu trovato in cinque esemplari nel fognolo sottostante al clivus antistante. La copertura della deposizione successiva, che vi si era sovrapposta, aveva invece una tegola con un bollo di età compresa tra l’età di Marco Aurelio e quella severiana e una seconda con un bollo dell’età di Marco Aurelio (161-180 d.C.)191. Adiacente a R’ era una cisterna e il sepolcro stesso si sovrapponeva a strutture anteriori, di funzione non del tutto chiara, com-
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prendenti altre deposizioni, una delle quali con una tegola recante un bollo degli anni 138-141192. Tra le sepolture tarde calate dall’alto, una è ancora visibile in situ: un sarcofago paleocristiano inserito nella muratura che divide R da R’, la cui cassa sconfina anche nel clivus antistante. La fronte, rivolta verso sud, cioè visibile dal sepolcro R, è strigilata con al centro il ritratto di una coppia inserito in un clipeo (un disco a forma di scudo, antica forma onoraria) sovrapposto alla scenetta idilliaca di un pastore che munge una pecora, mentre alle estremità si trovano le immagini degli apostoli Pietro e Paolo193. La cassa, che contiene ancora due corpi, si data stilisticamente al secondo quarto del IV secolo, ma deve essere stata reimpiegata in epoca successiva, in quanto il coperchio non si adatta bene e non pare quello originario.
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Recinto Q Ancora più a nord di R’ si apriva un recinto a cielo aperto, che poté essere scavato solo con difficoltà e che risultò distrutto in gran parte dalle fondazioni del corridoio centrale della confessione, dalla cappella Clementina e dalla colonna nord-occidentale del baldacchino del Bernini194. Costruito in laterizio, era pavimentato con una sorta di mosaico a grosse tessere di selce e prevedeva esclusivamente inumazioni, disposte in arcosolii lungo il perimetro. Era privo di copertura e vi si accedeva attraverso la porta posta al termine settentrionale del clivus. A est il muro perimetrale coincideva con la prosecuzione settentrionale del muro rosso del Campo P, di cui si è parlato all’inizio di questo capitolo. La struttura sembra databile attorno alla metà del III secolo. Il recinto Q si sovrappose – come era già avvenuto per R’ – a strutture anteriori: verosimilmente una cisterna contemporanea alla costruzione del clivus, al muro rosso e al sepolcro R’. Campo P Siamo tornati così finalmente al luogo da cui era partito questo capitolo, all’area scoperta delimitata a ovest dal clivus e dal recinto Q e a sud dal sepolcro S (fig. 8). Non si ripeterà quanto già si è detto trattando la tomba di Pietro. Sarebbe possibile infatti una descrizione più dettagliata delle varie fasi delle strutture qui rinvenute, ma non apporterebbe molta più chiarezza in un discorso necessariamente sintetico come è questo. Basti dire in chiusura che questo settore della necropoli – se si prescin-
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de dalle sepolture isolate del Campo P – dovette essere occupato nel giro di pochi anni a partire da sud e da ovest. Come si è visto infatti esistevano già in età adrianea cisterne che vennero riutilizzate in parte come sepolture nell’area che sarebbe stata occupata dal sepolcro R’. Venne quindi edificato il sepolcro S, poi quello R e infine, verso il 160, il complesso del clivus, delimitato a est dal muro rosso, con accesso verso ovest al nuovo sepolcro R’ e a nord a una cisterna, più tardi sostituita dal recinto Q. In questa attività edilizia si dovette inserire anche la comunità cristiana, per monumentalizzare il luogo venerato come sepoltura dell’apostolo. Ciò dovette avvenire da un lato per la maggiore coscienza maturata dell’importanza dell’apostolo come garante della fede della comunità romana stessa e come tramite diretto con l’insegnamento di Cristo, dall’altro – e non sarà un aspetto da sottovalutare – per salvaguardare dall’espansione edilizia della necropoli il luogo venerato e dargli uno statuto riconoscibile anche dai frequentatori pagani dell’area, in modo da scon-
giurare eventuali profanazioni e danneggiamenti. L’accesso al Campo P non poteva avvenire né tramite l’iter – l’asse principale di questo settore di necropoli, per quanto ci è dato di conoscere – né tramite il clivus, che terminava nel recinto Q, ma necessariamente attraverso un percorso che passava a monte della fila settentrionale dei sepolcri. Non si hanno elementi per dire se anche in questa fascia più settentrionale la necropoli fosse altrettanto fittamente occupata, ma in ogni caso lo spazio disponibile nel Campo P non permette di ipotizzare la partecipazione di grandi numeri di fedeli alle commemorazioni che vi si saranno svolte. Forse anche questo aspetto della disponibilità degli spazi è un argomento da tener presente quando si discute la celebrazione della festività dei santi Pietro e Paolo il 29 giugno, che, come si è detto195, almeno dal 258 si sarebbe tenuta per san Paolo sul luogo della sua sepoltura sulla via Ostiense, mentre per san Pietro si svolgeva ancora presso le catacombe oggi dette di San Sebastiano, sulla via Appia.
89. Clivus: dettaglio della porta di accesso al recinto Q e lato posteriore del muro rosso.
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CAPITOLO QUARTO
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Pagine precedenti: 1. Via Triumphalis e necropoli: a. Galea; b. Autoparco; c. Annona; d. Santa Rosa; e. via Triunphalis; f. via Cornelia.
INTRODUZIONE TOPOGRAFICA In area extraurbana, l’antica via Triumphalis aveva origine dalla sponda settentrionale del Tevere, partendo prima dal ponte Neroniano e in seguito dal ponte Elio, all’altezza del sepolcro di Adriano1. La strada lasciava il percorso della via Cornelia, in un punto non precisabile ma probabilmente nell’area dell’attuale piazza San Pietro, per dirigersi verso nord, passando nella valle al di sotto del colle Vaticano e indirizzandosi verso monte Mario; all’altezza della Giustiniana (VI miglio) la via Triumphalis incrociava la via Cassia-Clodia che passava immediatamente a ovest di Veio. Quindi l’originario percorso corrispondeva grosso modo all’antica via Veientana ma, presumibilmente a seguito della distruzione di questa città etrusca ad opera di Furio Camillo (396 a.C.), cambiò il nome in Triumphalis e – tramite il ponte o un guado – sembra dovesse connettersi, all’interno di Roma, con la via porticata che terminava proprio con la Porta Triumphalis2 di età repubblicana, alle pendici del Campidoglio. In età imperiale la via Triumphalis ha significato essenzialmente per il traffico locale, riducendo la sua importanza a favore del tratto suburbano della via Cassia-Clodia, che attraversa il Tevere tramite ponte Milvio. Essa tuttavia compare ancora sulla Tabula Peutingeriana, copia medioevale di una carta topografica il cui originale si data tra il 325 e il 362 d.C.3, dove la via appare come collegamento tra Roma e la basilica di San Pietro. Per comprendere meglio l’antropizzazione della zona, bisogna a questo punto ricordare che il colle Vaticano – come gli altri di Roma – aveva una sua lontana origine vulcanica, con un nucleo che prevedeva la sovrapposizione geologica di argille sterili e banchi di tufo, mentre gli strati più superficiali erano composti da sabbie e ghiaie, depositate dalle alluvioni preistoriche del Tevere: ne consegue una grande instabilità e una forte predisposizione a frane e cedimenti. Per questa sua natura geologica, l’area – in forte pendenza – non si prestava tanto a una fitta occupazione edilizia suburbana, ma venne piuttosto destinata a coltivazioni di orti e vigne oltre che, naturalmente, a sepolture4. Questa vocazione d’uso non impedirà nella zona l’insediamento di tenute private e imperiali suburbane, presumibilmente con le relative strutture per il soggiorno5. Per tutta l’età repubblicana questo primo tratto della via Triumphalis era quindi inserito in un paesaggio poco ospitale; il colle Vaticano doveva presentarsi piuttosto selvaggio, boscoso ed incolto, mentre le zone di fondovalle e le aree limitrofe erano pianeggianti, ma anche paludose,
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soggette ai frequenti straripamenti del Tevere. Non a caso la viabilità cittadina – che vedeva il cuore di Roma sulla riva sinistra – si raccordava sull’altra sponda con il quartiere di Trastevere, molto più a sud, alle falde del Gianicolo, con una serie di ponti che favorirono lo sviluppo edilizio e l’inurbamento solo di quella zona. In seguito quest’area trans-tiberina vaticana, ove attualmente si distribuisce il quartiere di Prati, venne progressivamente occupata da una serie di sepolcri, alcuni dei quali di grande imponenza, primo fra tutti la piramide detta nel Medioevo Meta Romuli, che sorgeva in approssimativa corrispondenza con il moderno imbocco di via della Conciliazione e che venne demolita durante il pontificato di Alessandro VI (1492-1503)6. Soprattutto notevole, però, era il sepolcro dell’imperatore Adriano, poi trasformato in Castel Sant’Angelo7. Questo genere di destinazione dell’area si andò consolidando nel corso dei secoli successivi e i sepolcri si sovrapposero ad altri sepolcri. In particolare nell’area dello Stato di Città del Vaticano, fin dal ’500, sono emerse a più riprese parti di una grande necropoli8, che si distribuiva irregolarmente dalla sommità del colle lungo le pendici nord-orientali fino a valle, in corrispondenza del primo tratto della via Triumphalis. Da questa strada partiva una viabilità minore, costituita da brevi e tortuosi diverticoli, e una serie di piccole e scoscese rampe, che si raccordavano fra loro e permettevano la frequentazione delle aree sepolcrali. La prima fase che possiamo riconoscere si colloca almeno a partire dall’età augustea, quando sono documentabili con certezza le prime tombe, che si distribuiscono sul colle vaticano senza un preciso programma edilizio. Le più antiche sepolture sono individuali; si tratta d’inumazioni e incinerazioni che prendono posto là dove il terreno lo permetteva: uno spianamento del pendio, uno spiazzo, una radura tra la vegetazione, senza un orientamento preordinato o un organico progetto urbanistico. La prima fase sepolcrale non sembra quindi prevedere evidenti modifiche del terreno e le tombe sembrano adattarsi all’orografia del colle, quasi distribuendosi secondo le sue curve di livello; in qualche caso si può osservare una gravitazione o un collegamento verso la viabilità secondaria, che aveva origine dalla via Triumphalis. Le tombe più antiche dovevano prendere posto ai lati della Triumphalis, occupandone le aree limitrofe su più file, poi si preferì passare in «zona panoramica», come attestano alcune sepolture di età augustea fin sotto la sommità del colle, in prossimità della seicentesca fontana della Galea. In que-
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st’area del Vaticano – detta Belvedere dal quattrocentesco palazzetto di Innocenzo VIII Cybo (1484-1492) – sono documentati alcuni sporadici rinvenimenti effettuati in più riprese dal ’500 agli inizi del ’900, ma purtroppo non è sempre possibile collocarli topograficamente con precisione9. Allo stesso modo si può ricordare il ritrovamento in quest’area – definita all’epoca genericamente «Prato di Belvedere» – di una piccola porzione di necropoli nel 184010. Altre parti minori della stessa necropoli sono venute alla luce in occasione di lavori edili sotto l’edificio delle Poste Vaticane11, sotto San Pellegrino degli Svizzeri12, sotto il cortile di San Damaso13, sotto l’officina elettrica14 e, subito al di fuori della Città del Vaticano, in via Leone IV15. Alcuni lavori hanno portato a scoperte di maggior entità, che – ove possibile – hanno offerto l’occasione di studi più approfonditi e la possibilità di musealizzare le aree scavate. Seguendo la loro collocazione topografica, dalla sommità verso valle, possiamo elencare il settore della Galea – scoperto negli anni ’30 da Enrico Josi e ampliato in occasione degli scavi del 199416, il settore nel seminterrato dell’edificio dell’Autoparco, rinvenuto da Filippo Magi tra il 1956 e il 1958, quello al di sotto dell’attuale struttura dell’Annona Vaticana, scavato da Enrico Josi nel 1930 ed ora accessibile solo occasionalmente tramite un’angusta botola, e infine l’area di necropoli scoperta in occasione dei recenti lavori per la costruzione del parcheggio di Santa Rosa, negli scavi del 200317. Queste aree della necropoli vaticana lungo la via Triumphalis saranno singolarmente descritte nei paragrafi che seguono, cercando di presentare – di volta in volta – la nascita, lo sviluppo e la fine delle strutture sepolcrali e delle pratiche funerarie. In linea generale, se non è determinabile con esattezza l’origine di questa necropoli, è comunque possibile documentarne l’esistenza a partire dalla fine del I secolo a.C. e seguirne lo sviluppo fino ai primi anni del IV secolo d.C., quando – intorno al 320 d.C. – poche centinaia di metri più a sud verrà edificata la basilica costantiniana sulla tomba di Pietro. Forse la costruzione di questo imponente edificio di culto – culla della Cristianità romana – affrettò la fine dell’uso sepolcrale di questa zona del Vaticano, mentre solo nell’area della nuova basilica si continuerà a seppellire. Per secoli la via Triumphalis continuò a essere percorsa dai pellegrini che giungevano da settentrione alla tomba del Principe degli Apostoli, rimanendo quindi sempre frequentata; non a caso alcune tracce di vita in età altomedievale attestano la trasformazione in
stalle e angusti ricoveri delle tombe a camera più vicine alla via18. In seguito, la concomitanza del progressivo impaludamento dell’area a valle e la sovrapposizione dei frequenti cedimenti del colle causarono l’interro anche dei sepolcri riutilizzati, con il loro completo abbandono. In età bassomedievale poco interferirà con i resti interrati: come accennato, la sommità nord-orientale del colle fu oggetto d’importanti lavori solo a partire dagli ultimi decenni del ’400, con la costruzione del palazzetto del Belvedere di Innocenzo VIII, cui seguirono altre grandi imprese edilizie nei secoli successivi. Come riflesso di questa nuova occupazione dell’area, si può rilevare il ritrovamento di vari cunicoli di spoliazione delle strutture antiche sepolte, destinati a reperire materiale da costruzione, e di alcuni tagli e rasature, dovuti alla realizzazione di terrazzamenti per i giardini. L’importanza di questi contesti sepolcrali non si basa sulla preziosità e sulla qualità delle tombe e dei relativi corredi, ma sul loro eccezionale stato di conservazione. Si è ritrovato inoltre un gran numero d’iscrizioni, altari, urne, sarcofagi e suppellettili varie; spesso i contesti erano integri e al proprio posto. Le stesse tombe – almeno quelle più antiche – non di rado sono venute alla luce sigillate da frane o da reinterri, quindi la struttura poteva presentare in buono stato il suo apparato decorativo, costituito da mosaici, affreschi e stucchi. Non si tratta di opere d’arte di qualità assoluta, ma di segnali di vita e di gusto che si possono seguire diacronicamente, nel loro sviluppo nell’arco di più di trecento anni. D’altra parte il popolo dei defunti di questa parte della via Triumphalis non appare particolarmente ricco, si tratta prevalentemente di una classe sociale che potremo definire medio-bassa. Sono soprattutto le sepolture di schiavi e liberti a usufruire di questo pendio per la loro dimora ultraterrena, anche se molti di loro facevano parte della vasta e influente familia dell’imperatore. In un solo caso – la ricca tomba VIII (dei sarcofagi), nel settore di Santa Rosa – si può documentare il sepolcro di una famiglia con almeno un membro appartenente alla classe equestre. Le iscrizioni, le decorazioni e i corredi ci presentano personaggi di differente provenienza e impiegati in mestieri comuni o rari, inoltre si possono intuire dei legami con religioni, filosofie e tradizioni diverse: è la storia della vita e delle speranze degli uomini che emerge dal loro sepolcro. Vi sono quindi tutte le condizioni per ricostruire un tessuto storico-sociale articolato e di particolare interesse, inoltre si è creata l’occasione per approfondire alcuni aspetti del rituale funerario finora poco documentati.
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2. Galea, pianta.
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Galea
13 5 12 15
A
16 1a
16 17
10 D B C 20
14
18
11 4
21 3 9
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28
7 24 8 26 25 28
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Il settore della necropoli della via Triumphalis viene detto «della Galea» dalla fontana omonima, a ridosso del palazzetto del Belvedere di Innocenzo VIII Cybo (1484-1492). La fontana è costituita da un grande bacino, nel cui centro fu posto – durante il pontificato di Clemente IX (16671669) – il modello di un galeone, realizzato, sotto Paolo V (1605-1621), in piombo con finiture in bronzo, su progetto di Carlo Maderno. Dai cannoni, dagli alberi, dai pennoni e da un trombettiere sul castello di poppa nascono gli zampilli, che creano una serie di giochi d’acqua destinati ad allietare un piccolo parco di siepi e alberelli. Infatti, nel ’600, l’area a valle del lunghissimo Corridoio del Bramante era destinata a giardino, organizzato su diverse terrazze e adibito in parte ad orto; di esso si conservano varie vedute, tra cui si può ricordare quella riportata in un’incisione del 1615 di Maggi e Mascardi. Gli interventi post-antichi in questa zona si possono considerare piuttosto limitati, potendosi documentare solo alcuni cunicoli cinquecenteschi – destinati al recupero di materiali edilizi da reimpiegare nelle nuove fabbriche pontificie – e la realizzazione di scarpate e di contrafforti relativi ai terrazzamenti. Di conseguenza l’area, fino ai lavori degli anni ’30, si presentava archeologicamente quasi integra, sigillata dalle terre del giardino. Proprio a seguito del Trattato Lateranense del 1929, la zona venne interessata da una serie lavori edili, necessari alla riorganizzazione interna del nuovo piccolo Stato del Vaticano. Innanzitutto sembrò un’esigenza primaria la realizzazione di una viabilità più articolata; di conseguenza si praticarono alcuni sterri necessari ai nuovi percorsi e collegamenti, fornendo, allo stesso tempo, l’occasione che permise importanti ritrovamenti. In particolare, tra il maggio e il settembre 1930 si realizzò una strada per raccordare la zona nord-orientale dello Stato con l’area sommitale del Belvedere; spianando e regolarizzando il percorso, poche decine di metri a valle della fontana della Galea si rinvennero le prime tombe a camera, che subito vennero descritte ed ebbero una prima edizione ad opera dello Josi19. Le tombe risultarono prive della copertura e parzialmente tagliate dagli sbancamenti per le terrazze del giardino; erano disposte su più file lungo il pendio, che declinava dalla zona poi occupata dalla Scala del Bramante. Gli antichi terrazzamenti apparvero distribuiti su di una viabilità minore, con occasionali raccordi tramite rampe trasversali in forte pendenza20. Purtroppo tre camere sepolcrali e parte di una quarta furono rase per
poter realizzare la viabilità moderna; una tomba e un lato di altre due vennero invece conservate entro larghe arcate al di sotto del terrazzamento moderno. Nello stesso sito tra il 1994 e il 1995 seguirono dei nuovi scavi, necessari per la creazione di un magazzino dell’Ufficio Vendita Pubblicazioni e Riproduzioni dei Musei Vaticani, ampliando l’area archeologica scoperta negli anni ’30. Il rinvenimento di nuove sepolture ha permesso di verificare la loro disposizione su tre antichi terrazzamenti, con un andamento abbastanza regolare, che creava piazzole e spazi di risulta poi occupati da tombe individuali, a incinerazione e inumazione21. La realizzazione del magazzino ha comportato qualche sacrificio – come la parziale demolizione dei pochi resti pertinenti al terrazzamento superiore o la loro obliterazione al di sotto delle strutture moderne – ma ha anche permesso di isolare l’area archeologica all’interno del nuovo edificio. In questa maniera si è potuto procedere con tempi e mezzi più adeguati a nuovi piccoli saggi di scavo e a una serie di restauri che sono proseguiti fino al 200522. In altre aree limitrofe della sommità del colle Vaticano recentemente si sono fatti altri rinvenimenti pertinenti alla stessa parte di necropoli. Nel 1995, uno sterro superficiale per la risistemazione dell’aiuola di fronte alla fontana della Galea ha portato alla luce un coperchio di urna cineraria con uccellini e palmette acroteriali23. Negli anni 1998-2000, in occasione dei lavori per il Giubileo, si effettuarono altre scoperte da porre in relazione con le tombe sulla sommità del Vaticano; queste avvennero in seguito agli sbancamenti per la costruzione del nuovo ingresso dei Musei Vaticani24 e per la realizzazione del nuovo posto di ristoro25. I tre terrazzamenti del settore della Galea sono occupati da sepolture cronologicamente vicine fra loro; certamente sono da presumere almeno un altro terrazzamento più a monte e numerosi più a valle. L’edificazione dell’area sembra infatti partire dalla sommità, per poi procedere negli spazi di volta in volta ricavati più in basso, con qualche adattamento all’irregolare pendio. Il terrazzamento più elevato – tra quelli individuati – occupa uno stretto spazio quasi a ridosso delle fondazioni della galleria che oggi ospita il Museo Chiaramonti. Le sepolture qui ritrovate appartengono all’età augustea e ai primi decenni del I secolo d.C., quindi, come accennato, risultano essere le più antiche dell’area. Si tratta di poche tombe a camera conservate al livello delle fondazioni con cinerari e fosse scavate nel pavimento destinate a sepolture su piani sovrapposti (formae). A fianco si trovavano alcune pove-
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re inumazioni: in un caso la fossa era coperta da una serie di mattoni bipedali e due di essi recano un bollo degli inizi del I secolo d.C.26. Il terrazzamento sottostante marca un salto di livello di circa un metro e mezzo e un salto cronologico di un secolo. La datazione di tutte le sepolture è infatti contenuta nella prima metà del II secolo d.C., in particolare tra gli anni 120 e 150 d.C. Sono state individuate sei tombe a camera, due osteoteche (contenitori di ossa), quattro tombe ad inumazione, coperte da una semicappuccina (una sorta di tettuccio formato da un sola fila di tegole appoggiate al muro adiacente), e tre incinerazioni in terra, entro olle di terracotta, i caratteristici vasi ovoidali che costituiscono il più diffuso contenitore per ceneri in età romana. La tomba 5 sorgeva dietro alla fontana di Gregorio XVI27, accanto ad essa è la tomba 1a, della quale si conserva il lato occidentale, mentre il resto è stato rasato per la realizzazione della strada28. Della camera – in opera laterizia e a pianta rettangolare29 – si conserva il bancone a ridosso del muro, ove sono incassate otto olle cinerarie e una nicchia per altri due cinerari all’angolo settentrionale Le fotografie effettuate durante gli scavi dello Josi30 ci mostrano qualche elemento di più: lungo il lato settentrionale, un’altra nicchia con due olle cinerarie e, al di sotto, un sarcofago in terracotta, mentre sul lato orientale era una forma destinata ad accogliere quattro o cinque inumazioni sovrapposte. Il sepolcro si appoggia al colombario 1b, circa del 125 d.C., e a causa della prevalenza delle incinerazioni sulle inumazioni, si può dedurre una cronologia contenuta negli anni intorno al 130-140 d.C.
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Il colombario 1b sembra il più antico del terrazzamento intermedio: di forma quasi quadrata – circa 3 metri per lato – è costruito per ospitare tre file di due nicchie su ciascuna delle pareti laterali31. Al centro del lato di fondo è una nicchia maggiore delle altre, destinata presumibilmente alla coppia titolare della tomba, mentre la parete d’ingresso prevedeva nicchie più piccole; si può quindi valutare un numero complessivo di 28 incinerati. La decorazione interna della camera era costituita da una breve cornice in laterizi e da un’elegante serie di motivi decorativi in stucco, con tracce di colore: il precario stato di conservazione permette solo di intuire – all’interno delle nicchie – dei personaggi inquadrati entro finte architetture. Il pavimento era in mosaico bianco e nero, ma di esso si conservano solo poche tessere in un angolo presso la soglia in travertino; due fosse per inumazioni della seconda metà del III secolo d.C., hanno distrutto il resto32. La porta del sepolcro è protetta dalla terra di eventuali frane o dalle piogge con una lastra, inserita di taglio nel terreno
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davanti alla soglia. Nell’angolo nord-ovest del colombario è stato ritrovato un laterizio con il bollo di Paetinus e Apronianus, consoli del 123 d.C.33: dunque la tomba è stata edificata dopo questa data, ma prima delle tombe a cassetta 17 e 18, forse due osteoteche, che vi si appoggiano. Questi due piccolissimi monumenti sepolcrali sono costituiti da mattoni rivestiti di un bauletto di malta, stuccato e dipinto di rosso; un piano marmoreo forato, posto entro una piccola nicchia dipinta, permetteva di versare le libagioni all’interno della sepoltura 17. All’interno della cassetta è un laterizio con un secondo bollo simile al precedente34. Nell’adiacente e coeva tomba 18 è inserita una stele con il ritratto di un fanciullo a bassorilievo raffigurato con una corta frangetta, di moda soprattutto in età traianea (98-117 d.C.)35; al di sotto è il testo che chiarisce l’identità del giovane defunto: si tratta del tredicenne Publius Cornelius Protoctetus. È possibile che la stele possa essere relativa ad una prima sepoltura del fanciullo, forse originariamente inumato in una fossa e pochi anni dopo traslato nell’osteoteca. La dedica del padre, Eutychus, al figlio Protoctetus e alla donna Protocenina può far pensare che la tomba a cassetta 17 ospiti quest’ultima.
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Di fronte alle due osteoteche, tra il colombario 1b e la tomba 11, passa un breve viottolo che si collega ad una rampa, alle spalle della tomba 11, che raccorda il terrazzamento intermedio con quello superiore. Nel secondo quarto del II secolo d.C., quindi subito prima della costruzione della tomba 11, il viottolo non esisteva e l’area appariva libera; in quest’area vennero praticate una serie di incinerazioni, di cui si conservano tre olle fittili interrate, con il tubulo delle libagioni inserito nel coperchio forato (cinerari 14, 15 e 16)36.
Verso il 140-150 d.C. viene costruita la tomba 11 – di forma quadrangolare, circa 3,5 x 4 metri – adibita al rito misto37. Sulle pareti, in opera mista di laterizi e tufelli, sono due o tre file di nicchie, mentre al di sotto del piano pavimentale sono quattro formae per quattro o cinque inumati ciascuna; tre formae sono poste longitudinalmente dopo l’ingresso, mentre la quarta occupa trasversalmente tutto il lato di fondo e al di sopra di essa, appoggiato ad una mensola di travertino, venne posto un sarcofago di terracotta. Tutti gli spazi interni erano rivestiti d’intonaco bianco e si conservano anche le tracce di una decorazione affrescata con una serie di riquadri rossi lungo la zoccolatura e tralci vegetali fioriti – in rosso e verde – tra le nicchie e al di sopra di esse. Alcuni oggetti di corredo – piccole anforette, calici bruciaprofumi di terracotta e balsamari vitrei – erano riposti
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3. Galea, colombario 1b.
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4. Galea, stele del fanciullo Publius Cornelius Protoctetus.
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5. Galea, tomba 11.
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nelle nicchie, sopra il coperchio dei cinerari, mentre nelle fosse delle formae si sono ritrovate un’applique bronzea a valva di conchiglia e qualche altra ceramica. Le formae erano chiuse da un piano di mattoni che fungeva da pavimento; nella forma orientale si è rinvenuta una copertura a cappuccina, che chiudeva presumibilmente la cassa lignea. Il tutto era sigillato da un piccolo tappeto musivo di tessere bianche attraversate da una banda nera. Si tratta probabilmente di una delle ultime deposizioni nel sepolcro, risalente alla seconda metà del II secolo d.C. – quando gli spazi disponibili si andavano esaurendo38. In origine erano previste 52 incinerazioni e 16 inumazioni. Circa due generazioni devono aver usufruito del sepolcro, in uso fino alla fine del II secolo d.C.: benché l’assenza d’iscrizioni non permetta di decidere con certezza sembra si tratti della proprietà di un collegio funeraticio39 piuttosto che di un gruppo familiare. Questi collegi erano una sorta di cooperative i cui membri, di estrazione sociale mediobassa, pagavano un contributo per costruire la tomba, e acquistando così uno o più loculi. Ulteriori periodici versamenti di denaro dei parenti garantivano la manutenzione del sepolcro e le cerimonie in memoria dei defunti. La tomba 11 divenne un polo di attrazione per varie sepolture ad inumazione. A parte la semicappuccina 19, realizzata alle spalle dei sepolcri 1a e 1b, le semicappuccine 12 e 13 si appoggiano sul fianco orientale della tomba 11 mentre la tomba 10 si dispone lungo il fianco occidentale40. Quest’ultima è una fossa coperta da mattoni sesquipedali41 posti in piano e, in corrispondenza del volto del defunto, é stata sovrapposta un’anfora del tipo «Dressel 2-4», quasi integra; manca infatti solo il puntale e, inserita verticalmente, serviva condotto per le libagioni. Questo tipo di anfora da vino ci dà una indicazione cronologica solo approssimativa, essendo prodotto in un lungo arco cronologico – dagli inizi del I alla metà del II secolo d.C. Poco significativo è anche un bollo del 120 circa d.C.42 presente su un mattone della copertura, in quanto si tratta di un elemento di reimpiego. Di conseguenza è la posteriorità rispetto alla tomba 11 a determinare la datazione di questa sepoltura – come delle altre inumazioni vicine – alla metà del II secolo d.C. Poco si può aggiungere sulle inumazioni del terrazzamento intermedio, se non ricordare la presenza di altre inumazioni individuali e altre tombe a camera in un’area vicina: si tratta di quelle parzialmente individuate in prossimità del limite occidentale dello scavo. In particolare, sono riconoscibili le tombe a camera 20 e 21, adibite al rito misto e databili intorno alla metà del II secolo d.C., e le tombe 22, 23 e 26, della prima età imperiale, insieme alle sepolture individuali ad inumazione 24, 25 e 27, invece genericamente databili al corso del I secolo d.C. Tutte le tombe di quest’area più interna sono ora coperte dal magazzino moderno.
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6. Galea, tomba 2, ambiente ipogeo affrescato.
Il terrazzamento inferiore si presenta con una struttura assai più definita e stabile. Una larga muratura di fondazione – con una cortina a blocchetti di cappellaccio43 – protegge l’area dagli eventuali smottamenti del terreno della terrazza intermedia e, allo stesso tempo, funge da muro posteriore per una serie di almeno cinque tombe a camera in fila. Il sepolcro più a valle della serie fu individuato in occasione degli scavi degli anni ’30; si tratta della tomba 444. Se ne possono ricostruire parzialmente le pareti – in opera mista a blocchetti di cappellaccio e fasce in mattoni – che presentano una piccola cornice in laterizi nella parte superiore e gli arcosolii con le formae nella parte inferiore45. Simile, nella tecnica e nella planimetria, doveva essere l’adiacente tomba 3, anch’essa nota solo da poche informazioni e fotografie degli anni ’30; l’unico elemento che la differenzia dalla precedente consiste in alcuni brani di affresco – una serie di motivi floreali su fondo chiaro – sulla parete di fondo di un arcosolio46. La posizione e la struttura di questi due sepolcri è simile alle tombe adiacenti 2, 6 e 7, tutt’oggi conservate e visibili; si tratta di un progetto organico che, intorno al 180190 d.C., edifica almeno cinque tombe in sequenza e ristruttura completamente un sesto sepolcro, la tomba 8. Queste tombe, originariamente pavimentate con un mosaico geometrico bianco e nero, condividono il lungo e largo muro posteriore e le pareti che di volta in volta le dividono; inoltre si affacciano tutte – direttamente o tramite un breve avancorpo a cielo aperto – sullo stesso viottolo e sono decorate sulla fronte da un’elegante cornice laterizia, con sequenza di varie modanature: un kyma lesbio continuo, un tondino con astragalo, un fregio a dentelli ed un kyma ionico, tra esse sono una serie di gole e di listelli47. L’accesso alle tombe era garantito da brevi scalette, composte da tre alti gradini, essendo il viottolo ad una quota inferiore di circa un metro; questo dislivello si era reso necessario per salvaguardare i sepolcri dalle infiltrazioni delle piogge e dagli interri. Il progetto prevede sia incinerazioni – entro contenitori di terracotta murati negli angoli o nella nicchia di fondo – sia inumazioni, entro le formae ricavate sotto gli arcosolii; quest’ultimo rituale è di gran lunga prevalente. Tali caratteristiche sembrano più idonee a una ripartizione delle camere sepolcrali tra i membri di un collegio funeraticio, ma, anche in questo caso, l’assenza di iscrizioni di sicura pertinenza non permette di stabilire le possibili relazioni tra i defunti. La tomba 2 sembra anteriore alla 3, che, a giudicare da quanto ci è noto dagli appunti e dalle foto dello Josi, vi
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venne addossata in un secondo momento. Essa presenta due chiare e distinte fasi edilizie: la prima – assegnabile agli anni intorno al 180-190 d.C. – è relativa all’impianto dell’intera schiera di edifici funerari, mentre la seconda è ascrivibile alla metà del III secolo d.C.48. Di pianta rettangolare49, originariamente presentava un bancone con due arcosolii lungo le pareti laterali e con uno solo su quella di fondo, al di sotto erano le formae, per cinque inumati sovrapposti. Non si conservano invece i resti dei cinerari che, nelle altre tombe, risultano murati agli angoli. Per analogia con le altre tombe della serie, nella prima fase la pavimentazione doveva prevedere un tappeto musivo con motivi geometrici realizzati con tessere bianche e nere. La seconda fase – attribuibile ai decenni centrali del III secolo d.C. – cambia radicalmente la struttura del sepolcro50. Viene completamente rimossa la pavimentazione a mosaico, quindi si scava un ambiente ipogeo, fino ad una quota di circa 2,60 metri inferiore al piano originario, esponendo tutto il perimetro delle fondazioni. La scaletta di accesso parte subito a sinistra dell’ingresso, con due gradini, piega a 90° gradi e scende di altri quattro gradini, quindi con un altro gomito ad angolo retto di due gradini dà accesso all’ipogeo; per creare la scaletta si è sacrificata la prima forma della parete sinistra con i relativi arcosolio e bancone. All’interno di questo piccolo ambiente sotterraneo viene ricavato un arcosolio nella parete di fondo, sotto cui è disposta una forma per gli inumati; sulla parete opposta è invece una tomba a cappuccina (non scavata), di cui rimangono i laterizi a doppio spiovente murati nelle pareti, mentre di fronte alla scaletta è una tomba a cassone, un particolare tipo di sepoltura che prevede un’inumazione all’interno di una sorta di baule in muratura51. La pavimentazione è a mosaico, ma lo scavo di una fossa per un’inumazione successiva ne ha lasciato solo pochi brani. Assai meglio conservata è la decorazione pittorica ad affresco, che ha origine in corrispondenza dell’ultimo gomito della scaletta; qui è un’alta zoccolatura rossa, su cui è un riquadro campito da un tralcio di rosa. Internamente la decorazione pittorica si svolge su tre registri. Nella parte inferiore prosegue l’alta zoccolatura, costituita da riquadri con fasce rosse, campiti da vari motivi geometrici in finte crustae marmoree, tra cui grandi scudi circolari rossi al centro e pelte verdi inserite diagonalmente negli angoli. Le pareti e la volta sono invece scandite da finte architetture stilizzate, realizzate con sottili fasce di color rosso e verde; si creano così degli scomparti, entro cui sono sospese piccole figure. In particolare entrando a destra è un’antilope
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rampante, sulla parete dell’arco che divide le due sezioni è una figura femminile ammantata in volo (probabilmente un’Aura), con una pianticella al di sotto, a sinistra è un volto entro un clipeo, forse un gorgoneion, tra due uccelli in volo. Differente è la decorazione all’interno dell’arcosolio. Nella parete di fondo, inquadrato da due sottili ghirlande rosse pendenti e aperte «a tenda», è un soggetto cultuale: su di un terreno irregolare è posto un altare, su cui arde la fiamma; subito a destra è una colonnina verde, su cui si appoggiano un mantello rosso, uno scudo bruno e giallo ed una lancia, mentre a sinistra è un elemento in bruno e giallo non chiaramente identificabile. Poco avanti il sottarco è scandito da riquadri lineari in rosso, giallo e verde, con una mandorla al vertice, entro cui è un uccello acquatico, colto mentre spicca il volo; ai lati del sottarco sono invece due cavalli marini verdi. I soggetti descritti trovano vari confronti nella produzione pittorica del II secolo d.C., ma stilisticamente appaiono espressi in queste forme stilizzate e «moderatamente impressionistiche» solo a partire dalla tarda età severiana, perdurando fino alla fine del III secolo d.C.52. Particolarmente simili si possono considerare i temi figurativi e le partizioni architettoniche del sepolcro degli Ottavii, in una zona molto più esterna della via Triumphalis (ora al Museo Nazionale Romano)53, e di due ambienti della cosiddetta Villa Piccola, sotto San Sebastiano sull’Appia54, datati alla prima metà del III secolo d.C. Tra la seconda metà del III e gli inizi del IV secolo d.C. si possono collocare invece le decorazioni affini di alcuni ambienti della domus sotto San Giovanni e Paolo al Celio55 e, ad Ostia, quelle della stanza VII dell’Insula dalle Pareti Gialle e del termopolio di via della Casa di Diana56. Nella prima sezione del piccolo vano ipogeo, la figura dell’Aura in volo manca della testa, a causa di una lacuna dovuta ad una manomissione del sepolcro; poco al di sopra, infatti, è una piccola nicchia rettangolare, che doveva presumibilmente ospitare un’iscrizione o un elemento decorativo o cultuale. Tale elemento venne asportato in occasione dello scavo di un lungo cunicolo cinque/seicentesco, che, dopo aver interessato le tombe vicine e il piano superiore della tomba 2, ha anche sfondato la volta dell’ambiente ipogeo. Questo cunicolo era destinato alla ricerca di materiale – più o meno prezioso – da riutilizzare, di conseguenza si può attribuire a questa circostanza anche il danneggiamento di un sarcofago infantile ritrovato nell’ipogeo durante i lavori degli anni ’3057. Sulla cassa è scolpito a bassorilievo un soggetto detto con-
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7. Galea, tomba 2, ambiente ipogeo affrescato, fondo con arcosolio.
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8. Galea, tomba 2, ambiente ipogeo, particolare degli affreschi dell’arcosolio. 9. Galea, sarcofago infantile con il tema «delle isole dei Beati», rinvenuto nella tomba 2.
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venzionalmente «le isole dei Beati», ove si compongono imbarcazioni con eroti, colti in attività marinare, in un contesto portuale (presumibilmente Alessandria d’Egitto)58; al centro è la figura semidistesa del giovane defunto (dal volto non rifinito). Il sarcofago – databile intorno al 300 d.C. – rappresenta la testimonianza più tarda dell’uso sepolcrale nell’intero settore della Galea. La costruzione del vano ipogeo previde, logicamente, anche il rifacimento del pavimento della camera superiore59. Reimpiegando le tessere del mosaico originario si realizzò un tappeto musivo incorniciato da una serie di sottili lastre di marmo; all’interno, dopo una larga fascia nera, si dispose il soggetto figurato su campo bianco, con un invito verso la soglia. La decorazione del mosaico è costituita da quattro cespi d’acanto che partono diagonalmente dagli angoli della camera per convergere verso il centro, ove su di un ramo si trova appollaiato un piccolo uccello, forse un merlo. Come per gli affreschi, anche questo soggetto è assai diffuso nel corso del II secolo d.C.60, ma trova i migliori confronti stilistici nella produzione del secolo successivo, come testimoniano i mosaici ostiensi dell’Insula dell’Aquila61, della Schola del Traiano62 e quelli della tomba 55 e del portichetto della tomba 34 nella necropoli dell’Isola Sacra63. In questa camera superiore non sembrano attestate nuove sepolture nel corso del III secolo d.C., di conseguenza si può ipotizzare la sua trasformazione in un’anticamera adibita alle pratiche funerarie, come i refrigeria, i periodici banchetti in commemorazione dei defunti. Il periodo intercorso tra le due fasi può esser valutato in circa tre generazioni, ma non è possibile stabilire se le trasformazioni edili siano riferibili ad un riuso della tomba abbandonata o a un utilizzo prolungato della stessa famiglia o dello stesso collegio funeraticio proprietari nella prima fase64. A fianco si apre la tomba 6, simile per forma e dimensioni65 alla tomba 2, con cui condivide una parete laterale e la prosecuzione del muro di fondo66. Di fronte al sepolcro due muretti, paralleli fra loro e appoggiati perpendicolarmente agli angoli esterni della tomba, sembrano creare un piccolissimo cortile a cielo aperto prospiciente sul viottolo che raccordava il terrazzamento67. Il cunicolo di spoliazione cinque/seicentesco, già ricordato a proposito della tomba 2, ha asportato la soglia e gli stipiti d’ingresso, danneggiando il primo tratto della pavimentazione musiva; durante il suo percorso sotterraneo ha sfondato anche le pareti laterali. Ad ogni modo, sulla base di quanto si conserva, si possono ricostruire su ognuna delle pareti laterali due arcosolii con tre nicchie al di sopra: una maggiore,
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semicircolare, al centro, con due cinerari e due minori, rettangolari, con un solo cinerario; al di sotto di ogni arcosolio è una forma, per la deposizione di cinque inumati. Il lato di fondo presenta un grande arcosolio, con al di sotto la consueta forma e al di sopra un bancone destinato ad un sarcofago; questa parete conserva labili tracce di una decorazione a fasce azzurre. Il mosaico pavimentale si presenta di un certo interesse; si tratta di un tappeto, all’interno di una bordatura in laterizi, realizzato con tessere bianche e nere disposte a produrre un motivo geometrico di tipo illusionistico. Dall’intersezione di fasce sinuose si generano larghi fiori esagonali bianchi con sei petali neri. Il motivo trova numerosi confronti; in particolare si possono ricordare alcuni pavimenti ostiensi, come quello del portico della domus dei Pesci68 e quello della Schola del Traiano69, genericamente datati nel corso del III secolo d.C. Nel presente contesto si può invece ricavare una cronologia più alta, determinata dal rinvenimento di due mattoni bollati, posti come divisorio tra due sepolture all’interno di una delle formae; questi mattoni coprono la deposizione inferiore – quindi la più antica – della seconda forma del lato sinistro della camera. Il bollo menziona le figlinae Publinianae nel praedium di Aemilia Severa, una clarissima femina (cioè una donna di famiglia senatoria) attestata a Roma tra il 190 e il 210 d.C.70: essendo ripetuto su due diversi mattoni, costituisce un’attendibile indicazione cronologica per l’occupazione iniziale del sepolcro71. Nella tomba non si sono rinvenuti materiali posteriori alla metà del III secolo d.C., di conseguenza si può ipotizzare che il sepolcro sia stato in uso per poco più di mezzo secolo (tra il 180-190 e il 250 d.C.). La tomba 7 chiude la serie di sepolcri schierati lungo il medesimo muro di terrazzamento72. Questo muro ha una rientranza in corrispondenza dell’ingresso della tomba 11, più antica ma evidentemente ancora in uso; di conseguenza si riducono le dimensioni della tomba 7, di forma quasi quadrata73. Lungo le pareti laterali e di fondo nella parte inferiore sono tre arcosolii, in quella superiore due banconi per sarcofagi sui lati e tre nicchie sulla parete di fondo. Come è normale la nicchia centrale semicircolare è più ampia e ospita due cinerari mentre le laterali a pianta rettangolare hanno un cinerario ciascuna. Le pareti sono rivestite d’intonaco bianco; una sottile fascia rossa delinea il bordo degli arcosolii, mentre motivi vegetali – in color grigio-verde, purtroppo mal conservati – decorano gli spazi superiori. Al centro della camera il mosaico è stato ritrovato sprofondato per il crollo della volta; la causa di ciò è da adde-
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10. Galea, tomba 2.
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11. Galea, tomba 6.
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12. Galea, tomba 7.
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13. Galea, tomba 8.
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bitare a un pozzo di ispezione cinque/seicentesco, da cui hanno origine due rami del cunicolo di spoliazione descritto in precedenza: il primo ramo si dirige verso est e attraversa le tombe 6 e 2, mentre il secondo, scavato in direzione sud-ovest, penetra nella tomba 8, oltrepassandola. Anche in questo caso attraverso il cunicolo vennero asportati gli stipiti e la soglia dell’ingresso della tomba, danneggiando la prima parte del mosaico. Il tappeto musivo è incorniciato da una fascia di lastrine marmoree, che inquadrano due bande di tessere nere; al centro è il motivo geometrico in bianco e nero. Come in precedenza si tratta di un gioco decorativo illusionistico, che ha origine dall’intersezione di più cerchi allacciati: nelle sovrapposizioni si generano delle «foglie d’olivo» nere, che circoscrivono esagoni bianchi dai lati concavi, campiti da fiori a croce. Questo gusto decorativo – creato dalla sovrapposizione di elementi geometrici curvilinei – caratterizza gran parte della produzione musiva del II secolo d.C.74. Lo stesso concetto ispiratore è infatti riscontrabile in alcuni mosaici datati tra il 130 ed il 150 d.C., come nel triclinio di fondo degli Hospitalia di Villa Adriana75 e in un sacello lungo il Decumano di Ostia76, ma si ritrova anche in pavimenti creati con inserti marmorei, come quello rinvenuto recentemente nel territorio di Cisterna di Latina77. All’interno della camera sepolcrale sono state ritrovate alcune iscrizioni, che potrebbero esser pertinenti ai defunti della tomba78. Anche in questo caso la cronologia dei materiali rinvenuti nel riempimento della camera suggerisce un precoce abbandono del sepolcro, intorno alla metà del III secolo d.C., forse determinato da una frana scesa dalla sommità del colle. La tomba 8 è il sepolcro più occidentale tra quelli rinvenuti nella terrazza inferiore; non è disposto lungo il muro di terrazzamento, ma trasversalmente, con un ingresso rivolto a est e ruotato di quasi 90° rispetto alle tombe a camera precedenti79. Di conseguenza bisognerà ipotizzare che il viottolo del terrazzamento inferiore termini in corrispondenza di questa tomba o che qui pieghi ad angolo retto, per scendere poi con una rampa verso un terrazzamento inferiore. La camera ha un orientamento molto vicino a qeullo delle più antiche tombe della terrazza intermedia (soprattutto le tombe 11, 22 e 26) e anche la struttura interna è irregolare, come dovesse adattarsi a spazi preordinati. Queste anomalie topografiche e strutturali potrebbero esser causate da una preesistenza: alcune murature in corrispondenza dell’angolo di contatto con la tomba 7 sembrano infatti esser pertinenti ad un sepolcro precedente80, poi quasi completamente rasato e ricostrui-
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Fig. I. Musei Vaticani, Museo Gregoriano Profano, rilievo con scena di prothesis dalla tomba degli Haterii.
to nella fase del 180-190 d.C. Un ulteriore elemento relativo a questo primo sepolcro è forse individuabile in una struttura addossata alla parte inferiore della tomba (presumibilmente di prima fase), costruita in mattoni sesquipedali; potrebbe trattarsi di un piano per i banchetti rituali o, più probabilmente, di una sorta di cupa, un’inumazione entro muratura. Due mattoni di questa struttura, che recano un bollo databile tra l’80 ed il 100 d.C., potrebbero indirizzare verso una simile cronologia la prima fase del sepolcro81.
La fronte è rivestita d’intonaco rosso e presenta tre gradini di accesso. La camera interna, come accennato, ha una pianta allungata82 leggermente trapezoidale; il fondo dell’ambiente non è attualmente visibile, in quanto rimane al di sotto della pavimentazione del magazzino moderno. La parete sinistra del sepolcro fu parzialmente demolita dal cunicolo di spoliazione cinque/seicentesco. Si possono però ricostruire due arcosolii lungo le pareti laterali, con formae al di sotto, e tre nicchie al di sopra. Per il muro di fondo – individuato solo in cresta – si può ipotizzare un solo arcosolio, e al di sopra una nicchia per una coppia di incinerati. Anche in questo caso appare pregevole la pavimentazione a mosaico bianco e nero, pertinente ad una fase coeva a quella dei sepolcri vicini (circa 180-190 d.C.) o di poco successiva. Il tappeto musivo è incorniciato da un bordo di lastre marmoree e da una larga e irregolare fascia di tessere nere; il motivo centrale si crea, come nelle tombe adiacenti, con cambi di colore nelle aree d’intersezione di fasce ondulate. Qui esse producono una serie di ovali bianchi, disposti in posizione diagonale con andamento alternato; gli ovali sono circoscritti da pelte e da rettangoli con i lati concavi e convessi. Il motivo decorativo è rintracciabile attraverso alcune varianti, circoscritte alla prima metà del III secolo d.C. Identico, ma con alcuni elementi decorativi (tra cui animali) all’interno degli ovali, è il mosaico dell’ambiente C di una villa romana di Lanuvio83; solo simili, nell’impostazione compositiva e illusionistica, sono invece due mosaici di Roma – il pavimento di un ambiente di una domus nei pressi di San Paolo alla Regola84 e di alcuni vani del Paedagogium85 – e un mosaico di Ostia, nel corridoio D della domus di Apuleio86. Un ultimo confronto può essere istituito con il mosaico del frigidarium delle grandi terme di Aquileia87, della metà del III secolo d.C., che testimonia la lunga durata del motivo. Queste cronologie di confronto del mosaico sembrano contrastare con il fatto che la tomba 7 (del 180-190 d.C.) si appoggia sulla tomba 8 che dunque è più antica. Ne consegue che il sepolcro, anche nella sua seconda fase, deve essere leggermente anteriore rispetto alle tombe a schiera precedentemente descritte e che il mosaico costituisce un esempio par-
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ticolarmente precoce di questo motivo da porre in un periodo valutabile negli anni intorno al 170-180 d.C. L’interro della tomba appare progressivo: strati di ghiaia e argilla poco alla volta coprono i gradini, quindi penetrano anche all’interno del sepolcro. L’abbandono del sepolcro, avvenuto entro la metà del III secolo d.C., sembra precedente al completamento degli spazi funerari disponibili, forse a causa della sua inagibilità. Nell’area antistante alle scalette delle tombe 7 e 8 si è rinvenuta una stele di particolare interesse, che presenta due iscrizioni contrapposte sulla stessa faccia: la prima, probabilmente della metà del I secolo d.C., venne realizzata a partire dall’originario margine superiore della lastra, la seconda – frutto di un reimpiego posteriore di almeno un secolo – fu invece scolpita dopo aver capovolto la stele, partendo dall’originario margine inferiore. L’iscrizione più antica – che conserva un elegante testo ricco di allusioni – commemora Antonia Titiana; l’epitaffio si rivolge in prima persona al passante, esordendo con «Ecco il rogo di Antonia Titiana» – per «rogo» non s’intende l’ustrinum (il luogo della pira) ma le ceneri sepolte – e poi definendo poeticamente la sua origine romana. Prima di nominare il «santissimo» marito Marcus Nonius Pythagora, ricorda di aver lasciato un figlio piccolo e un fratello, che sembra esser definito come suonatore di flauto, benché siano possibili altre interpretazioni88. Questo aspetto richiamerebbe le cerimonie di prothesis (l’esposizione del defunto), quando alle lamentationes partecipavano prefiche (lamentatrici professionali) e, appunto, suonatori di flau-
Pagine seguenti: 14. Autoparco, pianta.
to; un esempio illustre di questo rito è raffigurato in un rilievo della tomba degli Haterii (fine del I-inizi del II secolo d.C.).
Fig. I
Come si è accennato, gli interri della terrazza intermedia e di quella inferiore sembrano dovuti a precoci cedimenti del colle. Infatti, al loro interno si sono rinvenuti materiali ceramici non più tardi della metà del III secolo d.C.; su questa base si può immaginare che – una volta completata l’occupazione delle formae e utilizzati i cinerari, per un lasso temporale che si può valutare in due generazioni – molte tombe venissero abbandonate e si fossero progressivamente riempite con la terra di una serie di frane, a questo punto non più rimossa. Nella seconda metà del III secolo d.C., infine, sopravvivono solo le tombe 1b e 2, poste sullo stesso allineamento, ma su due differenti terrazzamenti; la prima, il colombario 1b, viene riutilizzata per inumazioni, apportando delle rozze demolizioni, a scapito del pavimento a mosaico e di varie nicchie sulle pareti per ricavare degli improvvisati arcosolii per nuove deposizioni; la seconda trasforma e ridecora più elegantemente lo spazio interno, aggiungendo anche un ambiente ipogeo affrescato. Si può ritenere che questa fascia – disposta su almeno due terrazzamenti e per una larghezza non definibile – abbia risentito meno dei primi imponenti cedimenti del colle, intorno alla metà del III secolo d.C.; forse i sepolcri più interni hanno in qualche modo protetto questi sepolcri appena più esterni e la loro agibilità potrebbe aver favorito il loro riutilizzo fino ai primi anni del IV secolo d.C.
Autoparco Circa cinquanta metri a sud-est, dunque più a valle del settore della Galea, è il settore dell’Autoparco, che presenta i terrazzamenti per le sepolture ad un livello di una quindicina di metri più basso (cfr. tav. 15 a pag. 165). Questa parte della necropoli vaticana sulla via Triumphalis fu ritrovata in occasione degli sterri per la costruzione dell’Autoparco Vaticano, negli anni 1956-5889. L’ampiezza e l’importanza dei rinvenimenti imposero l’esecuzione degli scavi archeologici diretti da Filippo Magi, che, al termine dei lavori, coordinò anche i primi restauri, gli allestimenti e la musealizzazione dell’area archeologica. Come i settori vicini, anche quello dell’Autoparco si presenta caratterizzato da una serie di brevi terrazzamenti, su cui prendono posto numerose tombe a camera affiancate da sepolture individuali. Nell’area indagata si possono riconoscere quattro terrazzamenti, ma la loro distinzione non è sempre precisa, in quanto le differenze di quote tra l’uno e l’altro sono variabili: in alcune zone tendono a congiungersi e in alcune epoche sembrano in parte sovrapporsi. Gli spazi appaiono comunque molto ristretti, infatti si deve considerare che, in poco meno di 20 metri, è
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Città del Vaticano Necropoli sotto L’Autoparco PIANTA GENERALE RAPP 1 50 QUOTE RIFERITE A S (0 00) = m 2435 A 1 m INTONACO COCCIOPESTO TRAVERTINO OPERA RETICOLATA CORTINA LATERIZIA TRACCIATO SEZIONI EDIFICI SEPOLCRALI ISCRIZIONI TOMBA A CAPPUCCINA TOMBA A FOSSA CUPA SARCOFAGO ANFORA PILONI RILIEVI STUDIO DI GRAZIA
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osservabile un dislivello di più di 5 metri, con una pendenza media valutabile attorno al 30%. Tra un terrazzamento e l’altro, lungo il pendio scosceso, si distribuisce un gran numero di sepolture individuali, sia a incinerazione sia a inumazione, che nel corso del tempo si sovrappongono, si tagliano o si coprono. Nel complesso si sono ritrovati una ventina di monumenti sepolcrali, sessantotto tombe a cappuccina (fosse coperte da laterizi a doppio spiovente), dodici tombe a fossa con copertura piana, sei sarcofagi, sette cupae (sepolture individuali «a botte») e un gran numero di incinerazioni entro are-cinerario o in olle sepolte direttamente nel terreno e segnalate da stele e cippi. Un aspetto da tener sempre presente è l’irregolarità dell’andamento di questi livelli artificiali, subordinati all’orografia del colle e condizionati dalla loro occupazione progressiva; infatti i terrazzamenti iniziano nell’area più vicina alla via Triumphalis, da ipotizzarsi qualche decina di metri più a valle, e col tempo procedono verso l’alto, seguendo e adattandosi alle ondulazioni del terreno. Bisogna considerare inoltre che, ogni volta che si occupa uno spazio superiore, la terra asportata dovrà esser scaricata di fianco o su un terrazzamento inferiore, comunque rispettando i precedenti sepolcri ancora in uso. La mancanza di una pianificazione di questi spazi sepolcrali, l’instabilità del terreno e i vincoli imposti dall’orografia e dalle preesistenze sono quindi la causa non solo di questa irregolare disposizione dei terrazzamenti, ma anche dei diversi orientamenti e forma dei sepolcri. La conformazione geologica instabile del «cappello» del colle Vaticano ha permesso solo una regolarizzazione parziale del pendio, periodicamente interessato da una serie di smottamenti; in particolare va menzionata una frana che in età flavia (69-96 d.C.) ha coperto gran parte delle tombe allora in uso. Su questa frana, maggiore delle altre, si impostano le fasi edilizie successive, anch’esse tuttavia soggette ad altri cedimenti del colle. L’ambito cronologico di questo settore di necropoli sembra più contenuto rispetto a quello delle aree adiacenti, potendosi valutare in un periodo di circa due secoli, dalla metà del I secolo d.C. alla metà o seconda metà del III. In particolare si sono individuate cinque fasi principali: la fase I, contenuta tra la metà del I secolo d.C. e il regno di Vespasiano (69-79 d.C.), la fase II, che dura per il resto dell’età flavia (79-96 d.C.), la fase III, che comprende i regni di Nerva (96-98 d.C.), Traiano (98-117 d.C.) e Adriano (117-138 d.C.), la fase IV, relativa all’età antonina (138-192 d.C.), e la fase V, che inizia con l’età severiana (fine del II secolo d.C.) e prosegue fino alla metà del III
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15. Autoparco, assonometria.
secolo d.C. Alcuni rinvenimenti monetali estendono questo ambito cronologico alla seconda metà del III secolo d.C., non per quanto concerne nuove strutture sepolcrali, ma solo relativamente ad alcune inumazioni individuali. In considerazione della progressiva e ininterrotta occupazione sepolcrale del colle, senza una reale soluzione di continuità e senza estesi progetti edilizi, queste fasi sono quindi da considerarsi per lo più convenzionali. Per tutti i motivi sopra accennati, converrà, anche nell’illustrazione di questa parte di necropoli, procedere seguendo un ordine cronologico e partendo dalle tombe più vicine alla via Triumphalis. Le prime sepolture documentate nell’area sono databili agli anni immediatamente successivi alla metà del I secolo d.C. In particolare, nella terrazza inferiore, che nella parte individuata risulta più pianeggiante del resto dell’area, si conservano due are-cinerario della metà del I secolo d.C. o dei due decenni successivi. Si tratta dell’altare 5, con dedica a Marcus Valerius Amandus, forse un liberto della nobile famiglia dei Marcii Valerii Messallae90, che esternamente conserva due piccoli chiodi di ferro per appendervi una ghirlanda vegetale, e dell’altare 4, dedicato a Marcus Oppius Receptus, che si presenta internamente vuoto, per accogliere le ceneri. A fianco sono state messe in luce alcune stele in travertino, all’incirca coeve. Ad una quota di poco superiore è il livello di un secondo terrazzamento, che in questo periodo – la metà o seconda metà del I secolo d.C. – si presenta occupato da poche tombe in muratura e da un numero maggiore di sepolture individuali. In età neroniana (54-68 d.C.), poco a monte degli altari 4 e 5, venne costruita la tomba 10, una grande area sepolcrale a cielo aperto, delimitata da un recinto in opera reticolata con ricorsi in laterizio, rivestita esternamente d’intonaco rosso92. Il recinto è privo di ingressi e finestre, di conseguenza l’accesso era garantito solo da una scaletta lignea, che forse era calata dal vicolo a monte del sepolcro. Su questo lato vennero realizzate due file di cinque nicchie, ognuna delle quali conteneva due urne cinerarie fittili, per un totale di venti defunti. Già agli inizi del II secolo d.C., però, il recinto era in abbandono; pochi decenni dopo si riempì progressivamente di terra, divenendo una sorta di terrapieno quasi pianeggiante, che venne poi occupato da tombe a inumazione (a cupa e a cappuccina). Sempre in età neroniana si costruì, poco più a ovest e ad una quota leggermente più elevata, un altro recinto (4a), ma di dimensioni molto inferiori. Esso è costituito da un basso muro in reticolato con ammorsature a blocchetti di
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S (0 00)
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16. Autoparco, panoramica dell’area centrale dall’alto.
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Pagine seguenti: 17. Autoparco, panoramica dell’area centrale dal basso.
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18. Autoparco, tomba a recinto 10.
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tufo rivestito di intonaco rosso93. Il lato di fondo ha posto per una fila di tre nicchie per cinerari e serve contemporaneamente da contrafforte per contenere le terre soprastanti. Internamente una base in travertino sosteneva un cippo o un altare, su cui doveva essere iscritta la dedica del sepolcro, che, in virtù della ridotta altezza del recinto, era visibile e leggibile dall’esterno. Il recinto 4a sopravvisse alla costruzione dei vicini colombari 6 e 7, rispettivamente del 60-80 d.C. e del 110-120 d.C., ma venne interrato e danneggiato con l’edificazione del colombario 4, della fine del II secolo d.C.94: si può quindi dedurre una sua frequentazione almeno fino ai primi decenni del II secolo d.C. Il colombario 6 appare immediatamente successivo ai due recinti di età neroniana appena descritti, poiché sfrutta la parete destra del recinto 10 come muro di fondo e adatta la sua fronte all’angolo del recinto 4a; questi condizionamenti hanno causato la curiosa forma trapezoidale della camera sepolcrale, con il lato di fondo più largo di quello d’ingresso. La struttura – in opera mista di laterizi e reticolato, originariamente rivestimento d’intonaco rosso – si apre sulla piazzola antistante con una bassa porta in travertino e due finestrelle; sopra la porta è il riquadro per l’iscrizione con la dedica, non conservata95. Internamente viene realizzata una sola fila di nicchie: tre da due olle sui lati e due per una sola olla sulla parete d’ingresso; sul lato di fondo, a ridosso del recinto 10, si costruisce invece un arcosolio. Il cocciopesto pavimentale presenta dei tagli che sono stati interpretati in funzione del drenaggio delle acque che s’infiltravano nel sepolcro; lungo il lato sinistro il cocciopesto ingloba un sarcofago di terracotta, di un tipo attestato nel II secolo d.C.: da ciò si può dedurre che tale pavimentazione appartiene ad una seconda fase della tomba. La camera sepolcrale fu anche dotata di un’interessante decorazione ad affresco: sia sulle pareti che sulla volta a botte si dipinse una sorta di padiglione all’interno di un viridarium (un piccolo giardino), realizzato con un telaio di traverse e riquadri rossi, con nastri allacciati pendenti, alla cui base sorgono cespugli con lunghe foglie verdi e fiori rossi. Si tratta di motivi ornamentali particolarmente diffusi in tombe della seconda metà del II secolo d.C. e del III, ma assai più rari in contesti sepolcrali come il presente, della seconda metà del I secolo d.C.96. Tra i numerosi rinvenimenti ceramici all’interno del sepolcro, una serie di lucerne databili alla prima metà o alla metà del II secolo d.C. fa pensare ad un lungo utilizzo, valutabile in circa 70/80 anni; non si può comunque escludere che il
sepolcro possa esser stato riutilizzato dopo il suo abbandono e il suo primo interro97. Sia nel ripido pendio sul fianco sinistro del recinto 10 sia nel breve spazio pianeggiante a valle della tomba a camera 6 si dispone una serie di sepolture ad incinerazione direttamente scavate nel terreno, spesso corredate da una stele in marmo o in travertino con la dedica al defunto. Queste sepolture sono genericamente databili alla seconda metà del I secolo d.C. e sopra il loro interro, qualche decennio più tardi, verranno realizzate nuove sepolture individuali, questa volta ad inumazione. Sulla base di queste occupazioni del terreno si può individuare una convergenza di queste sepolture della metà o seconda metà del I secolo d.C. verso due aree vicine, ove il pendio diveniva più pianeggiante: la prima da porsi in corrispondenza degli altari 4 e 5, la seconda – con andamento a «L» – di fronte e di fianco alle tombe 4a e 6.
Sempre in età neroniana di fronte al colombario 6, ma ad un livello leggermente più basso – viene edificato il colombario 8, che presenta il miglior stato di conservazione e la maggiore ricchezza tra i sepolcri scoperti nell’area98. La tomba – costruita con cortina laterizia esterna e opera mista di reticolato e laterizi all’interno – si affaccia verso nord, dando le spalle ai sepolcri precedentemente descritti e presentandosi con un orientamento differente. Si può quindi dedurre la sua relazione con un diverso percorso viario, forse una rampa da collocarsi tra i settori dell’Autoparco e quello di Santa Rosa. Nella camera sepolcrale sono ricavati due ordini di nicchie, per un totale di 38 olle cinerarie, ma disposte alquanto irregolarmente a causa delle differenti esigenze della committenza e di alcune modifiche successive al progetto. Nella parete destra si ampliò la nicchia centrale fino a comprendere quattro olle, decorandola con un mosaico parietale policromo incorniciato da una fila di conchiglie (del tipo cardium edule). Al contrario nella parete sinistra, una nicchia destinata alla sepoltura di un fanciullo venne realizzata in un secondo momento, unendo verticalmente due nicchie sovrapposte. La decorazione del sepolcro è scandita da cornici laterizie, che inquadrano le appliques in stucco e gli affreschi; tra quest’ultimi si può apprezzare una serie di motivi geometrici – dipinti in rosso, giallo e verde – che affiancano viticci d’edera, tralci d’acanto e una cesta di frutta. Al centro della parete di fondo è una piccola edicola, riquadrata da una cornice di mattoncini e con la volta decorata da una valva di conchiglia in stucco. Al suo interno è una statuetta acefala, ugualmente di stucco, che raffigura un personaggio seduto, vestito di una pesante tunica e di un mantello; le mani sono posate in grembo a reggere una
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19. Autoparco, facciata del colombario 6. 20. Autoparco, interno del colombario 6.
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doppia tavoletta cerata e uno stilo: sembrerebbe quindi esser rappresentato uno scriba intento nel suo lavoro, forse proprio il principale committente del sepolcro o forse l’amministratore del collegio funeraticio. Infatti, le sei iscrizioni conservate in situ nel sepolcro attestano che la tomba fu occupata da personaggi non imparentati fra loro, ma presumibilmente membri di un collegio99. In questo caso si può valutare che la tomba e il relativo collegium restarono in attività per circa mezzo secolo, fino ai primi decenni del II secolo d.C. Tra i defunti è menzionato un certo Eros, un servus atriensis (una sorta di portiere) degli horti Serviliani; questa tenuta è una proprietà imperiale, più volte menzionata in iscrizioni sepolcrali di quest’area in età neroniana, che dovrebbe quindi collocarsi in un luogo presumibilmente non lontano dalla via Triumphalis100. Altre due lastre iscritte sono invece relative a due cassoni, realizzati in una seconda fase, per accogliere incinerazioni; in particolare quello di sinistra conserva ancora la bella copertura formata da una lastra di alabastro – con due incavi circolari per l’inserimento delle ceneri e relativi tappi della stessa pietra – come del resto in alabastro è un piccolo altare posto all’interno della camera sepolcrale, subito di fronte all’ingresso. A questa seconda fase, da collocarsi comunque entro gli inizi del II secolo d.C., va attribuita la realizzazione di altre sepolture a incinerazione sotto le lastre marmoree del pavimento. Anche sul livello più elevato del settore dell’Autoparco sono conservate alcune tracce dell’occupazione di età neroniana del pendio. Una sorta di breve pianoro caratterizza la parte superiore dello scavo; qui, affacciate su di una piazzola e collegate da un vicolo, sono una serie di sepolture della seconda metà del I secolo d.C., alle cui spalle la pendenza del colle riprende con un piccolo salto di quota. Si distingue per qualità la stele 32, di fatto una piccola edicola marmorea, dedicata da Nunnius alla moglie Ma (una donna che prende il nome da una divinità della Cappadocia) e al figlio Crescens, un servus saltuarius di Nerone, quindi l’addetto a una tenuta (saltus) imperiale101. L’iscrizione è incisa alla base della stele, mentre la parte superiore, coronata da un elegante frontoncino con uccelli che si abbeverano da un bacino, reca scolpiti i busti dei due defunti: il fanciullo presenta una capigliatura a caschetto, con una fitta frangia che ricade sulla fronte, assai in voga in età neroniana, la donna è acconciata secondo la moda adottata da Agrippina Minore (madre di Nerone). Davanti alla stele sono infisse due anfore, presumibilmente gli imbocchi per le libagioni ai due defunti. Lungo lo stesso vicolo, ma più a sud-est, è la stele 28, data-
Pagine seguenti: 21. Autoparco, colombario 8.
bile verso il 50-60 d.C.; l’iscrizione presenta la dedica a Verecunda, serva (ancilla) in un tempio di Venere negli horti Serviliani, e a suo marito Saturninus, schiavo presso la Biblioteca Latina (forse in relazione con gli stessi horti Serviliani)102. Questa nuova menzione degli horti Serviliani – dove lavora anche lo schiavo Eros, sepolto nel colombario 8 – conferma, in questa prima fase della necropoli, lo stretto rapporto di vari defunti con alcune proprietà imperiali, presumibilmente vicine alla via Triumphalis. Da questi horti Nerone sembra abbia iniziato la sua tragica fuga da Roma nel 68 d.C.103. A fianco della stele 28, in posizione leggermente arretrata, è un basamento su cui sono collocati tre altari in fila (24, 25 e 26), spostati più volte – in antico e nuovamente dopo gli scavi del 1958 – per mancanza di spazio104. In ordine cronologico, il primo altare – il 24, più a sinistra della serie – è dedicato intorno al 60-70 d.C. da Iulia Tryphera a sè e a Tiberius Iulius Atimetus, patronus carissimus, dunque il patrono e probabilmente anche il marito della donna; il secondo – il 26, quello più a destra – conserva la dedica di Iulia Threpte, figlia della coppia precedente, al suo primo marito, Caius Valerius Hymnus; nel terzo – il 25, posto al centro – la giovane vedova Iulia Threpte, con minor cura e forse minor passione, pone la memoria per il suo secondo marito, Lucius Maecius Onesimus. I tre altari si affiancano nell’arco di circa due decenni e gli spazi previsti si riducono obbligatoriamente, limitati anche dalla realizzazione di altre sepolture individuali; se Iulia Threpte inizialmente manifesta la volontà di esser seppellita accanto al suo primo marito, con la seconda dedica sposta gli altari e cambia idea: il suo secondo marito non è più definito dulcissimus e non compare più il sibi («per sé»), che avrebbe indicato in quel luogo la tomba che si era preparata. Su questa stretta piazzola pochi anni dopo, tagliando verso monte una ridotta porzione del pendio, si ricava lo spazio per la costruzione di due tombe a camera. Subito a destra della stele di Verecunda, intorno al 70-90 d.C., si costruisce il piccolo colombario 1, un sepolcro a pianta quasi quadrata in opera laterizia105. Il colombario era inizialmente destinato al solo rito incineratorio e a questo scopo vennero realizzate sulle pareti più file di nicchie per ospitare le olle murate. Al centro del muro di fondo emerge un avancorpo, costituito da un’edicola maggiore delle altre, per la coppia titolare della tomba, e da una seconda nicchia inferiore, con un tubulo che portava le libagioni ad un cassone sotto il pavimento; ai lati sono due piccole cassette in muratura, collegate solo con l’esterno del sepolcro tramite un’apertura retrostante. In
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22. Autoparco, stele di Nunnius, dettaglio con i busti del figlio Crescens e della moglie Ma.
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23. Autoparco, vicolo con la stele di Nunnius.
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24. Autoparco, altari dedicati da Iulia Tryphera al patrono e coniuge e da Iulia Threpte ai suoi due mariti.
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25. Autoparco, interno del colombario 1.
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corrispondenza delle nicchie sono state murate delle sottili lastrine marmoree, che dovevano recare dipinto il nome del titolare, in seguito svanito; solo una di esse – essendo stata incisa – conserva ancora la dedica a Quintus Sentius Philetus, morto a 45 anni106. L’apparato decorativo si compone di cornicette di stucco e motivi floreali affrescati; non si conserva invece quasi nulla dell’originaria pavimentazione a mosaico, asportata nella prima metà del III secolo d.C. per scavare le fosse per due fanciulli. Recentemente, a ridosso della soglia, si è esposta una di queste due sepolture – relativa a un bambino forse morto per idrocefalia – che ha permesso di rinvenire il cosiddetto obolo di Caronte, una moneta messa nella bocca del defunto per pagare il suo trasporto nell’Oltretomba107. In questo caso si tratta di un asse databile tra il 211 e il 222 d.C., che attesta un riuso del sepolcro ben successivo alla sua edificazione. Contemporaneamente, poco a destra della stele di Nunnius (la 32), si costruisce il colombario 3, anch’esso formato da una camera sepolcrale quasi quadrata in laterizio, che doveva essere esternamente rivestita di intonaco rosso. In origine era stato progettato per sole incinerazioni, ma ben presto accolse anche inumazioni108: sotto le pareti scandite dalle nicchie per le olle, furono scavate fosse per tombe a cappuccina; altre vennero realizzate sotto la pavimentazione, originariamente a mosaico e lastre marmoree. Sull’intonaco bianco delle pareti spiccano motivi vegetali sotto una serie di fasce rosse. Negli anni successivi al colombario si addossano numerose sepolture, a incinerazione semplice – come la stele 35 – o entro una piccola struttura a dado – come quella segnata dalle stele 33 e 34 degli Aufidii109. Tutta la piazzola fu quindi occupata da varie sepolture individuali, talvolta segnalate da stele o cippi, altre volte da tubuli o parti di anfore per le libagioni; tra queste si può ricordare una tomba a fossa con un sarcofago di terracotta a forma di vasca, che reca sul bordo un bollo anteriore al 79 d.C. e che dopo più di un secolo venne inglobato nelle fondazioni della tomba 5110. Poco a valle è un’area occupata in età flavia da alcune incinerazioni protette da parti di anfore, da una tomba a cappuccina e da alcune sepolture segnalate da stele (40, 41, 42, 43 e 95)111. Qui, verso la fine del I secolo d.C., si costruisce il colombario 14 e si colloca davanti all’ingresso, ma con diverso orientamento, l’altare 39112. Il piccolo edificio sepolcrale si sovrappone a una tomba a cappuccina più antica113 ed è realizzato in opera reticolata con ammorsature a tufelli e un ricorso di laterizi; l’interno è intonacato in bianco con una fascia rossa. I cinerari si dispongono agli angoli sotto il piano pavimentale; un quinto incasso, al centro del pavimento, è di dimensioni maggiori, di conseguenza si può ipo-
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tizzare possa esser stato utilizzato per le libagioni rituali. Questo tipo di distribuzione interna è riscontrabile nei sepolcri XXV, XXXV e XX (di Alcimus) del vicino settore di Santa Rosa, di poco più antichi.
Nei primi decenni del II secolo d.C. una nuova fase edilizia caratterizza la piazzola a nord-ovest delle tombe 4a, 6 e 10. In questo periodo si costruiscono vari piccoli colombari «a dado», destinati quindi al rito incineratorio, in cui lo spazio viene sfruttato intensivamente: all’interno, su circa un metro quadrato di superficie, si aprono fitte serie di nicchie sulle pareti, mentre altre olle sono murate al di sotto del piano pavimentale.. Questi colombari «a dado» – le tombe 11, 12 e 9 – si affacciano verso est, mentre il più esterno della serie, il colombario 13, si apre verso nord, dove uno spazio vuoto lascia supporre la presenza di un’originaria larga rampa. Le fronti sono arretrate rispetto a quella del colombario 7, di Antigonus, di poco posteriore. La più antica tomba della serie è il colombario 12, costruito agli inizi del II secolo d.C., in posizione isolata, a circa tre metri dal recinto 4a; a sud di esso si appoggerà il colombario 11 e a seguire il 7, mentre a nord gli si addossa il doppio colombario 9/13114. La facciata di questa serie di tombe viene costruita con una cortina laterizia di ottima qualità, di sottili mattoni rossi legati con un basso letto di malta; questo genere di cortine era preparata per esser lasciata a vista, mentre il loro prosieguo lungo le pareti laterali si presentava assai meno curato, poiché era ricoperto da uno spesso strato di intonaco dipinto di rosso. L’accesso al piccolo ambiente 12 avveniva tramite una porticina, di cui si conserva la soglia in travertino; in realtà – date le ridotte dimensioni – all’interno si entrava carponi o semplicemente ci si affacciava per svolgere le pratiche funerarie in onore dei defunti. Lungo le pareti si distribuiscono due file di due nicchie, per una o due olle, mentre la parete di fondo prevede due nicchie di dimensioni maggiori, sovrapposte, con una sola olla ognuna. Sempre sulla parete di fondo è visibile quanto resta della pregevole decorazione ad affresco: sull’intonaco bianco è dipinta una serie di riquadri in rosso e bruno, che delimitano il campo figurato, a sua volta incorniciato da un listello di stucco e da sottili fasce rosse; al suo interno sono due sottili candelabri vegetali pure in rosso, con uccellini appollaiati. Una decorazione assai simile è presente nel colombario 3 del settore dell’Annona (cfr. infra) e, data la vicinanza e la contemporaneità delle due tombe, si può sospettare la medesima mano. Si tratta di un’evo-
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26. Autoparco, tombe 12 e 9-13 dall’alto.
Pagine seguenti: 27. Autoparco, interno della tomba 12. 28. Autoparco, tomba 12, dettaglio dell’affresco.
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luzione dello «stile a candelabri», che ha origine mezzo secolo prima, tra il tardo terzo stile ed il quarto stile pompeiano (metà del I secolo d.C.), e che perdura con espressioni di qualità variabile fino a tutta la prima metà del II secolo d.C.115. La pavimentazione in marmo – con un piccolo tratto di opus sectile all’ingresso – è successiva alla realizzazione di nuove incinerazioni al di sotto del piano pavimentale: questa seconda fase rientra ancora entro la metà del II secolo d.C. Il doppio colombario 9/13 è un unico blocco edilizio costituito da due camerette di ridottissime dimensioni; sono in opera laterizia e si dispongono a «L» con il muretto divisorio in comune (cfr. tav. 26 a p. 181). Il colombario 9116 ripete in scala ridottissima la struttura delle tombe maggiori. Rispetto agli altri colombari va segnalato il pavimento a mosaico di tessere bianche e nere, con un motivo geometrico noto come «nodo di Salomone», una sorta di treccia che illusionisticamente non ha né inizio né fine e per questa ragione è interpretabile come un’allegoria dell’immortalità o è possibile vedere, nel suo andamento «labirintico», un valore apotropaico117. Ad un angolo del riquadro musivo centrale è infisso un tubulo per le libagioni verso un’incinerazione sotto il pavimento. A sud del colombario 12, si addossa il colombario 11, che allinea la sua fronte a quella del sepolcro precedente118. Qui lo spazio particolarmente angusto ha imposto lo sfruttamento del muro sud del colombario 12 per ricavare una nicchia, l’unica del piccolo sepolcro, che non presenta olle murate, ma solo un ripiano per la collocazione di cinerari e arredi funerari. Anche in questo caso la decorazione pittorica del sepolcro è solo vagamente intuibile da quel poco che si conserva: una serie di motivi vegetali di color rosso e verde, quasi del tutto evanescenti, sembrano disporsi sull’intonaco bianco delle pareti. Assolutamente nulla rimane, invece, della pavimentazione, completamente asportata dallo scavo di piccole fosse per nuove incinerazioni. Ci soccorre nell’interpretazione delle dinamiche familiari del sepolcro una stele ora esposta nel soprastante lapidario, che reca la dedica al fanciullo Quintus Muttienus Atimetus, morto a poco più di un anno119; alla base della stessa stele si aggiunge una seconda dedica ad un fratellino, cui è stato dato lo stesso nome e che purtroppo ha avuto in sorte lo stesso destino di una morte prematura. Si può ritenere che anche i genitori possano aver voluto esser sepolti accanto agli sfortunati fanciulli, facendo collocare le proprie urne al di sotto del pavimento smantellato. Una statuetta, non finita, di un erote che reca un vaso sulla spalla – un soggetto frequentemente attestato nella decorazione di fontane e di giardini – è stata trovata di fronte al colombario 9, a un paio di metri di distanza. Si è pensato che questa iconografia, solitamente estranea alla scultura funeraria, possa invece esser stata reinterpretata ritenendola intonata alla sepol-
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29. Autoparco, statuetta di erote con vaso. 30. Autoparco, tomba 7 di Titus Manius Antigonus.
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31. Autoparco, colombari 1 e 2 dall’alto. 32. Autoparco, telo di amianto. 33. Autoparco, tomba a cappuccina.
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tura dei fanciulli e che quindi possa provenire proprio da questo sepolcro120. Dopo poco tempo viene costruito il colombario 7 – l’ultimo di questa serie – realizzato con cortina laterizia all’esterno e opera mista di reticolato e mattoni all’interno. Il piccolo sepolcro si appoggia al fianco del colombario 11, ma in posizione più avanzata verso il centro della piazzola121. La tomba, indicata dalla stele con la dedica di Titus Manius Antigonus a sé e ai propri figli, fu eretta sovrapponendosi a una sepoltura anteriore segnalata dalla stessa stele. Al momento della costruzione la stele venne inglobata nel muro di fondo, modificandone il testo122. Infatti l’iscrizione apposta da Antigonus, ancora durante la sua vita, specifica una sorta di servitù di passaggio per raggiungere Apuleia Atticilla e Apuleius Valens, insieme allo schiavo imperiale Eutychus e a Claudia Epiteusis. Si deduce, quindi, che una prima iscrizione sulla stele si riferisse a queste quattro incinerazioni – accessibili per le libagioni attraverso un’anfora e un tubulo nella nicchia in basso presso l’angolo in fondo a sinistra. Quando Antigonus acquistò l’area per realizzarvi la tomba di famiglia, dovette riutilizzare la vecchia stele per riportare l’accordo che stabiliva il diritto di transito per i parenti dei due Apuleii (forse madre e figlio) e degli altri due defunti123. Le pareti della piccola camera sepolcrale sono rivestite d’intonaco bianco, su cui sono dipinte fasce gialle e rosse, a sottolineare le partizioni architettoniche, inquadrate da elementi in stucco. Una serie di frammenti di stucco con tracce di pittura e doratura, rinvenuta durante lo scavo, permette di ricostruire anche una copertura a cassettoni, con motivi figurati a rilievo. Il mosaico pavimentale bianco e nero sembra appartenere a una seconda fase, in quanto si può rilevare sulle pareti l’impronta di un precedente lastricato marmoreo. A sua volta il tappeto musivo si interrompe nella seconda metà del sepolcro, probabilmente tagliato da successive sepolture. Sulle pareti si distribuiscono due file di nicchie, in alternanza rettangolari e semicircolari; nella nicchia superiore di fondo – maggiore delle altre e presumibilmente destinata alla coppia titolare del sepolcro – è una scena in stucco di difficile lettura a causa della sua lacunosa conservazione: i brani superstiti sembrano escludere un soggetto mitologico, mentre è più facile ipotizzare fosse raffigurato il mestiere di Antigonus124. La piazzola antistante a questi piccoli colombari dei primi anni del II secolo d.C. viene progressivamente occupata da una serie di sepolture individuali terragne. Le prime sono delle incinerazioni entro olle sepolte direttamente nel terreno o entro contenitori fittili e anfore; ad esse si affiancano, nel corso dei decenni successivi, varie inumazioni, entro fosse semplici, tombe a cappuccina o sarcofagi di terracotta125. Per tutto il II secolo d.C. – e fino alla metà del secolo successivo – tutti gli spazi liberi vengono progressivamente occupati da queste sepolture individuali: si realizzano fosse entro o a ridosso dei sepolcri in muratura, si sfruttano gli spazi già occupa-
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ti da tombe precedenti interrate e si riutilizza tutto ciò che può tornare utile per dare accoglienza e memoria ai nuovi defunti126.
Esemplificativo del tipo della tomba a cappuccina è la sepoltura 35, in prossimità dell’angolo sud-orientale del colombario 8: risultando esposta su di un taglio del terreno, è visibile in sezione per tutto il suo sviluppo. Dal livello originario del terreno sorge la stele ad essa relativa che – pur mancante di gran parte del testo – conserva tuttavia l’indicazione delle dimensioni dell’area di rispetto. Alla base dell’iscrizione partono tre tubuli che, innestati verticalmente l’uno nell’altro, conducevano le libagioni verso il volto del defunto; questi è deposto in una fossa profonda m 1,40 e coperto da una serie di laterizi disposti a doppio spiovente (appunto «a cappuccina»)127. Dal pozzo 69 proviene un lenzuolo d’amianto – rinvenuto a m 5 di profondità, piegato in un mortaio (purtroppo perduto) e ora esposto all’interno dell’area archeologica tra due vetri in un pannello a parete128. In passato si è pensato che questo raro manufatto – tessuto con la fibra minerale ignifuga – servisse durante l’incinerazione per isolare i corpi dalla legna che li consumava, ma in almeno uno dei tre o quattro casi documentati era in relazione con un inumato entro un sarcofago. Il Magi, quindi, ritenne potesse trattarsi di un esempio delle funebres tunicae, menzionate da Plinio (Naturalis Historia 19,19) come preziosissime e difficili da tessere. L’incorruttibilità del tessuto, a questo punto, potrebbe essere destinata a un allegorico augurio d’immortalità del defunto che lo avesse usato come sudario. Alcune recenti analisi sembrano indicare un tipo di amianto con fibre particolarmente lunghe, quindi più facili da tessere (e non cancerogene!), che non risulta attestato nel suolo italiano, ma piuttosto potrebbe essere di origine spagnola. Dopo la regolarizzazione di questo pianoro intermedio, nel settore dell’Autoparco sembrano essersi esauriti gli spazi liberi sulle brevi terrazze per poter organizzare dei nuovi sepolcri in muratura; le tombe a camera che descriveremo, infatti, si sovrappongono sempre a sepolture precedenti abbandonate. Il colombario 2 venne edificato intorno alla metà del II secolo d.C. sulla terrazza superiore, addossato al colombario 1, ormai in stato di abbandono, e al di sopra di altre sepolture ad incinerazione del I secolo d.C. e della prima metà del II129. A sua volta il colombario 2 verrà rasato, fin quasi all’altezza del piano pavimentale, dal taglio del pendio per la realizzazione di sepolture successive. Di conseguenza il suo stato di conservazione permette solo di riconoscere una camera rettangolare, con file di nicchie sulle pareti; sulle pareti rimangono sporadiche tracce di una decorazione ad affresco, con fasce verticali rosse ed elementi vegetali. Della pavimentazione originaria si intuisce solo un tappeto musivo di tessere nere, ma in una seconda fase è stato rifatto dopo l’inserimento di nuove incinerazioni, decorandolo con il motivo apotropaico, già descritto in precedenza,
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Fig. II Fig. III Fig. IV
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del «nodo di Salomone». Al colombario 2 si addossano presto una serie di inumazioni a cappuccina o a semicappuccina (con un solo spiovente di laterizi), mentre di fronte al suo ingresso, sull’altro lato del viottolo, si conserva un bell’esempio di cupa dipinta di rosso130. Le cupae, in latino «botti», sono un particolare tipo di sepoltura, con il defunto posto entro un loculo costruito con laterizi, a sua volta coperto o inglobato in una struttura a bauletto intonacata. Queste «botti» trovano la massima diffusione tra il II ed il III secolo d.C., soprattutto nell’Africa mediterranea, in Spagna, in Dacia ed in Italia131. Dalla vicina cupa 7, presumibilmente la sepoltura di uno scriba del II secolo d.C., proviene un prezioso corredo destinato ad accompagnare il defunto con gli attrezzi del suo mestiere. Questa tomba ha restituito un asse dell’85 d.C. (una moneta che comunque deve aver circolato per molti decenni), un calamaio cilindrico in bronzo, una coppetta ovale bronzea, un’altra coppa a forma di conchiglia, una lamina metallica, una piccola spatola d’osso, una pomice emisferica, due vasetti di vetro, alcuni stili, oltre a materiale organico, del quale non rimane più nulla (un volumen, una tavoletta cerata?)132. Ora il corredo è conservato in una vetrina all’interno dell’area archeologica. Di qualche anno posteriore rispetto al colombario 2 è il vicino sepolcro 4, che trova ottimi confronti con le tombe 6, 7 e 8 della Galea e che, quindi, è anch’esso databile intorno al 170-190 d.C.133. Il sepolcro 4 si presenta con una pianta irregolarmente quadrata per rispettare le tombe precedenti, come il colombario 6 o la stele 36134; non si cura invece del recinto 4a, ormai completamente interrato, a tal punto che sopra di esso si apre il suo ingresso, all’angolo meridionale della piazzola, ma ad una quota ben superiore rispetto a quella dei colombari a dado degli inizi del II secolo d.C. Le murature sono di laterizio rivestito d’intonaco rosso, all’esterno, e in opera mista di mattoni e tufelli, all’interno. Il sepolcro è destinato al rito misto: sulle pareti laterali sono tre arcosolii, sotto ciascuno dei quali si apre una forma per quattro o cinque inumati – posti in verticale, divisi da lastre di marmo o da bipedali, i caratteristici mattoni quadrati di 2 piedi per lato (60 cm) – mentre nicchie per due olle cinerarie si aprono nella parte superiore della parete; un sarcofago infantile di terracotta giace sul pavimento, subito dopo l’ingresso. Come per le tombe coeve della Galea, anche in questo caso il pavimento è a mosaico geometrico, con un motivo illusionistico di tessere bianche e nere. Gli elementi del disegno emergono dall’intersezione di
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Figg. II, III, IV.
Porto, cupae e altri sepolcri.
34. Autoparco, corredo della tomba dello scriba.
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35. Autoparco, tomba 4 dall’alto.
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cerchi e quadrati, che generano ottagoni dai lati concavi inscritti entro quadrati, con alternanza di spazi bianchi e neri135. L’apparato decorativo prosegue sulle pareti, dipinte ad affresco sull’intonaco bianco: si alternano partizioni geometriche, come una serie di fasce rosse e ocra, un oscillum136 con nastri, una sorta di pelta (piccolo scudo lunato) con elementi vegetali e figurati, come roselline in rosso e verde e un uccellino di color ocra con testa e ali nere. Il sepolcro 4 rimase in uso per molti decenni, sopravvivendo alle numerose frane che si susseguirono lungo il pendio nel III secolo d.C. Per contrastare l’interramento della tomba venne costruito un muretto ad angolo subito a monte della soglia, con vari pezzi di reimpiego, tra cui perfino due elementi di urne cinerarie di marmo137. Tale lungo utilizzo del sepolcro è confermato dal ritrovamento presso la soglia di una moneta della moglie di Lucio Vero, Lucilla (161-169 d.C.), di due monete nel sarcofago infantile fittile, di cui una di Commodo (un asse del 192 d.C.), e di altre due monete all’interno di due formae, una di Settimio Severo (forse un asse del 194 d.C.) e l’altra di Gallieno (un antoniniano del 268 d.C.). A chiudere le fasi edilizie del settore dell’Autoparco è il complesso sepolcrale 5, databile tra la fine del II e la prima metà del III secolo d.C., le cui murature sono rasate fin sotto il piano pavimentale, a parte l’angolo nordovest, che conserva parte dell’alzato138. Anche in questo caso la sua costruzione ha tagliato o si è sovrapposta a sepolcri più antichi, come può ben documentare il sarcofago a vasca in terracotta (con bollo precedente al 79 d.C.), cui si è fatto già cenno, inglobato nelle fondazioni. L’edificio sepolcrale 5, realizzato con una cortina a blocchetti di tufo, è situato nella parte settentrionale del terrazzamento più elevato ed è composto da tre camere identiche affiancate, che si affacciano verso valle, sul vicolo che percorre la necropoli da nord-ovest verso sud-est, ma a una quota rialzata. Ognuna delle camere sepolcrali è scandita da due arcosolii lungo le pareti laterali e uno lungo quella di fondo, per un totale di circa sessanta inumati. Questa quantità di spazio appare più adatta a un collegio funeraticio139 che a un’occupazione familiare: il giudizio è reso più complesso dal fatto che le fosse sono state rinvenute vuote mentre nella forma corrispondente all’angolo meglio conservato si trovò un accumulo di ossa riesumate e qui raccolte insieme: resta possibile anche l’ipotesi che questa serie di edifici sepolcrali non sia stata sistematicamente utilizzata140. Da segnalare come curiosità è il riuso – come divisorio all’interno di una forma – di
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una più antica «tegola mammata» – una tegola con distanziatori per intercapedini – che reca l’impronta di un piede umano con a fianco quelle di un cane e di un uccello, impresse quando era in corso l’essiccazione della creta. L’edificio sepolcrale 5 trova stringenti confronti – nell’articolazione interna, come nella scelta dei materiali per la costruzione – con alcune serie di tombe, grosso modo coeve, dei settori vicini. In particolare appaiono assai simili le tombe 2, 6, 7 e 8 del settore della Galea, i sepolcri 6, 7, 8 dell’Annona e due serie di tombe – VII e XV, a nord, e IX, XXIX e XII, a sud – di Santa Rosa; la seconda serie di Santa Rosa, per la sua posizione (meno di 5 metri più a nord), pur differendo nell’orientamento potrebbe addirittura riconnettersi alla presente serie. Si può quindi dedurre l’impiego delle stesse manovalanze – o, quanto meno, delle medesime ditte – per un progetto edilizio di maggiore respiro, che, in età antonina e severiana, cercò di strutturare con maggiore organicità vari terrazzamenti e differenti aree della necropoli sulla via Triumphalis. Nelle vetrine e nel lapidario si conservano varie parti di statue e sculture in genere (tra cui due piccoli busti di aurighi), lucerne, bruciaprofumi, balsamari vitrei, vasellame per le libagioni, chiodi delle casse lignee, bottoni e altri reperti dello scavo, connessi alle deposizioni e al culto dei morti, non di tutti purtroppo è noto il preciso contesto di rinvenimento. Tra i materiali esposti vanno ricordate anche quattro defixiones141: sottili lamine di piombo – spesso ripiegate – che recano incise le maledizioni che alcune persone affidavano ai defunti, come tramite, perché le portassero alle divinità infere; si augurava in questo modo ogni sorta di malattia e disgrazia a chi era inviso, ma quasi mai la morte. Due defixiones mancano del contesto di rinvenimento, invece una terza laminetta fu trovata sotto un teschio nel sepolcro 4 e una quarta presso un’olla vicino alla stele 32 (di Nunnius). Sulle pareti dell’area archeologica sono stati montati una serie di laterizi bollati e gran parte delle stele, delle lastre iscritte, delle urne, dei frammenti di sarcofagi, delle decorazioni architettoniche non ricontestualizzabili o non ricollocabili in situ. Tra questi, alcuni manufatti sono particolarmente curiosi e meritano una menzione. È il caso di una copertura di cinerario, con il foro per le libagioni coperto da un chiusino, costituito da un disco marmoreo – su cui è incisa la dedica al defunto – che ruota tramite un perno142, oppure dell’iscrizione di Eubulus, morto fanciullo, che augura al passante un destino migliore del suo, chiedendo poi la cortesia di non manomettere il suo
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37. Autoparco, unguentari vitrei. 38. Autoparco, orecchini d’oro. 36. Autoparco, ossi lavorati.
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39. Autoparco, statuetta bronzea di amazzone.
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40-44. Autoparco, lucerne.
45. Autoparco, lucerna con busto di Iside come presa.
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46. Autoparco, bustino di auriga. 47. Autoparco, chiusino a disco di cinerario, con iscrizione. 48. Autoparco, lamine di piombo con defixiones. 49. Autoparco, lapide del fanciullo Eubulus.
sepolcro143. Al di là dell’interesse storico-artistico, queste testimonianze, restituiscono un eccezionale quadro sulla composizione sociale – o per meglio dire umana – della necropoli. Annona Uno dei settori di necropoli più vicino alla via Triumphalis è quello dell’Annona, che prende appunto il nome dall’edificio dell’Annona, costruito agli inizi degli anni ’30 per accogliere i magazzini delle derrate alimentari e gli spazi per la relativa vendita. Nell’estate del 1930 Enrico Josi seguiva tutti gli sterri che, dopo i Patti Lateranensi144, dovevano creare gli spazi per le infrastrutture del nuovo Stato del Vaticano. Quindi, contemporaneamente ai rinvenimenti nel settore della Galea, furono portate alla luce le tombe nel settore dell’Annona e nelle aree limitrofe, tra le attuali via della Tipografia e via del Pellegrino. Questa zona pianeggiante di fondovalle, scavata per circa 630 metri quadrati, si estendeva anche
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50. Annona, schizzo planimetrico.
verso gli edifici della Tipografia Poliglotta e dell’ambulatorio; la sua collocazione topografica indica che doveva essere a ridosso della via Triumphalis, di cui si rinvenne poco oltre un breve tratto, in corrispondenza dell’attuale via del Pellegrino. Gli scavi esposero più di trenta sepolcri, di cui almeno ventitré ben distinguibili, ma di essi conserviamo assai poco, in quanto, a seguito della costruzione dell’Annona, fu distrutta gran parte di questo settore di necropoli e le poche tombe superstiti sono attualmente ispezionabili solo attraverso un’angusta botola nei magazzini dell’edificio moderno. In particolare si conservano quasi integre solo le tombe 2 e 3, mentre le tombe 1, 4, 5, 10 e 22 sono parzialmente inglobate nelle strutture moderne; il resto è perduto145. Anche questo scavo degli anni ’30 risulta scarsamente documentato. Lo Josi ci ha lasciato solo pochi appunti e varie fotografie, sia panoramiche sia di dettaglio; su questa base si è cercato di ricostruire in grandi linee la topografia, la storia e la struttura di questa parte della necropoli146. Con questi limiti l’analisi delle strutture sepolcrali è in parte solo indicativa e sono possibili solo poche verifiche dirette147. Alcuni approfondimenti e aggiornamenti si possono effettuare soprattutto con l’esame dello stretto rapporto esistente con i sepolcri dei settori vicini; in particolare il recente scavo del settore di Santa Rosa permette di proporre dei confronti stringenti e d’intuire delle fasi edilizie comuni. Come nelle aree precedentemente descritte, la progressiva occupazione delle adiacenze della via Triumphalis ha prodotto una serie di appoggi, tagli e sovrapposizioni difficilmente organizzabile in fasi chiaramente distinguibili: si può documentare con certezza la presenza di sepolcri a partire dalla metà del I secolo d.C., mentre le ultime tombe sono databili entro la metà del III secolo d.C., pur potendosi intuire una frequentazione funeraria del sito fino agli inizi del IV secolo d.C. In seguito, la costruzione della basilica di San Pietro portò prevalentemente al transito di pellegrini nell’area, dato che la via Triumphalis rimase uno dei suoi principali percorsi di accesso da nord. Ad ogni modo si possono convenzionalmente riconoscere alcune fasce cronologiche di occupazione: alla metà del I secolo d.C. è attribuibile il colombario 14, il più antico della necropoli; a una fase tra la seconda metà del I e gli inizi del II secolo d.C. si possono assegnare i colombari 1, 2, 3, 4 e 12 e i sepolcri 21, 22 e 23; genericamente alla metà/seconda metà del II secolo d.C. si possono datare i sepolcri 11, 15 e 19; appartenenti a un’ultima ampia fase, tra la fine del II e la prima metà del III secolo
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d.C., si possono considerare i sepolcri in serie – 6, 7 e 8 –, il tardo colombario 9, i sepolcri 5, 13, 16, 17, 18, 20 e infine il sepolcro 10, probabilmente il più recente. Per quanto riguarda le sepolture individuali, le tombe minori e quelle solo parzialmente esposte, il loro inserimento cronologico appare ancora più aleatorio, mancando dei dati concreti sul loro contesto di scavo. Come accennato, la tomba più antica individuata in questo settore di necropoli è il colombario 14, costruito negli anni intorno alla metà del I secolo d.C., in corrispondenza del vertice nord-orientale del grande spiazzo pianeggiante, in un’area in prossimità della via Triumphalis. Le foto degli anni ’30 permettono di riconoscerne almeno in maniera approssimativa la planimetria e la struttura148. Aveva una pianta grossomodo quadrata149 ed era costruita in laterizio e internamente rivestita d’intonaco chiaro. L’ingresso si apriva al centro del lato settentrionale, l’unico a non presentare nicchie. Sul lato di fondo e sulle pareti laterali, invece, si vedono più file di nicchie in cui sono murate olle cinerarie: due in quelle centrali maggiori e solo una in quelle laterali; un ultimo cinerario è all’interno di un bauletto in muratura all’angolo sinistro del lato di fondo. Della pavimentazione rimaneva solo la preparazione in conglomerato, nella quale erano visibili dei condotti. Approfondendo lo scavo al di sotto di essa lo Josi mise in luce sei anfore del tipo «Dressel 20» – un contenitore da trasporto per l’olio importato dalla Baetica (in Spagna)150, del sottotipo prodotto entro la prima età flavia – che erano state riusate come cinerari151. Sul suo lato occidentale in seguito si insedierà parte del sepolcro 13. Certamente il colombario doveva esser affiancato da altre tombe, ma le fasi successive non ci permettono di riconoscerle, a parte qualche struttura individuata al di sotto del tardo sepolcro 10, al centro dell’area di scavo, e un grande basamento marmoreo, pertinente a un’ara-cinerario monumentale demolita, che sorgeva davanti al sepolcro 11 e al colombario 12152. Solo sul lato opposto della piazza, quello sud-occidentale, si possono riconoscere dei sepolcri leggermente più tardi rispetto al colombario 14: si tratta dei colombari 21 e 22, della seconda metà del I secolo d.C. o dei primissimi anni del secolo successivo. Le due tombe presentano una simile struttura interna, sono costruite alla medesima quota, si allineano sulla stessa direttrice e si aprono verso oriente: restano le soglie delle porte in travertino. Devono essere state costruite insieme su un lieve pendio che saliva alle loro spalle.
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Il colombario 21 è una piccola struttura a pianta quadrata costruita in laterizi153. Le pareti laterali sono scandite da file di nicchie con olle cinerarie murate all’interno, mentre nella parete di fondo si apre un arcosolio, con una forma sottostante per accogliere gli inumati. Il fondo dell’arcosolio presenta due pavoni affrescati, ai lati di una cesta colma di frutta. Il pavimento è costituito da un tappeto musivo, con decorazione geometrica in bianco e nero; lungo le pareti laterali, il mosaico incornicia degli imbocchi per i tubuli che comunicano con incinerazioni
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al di sotto del pavimento. Il motivo ornamentale si basa su di un gioco illusionistico di quadrati e rombi che s’intersecano, creando un ottagono ed altri elementi geometrici affiancati. Sia il soggetto dell’affresco dell’arcosolio sia il motivo decorativo del mosaico trovano numerose analogie con lavori del pieno II secolo d.C. o, addirittura, anche posteriori: tra i confronti possibili per l’affresco, si può menzionare – in virtù della sua breve distanza – quello realizzato nella tomba VIII (dei sarcofagi) di Santa Rosa, databile però agli inizi del III secolo d.C. e differente per stile, mentre più affini sono vari esempi ostiensi, della seconda metà del I e dei primi decenni del II secolo d.C.154. In realtà è proprio la struttura del colombario che suggerisce una cronologia a cavallo tra la fine del I e gli inizi del II secolo d.C.: la prevalenza del rito incineratorio, con una sola forma sul lato di fondo, è confrontabile con quella del colombario III (degli Stucchi) di Santa Rosa, molto vicino anche nell’apparato decorativo e databile appunto a questi anni155. In un momento successivo il colombario venne raso al suolo e sui suoi resti si impostò una struttura sepolcrale a blocchetti di tufo sul lato settentrionale, mentre sul muro posteriore, nella prima metà del II secolo d.C., vennero eretti i colombari 1 e 2. A nord del colombario 21, ma sullo stesso allineamento, si realizza anche il colombario 22, in opera laterizia, di forma quadrata, ma leggermente più piccolo156. Anche questo conserva pochissimo dell’elevato, essendo stato rasato e coperto da altri sepolcri: in particolare la fronte dei colombari 2 e 3 si è sovrapposta al suo muro di fondo. Il colombario 22 presentava una struttura simile al 21, con file di nicchie per due olle cinerarie murate al loro interno e un analogo motivo geometrico pavimentale a tessere bianche e nere di quadrati sovrapposti a rombi157. Il periodo di utilizzo di questi piccoli colombari dovette essere piuttosto breve, visto che pochi anni dopo la loro costruzione – comunque entro la metà del II secolo d.C. – vennero coperti dalla costruzione di un’altra serie di colombari a una quota leggermente superiore, che invase la parte posteriore delle camere sepolcrali; il resto delle strutture venne rasato per un vicolo che passava davanti alle nuove tombe. Le prime due – i colombari 1 e 2 – sembrano costruite in un unico blocco, realizzato in opera laterizia nella prima metà del II secolo d.C. Del colombario 1 conosciamo solo la parete settentrionale, con due ordini di nicchie sovrapposte158. Le pareti, rivestite di intonaco bianco, sembrano esser state decorate da motivi vegetali affrescati. Assai meglio conservato – e tuttora esistente sotto al magazzino dell’Annona – è il colombario 2, un sepolcro a pianta rettangolare159 con nicchie su tutte e quattro le pareti, disposte su più ordini (anche se se ne conserva solo il primo). Al centro della parete di fondo e di quelle laterali è una nicchia di dimensioni maggiori, con due piccole mensole destinate alle colonnine di una sorta di edicola160. Forse a seguito di frane, lo spazio di fronte alla soglia fu rialzato e in seguito vi si costruì sopra una sorta di rozza cupa, una piccola struttura in muratura destinata a contenere e proteggere un sarcofago fittile161. Poco più a nord venne costruito il colombario 4, scavato solo par-
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zialmente162. Si riconosce la presenza di almeno un ordine di nicchie per olle cinerarie, in un contesto decorativo particolarmente curato, con intonaco probabilmente rosso (le foto conservate sono in bianco e nero) e ornato di stucchi che incorniciano le nicchie. All’epoca dello scavo si conservava anche parte della pavimentazione a mosaico, con un motivo di riquadri bianchi su fondo nero163, tagliato su un lato, probabilmente per una fossa per inumazione.
Tra i colombari 2 e 4 si inserì il colombario 3, sotto la cui fronte poi si realizzerà anche una forma esterna164. La tomba, a pianta quasi quadrata165, venne realizzata allineando perfettamente le murature in opera laterizia della fronte e del retro con quelle del colombario 2. Lungo il lato sinistro è una scaletta diretta verso un piano superiore, probabilmente un solarium (una sorta di terrazza) ove si svolgevano le libagioni e le cerimonie in onore dei defunti. La camera sepolcrale, rivestita d’intonaco chiaro con motivi floreali affrescati, prevedeva almeno due ordini di nicchie per due olle cinerarie ciascuna; la pavimentazione era invece costituita da un tappeto musivo di tessere bianche, con una bordura nera. Di notevole interesse lo scavo che si fece sotto il mosaico: qui si portarono alla luce due pozzetti collegati con la pavimentazione tramite due tubuli per le libagioni. In particolare, il tubulo al centro del pavimento a mosaico conduceva a un’urna di marmo della fine del VI – inizi del V secolo a.C., di produzione greca, composta da una cassetta e dal suo tettuccio (forato dal tubulo) con acroteri angolari166. La distanza cronologica tra la realizzazione dell’urna greca e la costruzione della tomba è di almeno sei secoli e pone una questione non facilmente risolvibile167: si tratta di un acquisto antiquario di lusso per destinarvi le ceneri di un defunto dai gusti particolarmente ricercati o, più probabilmente, del rinvenimento casuale di un antico sepolcro, di cui poi si è riutilizzato il manufatto più prezioso? Allo stesso periodo – la prima metà del II secolo d.C. – appartiene il colombario 12, che però occupa un’area centrale del pianoro, una decina di metri più a est dei sepolcri precedentemente descritti168. La tomba, in opera laterizia, doveva trovarsi in corrispondenza dell’incrocio tra due vicoli. Il sepolcro soffrì delle distruzioni causate dalla costruzione della tomba 11, di qualche decennio successiva, che ne invase la sua parte occidentale. Internamente il colombario presenta le consuete file di nicchie per le olle cinerarie; altre incinerazioni erano riposte entro alcune anfore vinarie, del tipo «Dressel 2-4»169, collocate sotto il piano pavimentale a lastre di marmo, quasi del tutto asportato già in antico. Alla stessa fase dovrebbe appartenere il sepolcro 23, solo genericamente collocabile nell’area nord-est dello scavo170. Questa struttura – la prima ad esser ritrovata negli anni ’30 – era costruita con una cortina di laterizi, mentre i pozzetti, sotto il pavimento e collegati alla superficie tramite tubuli, sono realizzati con blocchetti di tufo e coperti a cappuccina con mattoni bipedali171. In essi si rinvennero le ossa combuste di defunti incinerati; un’altra fossa, più grande e al centro del pavimento, conservava invece un sarco-
fago fittile e i resti di più persone inumate. La tomba ha restituito anche il frammento di un sarcofago marmoreo con scena di aratura, di non sicura pertinenza.
In prossimità del centro della piazza, presto due strutture sepolcrali si addossarono al colombario 12. La prima è forse un piccolo colombario, con incinerazioni entro anfore murate sotto il pavimento, mentre la seconda – posteriore – si insedia davanti al suo ingresso, andandosi ad appoggiare anche alla muratura del sepolcro 11. Quest’ultimo, malgrado si presenti ad un livello leggermente inferiore rispetto a quello del colombario 12, come già accennato ne occupa le strutture, in parte demolendole, ed è quindi posteriore. Il sepolcro 11, a pianta rettangolare in opera listata di blocchetti di tufo e mattoni, è infatti databile alla metà del II secolo d.C.172. Su ognuna delle pareti laterali è un arcosolio, a protezione di una forma per inumati; sulla parete di fondo invece si costruì una grande nicchia, con tre olle cinerarie, decorata ad affresco con un ramo d’acanto e una simile decorazione pittorica doveva ornare anche gli arcosolii. Come pavimentazione si realizzò un mosaico in bianco e nero, con una serie di quadrifogli che incorniciano un grande cespo d’acanto: si tratta di un soggetto vegetale assai diffuso nel corso del II secolo d.C. e qui replicato in uno stile piuttosto corsivo173. Nove incinerazioni prendono posto al di sotto del piano pavimentale, come ci attestano le lastrine marmoree forate, corrispondenti agli imbocchi dei tubuli, tra un quadrifoglio e l’altro. Lungo il margine meridionale della piazza, sull’altro lato del percorso viario che la taglia in senso est-ovest, si edifica il sepolcro 19, risalente alla seconda metà del II secolo d.C. È una grande tomba rettangolare174 con ingresso aperto sulla via a nord175, destinata ad accogliere i defunti inumati entro le formae disposte lungo le pareti. Il pavimento a mosaico bianco e nero, ripete lo schema dell’opera isodoma, con finta muratura di blocchi posti di testa e di taglio. Tale motivo ornamentale è noto fin dal I secolo d.C., ma rimane in voga anche nel II secolo d.C., in numerose varianti176, tra cui quella del mosaico del colombario I del vicino settore di Santa Rosa (della metà del II secolo d.C.). Alla stessa fase edilizia appartiene il sepolcro 15, lungo il margine orientale della piazza, in una posizione non distante dal percorso della via Triumphalis. La pianta trapezoidale della tomba è dovuta al condizionamento di una preesistenza: forse la via o un sepolcro più antico orientato su di essa177. La tomba, costruita in opera laterizia, ha il suo ingresso sul lato meridionale, presumibilmente su di un diverticolo che dalla via Triumphalis portava al grande spiazzo. Una fotografia degli anni ’30 ci mostra il sepolcro, che almeno su di un lato aveva una forma per le inumazioni; la pavimentazione musiva risulta sfondata, forse a causa di una camera ipogea, come nella seconda fase della tomba 2 della Galea. Il tappeto a mosaico presenta un campo bianco con un motivo figurato – forse un grande cespo d’acanto – quasi del tutto distrutto; il soggetto è disposto all’interno di due riquadri neri mentre sul lato della parete obliqua era un campo triangolare.
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Pagine precedenti: 51. Annona, panoramica del lato settentrionale. 52. Annona, panoramica dell’area centrale.
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53. Annona, colombario 2.
54. Annona, colombario 21.
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55. Annona, colombario 3.
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56. Annona, colombario 4. 57. Annona, urna cineraria marmorea greca. 58. Annona, colombario 14 con anfore ÂŤDressel 20Âť sotto il pavimento.
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LA NECROPOLI VATICANA SULLA VIA TRIUMPHALIS
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59. Annona, statuetta con Venere e Priapo.
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60. Annona, colombario 11.
61. Annona, colombario 10.
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LA NECROPOLI VATICANA SULLA VIA TRIUMPHALIS
LA NECROPOLI VATICANA SULLA VIA TRIUMPHALIS
Il sepolcro 15 era ancora in funzione quando, qualche tempo dopo, venne costruita la tomba 16, che si addossa alla parte sinistra della sua fronte, ma ne lascia libero l’ingresso178. La tomba, a pianta rettangolare179, è costruita in opera listata, con la muratura esterna a mattoni e quella interna, in corrispondenza delle formae, a blocchetti di tufo180. La rasatura delle murature non permette di verificare la presenza di nicchie per incinerazioni, mentre le forme si dispongono lungo le pareti laterali nord e sud, e si può ipotizzare l’ingresso ad ovest, verso la piazza. Alla stessa fase sembra attribuibile anche il sepolcro 17, identificabile solo attraverso qualche foto panoramica: costruito in opera laterizia a fianco del precedente, è di grandi dimensioni e presentava un ingresso probabilmente rivolto nella stessa direzione181. Anche il lato meridionale della piazza venne occupato, tra la fine del II e la prima metà del III secolo d.C., da nuovi sepolcri. La tomba 18, in opera listata, si appoggia al lato orientale del sepolcro 19, in posizione leggermente arretrata182; la tomba 20 si addossa invece sul lato opposto, allineandosi perfettamente con la sua fronte verso il grande spiazzo e sovrapponendosi parzialmente al colombario 21183.
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Assai curioso è il rinvenimento, appena oltre la soglia, della parte inferiore di una statua di Venere accanto a un piccolo Priapo, databile alla metà del II secolo d.C.; si tratta di un soggetto allusivo alla prosperità e alla fertilità, apparentemente più adatto alla decorazione di ville e giardini che al contesto sepolcrale184, a meno che non si tratti del ritratto di una defunta rappresentata nelle vesti della dea, secondo un costume ben attestato nelle necropoli di quest’epoca. Sempre in età severiana venne occupato anche il fronte settentrionale della piazza, con almeno quattro grandi sepolcri appartenenti ad un unico complesso, che si contrappone perfettamente alla serie sul lato meridionale; solo tre di questi sepolcri sono stati completamente esposti negli anni ’30: le tombe 6, 7, e 8185. La costruzione, in opera listata di laterizi e blocchetti di tufo, si presenta come una serie di camere sepolcrali che si aprono a sud verso la piazza, tramite scalette; internamente, le sepolture ad inumazione erano disposte su più livelli entro le formae sotto gli arcosolii lungo le pareti. Questi sepolcri a schiera ripetono la struttura, l’organizzazione interna e la tecnica edilizia delle tombe coeve del settore, ma si possono ben confrontare anche con le altre tombe della fine del II o degli inizi del III secolo d.C. dei settori vicini, quali la serie delle tombe 2, 6, 7, 8 della Galea, l’edificio 5 dell’Autoparco e la serie delle tombe IX, XXIX e XII di Santa Rosa. Un paio di metri più a est, al di là di un vicolo, si edificò il sepolcro 13, anch’esso in opera listata, di cui però si rinvennero solo poche strutture; la sua costruzione invase parte del colombario 14, ormai da più di un secolo in abbandono186. Dopo pochi anni due piccole tombe si addossarono al complesso
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edilizio dei sepolcri 6, 7 e 8, senza però metterli fuori uso. Il sepolcro 5, in opera listata, si inserì all’angolo tra il primo sepolcro della serie (non numerato), la tomba 6 ed il colombario 4. Si tratta di una tomba destinata al rito misto: sulla parete di fondo è una forma per gli inumati, mentre sulle pareti laterali sono due nicchie per olle cinerarie e sotto il piano pavimentale sono ricavati altri spazi per incinerati187. Più ad oriente il colombario 9, in opera laterizia, si addossa alla fronte e alle scalette della tomba 8; internamente sulle pareti laterali sono disposte due nicchie per due olle cinerarie, mentre sulla parete di fondo è una nicchia maggiore, con tre olle188. La costruzione di un colombario in un periodo così tardo rappresenta certamente un’anomalia: nella prima metà del III secolo d.C. la pratica inumatoria è ormai il rituale sepolcrale adottato in modo quasi assoluto. Forse è il piccolissimo spazio a disposizione a imporre la creazione di sepolture solo per defunti incinerati oppure siamo di fronte ad una famiglia particolarmente tradizionalista.
Ancora posteriore è il sepolcro 10, che si insedia al centro della piazza – di fronte alle scalette della serie di tombe 6, 7 e 8 – inglobando e distruggendo un gran numero di tombe precedenti: probabilmente si tratta del più tardo e grande sepolcro del settore dell’Annona189. L’edificio, in opera listata, è a pianta rettangolare190, con ingresso rivolto a sud, cioè verso lo spazio ancora libero della piazza. Nel suo interno si distribuiscono due arcosolii sulle pareti laterali e un solo arcosolio su quella di fondo. La tomba – pur ripetendo la struttura interna dei sepolcri degli inizi del III secolo d.C. – dimostra di essere posteriore: vi si appoggia pur rispettandone gli accessi; di conseguenza si può ipotizzare una cronologia contenuta nei decenni centrali del III secolo d.C. Certamente il settore dell’Annona anche in seguito sarà stato occupato da nuove sepolture (almeno fino agli inizi del IV secolo d.C.), ma queste si dovranno immaginare meno monumentali e a una quota superiore: le successive vicende storiche del sito, conseguentemente, devono averne asportato ogni traccia.
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Santa Rosa Il settore di Santa Rosa è la parte della necropoli lungo l’antica via Triumphalis scavata più di recente. Lo scavo ha avuto origine nel febbraio 2003 ed è terminato nel giugno dello stesso anno, quindi – dopo un’interruzione di quasi tre anni – nella primavera e nell’estate del 2006 si è proceduto ad una campagna di sondaggi, restauri e allestimenti che hanno portato l’area a esser musealizzata e, a partire dall’ottobre 2006, anche visitabile dal pubblico 191. Il progetto del nuovo parcheggio è nato dalla necessità di
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62. Santa Rosa, panoramica.
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63. Santa Rosa, pianta (Di Blasi).
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Necropoli della Via Trionfale Settore P.le S. Rosa Città del Vaticano 2003 Rilievo: Leonardo Di Blasi Coll. al rilievo: Giuseppe D’Errico
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64. Santa Rosa, ipotesi ricostruttiva generale (Di Blasi).
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65. Santa Rosa, ipotesi ricostruttiva del pianoro superiore (Di Blasi).
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snellire il traffico all’interno della Città del Vaticano; per questo motivo si scelse la zona del piazzale di Santa Rosa, all’interno delle mura vaticane (nel tratto corrispondente all’ultima parte di via Leone IV che piega per raggiungere piazza Risorgimento). Lo scavo archeologico è intervenuto solo dopo qualche mese dall’inizio degli sterri intrapresi dal cantiere edile, al momento in cui sono emerse le prime prove irrefutabili di presenze archeologiche, ma al tempo stesso quando purtroppo era avvenuta già la distruzione di alcuni sepolcri e l’asportazione di materiale archeologico, che in un secondo momento si è cercato di ricontestualizzare192. In un’area di circa 500 metri quadrati, le indagini archeologiche hanno messo in luce più di quaranta strutture sepolcrali collettive di diversa grandezza e circa duecentocinquanta tombe individuali – di cui più di 230 a incinerazione e circa 20 a inumazione – disposte su diversi terrazzamenti. Attualmente si sta lavorando a un progetto per la prosecuzione degli scavi verso sud, in modo da collegarli con quelli vicini dell’Autoparco e formare un’unica grande area archeologica sotterranea193. L’occasione di poter indagare, con criteri moderni e metodologie scientifiche, un sito così poco alterato dagli interventi successivi sta portando una messe eccezionale di nuovi dati per lo studio sulle sepolture e sui rituali funerari delle classi meno abbienti di Roma. In questo settore della necropoli il terreno si distende in una minuscola valle, che in leggera pendenza percorre trasversalmente l’area, per poi ridiscendere bruscamente con un breve salto di quota, fino ad un altro breve pianoro. Poco oltre – a meno di cinquanta metri di distanza e circa cinque metri più in basso – doveva passare la via Triumphalis. Il pendio, almeno inizialmente, si presentava molto accidentato e sconnesso, con vari tagli naturali creati nel terreno dallo scorrimento delle acque piovane, che defluivano dalla sommità del colle e si incanalavano evitando piccoli rilievi, asperità, altri ostacoli. Le prime tombe si distribuirono con una certa libertà ed irregolarità, sfruttando gli spazi disponibili che più sembrarono idonei; si può osservare come alcuni sepolcri in muratura – coevi e adiacenti – fossero orientati in maniera differente: evidentemente bastava la presenza di un albero o di un grande cespuglio a condizionare l’orientamento del loro ingresso. Tra la fine del I secolo a.C. e la metà del secolo successivo, quindi, queste sepolture si disposero adattandosi all’orografia del colle e la loro distribuzione sembra quasi ripetere sul terreno l’andamento delle curve di livello del
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66. Santa Rosa, veduta del livello superiore, con piccoli edifici sepolcrali e incinerazioni singole.
pendio. Se accettiamo l’ipotesi che la zona rientrasse ancora nei limiti della proprietà imperiale, la cospicua presenza tra i defunti di schiavi e liberti imperiali della famiglia giulio-claudia potrebbe far ritenere che questi venissero favoriti nella concessione dell’uso sepolcrale del colle Vaticano. Nella seconda metà del I secolo d.C., fino ai primi decenni del II secolo d.C., si comincia a riconoscere una qualche forma di occupazione pianificata dell’area: vengono costruiti sepolcri di maggiori dimensioni e alcuni di essi registrano nelle relative iscrizioni l’area di rispetto, spia di una prima lottizzazione degli spazi. Si creano vari brevi terrazzamenti artificiali, tagliando il pendio e riportando le terre subito a valle, si spianano le aree intorno ai piccoli edifici funerari e, presumibilmente, si disboscano gli spazi intorno alle radure naturali. Tutta questa serie d’interventi umani favorisce l’installazione di nuove tombe, ma, allo stesso tempo, riduce la stabilità del pendio. Gli smottamenti di terra, che hanno sempre percorso le vallette tra i costoni del colle, a questo punto sono meno frenati e le grandi piogge divengono una costante minaccia per l’area. Poco prima della metà del II secolo d.C., una grande frana, maggiore delle precedenti, si incanala nella piccola valle e si blocca contro le murature di una serie di colombari (III, XVII, XVIII e II) che la chiude prima di un breve salto di quota. Questa schiera di sepolcri costituisce uno sbarramento che impedisce alla frana uno sfogo naturale verso valle e produce un rialzamento del terreno di più di due metri, che sigilla con un grande strato di ghiaia e argilla tutte le tombe a monte della barriera. I parenti dei defunti di questa parte di necropoli rinunciano a riportare alla luce le tombe dei loro cari. Solo qualche tempo dopo, verso la metà del II secolo d.C., riprende l’uso sepolcrale della zona; l’esperienza negativa maturata suggerisce la costruzione di terrazzamenti in muratura più stabili e affidabili, realizzati scavando le loro fondazioni proprio all’interno della frana. Su di essi si costruiscono tombe più imponenti delle precedenti e accanto, negli spazi di risulta, prendono posto le sepolture più povere. Si può seguire la costruzione dei sepolcri fino ai primi decenni del III secolo d.C. e le pratiche funerarie fino agli inizi del IV secolo d.C., dopodiché le tombe saranno progressivamente abbandonate e diventeranno ricoveri o saranno destinati a usi differenti. Il settore di Santa Rosa, in sintesi, può esser analizzato cronologicamente in due grandi fasi. La prima, caratterizzata in modo quasi esclusivo dal rito incineratorio, inizia alla fine del I secolo d.C. – anche se non si può escludere
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Fig. V. Musei Vaticani, Lapidario Profano ex Lateranense, urna cineraria di marmo a forma di cesta (inv. 9237).
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la presenza di una fase precedente, ancora sepolta – e termina con la grande frana del 130-140 d.C.; la seconda, prevalentemente connotata dal rito inumatorio, ha origine poco tempo dopo la frana e finisce intorno agli inizi del IV secolo d.C., forse con la costruzione della basilica sulla tomba di Pietro (verso il 320 d.C.). All’interno, queste due grandi fasi, sono ulteriormente articolate, ma risultano individuabili solo sequenze locali di settore. Chi era più benestante era in grado di organizzare il luogo della sua sepoltura dignitosamente, prenotandosi uno spazio all’interno di una tomba in muratura, chi era più povero trovava uno spazio là dove poteva. D’altra parte le soluzioni erano scelte di volta in volta; per i meno abbienti raramente si può riconoscere una vera pianificazione nell’occupazione degli spazi: la morte non può esser programmata e, nel loro caso, nemmeno esser inserita in progetti di lunga durata. Di qua si scavava una fossa e di là si buttava la terra di risulta, coprendo tombe precedenti. Le stratigrafie così divengono spesso confuse e le datazioni devono quindi essere ricavate da altre considerazioni, in particolare dall’incerto rapporto che intercorre tra le cronologie relative da un lato, determinate dal rapporto fisico tra i sepolcri, e le cronologie assolute dall’altro, ricavabili dall’analisi degli elementi intrinseci datanti presenti in alcune tombe194. Le più antiche sepolture del settore di Santa Rosa sono individuabili sul fianco della piccola valle, nella parte a monte dello scavo, e sono riconoscibili in alcune incinerazioni segnalate da stele di travertino, con iscrizioni che paleograficamente sembrano databili tra gli ultimi decenni del I secolo a.C. e i primi del secolo successivo. Tra queste si possono ricordare due tabellarii (il tabellarius aveva un incarico simile a quello del moderno postino)195 della prima metà del I secolo d.C.: si tratta di Primus, che preparò da vivo lo spazio per la sepoltura sua e di Herennia Secunda196, e di un secondo schiavo imperiale, Priscus, sepolto dalla sua probabile contubernalis (convivente) Claudia Stacte (una liberta), insieme a Successus, conservus (in questo caso ex collega di schiavitù) di Claudia Stacte197. Come accennato, sono qui sepolti molti servi della familia dell’imperatore; ad esempio in cima alla valletta è la tomba di Fulcinia Nereidis, sepolta dalla conserva Heraclida198. Altre due stele di travertino sono inserite nel terreno di un piccolo pianoro più a valle; la più antica reca la memoria di una liberta, Lucina199, l’altra invece ricorda uno schiavo, Grathus200. Quest’ultimo è un servo imperiale ex Nemore Cai et Luci, commemorato da Abascantus, un altro servo, che lavorava come aquarius
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(indicazione generica che designa un subalterno dell’amministrazione delle acque pubbliche di Roma)201 probabilmente nello stesso luogo. Il Nemus Cai et Luci corrisponde al Nemus Caesarum, noto da varie fonti202 e chiamato così (come sulla nostra stele, ma in greco) solo da Cassio Dione203. Si trattava di un giardino monumentale creato nel complesso degli horti di Cesare, presso la Naumachia di Augusto a Trastevere, in memoria di Lucio e Caio Cesare, i due figli di Giulia e di Agrippa che dovevano ereditare da Augusto le redini dell’Impero e che invece morirono prematuramente nel 2 e nel 4 d.C.204. La Naumachia Augusti, inaugurata nel 2 a.C. e destinata ai combattimenti navali, venne costruita alimentando un grande bacino con l’aqua Alsietina proveniente dal lago di Martignano (Alsietinus), vicino al lago di Bracciano; al centro dello specchio d’acqua era un isolotto artificiale (di circa 60 x 40 metri) – ove vennero commemorati Caio e Lucio Cesare – collegato, con un ponticello ligneo, al Nemus Caesarum, sulla riva accanto205. Nella terrazza inferiore è l’altare in travertino, della prima metà del I secolo d.C., che Cominia Optata dedica al marito, lo scultore Tiberius Claudius Thesmus206. Il lavoro del defunto non è dichiarato nel testo iscritto, ma nella raffigurazione a bassorilievo sulla fronte: infatti Thesmus è rappresentato, seduto su di uno sgabello davanti al suo cane, mentre è impegnato nella realizzazione di un busto con mazzuolo e scalpello. Il mestiere dello scultore è raramente raffigurato in epoca romana; si possono ricordare la famosa lastra sepolcrale di Eutropos (cronologicamente molto più tarda), nel Museo Archeologico di Urbino207, ma se ci si limita a Roma l’unico confronto possibile è costituito da un altare privo di iscrizione – per soggetto molto simile a quello di Thesmus, anche se di circa un secolo più tardo (110-120 d.C.) – conservato nei Musei Vaticani208: qui l’anonimo scultore ritrae una donna entro un clipeo, forse la moglie, che si pone in posa (di fronte in piedi), elegantemente acconciata con il grande toupet di ricci di moda in quel periodo. Poco alla volta compaiono lungo il pendio numerose anfore parzialmente interrate, destinate a coprire i cinerari sottostanti e a fornire loro l’imbocco per le libagioni; la loro densità, però, non permette sempre di porle in diretta relazione alle are e alle iscrizioni intorno a cui si dispongono. Per tutta la seconda metà del I secolo d.C., si può notare come le anfore dette «di Spello» (metà del I secolo d.C.-metà del II)209 siano numericamente di gran lunga prevalenti sulle anfore tipo «Dressel 2-4» (inizi del 210 I secolo d.C.-prima metà del II) , una peculiarità che si
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può osservare con chiarezza anche nel vicino settore dell’Autoparco. Il loro rapporto – valutabile in circa il 90% di anfore «di Spello» e il 10% di «Dressel 2-4» – è inversamente proporzionale rispetto a quanto si può verificare negli scavi dei coevi contesti urbani. Si tratta di anfore per il trasporto di vino, la loro forma era quindi piuttosto simile, ma le anfore «di Spello» presentano la spalla più ampia ed il corpo più ovoidale, mentre le «Dressel 2-4» hanno la spalla più breve e spigolosa ed il corpo più allungato. Evidentemente il primo tipo (il meno comune) era più ricercato proprio per la forma: solitamente veniva tagliata la loro parte superiore per esser riutilizzata come protezione della sepoltura e a questo scopo serviva un’anfora che potesse inglobare al meglio i cinerari sottostanti. Sotto una di queste anfore «di Spello», nell’area del pianoro, venne posta una piccola scultura marmorea, collocata appena sopra l’incinerazione. La statuetta, che conserva tracce di color rosso, raffigura un uomo dai tratti marcati, vestito di una corta tunica211. Il personaggio, steso sul fianco sinistro e rannicchiato, trova appoggio su di una grande lanterna e su di una brocca rovesciata; al braccio destro, piegato per appoggiarvi la guancia, è infilato il manico di un borsone, tenuto ben stretto, per timore che qualcuno possa derubarlo dei suoi viveri. Si tratta di un servus lanternarius (o lampadarius), addormentatosi212 nell’attesa del padrone che sarebbe tornato durante la notte, per aprirgli la porta di casa, e per tutelarlo da eventuali malintenzionati. Il soggetto è certamente non comune – un esempio è conservato nel Museo Chiaramonti in Vaticano213 – e finora si riteneva idoneo alla decorazione di ville e giardini, mentre in questo caso, l’unico finora di cui si conosca il contesto di rinvenimento, assume logicamente un valore funerario214. A questo punto rimane il dubbio se tale rappresentazione scultorea debba riguardare direttamente il lavoro di un povero e anonimo schiavo lì sepolto o se vi sia una lettura allegorica e quindi raffiguri una rassicurante presenza, destinata idealmente ad illuminare l’oscuro tragitto del defunto verso l’ultima dimora. Nel terreno si sono notati anche alcuni incavi riempiti di ossa combuste e, talvolta, di frammenti di carbone, con tracce di perni e di chiodi. Questi elementi permettono di riconoscere le più umili incinerazioni della necropoli: le ossa combuste di alcuni defunti incinerati dovevano essere riposte in ceste o canestri di vimini o in cassette di legno, un materiale organico che si è poi dissolto per l’acidità della terra. Un riflesso – assai più costoso – è costituito da alcune urne cinerarie marmoree che riproduco-
Pagine seguenti: 67. Santa Rosa, veduta delle sepolture sul livello superiore.
no questi contenitori e che comunque, pur nel maggior lusso, vogliono rimanere legati a questo tradizionale e popolare uso sepolcrale215. A questo punto è lecito supporre l’esistenza di molti manufatti funerari e, persino forse, di piccoli edifici sepolcrali in legno o altro materiale deperibile. La moltitudine degli anonimi sepolti entro cinerari – o inumati in fosse – originariamente forse dichiarò la propria identità attraverso il proprio nome dipinto o inciso su stele lignee. Alcuni di essi potrebbero aver trovato il ricovero per l’eternità all’interno di tombe – a forma di casupola, di botte o di fornetto – o recinti costruiti con strutture di tavole e assi; questa ipotesi, non dimostrabile fisicamente, è solo suggerita dalla presenza di aggregazioni di tombe individuali coeve in aree circoscritte216. Ai primi decenni del I secolo d.C. si può attribuire l’inizio della costruzione dei più antichi sepolcri in muratura; queste tombe sono realizzate in opera reticolata, prima, e laterizia o mista, poi. Hanno una forma cubica, con copertura voltata a botte, con olle cinerarie fittili munite di coperchio murate in costruzione nel pavimento; le loro ridotte dimensioni non permettono un reale accesso, ma
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Fig. V
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68. Santa Rosa, altare dello scultore Tiberius Claudius Thesmus.
69. Santa Rosa, statuetta di un servus lanternarius.
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solo un affaccio dall’esterno per i rituali funerari. La struttura di questi sepolcri – confrontabile con simili tombe nelle necropoli della via Ostiense (presso la basilica di San Paolo) e di Porto (nelle vicinanze di Fiumicino) – è avvicinabile alla forma di piccoli forni, di conseguenza nel testo saranno chiamate tombe a forno. Tra le più antiche, probabilmente di età augustea, è la tomba XXXIV, situata nel piccolo pianoro nella parte inferiore della valletta, che presenta quattro grandi olle inserite nel pavimento; anomalo e curioso è il paramento impiegato per rivestire il nucleo cementizio delle murature: si tratta di cubilia (blocchetti piramidali a base quadrata) di tufo disposti su file orizzontali217, anziché a formare una sorta di disegno a scacchiera diagonale come sarebbe normale per l’opera reticolata. Di fronte è una stele di travertino con dedica di Poppidia Musa, al marito Crescens (defunto a 30 anni) e al figlio Quintus Poppidius Thesmus (morto a 16 anni), che dovrebbe essere in relazione con questo sepolcro o, più difficilmente, con il simile sepolcro XXII, che dopo qualche tempo gli si addossa, sfruttando la parete sinistra della tomba precedente come muro di fondo218. Non si può tuttavia escludere del tutto che fosse pertinente ad alcune incinerazioni vicine219; comunque questo gruppo di incinerati, in virtù delle strette relazioni fisiche tra le loro sepolture, potrebbe costituire un unico ambito familiare rappresentato in più generazioni. Meno di due metri a nord-est è un altro sepolcro del medesimo tipo, la tomba XXXI, costruita in opera reticolata esternamente intonacata in rosso; sul piano del pavimentale sono murate quattro olle cinerarie, disposte davanti alla piccola nicchia di fondo220. In seguito, nel corso della seconda metà del I secolo d.C., a questo sepolcro si affianca l’incinerazione di Artoria Prima (forse in relazione con i defunti all’interno del sepolcro), segnalata da un tubulo per le libagioni e da una stele iscritta221; la dedica a questa donna, morta a 26 anni, viene fatta dal marito Clemens, che si definisce HORTATOR FACT(IONIS) VENETAE. Clemens – anche se il termine hortator non è del tutto chiaro – dovrebbe essere un abile cavallerizzo che partecipava alle gare di corsa nel circo: il suo compito sembra quello di aiutare l’auriga della squadra Veneta (gli Azzurri) a rilanciare i cavalli e migliorarne la traiettoria nelle curve, montando a pelo un cavallo accanto alla biga (o alla quadriga)222. Certo non a caso dalla stessa area di Santa Rosa proviene un’altra stele di un hortator della fazione Veneta, Titus Albanus; il testo riporta la dedica della nutrice Quintilia Tyche al defunto e a sua moglie Quintilia Albana223. Negli anni di queste memorie iscritte,
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Fig. VI. Roma, Museo Nazionale Romano di Palazzo Massimo, mosaico con auriga della factio Veneta.
gli Azzurri, appunto la factio Veneta, erano nelle simpatie imperiali; in particolare è noto dal De Vita Caesarum di Svetonio che Vitellio (69 d.C.), era un loro accanito protettore e giunse persino a giustiziarne i denigratori224. Altre iscrizioni menzionanti aurighi si riscontrano in ambiti vicini e si dovranno presumibilmente porre in relazione con il Circo di Caligola e Nerone in Vaticano225. Ad ovest, sul ciglio del pendio in prossimità del pianoro, sono altri due piccoli sepolcri a forno, la tomba XXV e la tomba XXXV. La più antica è certamente la tomba XXXV, che conserva – alla base della fronte – una lastra (a forma di tabula ansata) con la dedica alla fanciulla Erotis, morta a 14 anni, posta dal marito Onesimus e dal padre Glaucia226. All’interno – entro il piano in muratura, intonacato e decorato da riquadri rossi su fondo bianco – sono tre olle cinerarie e un tubulo al centro; sulle pareti e sul fondo sono invece affrescati corsivamente dei racemi fioriti. Non deve sorprendere la giovane età della sposa defunta, perché era una prassi abbastanza consueta il matrimonio in una fase della vita che noi consideriamo adolescenziale. La tomba, costruita in età tiberiana (14-37 d.C.) per Erotis, venne probabilmente poi utilizzata anche da Glaucia e da Onesimus. In epoca posteriore si interrò e fu danneggiata da una sepoltura a incinerazione successiva. Tutti questi sepolcri in scala ridottissima con-
70. Santa Rosa, in primo piano i sepolcri XXXIV e XXII.
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Fig. VI
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Pagine seguenti: 72. Santa Rosa, edicola del fanciullo Tiberius Natronius Venustus.
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73. Santa Rosa, bustino fittile femminile di età flavio-traianea.
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71. Santa Rosa, sepolcro XXV.
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servano uno strato d’intonaco rosso come rivestimento della muratura esterna; questo colore – per altro assai comune nei rivestimenti murari romani – doveva emergere nel panorama delle aree destinate a necropoli. Solo la tomba XXV mostra affrescata, sopra il rosso, un’elegante teoria di cespi vegetali, con lunghe foglie verdi e gialle 227. Questo piccolo colombario è costruito in opera laterizia, con l’ingresso aperto a valle (a nord-est); sotto l’imbocco della tomba a forno si conserva l’impronta della lastra (mancante) che recava l’iscrizione, mentre sul piano interno sono murate quattro olle cinerarie e, al centro un grande tubulo fittile per le libagioni228. Su di un pianoro vicino alla via Triumphalis, dopo un breve salto di quota, si affaccia il minuscolo colombario XIV, costruito intorno al 20 d.C.; il suo ingresso è rivolto verso un viottolo che correva parallelo alla Triumphalis (a nord-ovest) e che serviva le coeve sepolture del pianoro229. La tomba presenta una nicchia, per olle cinerarie, sulle due pareti laterali e su quella di fondo ed è pavimentata da un opus sectile di mattonelle quadrate di marmo bianco230. Alle spalle viene costruito un sepolcro di dimensioni maggiori, la tomba IV (dei Natronii), una famiglia di liberti, che evidentemente disponeva di una discreta possibilità economica231. La tomba è databile tra il 20 ed il 40 d.C., anche se le sue strutture sono parzialmente coperte dalle fasi successive; la pianta è condizionata dalla presenza del colombario XIV, che impose l’apertura del suo ingresso verso sud-est, su di una piccola piazzola. Si compone di una corta anticamera, su cui s’innesta, trasversalmente e irregolarmente, la piccola camera sepolcrale principale, una sorta di stretto recinto rettangolare; il suo perimetro completo comunque non è ben definibile, in quanto le sue murature sono state rasate e coperte dalle costruzioni successive della tomba VI (dei Passienii) e soprattutto della tomba I, mentre si conserva invece, sigillata dall’interro del successivo rialzamento pavimentale, quasi tutta l’area inferiore. Poco oltre l’anticamera si apre la camera sepolcrale, con un secondo fornetto e un bancone in muratura lungo il lato sinistro; su questo bancone si costruì un’edicola, con piccole colonne e capitelli di terracotta. Presso il lato di fondo di questa sorta di camera/corridoio sono alcune sepolture segnalate da una serie di tubuli interrati per le libagioni, dalla stele dedicata da Natronia Sinphyle al figlio morto a venti anni, Tiberius Natronius Zmaracdis, e dall’edicola di Tiberius Natronius Venustus, defunto a soli quattro anni, quattro mesi e dieci giorni. Questa edicola marmorea è posta davanti ad un cassone
– in laterizi, chiuso da una lastra di travertino forata – a ridosso del fondo del sepolcro. Al centro dell’edicola è il bel ritratto del fanciullo, inquadrato da colonnine corinzie e incassato al di sotto del timpano, su cui è iscritto hic situs est («qui è deposto»); alla base è un rilievo ove invece sono riportati il nome e la durata della vita del piccolo defunto. Assai curiosa risulta la procedura per la realizzazione dell’edicola: questa non era stata creata per accogliere il busto e ciò è ben evidente dalla sua rilavorazione, con la scalpellatura praticata per l’inserimento della testa. Anche la testa, prodotta da una bottega di alta qualità di età giulio-claudia, doveva aver avuto in origine una collocazione differente, come ben testimoniano la lavorazione a tutto tondo anche del retro del capo e le vistose correzioni ottiche del volto. Il rialzamento e il maggior rilievo dato nel viso all’occhio e allo zigomo destri, accompagnati dalla conseguente modifica della parte corrispondente della bocca, provano che originariamente la testa doveva esser posta a sinistra dello spettatore (e vista preferibilmente da quel lato); di conseguenza doveva far parte di un gruppo statuario familiare, concepito probabilmente per un ambito domestico, che doveva forse prevedere la presenza di altri personaggi (i genitori?) alla sinistra del fanciullo232. Nel corso della seconda metà del I secolo d.C. la tomba IV subì un primo rifacimento: nell’anticamera, a fianco dell’ingresso, venne costruito un fornetto in opera laterizia per incinerazioni, che ha restituito quattro lucerne, dei primi decenni del II secolo d.C., lì poggiate per dar luce durante le cerimonie funerarie233. Lungo il lato sinistro, nell’interro sopra il bancone di prima fase, si è ritrovato un bustino in terracotta con un ritratto femminile sormontato da un’alta acconciatura (il cosiddetto Schildtoupet) di moda nella tarda età flavia e nella prima età traianea (circa 90-110 d.C.)234. Questo genere di bustini fittili – in tutto il mondo romano – sono spesso associati a sepolture infantili: quasi sempre erano dei crepundia, dei sonagli vuoti, con piccoli batacchi o sassolini all’interno. Molti di essi riproducevano – e sembra questo il caso – le fattezze delle madri235. Secondo un’altra interpretazione potrebbero essere identificati con i sigilla, le statuette che venivano donate ai bambini durante i Sigillaria, festività dei Saturnalia236. Un’altra sepoltura infantile di grande interesse è costituita da una piccola tomba a fossa, coperta da un solo sesquipedale (un mattone da un piede e mezzo: ca. 45 cm per lato), venuta alla luce a seguito di un sondaggio237. La
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74. Santa Rosa, inumazione infantile, con corredo ceramico e uovo.
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tomba è stata scavata a fianco di un colombario della metà del I secolo d.C., sito al centro della valletta e poi completamente distrutto dalla costruzione della tomba XII (della fine del II secolo d.C.). Lo scheletro ci indica la sepoltura di un bambino di poco meno di un anno – come ci attesta anche la mancata fuoriuscita dei denti da latte – che è stato accompagnato da un piccolo corredo, composto da una serie di vasetti acromi, del tipo detto a pareti sottili, e da un uovo di gallina posto presso la mano destra. Anche in questo caso si deve ricordare la funzione di crepundia (sonagli) assunta da molte uova, che, forate e riempite di semi, servivano da trastullo ai bambini: quest’uovo, però, sembra vuoto e intatto, di conseguenza si dovrà dargli un valore differente. Piuttosto che vedervi un inconsueto alimento per il piccolo defunto – visto che solitamente si offrivano alimenti liquidi (latte, miele, vino) attraverso i tubuli – è più opportuno riconoscervi un elemento allegorico stretto in mano, un simbolo di rinascita, una nuova vita che si contrappone all’ingiusta fine prematura. Poco più a monte sono altri piccoli sepolcri a forno, circa della metà del I secolo d.C., costruiti in opera laterizia, ma purtroppo quasi del tutto rasati dalle successive fasi sepolcrali238. Il primo ad esser costruito è la tomba XXVIII, con ingresso rivolto a nord, in direzione della parte inferiore della piccola valle; nel pavimento sono murate alcune olle di terracotta ed un tubulo, ma il piano è stato tagliato da due tombe a cappuccina del III secolo d.C., che ne hanno alterato la conservazione239. Ad una quota più elevata viene poi costruita la tomba XXVII, che si pone addossata al lato posteriore della precedente, sfruttando come muro di fondo il retro della tomba XXVIII. La tomba XXVII, di conseguenza si apre verso sud, sul versante più elevato del pendio, e conserva la soglia in travertino; sul piano interno sono incassate cinque olle cinerarie fittili, entro le quali sono stati riposizionati (dopo il restauro) alcuni oggetti del corredo – due lucerne e un balsamario di vetro – in modo da riproporre l’aspetto del sepolcro così come era apparso durante lo scavo. Poco si conserva di due sepolcri posti ancora più a monte, in corrispondenza dell’angolo sud-occidentale dell’area di scavo. Il XXIII è stato completamente distrutto dalla palificazione moderna, mentre il colombario XXIV, caratterizzato da nicchie per cinerari sulle pareti, è attraversato da due pali in cemento armato al suo interno, ma il previsto ampliamento dello scavo dovrebbe permettere di riportarlo in buona parte alla luce240. Sempre della metà del I secolo d.C. e tipologicamente
simili appaiono le tombe XXVI, XXXIII e XXI, in prossimità del limite occidentale dell’area di scavo: anche in questo caso delle prime due non rimane quasi nulla, essendo tagliate dalla palificazione moderna, mentre la terza è intatta241. Il sepolcro XXI è una struttura cubica in opera laterizia, una tomba a forno con volta a botte affacciata verso nord-est, sul livello inferiore. Esternamente è rivestito del canonico intonaco rosso e reca incassata sulla parte inferiore della fronte una lastra marmorea, con incisa la dedica a Faenia Lyris, morta a soli 4 anni, postale da parte dei genitori, Publius Aledius Priscus e Faenia Favor242. Sorprendente è l’integrità del corredo posto all’interno: sono state rinvenute quattro lucerne e una ciotola per le offerte di cibo, conservate nella collocazione originaria, sopra le quattro olle cinerarie murate nel piano pavimentale. Di particolare delicatezza sono anche i motivi floreali gialli affrescati sull’intonaco bianco della volta e della parete di fondo. Subito di fronte, poco tempo dopo (intorno al 60 d.C.), venne costruito il sepolcro XX, di Alcimus, una struttura di forma cubica in opera laterizia, con un rivestimento d’intonaco rosso all’esterno e bianco all’interno243. Entro il pavimento sono murate sette olle cinerarie di terracotta, di cui una coperta da una piccola lastra con i forellini per le libagioni; un’ottava urna cineraria – di vetro, biansata e chiusa con due coperchi sovrapposti – venne appoggiata presso un angolo della tomba ed è tuttora colma delle ossa combuste del defunto (attualmente esposta in una vetrina). Al centro del pavimento è un largo tubulo, che conduceva a uno spazio sotterraneo, di grandezza di poco inferiore a quella del sepolcro. Accanto alle olle erano poste alcune lucerne, databili tra la fine del I e il corso del II secolo d.C., che attestano una continuità d’uso funerario per vari decenni244. Come stipite sinistro dell’ingresso del sepolcro, a fianco della soglia, è stata posta una grande stele di travertino, che si è rivelata di eccezionale interesse. Nella parte inferiore è iscritta la dedica di Fabia al marito Alcimus, un servo di Nerone «CUSTOS DE THEATRO POMPEIANO DE SCAENA», che quindi come lavoro faceva l’addetto ed il custode alle scene del Teatro di Pompeo245. Nel riquadro superiore della stele, a bassorilievo, è scolpito Alcimus, in piedi, vestito con una corta tunica; nelle mani reca uno scalpello e un’ascia, con cui materialmente doveva curare le scenografie teatrali e macchine di scena, mentre accanto sono scolpiti gli altri attrezzi del suo lavoro, legati alla fase di progettazione ed esecuzione: una squadra, un compasso, una livella (archipendolo) e una sorta di groma
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75. Santa Rosa, anfore che coprono alcune sepolture ad incinerazione.
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76. Santa Rosa, tomba a fornetto XXI.
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77. Santa Rosa, stele di Alcimus.
78. Santa Rosa, tomba XX di Alcimus.
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Fig. VII. Santa Rosa, blocco pavimentale di travertino, con incassi per i cinerari e grande foro centrale.
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Pagine seguenti: 80. Santa Rosa, altare di Passiena Prima. 81 Santa Rosa, altare di Tiberius Claudius Optatus.
79. Santa Rosa, urna cineraria di vetro, dalla tomba XX di Alcimus.
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o di asta da misurazione246. Gli strumenti e il testo epigrafico documentano una professione qui documentata per la prima volta, che si svolge in uno dei più famosi monumenti di Roma: il Teatro di Pompeo, il più grande della città ed il primo ad esser costruito in muratura, nel 55 a.C.247. Nella Curia del Teatro di Pompeo, un secolo prima, venne ucciso Cesare, poi l’edificio ebbe varie modifiche e subì notevoli rifacimenti; tra questi va ricordato un grande intervento di restauro iniziato da Tiberio e terminato da Caligola o da Claudio248. È probabile che Alcimus abbia partecipato a questi restauri e forse, se ancora in vita, persino agli allestimenti per Tiridate. Nel 66 d.C., infatti, in occasione dell’incoronazione a Roma di Tiridate come re d’Armenia, lo storico Cassio Dione descrive i grandi apparati voluti da Nerone: «non solo il palcoscenico, ma anche l’intera area interna dell’edificio venne coperta d’oro, come del resto venivano adornate d’oro tutte le strutture mobili che vi venivano introdotte, ragion per cui attribuirono a quel giorno medesimo l’epiteto di “dorato”. I tendoni che erano stati stesi per proteggere dai raggi solari erano di porpora e nel mezzo di essi vi era ricamata un’immagine di Nerone che conduceva un cocchio e intorno a lui delle stelle d’oro splendenti»249. Pochi anni dopo, con il grande incendio dell’80 d.C., la scena del teatro venne completamente distrutta e tutto il lavoro di Alcimus andò certamente in fumo250. Non deve sorprendere che tale affascinante attività fosse affidata a un semplice servo imperiale, le sue capacità lo portarono a tale incarico ed egli, consapevole del suo ruolo, esprime chiaramente l’orgoglio per il proprio lavoro nel testo epigrafico, come nella puntuale notazione degli strumenti che accompagnano la sua raffigurazione. La presenza di un tubulo al centro del piano del sepolcro è una caratteristica riscontrabile in molti piccoli edifici sepolcrali dell’area, durante il I secolo d.C. La sua funzione è certamente da porsi in relazione con le libagioni rituali in memoria dei defunti, ma – differenziandosi dagli altri imbocchi diretti nei cinerari – si dovrà cercare un utilizzo più definito. Nel caso del sepolcro XX di Alcimus, tale cavità è stata creata con due coppi affrontati, che conducono a un piccolo spazio sottopavimentale costruito in opera laterizia; a fianco è un piccolo tubulo indirizzato verso il medesimo pozzetto. Si è pensato potesse esser questa l’area consacrata agli dei Mani – le anime degli antenati defunti – cui si affidava la tutela e la protezione della tomba; se così fosse a loro sarebbero dirette le offerte di cibo – soprattutto liquido (latte, vino e miele) – a scopo propiziatorio251. Più verosimile, però, appare un uso
sepolcrale di questo spazio, riconoscendovi un grande cinerario comune, destinato ai resti dei defunti di minor rilievo. A questo proposito si può anche ricordare il ritrovamento, tra le terre di dilavamento del settore di Santa Rosa, di un grande blocco di travertino (inv. 52461) – il piano di una struttura sepolcrale – con tre incavi rettangolari per piccoli cinerari (lignei?) e grande foro centrale passante, che doveva permettere di collocare le ceneri, prima, e le libagioni, poi, in questo spazio sotterraneo. Sul pianoro sottostante – con lo stesso orientamento della tomba XX (di Alcimus), parallelo alla via Triumphalis e più vicino ad essa – si costruisce il colombario VI (dei Passienii) di dimensioni ben maggiori rispetto al precedente252. Il colombario, in opera laterizia, ha subito i danni dei lavori edili moderni, come altri due sepolcri coevi subito a nord (tra cui il XIX), e conserva in elevato solo le strutture in prossimità del suo angolo occidentale. La grande camera sepolcrale – a pianta quadrata, con ingresso da nord-est – organizza su ogni parete da quattro a sei nicchie, per due olle cinerarie, disposte su di una sola fila; in particolare, sulla parete laterale destra è anche una grande edicola, che ha restituito una bella olla cineraria di vetro accanto alle olle fittili murate253. Nella parte inferiore delle pareti sono due sepolture a inumazione: una cupa, costruita sul pavimento presso l’angolo ovest del colombario, e una sorta
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Fig. VII
82. Santa Rosa, particolare dell’altare di Passiena Prima, con menade, satiro e Dioniso infante.
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83. Santa Rosa, particolare dell’altare di Tiberius Claudius Optatus, con testa di Medusa.
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di vasca rivestita di intonaco rosso, che accoglie al suo interno un sarcofago infantile di terracotta254. Di grande qualità e interesse sono due altari, quasi certamente provenienti da questo sepolcro e rimossi all’inizio dei lavori edili, prima dell’intervento archeologico. Il primo altare è decorato sulla fronte da protomi di ariete, cui è legata una ghirlanda, con due aquile al di sotto e al centro un gorgoneion (una testa di Medusa che serviva a scacciare il malocchio); sul coronamento, da un cratere fuoriescono due tralci acantiformi che si ripiegano in corrispondenza dei pulvini255. Tipologicamente e iconograficamente l’altare risulta inseribile nella produzione della prima età flavia, ma si possono trovare degli antecedenti anche in epoca neroniana256. Proprio a quest’epoca ci riporta infatti l’iscrizione, con la dedica alla figlia Flora posta dai genitori Passiena Prima e Tiberius Claudius Optatus; successivamente venne aggiunta la menzione anche del figlio Tiberius Claudius Proclus e, al di sotto della ghirlanda, di Lucius Passienus Optatus, liberto di una donna e fratello di Passiena Prima. Di grande interesse è la specificazione del lavoro di Optatus: egli era un liberto di Nerone che rivestiva il compito di tabularius a patrimoniis, quindi era un archivista dell’amministrazione del patrimonio privato dell’imperatore. Dichiararsi liberto di Nerone – e nello specifico, addirittura con un compito molto delicato e di fiducia – sarebbe risultato quanto meno inopportuno dopo la morte e la conseguente damnatio memoriae dell’imperatore (la cancellazione delle sue immagini e del suo nome dai monumenti pubblici), ne consegue che il testo dovette venire scolpito quando Nerone era ancora vivo, quindi entro il 68 d.C. Il secondo altare è dedicato alla memoria di Passiena Prima – verosimilmente la donna menzionata nell’altro altare come madre di Flora e moglie di Optatus – il cui busto è ritratto entro una valva di conchiglia, tra due delfini, al centro del coronamento. Cooptato nella dedica è il suo liberto Lucius Passienus Evaristus; quest’ultimo, in seguito alla sua morte, viene aggiunto come dedicatario da parte della moglie e liberta, che porta lo stesso cognome – Prima – in onore della patrona. Nel ritratto Passiena Prima compare acconciata con la tipica capigliatura della tarda età giulio-claudia, che segue una moda nota in molti ritratti di Agrippina Minore, la madre di Nerone. Sul corpo dell’altare le ghirlande sono rette da due eroti – agli angoli della fronte – o legate alle corna di due protomi d’ariete, sulle facce laterali; su ognuna delle facce laterali sono un cigno e due uccellini che si litigano un verme,
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con un delfino sotto la ghirlanda. Ai piedi degli eroti sono due aquile, con la testa rivolta al centro verso l’iscrizione. Sulla fronte, tra la tabella iscritta e la ghirlanda, è una scena dionisiaca che si svolge davanti a un velario sorretto da due vittorie alate: un satiro – seduto su di una pelle felina con un grappolo d’uva nella mano destra alzata – sorregge sulla coscia sinistra Dioniso infante, proteso verso il grappolo; di fronte è una menade, coperta da un panneggio e da una nebride257, che pone sul capo del satiro un tralcio di pampini. I due altari, di alta qualità, sono all’incirca coevi, anche se, per motivi prosopografici, il secondo deve esser di poco posteriore al primo. I personaggi commemorati sono liberti tutti collegabili, per via diretta o indiretta, alla familia Caesaris, una caratteristica, come già detto, comune in età giulio-claudia a molti defunti sepolti in questa zona della via Triumphalis258. Una prossima approfondita ricerca prosopografica potrà chiarire meglio l’eventuale legame di questi liberti con un personaggio storico, Gaius Sallustius Crispus Passienus259, secondo marito di Agrippina Minore, madre dello stesso Nerone: le sue proprietà – e di conseguenza anche i suoi schiavi e liberti – furono ereditate da Agrippina e alla sua morte, nel 59 d.C., passarono nella proprietà imperiale260. Grosso modo contemporanea al sepolcro dei Passienii è la tomba XXXII, costruita in laterizi in prossimità dell’angolo nord-occidentale dell’area di scavo, tra due sepolcri all’incirca coevi (tra cui la tomba XIX) quasi completamente distrutti. La tomba XXXII è un’anomala struttura a pianta trapezoidale, una planimetria che risente dei condizionamenti dovuti alla presenza di alcuni sepolcri precedenti e alla sua particolare posizione presso un bivio: era infatti vincolata da una rampa a gradoni, che collegava due terrazzamenti della necropoli, lungo il suo lato settentrionale, e da un viottolo in salita (ad est), su cui apriva il suo ingresso261. Esternamente era completamente rivestita d’intonaco rosso, mentre internamente – al di sotto di una curiosa volta irregolare – presentava dei motivi floreali e geometrici (quasi del tutto evanescenti) dipinti sull’intonaco chiaro. La disposizione dei cinerari si distribuiva su due livelli: su un alto bancone in muratura, che girava sul lato sinistro e su quello di fondo, erano incassate sette olle fittili, mentre agli angoli del pavimento si sono costruiti in un secondo momento altri due bauletti per accogliere nuove incinerazioni. Nell’angolo tra la porta ed il bancone è una colonnina, con capitello corinzio, in stucco dipinto di rosso e giallo, che divide una profonda nicchia rettangolare da un piccolo pozzo, destinati
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alle pratiche cultuali. In corrispondenza dell’ingresso, tra i piedritti e l’architrave in travertino, si conserva parte del telaio in ferro della piccola porta lignea, murata nel calcestruzzo della fondazione del successivo sepolcro V (della fine del II-inizi del III secolo d.C.): ciò attesta che al momento della grande frana del 130-140 d.C. il sepolcro era chiuso e ben conservato, quindi forse ancora utilizzato o frequentato. Sempre nella seconda metà del I secolo d.C. viene costruito, sul limite occidentale dell’area di scavo, il sepolcro XIII, un piccolo edificio in opera laterizia di forma semicilindrica. Della tomba è visibile solo la facciata, mentre il resto è stato tagliato dalla palificazione moderna; ad ogni modo la sua profondità è ricavabile dalle misure della proprietà incise sull’architrave di travertino della porticina d’accesso: cinque piedi (circa 1,5 metri)262. Di questa porta lignea si conservano – bloccati nel cemento moderno, ma ancora al loro posto – il telaio e i cardini di ferro, che ci indicano anche in questo caso un sepolcro perfettamente chiuso al momento del suo interro263. Sopra l’architrave è stata montata un’ara-cinerario marmorea, incassata nella volta a botte264, sulla cui fronte è scolpita la dedica di Vivia Anthiocis al marito Aulus Cocceius Hilarus, le cui ossa combuste ancora si conservano all’interno dell’urna. Questo particolare posizionamento dell’ara-cinerario del titolare del sepolcro induce a ritenere che originariamente quest’ara avesse un’altra collocazione e che solo in secondo momento sia stata edificata la tomba in muratura, allo scopo di dare maggior lustro al defunto e di permettere la sepoltura dei suoi familiari. Al lato sinistro della tomba si affianca, in posizione arretrata, un piccolo sepolcro a dado, presumibilmente una tomba per incinerazioni pertinente alla stessa famiglia di Hilarus, mentre altre due sepolture a incinerazione, questa volta individuali si appoggiano sul fianco destro del sepolcro e sul retro del colombario XVI265. Proprio il colombario XVI, in opera laterizia intonacata di rosso e databile tra la fine del I e gli inizi del II secolo d.C., sembra essere una sorta di appendice del sepolcro precedente. È infatti costruito in appoggio allo stipite destro della tomba XIII, con la fronte avanzata verso valle266. Anche questa tomba era quasi intatta, conservandosi, oltre la soglia in travertino, il bilico del cardine e parte del telaio di ferro della porta, e, adagiato sul pavimento, il corredo per le cerimonie funerarie, composto da tre urceoli (piccole brocche per le libagioni) ed alcune lucerne e balsamari. Sulle pareti interne, decorate da tralci di rosa su fondo bianco, sono ricavate due nicchie: sul piano di
quella di sinistra sono inserite due olle cinerarie, mentre in quella di fondo ben tre. Sul pavimento sono murate due stele marmoree, quasi certamente di reimpiego, che recano dei testi sepolcrali: nella prima è la dedica di Larcius Hermeros alla moglie Victoria e alle giovani figlie Asinoinis e Victorina, nella seconda Rubellia Augustalis commemora il marito Cerialis. Presto altre sepolture a incinerazione si dispongono intorno a questi sepolcri in muratura267. Tra queste, qualche metro più a monte (a sud), sono una piccola tomba a cassetta, con lastre marmoree inserite di coltello nel terreno, e l’altare marmoreo di Marcus Vibius Marcellus, della fine del I-inizi del II secolo d.C., che sigilla l’incinerazione del personaggio entro il basamento sottostante268. Sulla fronte del piccolo altare è la dedica posta da parte della moglie, Maria Quinta, e della figlia, Vibia Marcella, con la specificazione dell’incarico di Legatus Coloniae Augustae Firmae svolto dal defunto. Si deduce quindi che egli fosse un rappresentante, una sorta di ambasciatore269, inviato presso le autorità centrali da una città della provincia Baetica in Spagna, Augusta Firma Astigi (l’odierna Écija presso Siviglia). Varie incinerazioni s’insediano intorno all’altare di Marcellus270, in particolare, nel terreno di fronte all’altare si conserva una piccola e curiosa lastra esagonale, con una patera a bassorilievo che presenta fori per le libagioni al centro, su cui è l’iscrizione D(IS) M(ANIBUS) / MA . FE, con le ultime quattro lettere scolpite in senso retrogrado. Tra gli ultimi anni del I secolo d.C. e i primi del secolo successivo, anche la parte inferiore dell’area ebbe una prima riorganizzazione strutturale, orientata sull’allineamento viario della Triumphalis. Venne creato un terrazzamento in fondo alla piccola valle, con la costruzione di tre sepolcri in serie (le tombe III, XVII e XVIII), cui seguì un quarto (la tomba II), realizzato dopo pochi anni. La tomba III, la prima da sud, è il sepolcro a camera più grande, più ricco e meglio conservato della serie, l’unico che presenta l’ingresso rivolto verso sud-est, mentre le tombe che seguono sono aperte verso il pianoro a sudovest. Si può definire un colombario, in quanto presenta un solo arcosolio sul lato di fondo, con la canonica forma per inumati al di sotto, mentre le pareti laterali sono articolate in due file di nicchie, con urne fittili murate nel loro piano interno, inquadrate da paraste, colonnine, cornici, volticelle a valva di conchiglia e frontoncini di stucco271. Entro alcune nicchie e sopra ai ripiani corrispondenti è stato trovato buona parte del corredo funerario, composto di vari bruciaprofumi, lucerne, balsamari e
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84. Santa Rosa, tomba XXXII.
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85. Santa Rosa, tombe XIII e XVI.
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86. Santa Rosa, colombari II, XVIII e XVII. 87. Santa Rosa, altare del legatus Caius Vibius Marcellus.
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Pagine seguenti: 88. Santa Rosa, colombario II. 89. Santa Rosa, tomba III.
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90-95. Santa Rosa, tomba III, frammenti di stucco con decorazione figurata.
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Pagine seguenti: 98. Santa Rosa, tomba III, nicchia di fondo con Enea, Averno (?) e Cerbero all’ingresso dell’Ade. 99. Santa Rosa, tomba III, nicchia sinistra con Pelia, Medea e le Peliadi presso il calderone.
96,97. Santa Rosa, tomba III, particolari della volta e di una nicchia.
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vasetti per le offerte. Ugualmente in stucco sono i cassettoni della volta a botte – incorniciati da due serie di kymatia ionici tra listelli e gole – al cui interno sono dei motivi floreali e dei soggetti mitologici, mentre negli spazi circolari di risulta fra di essi si riconoscono delle protomi umane272. Il pavimento a mosaico propone un curioso motivo decorativo asimmetrico, con tessere bianche e nere, all’interno di una serie di riquadri: verso l’ingresso sono affiancati due rettangoli di colore diverso, al centro segue un esagono oblungo disposto diagonalmente entro un quadrato, a sua volta iscritto entro una corona di altri quattro quadrati; nelle aree d’intersezione e sovrapposizione avviene il cambio di colore273. In corrispondenza degli angoli del tappeto musivo sono inseriti quattro tubuli, indirizzati verso altrettante incinerazioni sottopavimentali274. Meritano un’attenzione particolare le scene in stucco, nelle tre nicchie principali – a pianta semicircolare, con copertura a valva di conchiglia – poste al centro delle pareti laterali e di quella di fondo. Tutte queste rappresentazioni – che conservano ancora qualche esile traccia di colore – sembrano tratte da miti greci legati alla morte, filtrate attraverso le versioni dei grandi poeti latini, quali Ovidio e Virgilio. I due episodi raffigurati sulle nicchie laterali prevedono un velario disposto alle spalle dei personaggi, un inquadramento che potrebbe suggerire una rappresentazione in un contesto teatrale. Sulla nicchia di fondo, di cui si conserva solo la parte destra della scena, si staglia, in primo piano, un personaggio barbato, vestito con una tunica e avvolto in un pesante mantello, mentre seduto regge con la mano sinistra un ramo, appoggiato al braccio. Il berretto frigio attesta la sua origine dall’Asia Minore. Ai suoi piedi è accucciato Cerbero, il mostruoso cane a tre teste posto a guardia dell’Oltretomba. In secondo piano è un altro personaggio barbato, questa volta nudo e in piedi, appoggiato a un ramo o un giunco, che stringe nella mano sinistra. La scena può essere interpretata come Enea che sta per entrare nell’Ade, con il ramo d’oro in mano (che deve ricostruirsi nella parte perduta), dopo che la Sibilla ha addormentato il feroce Cerbero con una focaccia soporifera; alle spalle è una personificazione fluviale dell’Oltretomba, forse il fiume Acheronte o forse il fiume Stige275, sulle cui sponde il passo virgiliano dell’Eneide pone l’incontro con Cerbero (VERG., Aen., VI, 410-425)276. Nella metà sinistra – mancante – della nicchia si potrebbe supporre la rappresentazione dell’imbarcazione di Caronte e la stessa Sibilla. Di questo episodio non sembra esistano altre trasposizio-
ni figurate antiche, quindi parrebbe trattarsi di una iconografia inedita, sia nell’arte greca sia nell’arte romana277. Nella nicchia al centro della parete sinistra si svolge una scena con cinque personaggi davanti ad un velario: quattro fanciulle accompagnano un personaggio maschile – di dimensioni maggiori – verso un grande recipiente sotto cui arde una fiamma, alla cui destra sembra conservarsi parte di un ariete. La prima delle giovani donne (a destra) sospinge per un braccio l’uomo – curvo in avanti e dal passo incerto – mentre le altre sembrano indicare il contenitore con i gesti delle braccia: si tratta certamente del mitico racconto del re Pelia condotto dalle figlie verso il calderone bollente, cui, a fianco, si può forse riconoscere Medea. La vicenda è un episodio dell’epopea degli Argonauti, che val la pena di esser raccontato. Pelia usurpò il trono di Iolco al fratello Esone, che tenne prigioniero nel palazzo; Giasone, figlio di Esone, dopo la conquista del vello d’oro in Colchide, impostagli da Pelia, volle il trono legittimo. A questo punto si servì di Medea, la maga ingannatrice, che asseriva di avere un filtro che permetteva il ringiovanimento; per provare ciò prese un vecchio ariete, lo fece a pezzi e lo bollì con il filtro, dal calderone emerse poi un agnello: con uno stratagemma l’operazione sembrò riuscita. Quindi convinse prima Pelia stesso e poi le sue figlie Evadne e Anfinome (ma non Alcesti) ad adottare la stessa fatale procedura: le Peliadi fecero a pezzi il padre e lo gettarono nel calderone; contemporaneamente gli Argonauti entrarono in Iolco e la conquistarono. Questa rappresentazione in stucco sembra essere una versione trasposta dalle Metamorfosi di Ovidio278, di cui esistono numerose raffigurazioni; due, in particolare, appaiono iconograficamente piuttosto vicine, su di un affresco da una domus di Pompei (Regio IX, 2, 16)279 e sul lato sinistro di un sarcofago con il mito degli Argonauti, dalle catacombe di Pretestato280. Più complessa è l’interpretazione della terza scena, raffigurata nella nicchia centrale della parete destra. Qui la caduta di buona parte dello stucco applicato non permette una buona lettura del soggetto rappresentato; si possono descrivere, solo sommariamente, tre personaggi, con un velario alle spalle. A sinistra è un personaggio seduto, avvolto in un ricco panneggio, con uno scudo poggiato alle spalle, per terra, e una lancia posta diagonalmente; sembra presentarsi con le gambe incrociate e le braccia piegate verso il petto o verso il volto. Dietro, in secondo piano, è un pilastro con capitello ionico, da cui pendono due ghirlande, mentre di fronte è un altro personaggio in piedi, quasi del tutto mancante, che si rivolge al primo;
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100. Santa Rosa, tomba III, nicchia destra con scena forse raffigurante Achille seduto di fronte a Priamo.
101. Santa Rosa, fronte del colombario II.
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sembra di potersi intuire una veste pesante, un lungo manto che arriva sulle gambe – sotto forse coperte da pantaloni orientali – fin quasi all’altezza delle ginocchia, e forse un berretto frigio sulla testa. Alle spalle dei primi due personaggi, di proporzioni minori, è raffigurato una figura in abiti militari: sotto il mantello (paludamentum) indossa una corazza anatomica (lorica) con le pteryges (una sorta di gonnellino di strisce di cuoio) e i tipici alti calzari (mullei); con la mano sinistra sembra stringere una spada, mentre la destra è accostata al petto. Su queste basi incerte, l’interpretazione dell’iconografia è poco definibile; si può pensare a una delle numerose scene di commiato, con la partenza di un guerriero, che il velario alle spalle e il contesto funerario potrebbero riportare alla rappresentazione teatrale di un soggetto mitologico tragico. È però possibile proporre, tra i temi mitologici, due episodi, con iconografie simili alla presente, che vedono Achille come protagonista: nel primo Achille è seduto – leggermente piegato in avanti e con la mano portata verso la testa – che affranto riceve la notizia della morte di Patroclo281; nel secondo Achille, sempre seduto e con le armi accanto, riceve il vecchio re troiano Priamo, che lo supplica per avere il corpo di suo figlio Ettore282. In occasione della grande frana del 130-140 d.C., il colombario III si interra parzialmente ed entro questo interro viene scavata la fossa per una inumazione, che intacca anche la pavimentazione283. Di lì a poco, verso la fine del II secolo d.C., la tomba verrà sigillata da un grande muro di terrazzamento – per la realizzazione di una serie di tombe ad una quota superiore – che ne chiuderà definitivamente l’ingresso. Questo muro, a sua volta, sarà forato da una galleria di spoliazione del XVI-XVII secolo, che asporterà i piedritti e l’architrave della tomba e distruggerà anche parte della nicchia del muro di fondo. Come accennato, contemporaneamente alla costruzione del colombario III, si edificano gli altri due colombari della serie: la tomba XVII e la XVIII. Anche queste tombe hanno subito le spoliazioni, attraversate come sono dalla galleria, che, oltre agli stipiti e all’architrave in travertino della porta d’ingresso, questa volta ha interessato anche le pareti, con l’asportazione dei mattoni delle cortine murarie per il loro reimpiego. Il colombario XVII284 e il colombario XVIII285 si presentano come due camere sepolcrali a pianta quadrata, affacciate verso la piazzola a sud-ovest; sulle pareti sono almeno due file di nicchie, ognuna destinata a due olle cinerarie murate286. Si conserva solo la pavimentazione a mosaico del colombario XVII, con un motivo di quadrati neri disposti
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in file diagonali287; nel mosaico, lungo il lato sinistro e quello di fondo, sono stati inseriti dei tubuli che comunicano con le incinerazioni sottopavimentali. Anche in questi due sepolcri si doveva articolare una preziosa decorazione a stucco applicato, sia sulle pareti che sulla volta, purtroppo distrutta dalle spoliazioni del ’500/’600 e di cui si sono ritrovati solo dei frammenti nell’interro. Il colombario II – il più grande e il più tardo della fila, anche se di pochi anni – si appoggia sul fianco del colombario XVIII e riceverà a sua volta l’appoggio del retro del colombario I della terrazza inferiore288; anch’esso si affaccia sulla piazzola a sud-ovest, ma la sua fronte è avanzata rispetto agli altri289. Gli stipiti e l’architrave dell’ingresso sono stati ritrovati fuori posto, pronti per essere asportati con la solita galleria di spoliazione; al di sopra della porta era un riquadro, delimitato con listelli di laterizio, che accoglieva una lastra marmorea con iscritta la dedica del sepolcro, asportata nel XVI-XVII secolo. Su ognuna delle pareti, compreso il lato di fondo, sono tre file di tre nicchie ognuna; al centro del lato di fondo è una nicchia maggiore, decorata da una valva di conchiglia in stucco, applicata sulla volticella, e da un velario rosso affrescato nel catino290. Anche le pareti della camera, a pianta rettangolare, sono affrescate: su un fondo chiaro emergono dei sottili racemi, con foglioline brune, da cui pendono dei viticci lineari, con pomi rossi legati e figure di uccellini in volo. Le decorazioni pittoriche, che seguono le partizioni architettoniche, sono stilisticamente in linea con le altre del periodo, inquadrabili nel cosiddetto IV stile maturo. Non si conservano i nomi dei defunti di questo sepolcro, che dovevano esser dipinti sulle lastrine marmoree inserite nella muratura al di sotto delle nicchie. Solo una dedica, questa volta incisa, è presente su di una lastrina murata entro un bauletto in conglomerato, costruito in un angolo del colombario in una seconda fase, quando viene demolito il pavimento originario, a mosaico, per creare spazio ad ulteriori incinerazioni; sulla lastrina, dopo la consacrazione agli dei Mani, è riportato il nome della defunta, Signa Felicula. Le precauzioni prese allo scopo di salvaguardare i sepolcri dagli interri dovuti ai cedimenti delle aree sommitali – come il disporre delle barriere di lastre o di mattoni, posti di taglio davanti agli ingressi – non servirono intorno al 130-140 d.C., quando la grande frana si incanalò nella valletta, per poi bloccarsi, come si è già detto, contro la fronte dei colombari, XVII, XVIII e il lato sinistro del colombario III. A quel punto la massa di terra, riempì tutta la valletta e si sollevò tanto da sommergere persino i sepolcri
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più a monte, superando, ad esempio, di circa mezzo metro la volta della tomba XIII. Tutta l’area del settore di Santa Rosa venne sigillata dalla frana e le tombe non furono più riportate alla luce; occasionalmente si praticarono delle fosse per inumazioni entro quei vecchi sepolcri che erano rimasti solo parzialmente interrati, ma per qualche anno non si costruì ex novo alcuna struttura. Più tardi, intorno al 150-160 d.C., una nuova occupazione sepolcrale interessò dapprima l’area più a nord, con una serie di sepolcri disposta a «V»: le tombe XXX, X, V e la camera (attualmente demolita) sopra la tomba VI (dei Passienii). Contemporaneamente, subito a valle, si costruì la tomba I e, a fianco, un secondo sepolcro sopra la tomba IV (dei Natronii). Dopo circa altri due o tre decenni, si edificò anche nell’area meridionale, con il vicolo terrazzato, che divide la serie di tombe XII, XXIX e IX, poste al di sopra, dalla tomba VII, nel terrazzamento inferiore. A questo punto gli interventi edilizi non poterono più prescindere da una consistente regolarizzazione del pendio. Il primo impianto sepolcrale di questa nuova sistemazione successiva alla frana s’insedia su di un piccolo rilievo nella zona settentrionale e si distribuisce intorno ad un’area libera triangolare291, dove si affacciano la tomba XXX, la tomba X e la tomba sovrapposta al colombario VI (dei Passienii); solo la tomba V e il sepolcro adiacente – a nordest, ma ora completamente distrutto – hanno l’ingresso aperto verso nord-ovest, su di un vicolo – o una rampa – che collega la terrazza inferiore alla piazzola triangolare292. Queste tombe presentano notevoli analogie con un sistema sepolcrale riscontrato della necropoli della fontana della Galea – quello dei sepolcri 2, 6, 7 e 8 – databile al 180-190 d.C., a cui sarebbero lievemente anteriori (150160 d.C.): cambia, infatti, anche il rapporto proporzionale tra incinerazioni e inumazioni, che in questo caso è grosso modo paritetico, mentre alla necropoli della Galea già prevede circa il 30% di incinerazioni e il 70% di inumazioni. La loro struttura consiste in una camera sepolcrale quadrangolare, in opera laterizia all’esterno e a blocchetti di cappellaccio negli arcosolii interni; questi ultimi si dispongono lungo le pareti laterali e contengono una forma al di sotto. Le nicchie per cinerari, invece, sono ricavate in prossimità degli angoli dell’ambiente e, presumibilmente, al di sopra degli arcosolii; altre incinerazioni si dovevano trovare sotto il pavimento come mostrano i tubuli inseriti nei mosaici293, attraverso i quali potevano essere raggiunte per le libagioni. Della serie, solo due sepolcri si conservano in maniera riconoscibile, anche se con le murature in gran parte rasa-
te: la tomba X, la più piccola, e la tomba V, la più grande; in entrambe si può apprezzare la pavimentazione musiva, con una decorazione geometrica a tessere bianche e nere. Il motivo del mosaico della tomba X si svolge all’interno di un riquadro centrale bianco incorniciato da una fascia nera decorata da esagoni allungati. Al centro è un fiore a croce, con quattro petali cuoriformi, inscritto in un cerchio, da cui partono a raggiera otto candelabri vegetali stilizzati, con foglie lanceolate e calici chiusi. Questi elementi ornamentali si articolano in differenti composizioni in numerosi altri mosaici, creati in un lungo lasso cronologico, dalla metà del II agli inizi del III secolo d.C.294. Ancor più diffuso è il motivo decorativo del mosaico della tomba V, caratterizzato da file diagonali di foglie lanceolate nere, che partono da triangolari neri dai lati concavi e convessi; in corrispondenza delle intersezioni si creano altrettante figure geometriche bianche dai lati concavi e convessi. Il mosaico è inseribile nella serie caratterizzata da motivi geometrici composti illusionisticamente, che segna gran parte della produzione della seconda metà del II e della prima metà del III secolo d.C.; di questa tipologia abbiamo già visto alcuni esempi nelle tombe 6, 7 e 8 del settore della Galea (cfr. supra), ma dei confronti più stringenti si possono trovare in vari mosaici ostiensi coevi295. Subito a valle, come accennato, durante questa fase della metà del II secolo d.C. fu riedificata la tomba IV, coprendo il sepolcro dei Natronii, e accanto si costruì la tomba I. Quest’ultima s’insediò su di uno spazio che doveva esser già occupato da sepolture precedenti296, ma di cui non rimangono tracce, utilizzando la stessa impresa edile che edificò l’adiacente sepolcro al di sopra della tomba IV (dei Natronii)297: queste due tombe in sequenza si segnalano per l’identità delle soluzioni tecniche adottate, con le pareti realizzate in opera laterizia, mentre gli arcosolii, con le sottostanti formae per le inumazioni hanno la cortina di blocchetti di cappellaccio. Nel caso della tomba I gli arcosolii si distribuiscono solo sul lato di fondo e sul lato sinistro, mentre sul destro sono assenti per mancanza di spazio; su tutti i lati interni sono le nicchie per i cinerari e sul lato di fondo, ancora al di sopra, una finestrella aperta sul retro. Le pareti del colombario erano decorate da motivi lineari rossi su fondo bianco, mentre l’intradosso della volta era scandito da lacunari in stucco applicato; questa decorazione è purtroppo conservata solo parzialmente. Rimane invece buona parte della pavimentazione musiva, che compone, con tessere bianche e nere, un motivo che richiama la struttura dell’opera isodoma298; questa deco-
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102. Santa Rosa, pavimento a mosaico della tomba X.
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103. Santa Rosa, pavimento a mosaico della tomba V.
razione risulta attestata soprattutto nella prima metà del II secolo d.C. e dovrebbe esser stata realizzata con la prima fase del sepolcro299. La tomba I si apre a nord-est, tramite un gradino e una soglia in travertino, verso una piazzola chiusa, una sorta di vicolo cieco, ove in precedenza si affacciavano anche gli ingressi del colombario XIV, del sepolcro XI (su cui poi s’insedierà la tomba VIII, dei sarcofagi), e della tomba IV (dei Natronii), anche nella sua seconda fase. A fianco, la tomba IV venne interrata per poco più di un metro e quanto emergeva al di sopra fu rasato. Nella stessa occasione ad una quota superiore si costruirono, lungo il lato di fondo e il lato nord-occidentale, una serie di arcosolii a blocchetti di cappellaccio (un tufo scadente tratto dalla superficie dei banchi di questa roccia), destinati a inumazioni sovrapposte; inoltre si realizzò una pavimentazione a mosaico, che oggi risulta quasi del tutto asportata dalle fosse di successive inumazioni. Verso il 180-190 d.C. inizia anche una nuova regolarizzazione dell’area meridionale del settore. Su questa parte del pendio viene tagliata la terra riportata dalla frana e si costruiscono due lunghi muri di sostruzione paralleli, realizzati con un’opera listata che alterna filari di blocchetti di tufo e ricorsi in laterizio coperti da uno strato di intonaco rosso300. Si creano così tre terrazzamenti: sul più elevato prende posto la serie di sepolcri già citata (IX, XXIX e XII), al livello mediano è un vicolo in salita da nord verso sud, al di sotto è un campo destinato alle inumazioni individuali più povere e a un altro sepolcro in muratura. Il vicolo, stretto dalle due lunghe murature, collegava diagonalmente il terrazzamento inferiore con quello superiore, verso l’area dell’Autoparco; fu costruito utilizzando prevalentemente elementi di reimpiego, come molti mattoni e, addirittura, due basamenti precedenti: quello su cui era commemorato il longevo Lucius Sutorius Abascantus, morto a 90 anni301, e quello che sosteneva la statua di una donna, di nome Iulia Prima302. Con la sua costruzione si sigillarono alcune incinerazioni precedenti: il piano di calpestio era infatti a una quota coincidente con la parte superiore dell’altare dello scultore Thesmus (cfr. supra), tanto che un suo pulvino risulta consumato dal passaggio. Il muro di terrazzamento superiore coincide con i muri perimetrali sud-est e nord-est della nuova serie di sepolcri della terrazza superiore (IX, XXIX e XII), quindi, permetteva di collegare il viottolo con il livello superiore, tramite una breve e larga rampa trasversale, passando tra il muro nord-est della tomba XII e la fronte del colombario III (parzialmente interrato)303.
Appena sotto il vicolo era un campo aperto destinato alle inumazioni dei poveri, sepolti in semplici fosse che spesso mancano anche della copertura a cappuccina con laterizi304. Dalla posizione dello scheletro si può dedurre che i defunti erano strettamente avvolti da un sudario ed erano inumati senza una cassa lignea, ma, forse, con la sola protezione di una tavola come copertura. La serie dei sepolcri sul terrazzamento superiore – le tombe XII, XXIX e la più arretrata tomba IX – e le tombe VII e XV del terrazzamento inferiore sono organizzate come camere – costruite in opera listata, a blocchetti di cappellaccio e ricorsi in laterizi – con arcosolii e formae lungo le pareti, che, con certezza almeno in due casi (le tombe XV e XXIX), presentano quattro cinerari murati in corrispondenza degli angoli. Il passaggio dal rito incineratorio a quello inumatorio è qui ben espresso dalle percentuali, che sembrano assegnare al primo il 25% delle attestazioni e al secondo il 75%. Queste percentuali sono in linea con le coeve tombe 2, 6, 7 e 8 della Galea, molto simili anche nella struttura; ugualmente vicine nell’articolazione sono anche altre serie sepolcrali dei settori di necropoli lungo la via Triumphalis, in particolare si fa riferimento alle tombe 6, 7 e 8 dell’Annona e all’edificio 5 dell’Autoparco305. All’interno di una forma della tomba IX si è ritrovato in frammenti il sarcofago di Ulpia Marcella, della prima metà del III secolo d.C.; sulla fronte della cassa, decorata con strigilature e inquadrata da colonnette, campeggia l’imago clipeata (il ritratto a mezzobusto entro uno scudo) della giovane donna, con il volto non rifinito306. Questi sepolcri in serie sembrano nascere dalla committenza di un collegio funeraticio, ma al loro interno occasionalmente si possono distinguere defunti con maggiori possibilità economiche. Sulla terrazza inferiore è la tomba VII, di dimensioni maggiori delle altre, che si dispone parallelamente al terrazzamento superiore, circa un metro più a valle (ad est) del vicolo307. Circa 8 metri più a nord – sullo stesso livello, ma orientata sul vicino tratto della via Triumphalis – viene costruita la tomba XV. Questo sepolcro, costituito da una piccola camera quadrata (di quasi tre metri per lato), s’insedia in un vicolo cieco, chiuso dai sepolcri XI, I, IV e XIV, e si doveva aprire verso nord-est, proprio in prossimità della Triumphalis308. Internamente si presenta strutturata come le precedenti, con le pareti scandite da un arcosolio con la forma sottostante; agli angoli si conservano anche due strutture cubiche in muratura con l’imbocco per le ceneri. Di notevole interesse è il ritrovamento di alcune inumazioni entro sarcofagi fittili, con copertura di tegole
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104. Santa Rosa, vicolo tra le tombe IX, XXIX, XII e l’area inferiore con tombe a fossa.
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105. Santa Rosa, tomba XXIX. 106. Santa Rosa, tomba IX, sarcofago di Ulpia Marcella.
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107. Santa Rosa, inumazioni, posteriori alla frana, che tagliano la tomba XXVIII.
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e bipedali (mattoni quadrati di due piedi – 60 cm – di lato); questi, a loro volta, erano chiusi da grandi lastre marmoree, di cui due iscritte. Il testo più notevole, anche per qualità, riguarda la dedica alla memoria e alla sanctitas di una giovane honesta femina, Cocceia Marciana, morta a 16 anni e 11 mesi, da parte della madre, Marcia Successa (circa metà del III secolo d.C.). La titolatura lascia intendere la probabile classe equestre della giovane donna309, un aspetto sociale che costituisce una novità nel panorama sociologico dell’area, ma non un unicum, potendosi in quegl’anni documentare un altro sepolcro con defunti di egual rango, la tomba VIII, la più ricca tra quelle individuate nella necropoli. Durante il III secolo d.C. varie sepolture individuali ad inumazione si dispongono, oltre che nell’area sotto il vicolo, anche in tutti gli altri settori della necropoli liberi da sepolcri in muratura in uso310. Tra queste si possono ricordare, ad ovest della serie di tombe IX, XXIX e XII, due tombe a cappuccina entro fosse che tagliano la frana e le strutture del vecchio sepolcro XXVIII (cfr. supra)311; da menzionare è anche una cupa coeva, piuttosto malridotta, alle spalle del sepolcro XX (di Alcimus)312. Ugualmente degno di menzione è il ritrovamento di alcune inumazioni che presentano il defunto con una moneta di bronzo in bocca, il cosiddetto obolo di Caronte, che le fonti antiche indicano come il prezzo per il trasporto nell’Ade313. A fianco di questi defunti più poveri, come accennato, compare nella necropoli anche la ben più agiata classe equestre, come sembra attestare la sepoltura di Cocceia Marciana e soprattutto come ci viene confermato da quella di Publius Caesilius Victorinus, nella tomba VIII. Questa tomba appartiene all’ultima fase edilizia della necropoli, inquadrabile nei primi due decenni del III secolo d.C. Verso il 200-220 d.C., appunto, vengono parzialmente rasate le murature in laterizi della tomba XI – precedente di più di un secolo e ormai in abbandono – e si costruisce
al di sopra il sepolcro VIII, in opera listata di laterizi e blocchetti di cappellaccio, addossandosi alle murature dei sepolcri III, XVII, XVIII e I. Alle sue murature dell’angolo meridionale si lega fisicamente la tamponatura della piccola rampa, che collegava trasversalmente il vicolo alla terrazza superiore. Questa tamponatura – che si allinea come prolungamento del muro superiore del vicolo314 – chiude definitivamente, oltre alla rampa, anche l’ingresso del colombario III; entro questo colombario, già parzialmente interrato dalla frana del 130-140 d.C., si era continuato a seppellire, fino alla fine del II secolo d.C., realizzando delle fosse per inumati fino alla quota del mosaico pavimentale. Con la costruzione della tomba VIII si riduce ulteriormente anche la larghezza dell’accesso inferiore al vicolo tra i terrazzamenti del 180-190 d.C., che in quel punto si piega in uno strettissimo passaggio ad imbuto. La tomba VIII si presenta come una grande camera sepolcrale quadrata (di circa 5,60 metri per lato), in opera listata di tufelli e laterizi, con due arcosolii e formae sottostanti per ogni lato; solamente il lato d’ingresso, aperto a nord-est, dispone di un solo arcosolio, dovendo lasciare l’altra metà alla soglia del sepolcro315. Nella struttura e nell’articolazione il sepolcro si può confrontare con la tomba Z («degli Egizi»), nella necropoli sottostante alla basilica di San Pietro, datato alla fine del II secolo d.C., che, grazie alla sua integrità e conservazione, può costituire un valido aiuto alla ricostruzione delle parti incomplete del presente sepolcro316. In questo caso si dovrà supporre la presenza di alte nicchie (di cui si vedono alcune parti) al centro della parte superiore delle pareti, di conseguenza i sarcofagi – almeno otto, rinvenuti parte integri e parte in frammenti nel sepolcro – si potranno collocare solo nella parte bassa della tomba, presumibilmente quattro incassati sotto gli arcosolii e gli altri al di sopra della pavimentazione musiva317. Il sepolcro presenta un notevole apparato decorativo, solo in parte conservato. Mancano, infatti, quasi del tutto
Fig. VIII. Cuma, tomba di età severiana con arcosoli affrescati. Fig. IX. Cuma, tomba di età severiana con arcosoli affrescati.
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Fig. VIII Fig. IX
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108. Santa Rosa, tomba VIII.
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gli affreschi sulle pareti318, mentre si possono osservare solo due soggetti all’interno degli arcosolii del muro di fondo: tra ghirlande fiorite sono, a sinistra, un pavone e, a destra, una cesta ricolma di frutta319. Di maggior interesse è il mosaico pavimentale, realizzato con tessere bianche e nere, con un soggetto figurato che si svolge all’interno di un motivo a treccia e di un riquadro lineare. Nei quattro angoli sorgono dei cespi di vite, da cui partono i lunghi viticci che incorniciano la scena centrale, formando un pergolato; dai viticci pendono alcuni strumenti musicali: i cembali, un corno, un flauto semplice, un flauto a più canne e altri non ben riconoscibili. Lungo il bordo, al centro di ogni lato, prendono posto quattro eroti, intenti in lavori e festeggiamenti in occasione della vendemmia: il primo (dall’ingresso, in senso orario) porta una fiaccola e una scala, il secondo è intento a cogliere un grappolo usando un falcetto, il terzo è arrampicato su di una scala e sta per fissare una lanterna sulla pergola, l’ultimo, con un falcetto in mano, è piegato per riporre un grappolo nella cesta. Il tema figurativo centrale, rivolto verso l’ingresso, è costituito da due personaggi di dimensioni maggiori: in primo piano è Dioniso, con il braccio destro proteso e con il sinistro presumibilmente posto sulla spalla di un giovane satiro; quest’ultimo, con un pedum (il bastone dei pastori) in mano, gli è a fianco e cerca di sostenere il dio del vino ebbro. Si tratta di un tema molto attestato, nella media e tarda età imperiale, soprattutto sui sarcofagi, ma riproposto anche in varie opere musive320; in particolare si può considerare in sintonia con lo stile musivo della produzione di età severiana, pur trovando buoni confronti iconografici anche con mosaici di qualche decennio posteriori321. Dopo le prime sepolture entro le formae, presto la tomba VIII comincia ad essere occupata da un buon numero di sarcofagi. Nella prima metà del III secolo d.C., lungo il lato sud-orientale vengono collocati un sarcofago con due vittorie alate e un sarcofago con la caccia al cinghiale Calidonio, mentre – forse incassate negli arcosolii – si aggiungono altre due o tre casse marmoree, la cui collocazione non è precisabile, in quanto sono state ricostruite recuperandone i frammenti che in età tarda erano stati gettati nelle formae periferiche. Il primo dei sarcofagi menzionati presenta, sulla fronte della cassa, due vittorie alate che recano il busto della defunta in un clipeo, con il volto solo abbozzato; sotto il clipeo sono due eroti in barca, tra le personificazioni giacenti della terra e del mare: Tellus e Okeanos322. Agli angoli sono due Geni delle Stagioni, con pedum – il bastone dei pastori – e selvaggi-
na nelle mani e una piccola pantera tra le gambe; sulle facce laterali, a rilievo più basso, sono scolpiti due grifoni alati. A questa cassa è probabilmente associabile parte di un’alzata di coperchio, con mascheroni angolari, decorata sulla fronte con una scena di caccia (a sinistra) e una di banchetto (a destra)323; al centro è la tabula con iscritta la dedica di un uomo alla figlia [F]L(AVIA?) VERA e alla moglie AUR(ELIA) AGRIPPINA. Sia sulla cassa sia sull’alzata si conservano delle tracce policromia: alcune linee di color rosso evidenziano i dettagli delle raffigurazioni324, con uno stile dal gusto grafico ben comprensibile nella penombra di un sepolcro, dove i colori erano poco distinguibili ed era più necessario rinforzare la leggibilità della scena rafforzandone i contorni325. Il secondo sarcofago, un lavoro di notevole qualità di età tardo-severiana, reca scolpita sulla fronte della cassa la scena della caccia al cinghiale Calidonio326. Si tratta di una mitica caccia ad un feroce cinghiale che infestava le campagne di Calidone, mandato da Artemide per punire Eneo, re di quella città, reo di non aver onorato la dea come era dovuto. Meleagro, figlio di Eneo, convocò i maggiori eroi greci per uccidere la feroce belva, che fu prima ferita dalle frecce dell’eroina Atalanta e quindi finita dalla lancia dello stesso Meleagro: tutti i principali personaggi del mito compaiono nella rappresentazione sul sarcofago. Il coperchio che si può associare alla cassa, per dimensioni e marmo, presenta degli eroti intenti in attività agricole, quali la mietitura e la vendemmia327. Di altri tre sarcofagi, grosso modo coevi, si conservano solo dei frammenti, di due dei quali si può riconoscere parte della raffigurazione. Sull’angolo destro di una cassa (circa 220-230 d.C.) si conserva l’appassionato bacio di Amore e Psyche, con accanto una vittoria alata in volo che doveva sostenere il ritratto del defunto (come nel primo sarcofago), mentre sulla faccia laterale è scolpito, a rilievo più basso, un grifone alato328; al frammento di cassa è forse associabile parte di un coperchio, sulla cui alzata sono degli eroti vendemmianti e un mascherone angolare329. Sull’angolo sinistro di un’altra cassa, all’incirca coeva, è un Genio di Stagione con la mano sinistra alzata e un pedum tenuto appoggiato lungo il braccio destro; a destra s’intuisce il mantello di una figura in volo (un erote?), sotto cui è una faretra rovesciata, mentre sulla faccia laterale sinistra è il solito grifone alato330, elemento fisso del repertorio. La famiglia proprietaria della tomba appare quindi economicamente agiata e sembra voler continuare a seppellire i propri familiari nelle costose urne marmoree331; per
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109. Santa Rosa, sarcofago con vittorie alate. 110. Santa Rosa, sarcofago con vittorie alate, dettaglio con Genio di Stagione.
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Pagine seguenti: 111. Santa Rosa, sarcofago con vittorie alate, dettaglio della vittoria di sinistra con Tellus al di sotto.
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112. Santa Rosa, sarcofago con caccia al cinghiale Calidonio.
113-114. Santa Rosa, sarcofago con caccia al cinghiale Calidonio, dettagli.
115. Santa Rosa, sarcofago con il bacio di Amore e Psyche, particolare dell’angolo destro.
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tutto il III secolo si continuano quindi ad aggiungere nel sepolcro nuovi sarcofagi. Leggermente più tardo dei precedenti (genericamente attribuibile alla metà del III secolo d.C.) sembra l’angolo sinistro di un’altra cassa, che presenta un erote sopra la tana di una lepre, affiancato, verso il centro della cassa, da una vittoria alata in volo sopra un pavone332. Nella seconda metà del III secolo si seppelliscono due defunti in sarcofagi di grande interesse: il primo, con un ritratto virile inserito nel tradizionale clipeo, viene posto di fronte ai due arcosolii del lato di fondo – entro i quali è stato ritrovato in frammenti – e il secondo, di Publius Caesilius Victorinus, viene sistemato a chiudere il primo arcosolio del lato nord-ovest della tomba. A seguito di questi ultimi due nuovi arrivi, si sposta anche il sarcofago con vittorie, che, per lasciar spazio in prossimità dell’ingresso, viene trascinato di fronte all’urna di Victorinus, al centro della tomba. Questa operazione ha causato forti danneggiamenti al mosaico333, che è sprofondato – sotto il sarcofago con vittorie e sotto quello con il ritratto virile nel clipeo – di una trentina di centimetri. A questo punto la scena centrale del mosaico, con le figure di Dioniso ebbro e del giovane satiro, parzialmente lacunose nell’area inferiore, sono state integrate da un rozzo restauro, che si è limitato a risarcire la lacuna con tessere di reimpiego, senza cioè ricostruire la figurazione; viene utilizzato uno stile che si potrebbe quasi definire impressionistico: nelle lacune ove erano le figure si inserisce una sorta di puntinato di tessere bianche e nere, mentre nelle altre parti mancanti vengono poste solo tessere bianche334. Nello stesso periodo la tomba sembra aver subito anche dei restauri strutturali, forse dovuti ad alcuni cedimenti della copertura335. Il più antico dei ultimi due sarcofagi menzionati, databile verso il 260-280 d.C., presenta la cassa decorata con baccellature rudentate. Sulle facce laterali sono scolpiti a bassorilievo due leoni, che si abbeverano entro dei crateri (vasi per mescolare acqua e vino). Le fiere sembrano emergere sulla fronte della cassa aggirandone i lati e prendendo progressivamente corpo, con un rilievo che aumenta di spessore sulla fronte della cassa stessa. Al centro è un ritratto maschile entro un clipeo: un uomo dallo sguardo severo, con corta barba e capelli aderenti al capo, che regge con la mano destra un lembo della sua veste. Sotto il clipeo è una scena d’aratura, con due buoi che trascinano l’aratro, sospinti da un contadino con una frusta, mentre davanti un altro contadino lancia le sementi prese da una cesta. Il sarcofago trova ottimi confronti – nei sogget-
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ti e, talvolta, anche nel ritratto – in analoghe urne marmoree, attribuibili alla seconda metà del III secolo d.C.336. L’ultimo sarcofago, a vasca ovale strigilata, viene inserito nella tomba VIII verso la fine del III secolo d.C. Come ci indica l’iscrizione sulla tabula incisa sull’alzata del coperchio337, appartiene ad un giovane di rango equestre, Publius Caesilius Victorinus, appunto Eques Romanus, morto a soli 17 anni, 5 mesi e 27 giorni. Le strigilature della fronte convergono verso la mandorla centrale, decorata da un’anfora stilizzata338. Agli angoli sono due campi figurati che ospitano due personaggi in piedi. A destra, di fronte a un velario, è un filosofo – barbato, con la veste che lascia scoperta la spalla destra – che con due dita della mano destra (nel gesto della parola) tocca un volumen (rotolo), tenuto stretto nella sinistra; a destra dei suoi piedi, è una cesta colma di rotoli. A sinistra invece è una donna velata, dall’acconciatura a onde, con entrambe le mani alzate, in atteggiamento orante; alle sue spalle sono due alberelli con un uccello appollaiato in cima a quello di destra, che si rivolge alla donna339. Il coperchio, ricomposto da diversi frammenti, è ornato da due coppie di delfini tra i flutti340, che convergono verso il centro, ove è la tabella con il nome del defunto. Questo sarcofago ha posto la questione della cristianità o meno del giovane cavaliere Victorinus. La figura della donna orante mostra dei dettagli, come la presenza di un uccello sull’albero alla sua sinistra, comuni alla successiva – ed esplicita – iconografia paleocristiana: trattandosi di una figura femminile, non si può identificarla con Victorinus, ma piuttosto con l’Anima in preghiera. Allo stesso modo va rilevata la sua associazione con la figura del filosofo, sull’angolo opposto della cassa: a questo punto potrebbe essere identificato come un lettore delle Sacre Scritture e i delfini, sull’alzata, apparterrebbero a uno dei comuni temi «neutri», riscontrabili nel repertorio iconografico criptocristiano di età precostantiniana. Altri elementi, invece, inducono a dubitare della fede cristiana del defunto. Innanzitutto lo stesso contesto della tomba, fin dalla sua costruzione segnato da vari richiami pagani, come ci documenta il tema dionisiaco del mosaico; su questa linea si prosegue, nel corso del III secolo, con i soggetti mitologici degli altri sarcofagi. Ma l’aspetto che più si allontana dalla sfera cristiana è proprio nell’iscrizione con la dedica a Victorinus: questa esordisce con la consacrazione agli dei Mani, che, come è noto, si riscontra ancora su più di un centinaio delle prime iscrizioni sepolcrali cristiane, e che è stata spiegata come forma di tradizionalismo, come elemento predisposto dalla bottega di
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116. Santa Rosa, sarcofago con busto virile clipeato.
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Pagine seguenti: 117-118. Santa Rosa, sarcofago con busto virile clipeato, particolari del leone che beve entro un cratere e dell’imago clipeata con scena di aratura al di sotto.
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119. Santa Rosa, sarcofago di Publius Caesilius Victorinus.
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120. Santa Rosa, sarcofago di Publius Caesilius Victorinus, dettaglio.
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121. Santa Rosa, balsamari vitrei.
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122. Santa Rosa, aghi crinali e disco di osso e avorio. Pagine seguenti: 123. Santa Rosa, frammenti ceramici, anello d’argento, monete e lucerne.
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scultori già per così dire di serie o per la sua valenza giuridica che sanciva l’inviolabilità del sepolcro341. In tali casi, però, la formula D(IS) M(ANIBUS) viene seguita dal nome del defunto al nominativo, mentre qui il nome del defunto è al genitivo, dunque si specifica che si tratta degli dei Mani di Victorinus, un dettaglio che costituisce un ostacolo probabilmente insormontabile per una lettura cristiana delle scene rappresentate sulla cassa. A questo punto apparirebbe più logico ritenere l’orante una generica raffigurazione di Pietas e il filosofo leggerlo come un’allusione all’erudita cultura filosofico-letteraria del giovane defunto. Dopo circa un secolo di utilizzo il sepolcro viene abbandonato e si interra progressivamente. In realtà tutte le aree di necropoli vaticane prospicienti sulla via Triumphalis sembrano interrompere in questo periodo l’uso sepolcrale e le pratiche funerarie. Forse è proprio la costruzione – intorno al 320 d.C. – della basilica costantiniana sopra la tomba del Principe degli Apostoli, circa trecento metri più a sud, a disincentivare la destinazione sepolcrale di questa zona, a favore delle aree più vicine alla tomba di
Pietro: solo lì, infatti, si continuerà a seppellire. Lungo la via Triumphalis cominceranno a passare i pellegrini che si recano alla basilica e alla tomba dell’Apostolo provenendo dal nord; è verosimile che in età altomedievale, i sepolcri più vicini al percorso viario possano essere stati utilizzati come ricovero per viaggiatori e animali. Alcune tracce di questi riutilizzi sono riscontrabili proprio nel settore di necropoli di Santa Rosa: nella tomba VIII, ad esempio, si demoliscono quasi tutti i sarcofagi e si gettano i loro frammenti entro le formae, per disporre di maggior spazio; solo il sarcofago di Victorinus e quello con le vittorie – pur privati dei coperchi – vengono lasciati al loro posto, quasi integri, forse utilizzati come mangiatoia342. Segue quindi un lungo periodo di totale abbandono, durante il quale tutta l’area subisce un progressivo notevole interro. Bisognerà aspettare i secoli XVI e XVII per ritrovare delle nuove tracce di presenza umana nell’area, quando, per reperire materiale da costruzione e cercare qualche resto di valore, si praticarono una serie di cunicoli, pozzi e gallerie lungo tutto il pendio orientale del colle Vaticano.
124. Santa Rosa, urna cineraria marmorea di Stiaccia Helpidis.
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CAPITOLO QUINTO LA NECROPOLI SOTTO LA BASILICA DI SAN PIETRO CONSERVAZIONE E RESTAURO
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LA NECROPOLI SOTTO LA BASILICA DI SAN PIETRO CONSERVAZIONE E RESTAURO
Pagina precedente: 1-2. Sepolcro F, acquerelli eseguiti da A. Levi. 3. Sepolcro I o «della Quadriga», dipinto su tela di F. Fjürgenson.
Alla vigilia del Giubileo del 1950 si concludevano le difficili esplorazioni sotto la Confessione di San Pietro in Vaticano che portarono alla scoperta della tomba del primo papa e al ritrovamento di ventidue edifici sepolcrali, edificati nel corso del II secolo e successivamente interrati per la costruzione della basilica costantiniana. Con il graduale procedere degli scavi, che si concentrarono nei tormentati anni della seconda guerra mondiale, la necropoli romana si svelò agli occhi dei primi archeologi così come la videro per l’ultima volta gli operai di Costantino. Sotto il pavimento dell’antica chiesa riemerse allora un luogo dove il tempo sembrava essersi fermato a un lontano giorno del IV secolo quando il sole cessò per sempre di illuminare le tombe, le strade e i vicoli che attraversavano il sepolcreto. Rimossa la terra del riempimento costantiniano si riscoprirono i muri in laterizio, le decorazioni a stucco e a mosaico, le iscrizioni, le urne cinerarie, i sarcofagi e gli splendidi affreschi che per mille e seicento anni avevano conservato pressoché inalterati i colori originari. Dopo tanti secoli la terra restituiva all’uomo un sito rimasto praticamente intatto e inviolato, affidandogli nel contempo il non facile compito di conservare per le generazioni future e di rendere fruibile un luogo di straordinaria importanza religiosa, storica e archeologica. Così, come dopo un lungo letargo, la necropoli al suo risveglio fu interessata da importanti lavori, talvolta audaci, ma tuttavia necessari, per poter procedere con le esplorazioni. Vennero infatti aperti dei varchi sulle fondazioni dell’antica e della nuova chiesa, fu necessario deviare e assicurare il deflusso delle acque freatiche e fu indispensabile rinforzare e sottofondare i piloni delle sovrastanti strutture che erano stati privati delle terre che li sostenevano. Ancora oggi, lungo le stradine della necropoli e all’interno degli edifici sepolcrali, si scorgono pilastri di cemento armato, poderose strutture murarie moderne e,
4. Pianta schematica della necropoli vaticana con l’indicazione degli edifici sepolcrali sottoposti a restauro negli ultimi dieci anni: a. Campagna di restauro 1998-1999; b. Interventi di restauro dell’anno 2000; c. Restauri del 2007.
davanti alla tomba L o «dei Caetennii minori», un passaggio faticosamente aperto nelle solide fondazioni dell’arco trionfale della basilica costantiniana. Nel corso dei lavori vennero superate impreviste e notevoli difficoltà grazie alla determinazione e alla professionalità dei tecnici della Fabbrica di San Pietro e, in particolare, di Giuseppe Nicolosi (1889-1967), professore di «Scienza delle Costruzioni» e architetto della medesima Fabbrica dal 1934. Basti pensare al riguardo all’impegnativa opera di sottofondazione della colonna sud ovest del baldacchino del Bernini, quando ci si accorse, nell’estate del 1942, che tale basamento poggiava su una volticella gravemente lesionata di una tomba romana1. Se i lavori a cui si è accennato condizionarono le consecutive opere di risanamento, fu soprattutto la realizzazione del solaio di cemento armato a determinare la scelta dei successivi provvedimenti per la conservazione del sito. Infatti con la costruzione di tale copertura, iniziata nel luglio del 1948, la necropoli veniva definitivamente confinata in un ambiente ipogeo, sotto le grotte vaticane in corrispondenza con la sovrastante navata centrale della basilica2. Così la conclusione di tali lavori nel 1949, segnò l’inizio dei mali tipici di ogni ambiente sotterraneo, essenzialmente riconducibili a instabili condizioni microclimatiche e a problemi di natura microbiologica. Elevati valori di temperatura e di umidità, connessi ad alti tassi di anidride carbonica e a incontrollate correnti d’aria, determinarono i primi inconfondibili segni di un progressivo degrado percepibili sull’opera nelle formazioni superficiali di sali (cloruri, solfati e nitrati), di alghe e di microrganismi che, con il passare del tempo, occultarono i rivestimenti murari e le decorazioni pittoriche. A questi fenomeni di deterioramento contribuirono anche i numerosi visitatori, responsabili di dannose variazioni microclimatiche e inconsapevoli veicoli di spore e batteri.
a. b. c.
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Ai mali della necropoli si cercò di porre rimedio con una serie di interventi per lo più attuati secondo un criterio di urgenza, al di fuori di un piano generale tale da comprendere l’intera area degli scavi, fino a quando, a cominciare dal 1998, a quasi cinquanta anni di distanza dalla conclusione delle prime esplorazioni, la Fabbrica di San Pietro dispose di avviare un articolato programma di lavoro, che, a seguito di attente indagini preliminari, ha consentito di attuare una serie di interventi conservativi al fine di arrestare o ridurre le cause del degrado, per provvedere di conseguenza al restauro delle strutture e delle importanti decorazioni3. Un’impresa impegnativa e difficile, oggi in buona parte conclusa, che ha richiesto il sinergico impegno di figure professionali diverse. Si pensi ad esempio al lavoro del chimico per le analisi dei materiali e delle salificazioni presenti sulle opere, al biologo per lo studio dei dannosi microrganismi (alghe, funghi, batteri e attinomiceti) e al fisico per il monitoraggio dei parametri ambientali (temperatura, umidità relativa, anidride carbonica, ossigeno), all’illuminotecnico per la definizione di un idoneo sistema di illuminazione e, naturalmente, all’opera del restauratore, dell’architetto e dell’archeologo. In generale l’articolazione del lavoro ha costituito l’applicazione di un metodo che da una preliminare indagine conoscitiva, attraverso l’analisi dello stato di conservazione e l’individuazione delle cause di degrado, ha portato all’intervento di restauro e alla definizione di un piano di manutenzione ritenuto indispensabile per la conservazione del sito. Nelle pagine che seguono si presentano i principali interventi adottati dalla Fabbrica di San Pietro per la conoscenza e la conservazione degli ambienti ipogei della necropoli. Al riguardo volentieri si ricorda la fattiva collaborazione del dottor Nazzareno Gabrielli, già direttore del Gabinetto di Ricerche Scientifiche dei Musei Vaticani e consulente della Fabbrica di San Pietro4. STUDI PRELIMINARI DOCUMENTAZIONE GRAFICA E FOTOGRAFICA
Da sempre le persone impegnate nella conservazione e nel restauro sono soliti paragonare la loro attività a quella del medico. Pertanto il restauro della necropoli è stato preceduto dalla preliminare conoscenza del paziente. Così per ciascuna tomba è stata studiata e acquisita la documentazione esistente: bibliografia, fotografie, rilievi grafici, relazioni e note tecniche su precedenti lavori e interventi conservativi.
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CONSERVAZIONE E RESTAURO
Particolarmente utile si è rivelato lo studio delle numerose fotografie in bianco e nero custodite presso la Fabbrica di San Pietro. Una accurata campagna fotografica venne infatti realizzata durante gli scavi al fine di documentare strutture, decorazioni e reperti, ma anche lavori compiuti per poter procedere con le ricerche archeologiche salvaguardando la statica della sovrastante basilica. Tali fotografie, eseguite per la maggior parte da Renato Sansaini, vennero in gran numero pubblicate nella relazione ufficiale delle Esplorazioni sotto la Confessione di San Pietro in Vaticano: due grandi volumi presentati al papa Pio XII il 19 dicembre 1951 da mons. Ludwig Kaas, segretario economo della Fabbrica di San Pietro5. Ulteriori riprese fotografiche vennero effettuate durante le ricerche intraprese, tra il 1952 e il 1958, da Adriano Prandi e da Margherita Guarducci nell’area della sepoltura di Pietro e nella tomba «dei Valerii»6. Nuove fotografie vennero eseguite nel 1980 all’interno delle tombe situate nella parte orientale della necropoli7 e, successivamente, prima, durante e dopo le recenti opere di restauro (1998-2000 e 2007), in ogni singolo edificio sepolcrale dell’area centrale e occidentale degli scavi8. Accanto alla documentazione fotografica si ricordano le riproduzioni pittoriche eseguite all’interno di alcune tombe nel corso delle esplorazioni e negli anni immediatamente successivi alla conclusione degli scavi. I primi sei acquerelli, dipinti tra il 1945 e il 1946 da A. Levi, riproducono particolari figurati della tomba M (volta e pareti nord ed est) e della tomba F (arcosolii superiori delle pareti ovest, nord ed est). Nel 1950 altri quattro acquerelli vennero eseguiti all’interno della tomba F da G. Alessio (volta e particolari della parete ovest). Oltre alle summenzionate riproduzioni pittoriche su carta si conservano presso la Fabbrica di San Pietro altri dieci dipinti su tela realizzati tra il 1951 e il 1955 dal norvegese F. Fjürgenson. Tali preziosi dipinti vennero donati al papa e, nel 1975, furono dati in custodia alla Fabbrica di San Pietro9. In essi sono raffigurate le vedute interne del Clivus e dei seguenti edifici sepolcrali: Z, F, B, E, F, H, I, M, T10. La rappresentazione interna di ogni singola tomba, con le iscrizioni, i sarcofagi e le urne cinerarie nella loro prima sistemazione, trova puntuali corrispondenze nelle fotografie custodite dalla Fabbrica di San Pietro. Tra i dipinti di Fjürgenson particolare interesse riveste la veduta della tomba H, in quanto riproduce fedelmente lo stato di conservazione delle decorazioni a stucco prima degli interventi di restauro del 1958, che comportarono, tra l’altro, la ricollocazione in opera di diversi frammenti caduti o rin-
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5 6
venuti durante gli scavi. Con meticoloso realismo il medesimo dipinto mostra sul moderno solaio di cemento un’estesa formazione di umidità di condensa nella forma di numerose gocce d’acqua. Evidentemente già nella metà del secolo passato l’elevata quantità d’acqua contenuta nell’ambiente allo stato di vapore condensava sulla superficie fredda del solaio, provocando un processo di deumidificazione e alterando l’equilibrio termo igrometrico all’interno della tomba. Per quanto concerne la documentazione grafica si ricorda la campagna di rilevamento architettonico eseguita prima e durante la celebri esplorazioni archeologiche del secolo passato (1939-1949). I professori Giovanni Cicconetti (1872-1953) e Carmelo Aquilina della Scuola d’Ingegneria dell’Università di Roma, realizzarono allora un esatto rilievo topografico, che, per la prima volta, metteva in precisa rispondenza le strutture della basilica con quelle sottostanti delle grotte11. Iniziati gli scavi della necropoli il prof.
Bruno Maria Apollonj Ghetti (1905-1989) ebbe l’incarico di documentare strutture e monumenti rinvenuti nel corso delle ricerche sotto la Confessione di San Pietro. Venne così elaborata la prima planimetria generale degli scavi, si realizzarono rilievi degli edifici sepolcrali nell’area occidentale della necropoli e vennero eseguite piante e sezioni delle strutture esistenti presso la «Memoria Apostolica». Tali disegni, in parte rielaborati dall’ing. Francesco Vacchini (1915-1993), già dirigente dell’Ufficio Tecnico della Rev.da Fabbrica di San Pietro, vennero pubblicati nei due citati volumi delle «Esplorazioni»12. Inoltre, nel 1944, il prof. Giuseppe Zander (1920-1990), dirigente tecnico della medesima Fabbrica tra il 1980 e il 1990, eseguì con l’architetto Franco Sansonetti il rilievo della tomba H o «dei Valerii», all’epoca ancora in corso di scavo13. Disegni e grafici didattici vennero poi elaborati dall’ing. Adriano Prandi (1900-1979) presso la tomba di san Pietro14. Nel 1980 l’Istituto Archeologico Germanico di Roma,
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5. Necropoli vaticana, sepolcro H, «dei Valerii», veduta della parete interna ovest durante gli scavi. 6. Necropoli vaticana, sepolcro F,«dei Marcii», particolare della parete interna ovest subito dopo gli scavi.
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b
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7. Necropoli vaticana, sepolcro N, «degli Aebutii e dei Volusii», documentazione fotografica eseguita nel biennio 1998-2000, prima e dopo l’intervento di restauro. 8-10. Fabbrica di San Pietro, sepolcro M, «degli Iulii», acquerelli su carta eseguiti da A. Levi tra il 1945 e il 1946: a. Volta con figura del Cristo-Sole; b. Parete interna nord con pescatore; c. Parete interna est con Giona inghiottito dal mostro marino.
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LA NECROPOLI SOTTO LA BASILICA DI SAN PIETRO CONSERVAZIONE E RESTAURO
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11-14. Fabbrica di San Pietro, sepolcro F, «dei Tullii e dei Caetennii», acquerelli su carta eseguiti da G. Alessio nel 1950. a. Veduta della parete interna ovest; b. Particolare della decorazione della volta; c. Parete interna ovest, ariete; d. Parete interna ovest, toro.
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15. Fabbrica di San Pietro, sepolcro B, «di Fannia Redempta». 16. Fabbrica di San Pietro, sepolcro T, «di Trebellena Flaccilla».
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17. Pianta della necropoli vaticana con l’indicazione dei sepolcri riprodotti nei dipinti su tela di F. Fjürgenson tra il 1951 e il 1955: sepolcro Z, «degli Egizi» (cm 67x82); sepolcro F, «dei Marcii» (cm 61x74); sepolcro B, «di Fannia Redempta» (cm 61x74); sepolcro E, «degli Aelii» (cm 74x61); sepolcro F, «dei Tullii e dei Caetennii» (cm 67x82); sepolcro H, «dei Valerii» (cm 67x82); sepolcro I, «della Quadriga» (cm 74x61); sepolcro M, «degli Iulii» (cm 52x63); sepolcro T, «di Trebellena Flaccilla» (cm 67x55); Clivus (cm 67x82).
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LA NECROPOLI SOTTO LA BASILICA DI SAN PIETRO
CONSERVAZIONE E RESTAURO
CONSERVAZIONE E RESTAURO
18. Fabbrica di San Pietro, veduta interna del sepolcro F, «dei Tullii e dei Caetennii», acquerello di F. Fjürgenson (1953).
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19. Fabbrica di San Pietro, veduta interna del sepolcro H, «dei Valerii», acquerello di F. Fjürgenson (1953).
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LA NECROPOLI SOTTO LA BASILICA DI SAN PIETRO CONSERVAZIONE E RESTAURO
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nell’ambito di un attento studio condotto nella parte orientale della necropoli, ebbe l’opportunità di realizzare un nuovo e scrupoloso rilievo architettonico di quest’area rimasta priva di documentazione grafica15. Infine, tra il 1998 e il 1999, la Fabbrica di San Pietro, a completamento della precedente campagna di rilevamento architettonico, diede incarico allo Studio 3R di Giuseppe Tilia di realizzare un nuovo rilievo strumentale delle decorazioni e delle strutture esistenti nell’area ovest degli scavi. Veniva così acquisita una più completa documentazione per la zona della necropoli attorno alla tomba di Pietro con la produzione di piante dei vari livelli e sezioni nelle scale di 1:25 e 1:10 e con disegni dei particolari decorativi più significativi in scala 1:516. Tornando al confronto tra «restauro» e «medicina», per «definire il quadro clinico del paziente» è stato inoltre necessario eseguire nuove ricerche e approfondite analisi di laboratorio. Sulla base di tali indagini, condotte con sofisticate apparecchiature e avvalendosi delle più moderne tecnologie, è stato definito lo stato di conservazione della necropoli nel suo complesso e in ogni sua componente (pitture murali, stucchi, superficie lapidea, cortine in laterizio, ecc.). Questo impegnativo lavoro, che non lascia percepibili tracce sulle opere, rappresenta il momento iniziale di ogni restauro e, in particolare, assume fondamentale importanza per un sito confinato in ambiente ipogeo con particolari problematiche conservative. Non a caso il celebre architetto Leon Battista Alberti (1404-1472) asseriva con decisione che «l’efficacia dei rimedi dipende per la maggior parte dei casi dalla conoscenza che si ha della malattia» (De aedificatoria 10,1). Grazie all’esame autoptico, alle indagini strumentali e alle analisi di laboratorio, è stato quindi possibile formulare una «diagnosi», ovvero sono stati indicati i mali che afflig-
gevano la necropoli e le cause che li avevano determinati. La conseguente «prescrizione della cura» si è articolata in una serie di provvedimenti tesi ad eliminare o ridurre le cause del degrado, in alcuni interventi di pronto soccorso e nel restauro in senso stretto, paragonabile all’operazione chirurgica. Gli studi preliminari al restauro, che si riassumono nei successivi paragrafi, hanno consentito la definizione di una «terapia prudente», con la somministrazione di «farmaci» attentamente valutati nei loro «effetti indesiderati», affinché, dopo milleottocento anni, il sito potesse ritrovare naturalmente un proprio equilibrio senza interventi traumatici (opere di «isolamento» delle strutture dai terrapieni e «climatizzazioni forzate») che ne avrebbero irrimediabilmente compromesso la conservazione. VALUTAZIONE DELLO STATO TERMOIGROMETRICO Lo studio dei parametri termoigrometrici in un ambiente ipogeo sottoposto alla fruizione del pubblico, riveste fondamentale importanza per la valutazione dello stato di conservazione del sito e per la definizione dei conseguenti lavori e delle opere di restauro e di manutenzione. Così per la necropoli di San Pietro, caratterizzata da problemi di umidità di diversa tipologia (da terrapieno, di risalita e di condensazione), si è reso indispensabile predisporre un impianto stabile per il monitoraggio in continuo e l’acquisizione informatizzata dei valori di umidità relativa (UR) e di temperatura (T) nell’intera area degli scavi. A tale scopo sono stati collocati sensori per il rilevamento costante dei parametri microclimatici lungo tutto il percorso di visita (iter) e all’interno dei singoli edifici sepolcrali. Sono stati inoltre predisposti alcuni rilevatori di temperatura a contatto con le superfici intonacate e
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H
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20. Ricostruzione grafica della sequenza dei sepolcri H-A lungo l’iter della necropoli vaticana. (Da Mielsch-Hesberg-Gaertner 1986 e 1995).
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M
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L I
21. Sezioni nord e sud del sepolcro N, «degli Aebutii e dei Volusii» e sezione longitudinale della sequenza dei sepolcri I-O nella necropoli vaticana. (Rilievo G. Tilia-Studio 3R).
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LA NECROPOLI SOTTO LA BASILICA DI SAN PIETRO
CONSERVAZIONE E RESTAURO
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TERMOIGROMETRICO ALL’INTERNO DELLE TOMBE
Fig. IV
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Temperatura
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Umidità Relativa
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Media-UR18
Fig. I
Fig. I. Stabilizzazione della temperatura e dell’umidità relativa dopo l’installazione delle porte ad apertura automatica lungo il percorso di visita della necropoli. Il grafico evidenzia la variazione dei parametri microclimatici (aumento della temperatura e conseguente diminuzione dell’umidità relativa), nelle fasce orarie di apertura al pubblico della necropoli. Figg. II, III. Andamento termoigrometrico rilevato all’interno del sepolcro H, «dei Valerii», dopo la predisposizione della porta con vetrocamera: in alto grafico mensile; in basso grafico giornaliero.
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Maggio 99 - Mausoleo di Valerius Herma Temperatura e Umidità Relativa
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UMIDITÀ RELATIVA (%)
Per poter stabilizzare i valori di temperatura e di umidità relativa della necropoli si predisponeva una «bussola» di contenimento in prossimità delle scale di accesso agli scavi. Veniva in questo modo costituito uno spazio isolato dotato di porte automatiche sequenziali. Questo intervento consentiva inoltre di ridurre le correnti preferenziali dovute alla differenza di quota tra l’entrata e l’uscita della necropoli («effetto camino»)21. Per incrementare i positivi risultati ottenuti con l’installazione della «bussola», venivano inoltre collocate, lungo il percorso di visita una serie di porte ad apertura automatica, che, oltre a contenere le summenzionate correnti, avevano principalmente lo scopo di annullare «l’effetto pompa»22 causato dal movimento d’aria prodotto dal ripetuto passaggio dei visitatori, le cui conseguenze si rilevavano nelle salificazioni affioranti sulle cortine prospicienti le aree di percorrenza, ma anche sulle decorazioni pittoriche e a stucco all’interno delle tombe23. È noto infatti che i fenomeni di evaporazione che determinano la fuoriuscita dei sali, sono originati non soltanto dalle instabili condizioni microclimatiche, ma anche da turbolenze d’aria più o meno accentuate. Venivano inoltre chiuse le aperture circolari (diametro di 1 m circa) esistenti sul solaio di cemento armato che costituisce il soffitto della necropoli e il pavimento delle grotte24. Tali botole, provviste sul piano delle grotte di artistiche grate di bronzo con stemmi papali, erano state realizzate dopo la conclusione degli scavi per «arieggiare» gli ambienti ipogei della necropoli. Una soluzione che si rivelò in seguito inopportuna, perché contribuì sensibilmente ad alterare l’equilibrio termoigrometrico della necropoli, ad aumentare «l’effetto camino» e a intro-
Figg. II-III II-
TEMPERATURA (°C)
LUNGO IL PERCORSO DI VISITA E PER IL MIGLIORAMENTO DELLO STATO
tura automatica lungo il percorso di visita determinavano i seguenti benefici effetti: 1) normalizzazione dei parametri di temperatura e umidità relativa; 2) equilibrio fra la tensione di vapore dei terrapieni e quella dell’ambiente; 3) conseguente arresto della migrazione delle soluzioni, ricche di sali, dall’interno dei terrapieni sulle superfici con decorazioni pittoriche e a stucco. Come controindicazione ai provvedimenti sopra descritti si producevano i seguenti effetti indesiderati: 1) proliferazione di microrganismi all’interno degli edifici sepolcrali per il contenuto incremento della temperatura e per l’assenza di ventilazione; 2) formazione di umidità di condensa dovuta al raggiungimento del punto di rugiada sulla superficie fredda del soffitto di cemento armato; 3) riduzione della cubatura d’aria lungo il percorso di visita degli scavi, con aumento della CO2 apportata dai visitatori.
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TEMPERATURA (°C)
PROVVEDIMENTI PER LA RIDUZIONE DEI FLUSSI D’ARIA
durre negli scavi aria secca non filtrata e non depurata. Si decideva infine di chiudere con porte e pannelli isolanti i singoli edifici sepolcrali, in modo che questi non risentissero delle inevitabili alterazioni microclimatiche dovute alla presenza del pubblico (l’apporto termico di un uomo di media statura corrisponde all’incirca al calore emesso da una lampadina di 80 watt). Quest’ultimo provvedimento avrebbe determinato una notevole diminuzione delle salificazioni sulle opere, per la instaurata condizione di equilibrio fra la tensione di vapore dell’ambiente e quella dei terrapieni, substrato delle stesse opere. Il raggiungimento di tale equilibrio, con elevati gradienti di umidità relativa, avrebbe inoltre inibito il movimento dell’acqua dai terrapieni verso la superficie degli intonaci e avrebbe quindi ostacolato la migrazione delle soluzioni ricche di sali con la conseguente formazione delle dannose salificazioni. Le porte di chiusura degli edifici sepolcrali sono costituite da un vetro-camera, con cristalli montati su infissi di acciaio inox, muniti di adatto dispositivo anticondensa25. La chiusura delle singole tombe e gli sbarramenti ad aper-
UMIDITÀ RELATIVA (%)
scopo venivano posti in essere i seguenti provvedimenti: 1) eliminazione dell’effetto camino con la creazione di una «bussola» di contenimento presso le scale di accesso agli scavi; 2) interruzione della ventilazione lungo il percorso di visita degli scavi con porte provviste di dispositivi per l’apertura automatica; 3) chiusura delle botole sul solaio di cemento armato posto tra la necropoli e le grotte; 4) predisposizione di porte a chiusura delle singole tombe.
28-0:0
dispositivi di controllo e riferimento ambientale nelle grotte vaticane e all’esterno della basilica17. Le informazioni ottenute con il monitoraggio microclimatico e il successivo studio dei dati acquisiti, hanno consentito di stabilire che la temperatura presentava normali variazioni stagionali (anche se ritardate a causa della particolare ubicazione del sito sovrastato dall’imponente basilica) e che i valori di umidità relativa rimanevano comunque alti all’interno degli edifici sepolcrali e lungo il percorso di visita. Sulla base di tali presupposti si trattava di stabilire se si dovessero condurre impegnativi lavori di isolamento delle strutture della necropoli dai terrapieni circostanti, per abbatere o diminuire sensibilmente l’umidità o se, al contrario, si dovesse lasciare detta umidità, con l’avvertenza di stabilizzarla e quindi di allontanare tutti quei problemi connessi e conseguenti al raggiungimento del punto di rugiada18. A dirimere la questione contribuirono le numerose analisi di laboratorio su campioni di sostanza prelevati dagli intonaci delle pitture murali e dagli stucchi delle decorazioni architettoniche e figurate19. Da tali indagini si rilevava che la materia costitutiva di dette opere presentava sostanziali alterazioni rispetto alla sua originaria natura. Si riteneva pertanto rischioso sottrarre acqua da tali materiali, dal momento che, paradossalmente, l’acqua stessa poteva essere considerata un prezioso elemento di coesione degli elementi costitutivi della mutata materia. Dunque, se da un lato l’acqua non poteva essere sottratta per il problema della decoesione dei materiali, dall’altro costituiva la causa principale delle dannose salificazioni che deturpavano e ammaloravano le opere. Infatti l’acqua contenuta nelle murature, e principalmente in quelle contro terra, evaporando per le instabili condizioni ambientali, depositava i suoi sali sulla superficie dando origine a dannosi fenomeni di degrado. Così lo studio dei parametri microclimatici in relazione agli elementi costitutivi della materia e alle diverse manifestazioni del degrado, ha consentito di definire un criterio di intervento «prudente» e «minimale», teso a stabilire l’equilibrio termoigrometrico tra l’interno delle strutture e l’ambiente circostante. In considerazione delle quantità e qualità delle salificazioni sulle opere20 e della forte alterazione degli intonaci affrescati e degli stucchi che presentavano un notevole mutamento della matrice carbonatica con un apprezzabile contenuto di acqua, si decideva di non effettuare traumatici interventi volti alla diminuzione dell’umidità relativa. A tale
CONSERVAZIONE E RESTAURO
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Porte di cristallo degli edifici sepolcrali Infisso in acciaio inox provvisto su entrambi i lati di una resistenza elettrica
Vetrocamera provvisto di guarnizione e gel di silicie VISARM all’esterno TEMPERATO all’interno
22. Necropoli vaticana, sepolcro O, «dei Matucci», estese salificazioni sulla parete interna nord. 23. Pagina a fianco: necropoli vaticana, porta predisposta all’ingresso del sepolcro F, «dei Tullii e dei Caetennii»; qui in basso la stessa immagine con l’indicazione delle principali caratteristiche tecniche (Fig. IV).
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Valvola per l’immissione dell’azoto in alto valvola di uscita Cavo d’uscita della resistenza elettrica Collegato al sistema anticondensa cosituito di: a. Alimentatore, b. Trasformatore, c. Timer.
LA NECROPOLI SOTTO LA BASILICA DI SAN PIETRO
27. Necropoli vaticana, sepolcro A, «di Popilius Heracla», iscrizione marmorea sopra la porta d’ingresso con evidente formazioni algale di colore verde.
CONSERVAZIONE E RESTAURO
Per arrestare o ridurre tali «effetti indesiderati» si procedeva come segue: 1) tipizzazione dei i microrganismi e allestimento di antibiogrammi per la selezione di efficaci prodotti biocidi. Ulteriori provvedimenti per combattere il proliferare di microrganismi biodeteriogeni. 2) applicazione di pannelli isolanti sul soffitto freddo di cemento armato per prevenire la formazione di umidità di condensa; 3) abbattimento della concentrazione di CO2 mediante un «sistema integrato» dotato di idonei dispositivi per il prelevamento di aria pulita (opportunamente filtrata e condizionata) e di apparecchi atti depurare l’aria interna dal particolato e dalla CO2; 4) regolazione del flusso dei visitatori. INDAGINE AEROBIOTICA E FITOSOCIOLOGICA E PROVVEDIMENTI PER COMBATTERE IL PROLIFERARE DI MICRORGANISMI BIODETERIOGENI
24-26
24-26. Necropoli vaticana, sepolcro H, «dei Valerii», testa della figura in stucco della nicchia centrale della parete est, prima e dopo il trattamento biocida. L’intervento ha consentito di debellare l’evidente aggressione di natura microbiologica. In basso la stessa testa dopo il restauro del 2007.
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Lo studio microbiologico in un sito confinato in ambiente ipogeo riveste grande importanza per la definizione degli interventi conservativi e di restauro e per la messa a punto di un adeguato e necessario piano di manutenzione. In particolare, negli scavi di San Pietro, la proliferazione dei microrganismi è favorita all’interno degli edifici sepolcrali, chiusi da porte di cristallo, dall’assenza di ventilazione e dagli aumentati valori di temperatura, mentre lungo il percorso di visita è incrementato dal continuo passaggio delle persone, inconsapevoli veicoli di spore e batteri e apportatori di calore. Inoltre, prima dei restauri, la predisposizione di non idonei impianti di illuminazione, originava sulle superfici umide della necropoli la comparsa di alghe con effetti cromatici indesiderati e, talvolta, con fenomeni di microesfoliazione, dei laterizi, degli stucchi e degli intonaci affrescati. Gli effetti dell’aggressione delle popolazioni algali e di attinomiceti, funghi e batteri, si evidenziavano sulle superfici della necropoli in estese macchie verdi in prossimità delle sorgenti luminose, in diffuse incrostazioni e macchie nerastre o biancastre, in polveri policromatiche, in patine verdastre, ecc. Tali palesi manifestazioni di degrado e le caratteristiche ambientali del sito con elevato impatto antropico, unitamente agli effetti negativi dei provvedimenti per il miglioramento delle condizioni microclimatiche a cui si è accennato, rendevano inderogabile un preliminare studio di tutte le componenti biodeteriogene a sviluppo epilitico (sulle superfici) o sospese nell’aria (aerosol). Così, con l’in-
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tenzione di attivare mirate strategie conservative, già nel 1998 veniva avviata un’accurata indagine aerobiotica e fitosociologica al fine di individuare i prodotti biocidi idonei a debellare le diverse forme di microrganismi presenti nella necropoli e dannosi per il monumento e per la salubrità del luogo26. Si rendeva pertanto necessario effettuare prelievi di microrganismi nell’aria e sulle opere; allestire delle colture e subcolture per la tipizzazione di tali forme e, conseguentemente, degli antibiogrammi per la valutazione e la selezione di efficaci prodotti biocidi27. A seguito della tipizzazione delle forme autotrofe (alghe) e delle forme saprofaghe (batteri, attinomiceti e microfunghi) sono stati allestiti degli antibiogrammi per rilevare l’efficacia dei principali prodotti biocidi allora disponibili in commercio28. Tra i differenti prodotti, testati alle diverse diluizioni, si sono rivelati maggiormente efficaci il Troysan 174 nella concentrazione del 5% per debellare batteri, alghe e attinomiceti e il Metatin 70/40, nella concentrazione del 3%, per combattere batteri e microfunghi. È tuttavia necessario precisare che l’efficacia di tali biocidi è pertinente al prodotto con il quale gli stessi vengono diluiti e veicolati sulle opere29. Alcuni biocidi, come il Metatin 70/40, sono stati oggi
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Fig. V
LA NECROPOLI SOTTO LA BASILICA DI SAN PIETRO
LA NECROPOLI SOTTO LA BASILICA DI SAN PIETRO
CONSERVAZIONE E RESTAURO
sostituiti con prodotti alternativi, che è necessario conoscere attentamente prima del loro impiego. In particolare occorre osservare bene la formulazione di ciascuno, per valutare il grado di polarità del composto o, diversamente, se il composto non è assolutamente polare. Sulla base di tali valutazioni potranno essere utilizzati solventi acquosi, o meglio quelli alcolici, con almeno tre atomi di carbonio (all’aumentare del numero degli atomi di carbonio aumenta la sua permanenza sul substrato) per i prodotti polari. Diversamente potranno essere solubilizzati i prodotti non polari, o parzialmente polari, nei solventi alcanici puri (n-ottano o suoi isomeri), se il biocida deve essere dato direttamente sulle pitture o in acquaragia minerale, per altre disinfezioni di substrati meno delicati. Gli accurati studi microbiologici correlati ai parametri chimico fisici della necropoli (condizioni microlimatiche, tasso di CO2, idratazione delle strutture, sali solubili, luce, temperatura, ecc.), hanno consentito di elaborare un meditato piano di manutenzione che prevedeva inizialmente due cicli di disinfezioni l’anno da eseguirsi nei mesi primaverili e autunnali, compatibilmente con i giorni di chiusura al pubblico degli scavi. Inoltre, costatata l’efficacia dei trattamenti biocidi negli edifici sepolcrali, che con le nuove chiusure erano stati isolati dalla contaminazione antropica, è stato possibile ridurre gli interventi di disinfezione generale all’interno delle tombe, preferendo mira-
CONSERVAZIONE E RESTAURO
te applicazioni di prodotti biocidi a terra, sulle murature e sulle strutture moderne, e in quelle parti delle decorazioni ritenute più a rischio per la loro collocazione (esposizione alla luce) o dove, in precedenza, erano stati registrati fenomeni più accentuati di biodeterioramento. Nel desiderio di evitare una sorta di «accanimento terapeutico» nella somministrazione dei prodotti biocidi, unitamente o in alternativa ai trattamenti a cui si è accennato, sono stati installati in punti strategici del percorso di visita idonei depuratori d’aria a flusso continuo per una opportuna disinfezione ambientale contro spore e batteri. Tali apparecchi, proporzionati alla cubatura d’aria da bonificare, sono provvisti di aspiratori, filtri e lampada ultravioletta germicida. A seguito di studi e attente sperimentazioni, la Fabbrica di San Pietro ha inoltre valutato la possibilità di impiego di lampade UV germicide nelle ore notturne e in assenza di pubblico30. Tali lampade, dotate di alette per orientare e direzionare le radiazioni ultraviolette, potrebbero essere usate secondo programmate tempistiche e limitatamente ad alcuni periodi e luoghi, per contrastare la diffusione di microrganismi lungo il percorso di visita e, soprattutto, all’interno degli edifici sepolcrali con delicate decorazioni pittoriche e a stucco. Infine, come si dirà in seguito, ulteriori provvedimenti per contrastare la proliferazione algale sono stati adottati
BYOCID Preventol R80 Nipacide DFF Nipacide DFX Troysan 174 Troysan 1AF3 Traetax 225 Metatin 470/40 Metatin 5810
%
Bacteria Actinomjcet. Microfunghi
A PPLICAZIONE
DI PANNELLI ISOLANTI SUL SOFFITTO
D I C E M E N T O A R M AT O P E R P R E V E N I R E
mente collocato sul solaio di cemento armato della tomba C o di Tullius Zethus31. SOLUZIONI PER ABBATTERE LA CO2 E RENDERE L’ARIA DELLA NECROPOLI PIÙ SALUBRE
LA FORM AZI ONE D I U M I D I TÀ D I COND ENS A
29
Algae
1% 2% 3% 1% 2% 3% 1% 2% 3% 1% 2% 3% 1% 2% 3% 1% 2% 3% 1% 2% 3% 1% 2% 3%
28. Necropoli vaticana, sepolcro B, «di Fannia Redempta», formazioni biodeteriogene di natura autotrofa sulle decorazioni pittoriche della volta. Fig. V. Tabella con la valutazione dei diversi prodotti biocidi (disponibili nell’anno 1998), testati con l’allestimento degli antibiogrammi per microfunghi, attinomiceti, alghe e batteri.
310
dalla Fabbrica di San Pietro dotando le luci di idonei filtri per inibire la fotosintesi clorofilliana.
30
Come in chimica due prodotti posti a reagire danno luogo a calcolati effetti di reazione, così determinate soluzioni adottate per ostacolare o ridurre alcune cause di degrado, possono provocare nuovi fenomeni dannosi per le opere. Tali fenomeni debbono essere previsti e valutati per poter decidere della bontà dei criteri progettuali, propedeutici agli interventi di restauro. Così ai benefici apportati al microclima con la chiusura degli edifici sepolcrali, fanno seguito fenomeni di degrado di natura microbiologica, previsti e arginati secondo le modalità descritte al paragrafo precedente. Tuttavia, come si è detto, un’ulteriore conseguenza negativa della chiusura delle tombe è determinata dal raggiungimento del punto di rugiada sulla superficie fredda del solaio di cemento che sovrasta ogni camera funeraria. Anche questo secondo «effetto indesiderato» era d’altronde prevedibile. Infatti la quantità d’acqua allo stato di vapore, che ad una certa temperatura satura la camera della tomba senza raggiungere il punto di rugiada, non poteva rimanere nello stesso stato venendo a contatto con la superficie fredda del soffitto. Così il solaio di cemento armato all’interno dell’edificio si sarebbe comportato come una sorta di deumidificatore naturale, sottraendo significative percentuali d’acqua (presenti allo stato di vapore nell’ambiente), con conseguenti alterazioni del delicato equilibrio microclimatico all’interno dell’edificio e con formazione e caduta di gocce d’acqua sulle opere. Pertanto per prevenire fenomeni di deumidificazione dovuti alla condensa d’acqua sulla superficie fredda del cemento, si rendeva necessario «aumentare la temperatura» di tale superficie. A tale scopo veniva «scaldato» il soffitto mediante l’apposizione di pannelli di cadorite o termanto (polivinile cloruro espanso), dello spessore di cm 5, ancorati al solaio di cemento e da esso separati da distanziatori di cm 2 del medesimo materiale, in modo da formare su ciascun pannello un’intercapedine perfettamente chiusa. Tale provvedimento veniva adottato dopo due anni di sperimentazione, non avendo riscontrato in tale periodo alcun fenomeno di condensazione su un simile pannello di cadorite, intonacato con calce e pozzolana, apposita-
Purtroppo i parametri microclimatici ottimali per la buona conservazione del sito non possono concordare con i valori di temperatura e umidità auspicati per un’agevole fruizione della necropoli da parte di un elevato numero di visitatori. Molte persone infatti hanno manifestato il loro disagio
29. Raggiungimento del «punto di rugiada» nella forma di gocce d’acqua di condensazione sulla superficie fredda del solaio di cemento armato all’interno del sepolcro C, «di Tullius Zethus». 30. Necropoli vaticana, sepolcro C, «di Tullius Zethus», pannello sperimentale di «cadorite» o «termanto» (polivincloruro espanso), intonacato con calce e pozzolana per evitare la condensazione del vapore acqueo sul solaio di cemento armato.
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LA NECROPOLI SOTTO LA BASILICA DI SAN PIETRO
per le specifiche condizioni microclimatiche degli scavi di San Pietro, dove i valori di umidità relativa sono particolarmente elevati. Tale disturbo viene percepito soprattutto nei mesi estivi, quando maggiormente alta è la temperatura. Per alcuni il disagio è accresciuto dal fatto di trovarsi in un ambiente sotterraneo, tra i tre e gli otto metri sotto il pavimento della basilica, e dall’essere costretti a transitare in spazi di contenute dimensioni illuminati da una luce soffusa. La Fabbrica di San Pietro ha da sempre dedicato a questo aspetto una particolare attenzione, soprattutto dopo la chiusura dei singoli edifici sepolcrali e la collocazione di porte ad apertura automatica lungo il percorso di visita. Il problema della salubrità dell’aria (inquinanti chimici e biologici aerodispersi), è infatti un fattore particolarmente significativo per un sito ipogeo circondato dalle argille del colle Vaticano e sovrastato dalle imponenti strutture della basilica; un sito, peraltro, sottoposto ad un’alta frequentazione di pubblico (oltre 60.000 visitatori registrati nel solo anno 2008). A tale sentita problematica si ricollega la predisposizione di idonei apparecchi per la disinfezione dell’aria e il continuo monitoraggio delle quantità di ossigeno presente in necropoli. Mediante sensori opportunamente distribuiti lungo il percorso di visita è infatti possibile controllare i valori della CO2, che sono costantemente contenuti al di sotto dei livelli di allarme. Per migliorare e agevolare la fruizione degli scavi si sta inoltre valutando la possibilità di realizzare un sistema di ricambio d’aria lungo il percorso di visita, integrato con apparecchi ionizzatori e idonei dispositivi per depurare l’aria dal particolato e dalla CO2. Al riguardo un progetto di massima prevedeva la predisposizione in alcune botole che collegano la necropoli alle grotte, di speciali apparecchi per l’immissione e l’emissione dell’aria. Tali aspiratori erano stati opportunamente studiati con filtri per tagliare il particolato e gli inquinanti chimici e biologici e con dispositivi ad ultrasuoni per umidificare l’aria. Il sistema di ricambio d’aria proposto doveva funzionare in alcune ore della notte, quando l’aria delle grotte è più pulita e/o durante le visite agli scavi, quando speciali sensori, posti in punti strategici della necropoli, segnalavano un significativo incremento degli inquinanti. Naturalmente l’aria portata negli scavi doveva essere immessa con i medesimi valori di umidità relativa della necropoli e con un flusso lentissimo e opportunamente direzionato, in modo da non lambire le opere pittoriche e murarie delle tombe. Idonei apparecchi per la ionizzazione negativa dell’aria avrebbero inoltre
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LA NECROPOLI SOTTO LA BASILICA DI SAN PIETRO
Fig. VI. Istogramma delle presenze registrate nella necropoli di San Pietro dal 1970 al 2008.
CONSERVAZIONE E RESTAURO
migliorato l’assorbimento di ossigeno da parte dell’uomo32. Tale progetto ha tuttavia subito una battuta di arresto a causa delle mutate condizioni ambientali delle grotte da dove l’aria doveva essere prelevata. Infatti dall’aprile dell’anno 2005 il numero delle presenze in tali ambienti è notevolmente aumentato a causa del pellegrinaggio alla tomba del papa Giovanni Paolo II, presenze che alterano le condizioni microclimatiche e microbiologiche del sito. Tuttavia, in assenza del menzionato sistema di prelevamento e di trattamento dell’aria, è in fase di sperimentazione un dispositivo per l’abbattimento della CO2 con la calce sodata e/o con il carbone attivo33.
nere i disagi di una visita in un luogo sotterraneo con le descritte caratteristiche ambientali, è stato sensibilmente ridotto il tempo di permanenza negli scavi, privilegiando spiegazioni preliminari nelle cosiddette «Sale Archeologiche» delle grotte e soste prolungate nella «Cappella Clementina» e presso la «Memoria Apostolica». Sono stati inoltre distribuiti più opportunamente i diversi gruppi di visitatori nelle diverse fasce orarie di apertura al pubblico degli scavi e si sta infine lavorando per contenere il numero dei visitatori. Rispetto ad altri siti archeologici il raggiungimento di quest’ultimo obiettivo risulta essere più complesso perché la visita alla necropoli non costituisce soltanto un suggestivo itinerario storico-culturale, ma rappresenta un vero e proprio pellegrinaggio. Risalendo il colle Vaticano e percorrendo l’antico sentiero in terra battuta tra le tombe precostantiniane della necropoli, si giunge infatti all’umile sepoltura di Pietro, centro e origine della maestosa basilica e cuore pulsante della Cristianità. Per le motivazioni a cui si è accennato, non sempre è possibile accogliere in tempi brevi il crescente numero di visitatori che chiede di accedere agli scavi. Al riguardo, per supplire in parte a tale oggettiva difficoltà, l’Ufficio Internet della Santa Sede ha recentemente reso disponibile un percorso virtuale nella necropoli di San Pietro. Si ricorda infine che l’Ufficio Scavi della Fabbrica di San Pietro provvede all’organizzazione di visite guidate solo su prenotazione35.
REGOLAZIONE DEL FLUSSO DI VISITATORI Ad integrazione e in attesa dell’attuazione delle ipotizzate soluzioni per abbattere la CO2 e rendere l’aria della necropoli più salubre, e in considerazione dell’aumentato numero dei visitatori negli scavi e nelle sovrastanti grotte dove si trovano le tombe dei papi, sono state proposte le seguenti soluzioni: 1) riduzione del tempo di permanenza dei visitatori in necropoli; 2) prolungamento dei tempi di attesa tra i diversi gruppi in visita agli scavi; 3) contenimento del numero dei visitatori. Tali provvedimenti si rendono necessari poiché, come si è avuto modo di osservare, la presenza dell’uomo negli ambienti ipogei della necropoli di San Pietro, costituisce una delle principali cause di degrado. L’uomo contribuisce infatti ad alterare il delicato e ricercato equilibrio microclimatico, è inconsapevole veicolo di spore e batteri, ed è infine responsabile della produzione di anidride carbonica. L’importanza dell’impatto antropico sulla conservazione del sito risulta essere chiaramente evidente dalle presenze dei visitatori annualmente riportate su L’Attività della Santa Sede34. Da tali meticolosi resoconti emerge che dal 1970 ad oggi hanno visitato la necropoli di San Pietro più di un milione e duecentomila persone. È da notare al riguardo il progressivo incremento delle visite che rispecchia un crescente interesse per questo sito di fondamentale importanza religiosa e storica: si passa infatti dalle 7.784 presenze del 1970, alle 23.016 unità del 1980 e alle 29.723 persone del 1990. Nell’anno 2000 si registrano 37.670 presenze; nel 2003, 45.345 e nel 2008, 61.529. Pertanto, nel desiderio di garantire la massima fruizione della necropoli, senza tuttavia trascurare le necessarie attenzioni per la conservazione del sito, e volendo conte-
CONSERVAZIONE E RESTAURO
ILLUMINAZIONE DELLA NECROPOLI DI SAN PIETRO L’installazione del primo impianto elettrico stabile nella necropoli risale al 1951. Una cura particolare fu allora n. visitatori 70000
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Fig. VI
20000
10000
0
anni 1970
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2008
prestata dai tecnici della Fabbrica di San Pietro nel posizionamento dei cavi di alimentazione, che non dovevano arrecare disturbo alla vista e, soprattutto, dovevano rispettare tutti i muri antichi, «tenendo presente contemporaneamente le difficili condizioni ambientali, in specie per l’umidità»36. Molti lavori vennero in seguito realizzati negli ambienti ipogei della necropoli, ma solo in anni relativamente recenti le lampadine elettriche tradizionali vennero sostituite con lampade al neon, ritenute meno dannose per le opere, più sicure e più resistenti all’umidità. Con tali luci, talvolta collocate in prossimità di stucchi, pitture e mosaici, venne illuminata l’intera area degli scavi, senza distinzione tra strutture antiche e moderne. Pertanto nel 1998, nel programmare gli interventi per il risanamento e la valorizzazione della necropoli, la progettazione di un nuovo impianto di illuminazione rientrò tra le opere ritenute più urgenti, impegnative e importanti37. La luce avrebbe dovuto infatti valorizzare gli eleganti edifici in laterizio e le pregevoli decorazioni in essi custodite, senza tuttavia alterare il delicato equilibrio microclimatico e favorire la crescita di dannosi microrganismi. Il principale vincolo progettuale fu pertanto quello di illuminare gli scavi con sorgenti luminose fredde, ovvero con lampade che apportassero nell’ambiente la minor quantità di calore. Si decise allora di contenere la potenza elettrica nominale installata in circa 5 kW e di illuminare la necropoli con fibre ottiche e con alogeni montati su apparecchi tecnici dotati di opportuni filtri. Con tali apparecchiature è stato possibile ridurre al massimo la dispersione del calore, la quantità di lux delle singole sorgenti luminose e l’emissione di radiazioni UV. Le sorgenti luminose sono state generalmente collocate all’esterno degli edifici sepolcrali e comunque sempre a distanza dagli stucchi, dalle cortine in laterizio e dalle opere pittoriche. Un secondo vincolo nella definizione del nuovo impianto era costituito dai requisiti di inalterabilità che dovevano avere i materiali e tutte le componenti dell’impianto da predisporre nell’ambiente ipogeo della necropoli, che, come si è detto, è caratterizzato da valori di umidità relativa particolarmente elevati. Infine per abbattere in misura significativa la proliferazione delle formazioni algali, si è cercato di inibire, almeno in parte, la fotosintesi clorofilliana38, ovvero l’assorbimento da parte della clorofilla delle radiazioni luminose che attivano il processo di fotosintesi. Tali radiazioni sono essenzialmente due: la prima, è posta nel visibile tra 400 e 500 nm ed è la più attiva; la seconda è al limite del visibile tra 700 e 770 nm. Quest’ultima radiazione è stata abbattuta
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Fig. VII
31
32
Fig. VII. Grafico che evidenzia l’abbattimento della frazione spettrale tra 700 e 770 nm. 31. Necropoli vaticana, veduta dell’iter, con binario in acciaio e alluminio contenente 200 terminali per fibre ottiche. Il sistema è orientato in modo da ridurre al minimo la visibilità del solaio e delle murature moderne, producendo un’omogenea e suggestiva luce radente sulle cortine in laterizio dei sepolcri con puntualizzazioni dirette per evidenziare sarcofagi, iscrizioni, portali e decorazioni in laterizio.
32. Necropoli vaticana, piazzola tra i sepolcri M, N, U e V, veduta dell’illuminazione a fibre ottiche sul controsoffitto, realizzato con pannelli di alluminio alveolare per nascondere i cavi dell’impianto elettrico e del monitoraggio.
mediante la predisposizione di filtri, fatti realizzare appositamente per le esigenze conservative della necropoli. Livelli di illuminazione diversi sono stati adottati per distinguere l’interno delle camere sepolcrali dall’esterno degli edifici in origine a cielo aperto. Con opportuni accenti luminosi sono state valorizzate le opere, le iscrizioni e i particolari decorativi più significativi. Sono state inoltre progettate e realizzate apposite strutture per ridurre al minimo la visibilità degli apparecchi di illuminazione, delle componenti elettriche ausiliarie e dei cavi di alimentazione. In particolare, lungo il tratto dell’iter compreso tra le tombe B e F, i generatori per le fibre ottiche sono stati collocati su un binario di acciaio ancorato al soffitto di cemento armato; un sostegno che ha anche la funzione di dissipare e trasmettere il calore sulla superficie fredda del cemento, evitando in tal modo il dannoso fenomeno della condensa d’acqua a cui si è accennato. Grazie a tali soluzioni la necropoli è oggi illuminata da una luce discreta che lascia in penombra le strutture moderne ed evidenzia le opere antiche, in modo da guidare il visitatore attraverso un suggestivo percorso che gradualmente lo accompagna a riscoprire le radici più antiche e profonde della basilica e della Chiesa cattolica39.
mata in una «sala operatoria», dove i restauratori sono intervenuti dopo aver eseguito accurate «mappature» dei materiali, dello stato di conservazione e del restauro. La pulitura delle cortine in laterizio e delle murature costantiniane con ricorsi orizzontali di blocchetti di tufo alternati a filari di mattoni, si è rivelata particolarmente laboriosa per l’estesa presenza di efflorescenze e di carbonatazioni saline, di residui di terre sedimentati e per la formazione di attacchi biologici di varia natura. Altrettanto laboriosi sono stati gli interventi per sanare fenomeni di disgregazione, alveolizzazione ed esfoliazione dei laterizi. L’impegnativa opera di restauro ha così consentito di apprezzare l’eleganza delle facciate, costituite da ordinate file di mattoni, accuratamente levigati e connessi da sottili strati di malta colorata (impasto di calce spenta e polvere di mattone), con i giunti tra i ricorsi dei laterizi evidenziati da una stilatura bianca in leggero rilievo. Il restauro delle facciate degli edifici sepolcrali ha pemesso anche il recupero delle pregevoli decorazioni in cotto, talvolta decorate con inserti di pomice e mattoni gialli e rossi, finemente lavorati e intagliati a mano (tombe E, F, G, L). Sono stati inoltre individuate sulle murature stesure di intonaco dipinto (tombe G e V), fori di chiodi per affissioni votive (tomba V) e tracce di nero fumo sovrapposte a mattoni con evidenti segni un antico degrado e pertanto riconducibili ai fuochi accesi al principio del IV secolo, quando la necropoli venne interrata per la costruzione della basilica costantiniana. Per quanto riguarda il mosaico, particolarità tecniche di
IL RESTAURO Eliminate o ridotte le cause del degrado era tuttavia necessario intervenire sulle cortine in laterizio e sulle decorazioni delle tombe che mostravano in maniera evidente i segni del tempo e di precedenti interventi realizzati con materiali non idonei. Sono stati pertanto chiamati professionisti di comprovata esperienza nel restauro in ambiente ipogeo, che hanno operato avvalendosi delle più moderne tecnologie40. Le numerose analisi di laboratorio hanno consentito la scelta dei prodotti più idonei per la pulitura delle superfici, per i consolidamenti e per le stuccature. Sono stati adoperati prodotti inorganici per la loro resistenza agli attacchi biodeteriogeni e si è evitata l’applicazione di protettivi superficiali. Dopo i primi interventi d’urgenza o di «pronto soccorso», per arrestare la caduta di frammenti d’intonaco dipinto e, soprattutto, di decorazioni a stucco, il lavoro è stato suddiviso in diverse fasi di intervento, individuate in base allo stato di conservazione e alla dislocazione spaziale degli edifici sepolcrali. Ogni singola tomba è stata così trasfor-
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%T 100 90 80 70 60 50 40 30 20 10 0 300
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33,34. Necropoli Vaticana, sepolcro N, «degli Aebutii e dei Volusii», prospetto esterno sud prima e durante il restauro.
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47-50
35. Necropoli vaticana, sepolcro E, «degli Aelii», prospetto esterno sud, particolare della decorazione in cotto. 36. Necropoli vaticana, sepolcro F, «dei Tullii e dei Caetennii», particolare del paramento in laterizio della facciata con ordinate file di mattoni accuratamente levigati e connessi da sottili strati di malta dipinta ed evidenziati da una stilatura bianca in leggero rilievo.
37. Necropoli vaticana, sepolcro F, «dei Tullii e dei Caetennii», prospetto esterno sud, particolare della decorazione in cotto policromo con veduta architettonica.
LA NECROPOLI SOTTO LA BASILICA DI SAN PIETRO CONSERVAZIONE E RESTAURO
significativa importanza sono emerse con il restauro della tomba M o «degli Iulii»41. Su tutta la superficie interna, compresa l’area del registro superiore e della volta destinata alla decorazione a mosaico, si è potuta infatti constatare una omogenea stesura di intonaco e una scialbatura di ocra gialla dipinta a fresco, sulla quale erano state tracciate le sinopie che dovevano fornire la guida per l’inserimento delle tessere. La gamma dei pigmenti utilizzati per tali disegni preparatori appare fedelmente riprodotta dalle singole tonalità delle tessere. Infatti nelle lacune del tessellato, in cui rimane la sola impressione delle tessere sui fondi già preparati e dipinti (Giona, parete est; CristoSole, volta) si leggono chiaramente all’interno delle figure pennellate dirette tracciate con colori diversi (nero, grigio, rosso), cui si sovrappongono ordinate file di tessere di uguale tonalità anche se talvolta compare una maggiore varietà di sfumature. È stato così possibile riscontrare l’uso di tessere policrome di pasta vitrea trasparenti, che, nell’aureola e nelle vesti del Cristo-Sole, sono talvolta rivestite da una sottile foglia d’oro protetta da una cartellina vitrea anch’essa trasparente. Nella figura del Cristo-Sole e dei cavalli sono presenti almeno due gradazioni di tessere di pietra calcarea e marmo bianco-grigio. Le altre parti del mosaico sono costituite principalmente da paste vitree ricche di sfumature cromatiche (quattro gradazioni di giallo, cinque di verde, tre di azzurro, due di rosso, ecc.). Le dimensioni delle tessere usate nei fondi è più grande e regolare (max mm 5 x 7) rispetto a quelle usate per descrivere le parti figurate, più piccole ed irregolari (min. mm 3 x 3): in entrambi i casi lo spessore è di circa 10 mm. Anche il restauro delle decorazioni pittoriche, eseguite principalmente a fresco nelle più antiche tombe della fila nord e a fresco con sopradipinture a secco nelle tombe fila sud, ha dato eccellenti risultati. Rimosse le vistose stuccature di cemento, le spesse ed estese incrostazioni di sali e i residui di terra dalle superfici pittoriche, sono state scoperte decorazioni dai vivaci colori di cui non si sospettava l’esistenza e sono riapparse figure dipinte, che negli ultimi anni erano divenute ombre evanescenti solo in parte leggibili. Gli interventi conservativi eseguiti nella necropoli hanno consentito non soltanto una più approfondita conoscenza dell’iconografia delle singole tombe, ma hanno anche permesso di acquisire maggiori informazioni sui materiali sulle antiche tecniche d’esecuzione. Anche il restauro degli elementi lapidei ha dato inaspettati risultati. Sono state individuate evidenti tracce di colore su antichi sarcofagi di marmo e sul piano marmoreo attorno alla «Memoria Costantiniana» dell’antica basilica,
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41 40 43-46
38. Necropoli vaticana, sepolcro F, «dei Tullii e dei Caetennii», decorazione recante i segni degli stampi impressi sullo stucco fresco.
39-40. Necropoli vaticana, sepolcro M, «degli Iulii», parete interna est con Giona inghiottito dal mostro marino, prima e dopo le opere di restauro. Nell’immagine a sinistra è evidente l’estesa proliferazione di alghe verdi in prossimità della fonte luminosa priva di filtri per inibire la fotosintesi clorofilliana.
esattamente nel luogo dove si ergeva la colonna sud-ovest del ciborio eretto nel IV secolo sulla tomba apostolica, è stata scoperta la significativa iscrizione AT (!) PETRU(M), per indicare la destinazione a San Pietro del blocco di marmo riutilizzato da Costantino42. Per il restauro delle decorazioni a stucco, una menzione particolare merita l’intervento condotto all’interno della tomba H o «dei Valerii» nel corso dell’anno 200743. In questa tomba, dove parziali interventi conservativi erano stati eseguiti tra il 1957 e il 1958, dopo le preliminari indagini diagnostiche e i primi consolidamenti, laboriosa si è rivelata la rimozione delle stuccature cementizie, realizzate nel secolo scorso per fermare la caduta di parti d’intonaco e per risarcire numerose lacune nelle decorazioni a stucco44. Particolarmente difficoltoso è stato il restauro delle erme mediante l’inserimento di un sostegno di vetro resina nella cavità interna, dove in antico era alloggiato un asse di legno rivestito da una spirale di corda e dove, in precedenti interventi, era stata impropriamente inclusa una armatura di fili di rame allettata con una malta di polvere di travertino e gesso45. Inoltre lo studio dei frammenti di stucco custoditi nei depositi della Fabbrica di San Pietro ha consentito di ricomporre e restituire alla tomba «dei Valerii» tre magnifiche erme (una sulla parete ovest e due sulla parete nord). È stato infine possibile ricollocare in opera alcuni frammenti erradici dei bassorilievi con figure dionisiache, delle decorazioni architettoniche e dell’immagine di Hypnos. La paziente opera di pulitura è stata eseguita con bisturi, microtrapani e, per le parti più delicate, con sofisticate apparecchiature laser. Il restauro ha offerto
inoltre l’opportunità di riscoprire inediti graffiti sepolcrali e interessanti tracce di lavorazione (impronte di stampi per l’esecuzione degli elementi decorativi ripetitivi, incisioni preparatorie per la realizzazione dei bassorilievi, uso del pigmento ocra nell’impasto dello stucco di calce e polvere di marmo)46. Decorazioni a finti marmi policromi sono state restaurate in prossimità degli arcosolii, mentre tracce di policromia sono state individuate tra le pieghe delle vesti di alcune statue in stucco. Infine, per non compromettere eventuali ricerche future sono state volutamente risparmiate dall’intervento di pulitura limitate porzioni di intonaco con labili iscrizioni a carboncino e disegni pittorici (pareti est e nord). È noto infatti che nella nicchia centrale della parete nord, contrapposta alla porta d’ingresso, vennero individuati all’epoca degli scavi i disegni sovrapposti di due busti virili, che si vollero allora riferire a Cristo o san Paolo (in alto) e a san Pietro (in basso). Accanto a tali immagini vennero viste alcune iscrizioni, che già negli anni immediatamente successivi agli scavi non erano più leggibili. In particolare nei superstiti e non chiari segni ai lati della figura inferiore, Margherita Guarducci, nell’ottobre del 1952, pensò di leggervi una preghiera rivolta a Pietro per i cristiani sepolti presso il suo corpo47. L’individuazione di tale iscrizione resta ancora oggi molto dubbia e fondate perplessità continuano da più parti ad essere avanzate sull’interpretazione del presunto testo e sulla lettura delle altrettanto ipotetiche e perdute scritte vicino alla figura superiore. Prescindendo da tale questione, le iscrizioni non sono oggi più leggibili, mentre i disegni, tracciati verosimilmente poco prima dei lavori intrapresi da Costantino,
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41. Necropoli vaticana, sepolcro H, «dei Valerii», cavità centrale di un’erma dove in origine era alloggiato l’asse di sostegno in legno rivestito da una spirale di corda di cui è visibile l’impronta.
42. Necropoli vaticana, sepolcro H, «dei Valerii», restauro di un’erma della parete ovest mediante inserimento di un nuovo sostegno in vetro resina all’interno della cavità centrale. 43-46. Necropoli vaticana, sepolcro H, «dei Valerii», pareti interne ovest e nord, particolari delle erme.
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LA NECROPOLI SOTTO LA BASILICA DI SAN PIETRO
LA NECROPOLI SOTTO LA BASILICA DI SAN PIETRO
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47,48. Necropoli vaticana, sepolcro F, «dei Tullii e dei Caetennii», parete interna est, prima e dopo le opere di restauro.
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LA NECROPOLI SOTTO LA BASILICA DI SAN PIETRO
LA NECROPOLI SOTTO LA BASILICA DI SAN PIETRO
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49,50. Necropoli vaticana, sepolcro T, «di Trebellena Flaccilla», parete interna est, prima e dopo le opere di restauro.
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LA NECROPOLI SOTTO LA BASILICA DI SAN PIETRO
54. Necropoli vaticana, sepolcro H, «dei Valerii», parete nord, particolare della decorazione a stucco ad impasto ocra sopra la figura di Hypnos.
CONSERVAZIONE E RESTAURO
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51. Necropoli vaticana, sepolcro H, «dei Valerii», parete nord, veduta della nicchia centrale parzialmente scavata (1943) con i due busti virili sovrapposti tracciati con pigmento nero sull’intonaco bianco. Sopra la spalla destra della figura inferiore si riconoscono le lettere “PTR” riferite al nome dell’apostolo Pietro. 52. Necropoli vaticana, sepolcro H, «dei Valerii», nicchia centrale della parete nord, immagine multispettrale a colori in luce visibile. Nell’immagine è appena percepibile il profilo del busto virile inferiore (elaborazione Art-Test s.n.c). 53. Necropoli vaticana, sepolcro H, «dei Valerii», nicchia centrale della parete nord, immagine in fluorescenza UV a banda stretta con picco a 750 nm e larghezza di 50 nm. Nell’immagine è evidente il disegno del busto virile inferiore. La differente visione del disegno superiore è dovuta al fatto che in questo secondo caso l’adesivo organico usato come legante conserva un buon quantitativo di pigmento, che rende ancora visibili gran parte dei segni rinvenuti al momento dello scavo (elaborazione Art-Test s.n.c.). Questa fotografia restituisce la visione di un personaggio con una ricchezza di dettagli che fino ad oggi non era stato possibile apprezzare. Si pensi, in particolare, ai lineamenti del volto, che sembra raffigurare un uomo apparentemente senza barba, un uomo anziano che sulla base della perduta e probabile indicazione del nome “Pietro”, sarebbe suggestivo identificare con l’umile Pescatore di Galilea.
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risultano ora molto sbiaditi e appena riconoscibili, ma perfettamente leggibili all’ultravioletto. Nell’ambito dei lavori intrapresi all’interno della tomba H, la Fabbrica di San Pietro ha infatti ritenuto opportuno fare eseguire preliminari indagini multispettrali in fluorescenza UV (ultravioletto), nel visibile e nel vicino IR (infrarosso) in riflettografia48. L’analisi e il confronto delle informazioni acquisite e, soprattutto lo studio delle immagini in fluorescenza UV (a banda stretta con picco a 750 nm e larghezza di 50 nm) ha consentito di stabilire con assoluta certezza che disegni e perdute iscrizioni vennero eseguite in tempi e modi diversi. I due busti virili vennero infatti realizzati mediante l’uso di un pigmento con adesivo organico visibile all’ultravioletto, mentre le iscrizioni vennero probabilmente realizzate con del nero fumo, procedimento che ha determinato la scomparsa del colore solubilizzato e dilavato dalla forte umidità della tomba. Comunque di tale presunto colore le summenzionate indagini non hanno rilevato alcuna minima traccia. Le fotografie in fluorescenza UV del busto inferiore hanno inoltre svelato inediti particolari della figura (spalla sinistra, panneggio delle vesti i lineamenti del volto) ed è stato anche possibile accertare che alcuni segni, interpretati dalla professoressa Margherita Guarducci come parte della iscrizione (prime tre lettere della parola HOM[INI]BUS), sono in realtà parte del disegno, eseguito, come si è detto, precedentemente e con un pigmento diverso dall’iscrizione49. Al termine dei lavori è stata realizzata una teca di cristallo per osservare dall’esterno la tomba «dei Valerii», in modo da non alterarne il delicato equilibrio microclimatico, costantemente controllato dal sistema di monitoraggio computerizzato di alta precisione. In attesa di proseguire le opere di restauro nella parte orientale degli scavi, la Fabbrica di San Pietro è impegnata nella prosecuzione delle programmate opere di manutenzione. LE OPERE DI MANUTENZIONE Terminato il restauro ha avuto inizio la «terapia di mantenimento», ovvero l’attuazione di un meditato programma di manutenzione, che si esplica attraverso il monitoraggio continuo dei parametri ambientali, frequenti verifiche sullo stato di conservazione delle opere, periodici trattamenti biocidi e mirate e sistematiche cure. Premurose sollecitudini sono da ritenersi non soltanto necessarie, ma indispensabili per un sito confinato in
LA NECROPOLI SOTTO LA BASILICA DI SAN PIETRO CONSERVAZIONE E RESTAURO
ambiente ipogeo con le caratteristiche ambientali a cui si è accennato e per un luogo soggetto a un alta affluenza di pubblico. Pertanto costanti lavori di manutenzione da parte di personale qualificato si richiedono per quelle parti della necropoli di San Pietro esposte al continuo passaggio di pellegrini e visitatori, che, come è stato ricordato, sono i principali responsabili delle dannose alterazioni microclimatiche e microbiologiche. Facendo ricorso al linguaggio giuridico si potrebbe affermare che «la difesa deve essere proporzionata all’offesa». È noto, infatti, che le opere di manutenzione ordinaria debbano essere direttamente proporzionali alla fruizione del sito. Per queste motivazioni, nell’attuazione del piano di manutenzione della necropoli, particolare impegno richiede l’opera di rimozione dei sali dai paramenti murari disposti lungo il percorso di visita e quindi soggetti alle inevitabili variazioni termoigrometriche e ai movimenti d’aria provocati dalla presenza e dal passaggio delle persone50. La rimozione dei sali al loro primo manifestarsi sulle cortine in laterizio e gli altri interventi manutentivi a cui si è accennato, vengono effettuati dalla Fabbrica di San Pietro per evitare, o almeno differire nel tempo interventi chirurgici difficili, costosi, eroici. Infatti molto caro agli specialisti della conservazione è il motto: «mantenere per non restaurare».
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NOTE CAPITOLO PRIMO Plin., Nat. Hist. 3.53: Tyberis (...) Veientem agrum a Crustumino, dein Fidenatem Latinumque a Vaticano dirimens (...). «Il Tevere (...) che divide il territorio veiente da quello di Crustumerio, poi il territorio Fidenate e Latino da quello Vaticano». 2 Hor., Carm. 1.20.3-8. 3 Nat. Hist. 18.20. 4 Liv., 3.26.8. 5 F. Coarelli, QuadTopAnt 1968, pp. 31-32; Id., MEFRA 89, 1977, p. 823; L. Quilici, in Tevere, un’antica via per il Mediterraneo, Roma 1986, p. 227; F. Coarelli, voce Navalia, in Lexicon Topographicum Urbis Romae III, Roma 1996, pp. 339-400; Id., Il Campo Marzio, Roma 1997, pp. 345-361. 6 L. Cozza, P.L. Tucci, Navalia, Archeologia Classica 57, 2006, pp. 175-201. 7 LIVERANI 1999, pp. 13-19; Id., voce Vaticanus ager, LTUR Sub V, 2008, pp. 235-236. 8 Per la discussione delle fonti cfr. LIVERANI 1999, pp. 19-21; Id., voce Vaticanum, LTUR Sub V, 2008, pp. 233234. 9 AE 1945, 136; F. De Visscher, A propos d’une inscription nouvellement découverte sous la basilique de Saint Pierre, L’Antiquité Classique XV, 1946, pp. 117-126. 10 Ps.-Acro, in Hor. Epod. 9.25. B.M. Peebles, La «Meta Romuli» e una lettera di Michele Fermo, RendPontAcc XII, 1936, pp. 21-63; G. Gatti, Fasti Archeologici IV, 1949, pp. 359-360, n. 3771; M. Demus-Quatember, Est et alia Pyramis, Rom 1974; P. Liverani, voce Pyramis in Vaticano, in LTUR Sub IV, pp. 275-276. 11 Tac., Hist. 2.93.1. 12 Mart. 1.18.1-2; 6.92.3; 10.45.5; 12.48.13-14. 13 P. Liverani, voce Pons Neronianus, in LTUR IV, 1999, p. 111. 14 Cfr. B. D’Overbeke, Les restes de l’ancienne Rome III, Amsterdam 1709, tav. di fronte a p. 11; G. Vasi, Delle magnificenze di Roma antica e moderna V, Roma 1754, p. XIX, tav. 87, n. 2. 15 F. De Caprariis, voce Pons Aelius, in LTUR IV (1999), pp. 105-106. 16 Cic., ad Att. 13.33.1: a ponte Mulvio Tiberim perduci secundum montes Vaticanos, campum Martium coaedificari, illum autem campum Vaticanum fieri quasi Martium campum; cfr. 13.35.1. 17 W. Eck, voce Horti Scapulani, in LTUR III, 1996, p. 83; E. Papi, voce Horti: Otho, Ibid., p. 76. 18 P. Liverani, in Il giardino antico da Babilonia a Roma. Scienza, arte e natura (cat. della mostra, Firenze 8.528.10.2007), Firenze 2007, pp. 86-88. 19 G. Alföldy, Der Obelisk auf dem Petersplatz in Rom, SBHeidelberg, 1990, 2. Utile, ma esclusivamente per la vicenda moderna dell’obelisco, C. D’Onofrio, Gli obelischi di Roma, Roma 1992 (III ed.), pp. 108-121; LIVERANI 1999, pp. 21-28; Id., voce Gai et Neronis Circus, in LTUR Sub III, 2005, pp. 11-12. 20 P. Liverani, voce Aelii Hadriani Sepulcrum, in LTUR Sub I, 2001, pp. 15-19. 21 Prova ne sarebbe una conduttura di piombo (CIL XV 7508) che reca il nome di Passieno Crispo, rinvenuta nel corso degli scavi per le fondazioni del Palazzo di Giustizia; P. Baccini Leotardi, voce C. Crispi Passieni praedium, in LTUR Sub II, 2004, pp. 169-170; Carta 2005, n. 177. 22 A sostegno di ciò si adduce un’iscrizione onoraria a lei dedicata (CIL VI 16983, cfr. 34106c) segnalata alla fine del ’500 da Achille Stazio in una vigna alle spalle di Castel Sant’Angelo; Carta 2005, Appendice I, n. 4. 23 Ringrazio per i suggerimenti e le discussioni sul tema François Chausson. 24 G. Di Vita-Évrard, Des Calvisii Rusones à Licinius Sura, MEFRA, 99, 1987, pp. 281-338; Ead., Sur les charges africaines des frères Cn. Domitii Afri Titii Marcelli Curvii Lucanus et Tullus, in A. Mastino (a cura di), L’Africa Romana, IV, Sassari 1987, pp. 509-529; Ead., Le testament dit «de Dasumius»: testateur et bénéficiai1
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res, in C. Castillo (a cura di), Epigrafia juridica romana (Actas del Coloquio internacional AIEGL, Pamplona 911.4.1987), Pampelune 1989, pp. 159-174; Ead., La famille de l’empereur: pour de nouveaux ‘Mémoires d’Hadrien’, in J. Charles-Gaffiot, H. Lavagne (a cura di), Hadrien. Trésors d’une villa impériale (cat. della mostra, Paris 22.9-19.12.1999), Milano 1999, pp. 2736; F. Chausson, in G. Bonamente, H. Brand (a cura di), Historiae Augustae Colloquium Bambergense, Bari 2007, pp. 131-133. 25 F. Chausson, Deuil dynastique et topographie urbaine dans la Rome antonine, in N. Belayche (a cura di), Rome, les Césars et la Ville aux deux premiers siècles de notre ère, Rennes 2001, pp. 293-342 (specialmente 314-315); Liverani, in Il giardino antico, cit. supra, nota 18, pp. 88-90; J.-C. Grenier, L’Osiris ANTINOOS (Cahiers de l’ENIM I), Montpellier 2008, p. 44 (consultabile on-line: http://recherche.univ-montp3.fr/egyptologie/enim/index.php?page=cenim&n=1); cautele in F. Chausson, Annuaire – EPHE, SHP, 139, 2006-2007, pp. 96-97 (consultabile on-line: http://ashp.revues.org/index220.html). 26 Grenier, L’Osiris ANTINOOS, cit. a nota precedente. Esclusivamente per la sua storia moderna si veda D’Onofrio, Gli obelischi, cit. supra, nota 19, pp. 304305, 435-445. 27 Cfr. già J.-C. Grenier, MEFRA 98, 1986, pp. 222-225; Grenier, L’Osiris ANTINOOS, cit., pp. 8, 37-45. 28 K. Lehmann Hartleben – J. Lindros, Il Palazzo degli Horti Sallustiani, Acta Instituti Romani Regni Sueciae 4, 1935, pp. 196-227; F. Castagnoli, Gli Horti Sallustiani, in Gaio Sallustio Crispo, Opere (ed. Mariotti), Roma 1972, pp. 383-396; G. Cipriani, Horti Sallustiani, Roma 1982 (II ed.); B. Ferrini – S. Festuccia, Quirinale. Horti Sallustiani, BollArch 28-30, 1994 (1999), pp. 85-108; P. Innocenti – M.C. Leotta, s.v. Horti Sallustiani, in LTUR III, 1996, pp. 79-81; E. Talamo, Gli horti di Sallustio a Porta Collina, in Cima – La Rocca 1998, pp. 113-169; P. Innocenti – M.C. Leotta, Horti Sallustiani: le evidenze archeologiche e la topografia, BullCom CV, 2004, pp. 149-196; Liverani, in Il giardino antico, cit. supra, nota 18, pp. 91-92. 29 G. Botti – P. Romanelli, Le sculture del Museo Gregoriano Egizio, Città del Vaticano 1951, nn. 28, 31-33; J.-C. Grenier, Bollettino dei Monumenti, Musei e Gallerie Pontificie IX.1, 1989, pp. 21-33; Talamo, Gli Horti, cit. supra, nota 28, pp. 130, 142-143. 30 M. de Vos, in P.C. Bol (a cura di), Forschungen zur Villa Albani. Katalog der antiken Bildwerke IV, Berlin 1994, pp. 462-465, n. 546, tavv. 274-275; P. Liverani, Aegyptus 79.1-2, 1999, p. 58. 31 F. Poulsen, Catalogue of Ancient Sculpture in the Ny Carlsberg Glyptotek, Kjøbenhavn 1951, n. 187; J. Lund, in M. De Nuccio – L. Ungaro, I Marmi colorati dell’antica Roma (cat. della mostra, Roma 28.9.200219.1.2003), Venezia 2002, pp. 361-364, n. 65. 32 D’Onofrio, Gli obelischi, cit. supra, nota 19, pp. 355368; J.-C. Grenier, s.v. Obeliscus: horti Sallustiani, in LTUR III, 1996, p. 358. 33 Innocenti – Leotta, Horti Sallustiani: le evidenze, cit. supra, nota 28, pp. 181-183. 34 J.C. Grenier – F. Coarelli, La tombe d’Antinoüs à Rome, MEFRA 98, 1986, pp. 217-253. 35 M. Royo, voce Adonaea, in LTUR I, 1993, pp. 14-16; F. Chausson, MEFRA 107, 1995, 706-718. 36 Per la vasta bibliografia relativa alla questione cfr. la sintesi di M. Andreussi, Roma. Il Pomerio, Scienze dell’Antichità 2, 1988, pp. 219-234; per l’età imperiale P. Liverani, Porta Triumphalis, arcus Domitiani, templum Fortunae Reducis, arco di Portogallo, Atlante tematico di topografia antica 14, 2005, pp. 53-65; Id., Templa duo nova Spei et Fortunae in Campo Marzio, RendPontAcc LXXIX, 2006-2007, pp. 291-314; diversamente F. Coarelli, in Divus Vespasianus. Il bimillenario dei Flavi (cat. della mostra, Roma 27.3.200910.1.2010), Roma 2009, pp. 69-71, fig. 5, il quale però modifica sensibilmente sue precedenti posizioni, in-
cludendo monumenti che difficilmente potrebbero considerarsi all’interno del pomerio, quali i Saepta e l’Iseo Campense. 37 Attestata esplicitamente da Eutropio 8.5.2: Traianus (...) solus omnium intra urbem sepultus est («Il solo Traiano, tra tutti, è stato sepolto all’interno della città»). Di recente B. Gesemann, Zum Standort der Traianssäule, in Jahrbuch des Römisch-Germanischen Zentralmuseums Mainz 50, 2003, pp. 307-28 ha contestato questa fonte, ma senza forti argomenti, cfr. P. Liverani, RendPontAcc LXXIX, 2006-2007, p. 291, nota 2. 38 C. Paterna, voce Circus Varianus, in LTUR V, 1999, pp. 237-238. 39 Su scarsi fondamenti vi si è voluto riconoscere il sepolcro della gens Cornelia (M. Castelli, Dedica onoraria di età tiberiana a due membri della famiglia degli Scipioni, MEFRA 104, 1992, pp. 177-208; cfr. L. Chioffi, BullCom C, 1999, p. 52), ovvero il cenotafio di Cornelio Gallo (M. Verzar-Bass, in M. Cima – E. La Rocca [a cura di], Horti romani (Atti del convegno internazionale, Roma 4-6 maggio 1995), BullCom Suppl. 6, 1998, pp. 422-424. I dubbi relativi alla prima identificazione sono dovuti alle condizioni fortunose del rinvenimento che non permettono di escludere un caso di reimpiego – frequentissimo per i marmi in area vaticana a causa della costruzione della basilica rinascimentale. 40 P. Liverani, voce Terebintus – Tiburtinum Neronis (nelle fonti medioevali), in LTUR Sub V, 2008, pp. 137138. Il testo fondamentale da cui tutti gli altri dipendono è quello dei Mirabilia (§ 20: R. Valentini – G. Zucchetti, Codice topografico della città di Roma III, Roma 1946, pp. 45-46). 41 Ps.-Marcellus, redazione A, 63 (ed. Lipsius, p. 172); redazione B, 84a (ed. Lipsius, p. 216); versione latina 63 (ed. Lipsius, p. 173). 42 Ordo di Benedetto Canonico: processioni in vigilia Nativitatis Domini (Valentini – Zucchetti III, cit., p. 212) e in secunda feria (Ibid., p. 218). Non va confuso con l’obelisco del Circo di Caligola e Nerone, che all’epoca aveva preso il nome di Agulia o veniva interpretato come sepolcro di Giulio Cesare. 43 Per il teatro cfr. P. Liverani, Due note di topografia vaticana: il theatrum Neronis e i toponimi legati alla tomba di S. Pietro, RendPontAcc LXXIII, 2000-01, pp. 129-146; Id., voce Neronis theatrum, in LTUR Sub V, 2006, pp. 91-92. 44 F. Magi, Il Circo Vaticano in base alle sue più recenti scoperte, il suo obelisco e i suoi «carceres», RendPontAcc XLV, 1972-73, pp. 37-73. 45 Sulla problematica F. Castagnoli, Il Vaticano nell’età classica, Città del Vaticano 1992, pp. 37-64, 153-154; LIVERANI 1999, pp. 21-28, 131 scheda 57; Id., voce Gai et Neronis Circus, in LTUR Sub III, 2005, pp. 11-12. 46 LIVERANI 1999, scheda 76; diversa interpretazione in M. Cecchelli, S. Stefano Maggiore cata galla patricia, poi degli Abissini: appunti per una revisione del monumento, BullCom LXXXVIII, 1997, pp. 283-300. 47 Sepolcro J: LIVERANI 1999, scheda 19. 48 F. Castagnoli, Il Circo di Nerone in Vaticano, RendPontAcc XXXII, 1959-60, pp. 97-121 (ristampato in F. Castagnoli, Topografia antica. Un metodo di studio I. Roma, Roma 1993, pp. 549-571). 49 P. Liverani, La basilica di S. Pietro e l’orografia del colle Vaticano, in R. Harraither – Ph. Pergola – R. Pilliger – A. Pülz (a cura di), Frühes Christentum zwischen Rom und Konstantinopel (Akten des XIV. internationalen Kongresses für Christliche Archäologie – Wien 19.-26. 9. 1999), Wien-Città del Vaticano 2006, pp. 501-508, con le correzioni necessarie alla datazione della cupola apportate dal fondamentale lavoro di J. Niebaum, Die spätantiken Rotunden an Alt-St.-Peter in Rom, Marburger Jahrbuch für Kunstwissenschaft 34, 2007, pp. 101-161. 50 CIL XIII 1751. 51 CIL XIII 7281. 52 M.J. Vermaseren, Cybele and Attis, the Myths and
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the Cult, London 1977, pp. 45-51; LIVERANI 1999, pp. 28-32, 127-128, n. 51, 149, n. 72; Id. Il Phrygianum Vaticano, in B. Palma (a cura di), Testimonianze di culti orientali tra scavo e collezionismo (Atti del Convegno: Roma, 23-24 marzo 2006), Roma 2008, pp. 40-48. 53 Perist.10.1006-50; R. Duthoy, The Taurobolium. Its evolution and terminology, Leiden 1969; Vermaseren, cit. a nota precedente, pp. 101-107. 54 N. McLynn, The Fourth-Century «taurobolium», Phoenix 50.3-4, 1996, pp. 312-330. 55 LIVERANI 1999, pp. 20-21. 56 P. Liverani, L’agro Vaticano, in Ph. Pergola – R. Santangeli Valenzani – R. Volpe (a cura di), Suburbium. Dalla crisi del sistema delle ville a Gregorio Magno (Atti del convegno, École Française de Rome, 16-18 marzo 2000), Rome 2003, pp. 399-413. 57 LIVERANI 1999, scheda 75; ICUR II 4251, 4248, 4241, 4229, 4244, 4252, 4253, 4243. 58 F.W. Deichmann (a cura di), Repertorium der christlich-antiken Sarkophage I, Wiesbaden 1967, n. 52, 53. 59 Dölger, J.F. Dölger, Römische Quartalschrift XXIV, 1910, pp. 57ss. con ampia bibliografia; ICUR II, 4246; C. Wessel, Inscriptiones grecae christianae veteres Occidentis, Bari 1989, 390; G. Filippi, in Le iscrizioni dei cristiani in Vaticano, Città del Vaticano 1997, pp. 218220, n. 3.2.2. 60 C. Carletti, ICQUS ZWNGWN. Chiose a ICUR II 4246, Vetera Christianorum 36, 1999, pp. 15-30; più equilibrato D. Mazzoleni, in Petros eni – Pietro è qui. 500 anni della Basilica di S. Pietro (cat. della mostra, Città del Vaticano 11.10.2006-8.3.2007), Roma 2006, pp. 190-193, IV.8. 61 CIL VI 41341=32004, add. p. 3814 = ICUR 4164; AE 1953, 239; Deichmann, Repertorium, cit. supra, nota 58, pp. 279-283, n. 680, tavv. 104-105; B.M. Apolloni Ghetti – A. Ferrua – E. Josi – E. Kirschbaum, Esplorazioni sotto la confessione di San Pietro in Vaticano, Città del Vaticano 1951, pp. 220ss.; E. Josi, RendPontAcc XX, 1943-44, p. 9; G. Daltrop, Anpassung eines Relieffragmentes an den Deckel des Iunius Bassus Sarkophags, RendPontAcc LI-LII, 1978-80, pp. 157-170; E. Struthers Malbon, The Iconography of the Sarcophagus of Junius Bassus, Princeton 1990. 62 LIVERANI 1999, scheda n. 68. 63 LIVERANI 1999, scheda n. 60; M.J. Johnson, On the Burial Places of the Theodosian Dynasty, Byzantion 61, 1991, 334-339; F. Paolucci, La tomba dell’imperatrice Maria e altre sepolture di rango di età tardoantica a S. Pietro. CAPITOLO SECONDO R.F. Jones, Cremation and Inhumation-Change in the Third Century, in The Roman West and the Third Century, British Archaeological Reports 109, Oxford 1981, pp. 15-19; Koch, Sichtermann 1982, 27-30; Incinérations et inhumations dans l’Occident romain aux trois premiers siècles de notre ère (Colloque international Tolouse-Montréjeau 7-10 octobre 1987), Archeologia Paris 231, 1988. 2 In termini percentuali avremmo un 87% di incinerazioni e un 13% di inumazioni. 3 Qui erano previsti posti per circa 52 incinerati e 17 inumati. 4 Sono conservate circa 10 incinerazioni e 20 inumazioni. 5 Nella tomba 6 erano 8 olle per incinerati, 5 formae ed un arcosolio per inumati, per un totale di circa 21 deposizioni, in percentuale il 28% contro il 72%; nella 7 si contano 4 olle incinerati, 3 formae e 2 arcosolii su cui erano due casse per un totale di 14 inumati (29% contro 71%). 6 Va però ricordato che della muratura occidentale non si conserva un tratto di elevato sufficiente ad escludere la presenza di nicchie per incinerati, inoltre del lato di fondo rimane solo un piccolo tratto e delle pareti d’ingresso ed orientale poco più dello spiccato. 7 Cfr. infra pp. 124-126. 8 Cfr. la sintesi di PELLEGRINO 1999. 9 J. Scheid, Quand faire, c’est croire. Les rites sacrificiels des Romains, Aubier 2005, pp. 161-209. 10 Cicerone, Leggi 2.55, 57; Fest., (ed. Lindsay 1913) p. 296: porca Caereri immolatur. 11 Virgilio, Eneide III, v. 67, a proposito dei funerali di Anchise parla poeticamente di sangue. 1
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Tibullo, I, 3, 5; III, 2, 9. N. Belayche, La neuvaine funéraire à Rome, ou «la mort impossible», in L. Deschamps, in F. Hinard (a cura di), La mort au quotidien dans le monde romain (Actes du colloque, Paris 7-9 octobre 1993), Paris 1995, pp. 155-169. 14 Varrone, framm. 105 (ed. Riposati 1939; 19722); Nonio Marcello 549M definisce il ricinum: quod nunc mafurtium dicitur palliolum femineum breve. Cfr. L. Deschamps, in F. Hinard (a cura di), La mort au quotidien dans le monde romain (Actes du colloque, Paris 7-9 octobre 1993), Paris 1995, pp. 171-174. 15 Virgilio, Eneide V vv. 42-105. 16 Ovidio, Fasti II, vv. 533-638. 17 J. D’Arms, Journal of Roman Studies 90, 2000, pp. 135-141. 18 Cfr. anche le prescrizioni contenute in CIL VI 10248: Quodannis die natalis sui et / rosationis et violae et parentalib(us) / memoriam sui sacrifici(i)s quater in an/num factis celebrent («ogni anno i giorni del suo compleanno e delle feste delle rose e delle viole e nei parentalia venga celebrata la sua memoria facendo sacrifici quattro volte l’anno»). 19 In triclin(i)o quod est super sepulchrum. 20 C. Pietri, Roma Christiana. Recherches sur l’Eglise de Rome, son organisation, sa politique, son idéologie de Miltiades à Sixte II (311-440), I, Paris 1976, pp. 381389; R. Raccanelli, Cara Cognatio: la tradizione di una festa tra propinqui, Quaderni urbinati di cultura classica n.s. 53, 1996, pp. 27-57. 21 I. Bragantini, in ANGELUCCI ET ALII 1990, pp. 62-70. 22 Necropoli sotto la basilica: sepolcri O, T, U; necropoli della Galea: sepolcri 2 e 11; necropoli di Santa Rosa, colombari II, XVI e XXXV. 23 Cfr. supra nota 18. 24 Cfr. infra p. 240. Vedi anche l’ara cinerario n. 4 di Marcus Oppius Receptus nella necropoli dell’Autoparco. 25 PELLEGRINO 1999, pp. 18-19. 26 G. Sena Chiesa, Angera romana. Scavi nella necropoli 1970-1979, Roma 1985, II, pp. 487-518. 27 G. Parmeggiani, Voghenza, necropoli. Analisi di alcuni aspetti del rituale funerario, in Voghenza. Una necropoli di età romana nel territorio ferrarese, Ferrara 1985 (II ed.), pp. 203-219. 28 CIL II 2102: «ROGAMUS UT.. LUCERNA QUOTIDIANA (…) PONI». 29 CIL VI 30102: si tenga conto però che si tratta di una iscrizione in versi dove l’aspetto letterario è forse prevalente. 30 CIL VI 10248: «OMNIB(US) K(ALENDIS) / NONIS IDIBUS SUIS QUIBUSQ(UE) MENSIB(US) LUCERNA / LUCENS SIBI PONATUR INCENSO INPOSITO». 31 Si trattava rispettivamente del primo, quinto e undicesimo giorno del mese ovvero – a marzo, maggio, luglio e ottobre – del primo, settimo e tredicesimo. 32 Digesto XL.4.44. 33 Cfr. infra p. 187. 34 Cfr. infra p. 173. 35 Cfr. infra p. 101. 36 Cfr. infra p. 225. 37 Cfr. infra p. 173. 38 Cfr. infra p. 103. 39 H. Wrede, Consecratio in formam deorum, Mainz 1981; P. Zanker, Un’arte per l’impero. Funzione e intenzione delle immagini nel mondo romano, Milano 2002; P. Liverani, Tradurre in immagini, in F. e T. Hölscher (a cura di), Römische Bilderwelten. Von der Wirklichkeit zum Bild und zurück (Kolloquium der Gerda Henkel Stiftung am Deutschen Archäologischen Institut Rom 15.-17. März 2004), Heidelberg 2007, pp. 1326. 40 Cfr. infra p. 103. 41 Cfr. infra p. 265. 42 H.A. Marrou, Les portraits inachevés des sarcophages romains, Revue archéologique s. VI, XIV, lugliosett.1939, pp. 200-202; G. Bovini, I sarcofagi paleocristiani. Determinazione della loro cronologia mediante l’analisi dei ritratti, Città del Vaticano1949, pp. 78-79; J. Engemann, Untersuchungen zur Sepulkralsymbolik der späteren römischen Kaiserzeit, Jahrbuch für Antike und Christentum. Ergänzungsbände 2, 1973, pp. 7678; Koch, Sichtermann 1982, pp. 610-614; B. Andreae, Bossierte Porträts auf römischen Sarkophagen, Wissenschaftliche Zeitschrift der Humboldt-Universität zu Berlin. Gesellschafts- und sprachwissenschaftliche Reihe 31, 1982, pp. 137-138; Id., Bossierte Porträts auf rö12 13
mischen Sarkophagen. Ein ungelöstes Problem, Marburger Winckelmannsprogramm 1984, pp. 109-128; J. Deckers, Vom Denker zum Diener. Bemerkungen zu den Folgen der konstantinischen Wende im Spiegel der Sarkophagplastik, in B. Brenk (a cura di), Innovation in der Spätantike (Kolloquium Basel 6. und 7. Mai 1994), Wiesbaden 1996, pp. 137ss., specie 143 con nota 15; J. Huskinson, Unfinished portrait heads on later Roman sarcophagi. Some new perspectives, Papers of the British School at Rome 66, 1998, pp. 129-158. 43 DEICHMANN 1967, p. 39, n. 43. Cfr. per la produzione cristiana di età costantiniana le osservazioni di G. Koch, Produktion auf Vorrat oder Anfertigung auf besonderen Auftrag? Überlegungen zu stadtrömischen frühchristlichen Sarkophagen der vorkonstantinischen und konstantinischen Zeit, in Antike Porträts. Zum Gedächtnis von Helga von Heintze, Möhnesee 1999, pp. 303-316. 44 S. Walker, The Sarcophagus of Maconiana Severiana, Roman Funerary Monuments in the J. Paul Getty Museum (Occasional Papers on Antiquities, 6), Malibu 1990, pp. 83-94. 45 Matteo 22.20-21: T6noı • e5kÁn au^th ka5 ⁄ §pigraf« (nella vulgata imago et suprascriptio). 46 Paolino di Nola, Epistola XXXII, 2-3. 47 Paolino di Nola, Epistola XXX. 48 Paolino di Nola, Epistola XXXII, 3 Martinum veneranda viri testatur imago / altera Paulinum forma refert humilem. 49 H. Belting, Il culto delle immagini. Storia dell’icona dall’età imperiale al tardo Medioevo, Roma 2001, p. 122 sembra fraintendere il significato del passo quando legge l’opposizione homo coelestis / terrestris di Paolino come riflesso neoplatonico, piuttosto che come eco di san Paolo, I Lettera ai Corinzi, 15.49. 50 B. Andreae, in Opus Nobile. Festschrift zum 60. Geburtstag von Ulf Jantzen, Wiesbaden 1969, p. 6. 51 DEICHMANN 1967, p. 72, n. 87, tav. 28 (dal cimitero di Pretestato); anche l’iscrizione ricorda solo il nome dell’uomo tacendo l’identità della donna: ICUR V, 13901, DEPOS(ITUS) <F>L(AVIUS) FAUSTINUS III IDUS AUG(STAS) CONST/AN<T>IO AUG(USTO) G <ET> C<O>NSTANTIO II CON/SS(ULIBUS) IN PACE. 52 DEICHMANN 1967, pp. 319-320, n. 772, tav. 12.2; primo terzo del IV secolo. 53 CIL VI 3558: «L PULLIO PEREGRINO C(ENTURIONI) LEGION(IS) / DEPUTATO QUI VIX(IT) ANN(IS) XXVIIII / MENS(IBUS) III DIE(BUS) I HOR(IS) I S(EMIS) / EQ(UITI) ROM(ANI)». M. Wegner, Die Musensarkophage (Die antiken Sarkophagreliefs V, 3), Berlin 1966, p. 133, tav. 60; K. Fittschen, Gnomon 44, 1972, p. 493; Koch, Sichtermann 1982, pp. 200, 204, fig. 264; G. Koch, Sarkophage der römischen Kaiserzeit, Darmstadt 1993, fig. 50. 54 Cfr. infra p. 217. 55 Per limitarsi all’Italia cfr. PELLEGRINO 1999, pp. 2021; Id., in HEINZELMANN, ORTALLI, WITTERER 2001, p. 125; F. Ceci. L’interpretazione di monete e chiodi in contesti funerari: esempi dal suburbio romano, Ibid., pp. 87-97; J. Ortalli, Ibid., pp. 236-237; L. Passi Pitcher (a cura di), Sub ascia. Una necropoli romana a Nave, Modena 1987, p. 25; F. Taglietti, in ANGELUCCI ET ALII 1990, pp. 74-75; cfr. anche J. Prieur, La mort dans l’antiquité romain, Paris 1986, pp. 29-35. 56 In ambito romano cfr. SINN 1978, p. 95, nn. 17 e 18; in Spagna P. Rodriguez Oliva, Talleres locales de urnas cinerarias de sarcofagos en la Provincia Hispania Ulterior Baetica, in D. Vaquerizo (a cura di), Espacio y usos funerarios en el Occidente Romano I, Córdoba 2002, pp. 259-285. 57 M. Harari, in G. Sena Chiesa (a cura di), Angera romana. Scavi nella necropoli 1970-1979, Roma 1985, I, p. 34; C. Morselli, in ANGELUCCI ET ALII 1990, pp. 55, 57; F. Taglietti, Ibid., p. 85. 58 SINN 1978, pp. 62-63, 175, nn. 341-344. 59 M. Buora, Urne e pseudourne a cista aquileiesi, Aquileia Nostra 53, 1982, pp. 189-216; L. Bertacchi, Urna cineraria di recente rinvenimento, Aquileia Nostra 53, 1982, pp. 217-228. Già G. Brusin, Aquileia, guida storica e artistica, Udine 1929, p. 57 ipotizzava che tali esempi presupponessero reali urne di vimini. 60 B. Päffgen, Die Ausgrabungen in St. Severin zu Köln, Mainz a. Rh. 1992, Kölner Forschungen 5, I, pp. 36, 45, 72 e nota 8; p. 112; G.R. Burleigh, Some aspects of burial types in the cemeteries of the Romano-British settlement at Baldock Herfordshire, Engl., in M. Struck (a cura di), Römerzeitliche Gräber als Quellen zu Reli-
gion, Bevölkerungsstruktur und Sozialgeschichte, Archäologische Schriften / Universität Mainz 3, 1993, p. 43; M. Feugère, L’évolution du mobilier non céramique dans les sépultures antiques de Gaule méridionale, Ibid., p. 126. 61 Cfr. anche Päffgen, cit. a nota precedente, 62 C. Marselli, in Angelucci et alii 1990 p. 57. CAPITOLO TERZO A.A. De Marco, The Tomb of St. Peter. A Representative and Annotated Bibliography of the Excavations, Leiden 1964. 2 Cfr. capitolo precedente, supra p. 18. 3 F. Magi, Un nuovo mausoleo presso il Circo Neroniano e altri minori scoperte, Rivista di Archeologia Cristiana 42, 1966, pp. 207-226; LIVERANI 1999, pp. 111113, scheda 39. 4 CIL VI 14897, add. p. 3516; LIVERANI 1999, p. 110, scheda 38. 5 Cfr. capitolo precedente, supra p. 13. 6 Cfr. capitolo precedente, supra p. 18. 7 LIVERANI 1999, p. 41. 8 Tacito, Annali 15.44.4-5: «Per primi furono arrestati coloro che facevano aperta confessione di tale credenza, poi su denuncia di questi ne fu arrestata una gran moltitudine non tanto perché accusati di aver procurato l’incendio, ma perché si ritenevano accesi d’odio contro il genere umano. Quelli che andavano a morire erano anche esposti alle beffe: coperti di pelle ferine, morivano dilaniati dai cani, oppure erano crocifissi, o arsi vivi a mo’ di torce che servivano a illuminare le tenebre, quando il sole era tramontato. Nerone aveva offerto i suoi giardini per godere di tale spettacolo, mentre egli bandiva i giochi nel circo e in veste di auriga si mescolava al popoli o stava ritto sul cocchio. Perciò, per quanto quei supplizi fossero contro gente colpevole e che meritava tali originali tormenti, pure si generava verso di loro un senso di pietà perché erano sacrificati non al comune vantaggio, ma alla crudeltà di un principe» (trad. B. Ceva). 9 La crocifissione è già adombrata nel vangelo di Giovanni 21,18-19, quando Cristo profetizza a Pietro: «Quando eri più giovane ti cingevi la veste da solo e andavi dove volevi, ma quando sarai vecchio tenderai le tue mani e un altro ti cingerà la veste e ti porterà dove tu non vuoi. Questo gli disse per indicare con quale morte egli avrebbe glorificato Dio» (trad. CEI). Già Tertulliano, Scorpiace 15,3 interpreta in questo modo il brano: che vi sia un allusione al tipo di morte subita è indicato esplicitamente e dunque lo stendere le mani deve alludere alla posizione sulla croce. La morte di Pietro durante la persecuzione neroniana è testimoniata anche dalla Prima lettera di Clemente 5,3-6,2, dove al martirio di Pietro e Paolo è «associata una gran schiera di eletti, i quali soffrendo per invidia molti oltraggi e torture, furono di bellissimo esempio tra noi», espressione che diventa più chiara quando si tiene conto che Clemente scrive a Roma attorno al 96. Per l’analisi completa dei testi che alludono alla morte a Roma di Pietro cfr. recentemente R. Pesch, Simon Pietro. Storia e importanza storica del primo discepolo di Gesù Cristo, Brescia 2008, pp. 195-229 (ed. originale: Simon-Petrus. Geschichte und geschichtliche Bedeutung des ersten Jüngers Jesu Christi, Stuttgart 1980); J. Gnilka, Pietro e Roma. La figura di Pietro nei primi due secoli, Brescia 2003, pp. 103-130 con bibliografia (ed. originale: Petrus und Rom. Das Petrusbild in den ersten zwei Jahrhunderten, Freiburg i.B. 2002). 10 Gli uomini illustri V. 11 Storia Ecclesiastica 2.25.7: «Io sono in grado di mostrare i trofei degli apostoli; andando infatti al Vaticano o lungo la via Ostiense, vi troverai i trofei di quelli che hanno fondato questa chiesa» (trad. S. Borzì). 12 Esplorazioni 1951, pp. 107-131; PRANDI 1963, pp. 380-447. 13 Cinque esemplari del bollo CIL XV 401, databile al periodo 146-161 d.C., rinvenuti sui bipedali di copertura di una fogna sottostante al vialetto: Esplorazioni 1951, pp. 102-104; PRANDI 1963, p. 361. 14 CIL XVI 1237: PRANDI 1963, pp. 428-431 (tomba 8). 15 CIL XV 1120a: PRANDI 1963, pp. 348-353 (tomba 3), fig. 60 (con errore di stampa nella didascalia). 16 M. Guarducci, I graffiti sotto la confessione di S. Pietro in Vaticano, Città del Vaticano 1958; GUARDUCCI 1959; Ead., La tomba di S. Pietro, Roma 1989. 1
17 La più facile integrazione è P4tr[oı] / §n %[r•n¿] «Pietro (riposa) in pace» come ipotizzano J. Carcopino, Étude d’histoire chrétienne: le christianisme secret du carré magique: les fouilles de Saint-Pierre et la tradition, Paris 1953, p. 281, e A. Ferrua, Civiltà Cattolica 141, 1990, p. 465, nota 7 (ristampato in Scritti vari di epigrafia e antichità cristiana, Bari 1991, p. 357, n. 7). Cfr. anche D. Mazzoleni, in Petros eni – Pietro è qui. 500 anni della Basilica di S. Pietro (cat. della mostra, Città del Vaticano 11.10.2006-8.3.2007), Roma 2006, pp. 236, scheda VI.6. 18 P. Silvan, From the Tomb to the Dome. The Architectural Evolution of the «Memorial» to the Apostle Peter, in Vatican Treasures. 2000 Years of Art and Culture in the Vatican and Italy (cat. della mostra, Denver 1993), Milano 1993, pp. 27-31; Id., Le radici della chiesa romana. L’evoluzione della Memoria Petrina, in G. Rocchi Coopmans de Yoldi (a cura di), San Pietro. Arte e Storia nella Basilica Vaticana, Bergamo 1996, pp. 1729. 19 G. Filippi, La tomba di S. Paolo e le fasi della Basilica tra il IV e il VII secolo. Primi risultati di indagini archeologiche e ricerche d’archivio, Bollettino dei Monumenti, Musei e Gallerie Pontificie 24, 2004, pp. 187-224; H. Brandenburg, Die Architektur der Basilika San Paolo fuori le mura. Das Apostelgrab als Zentrum der Liturgie und des Märtyrerkultes, Mitteilungen des Deutschen Archäologischen Instituts, Römische Abteilung 112, 2005-2006, pp. 237-275; G. Filippi, Die Ergebnisse der neuen Ausgrabungen am Grab des Apostels Paulus. Reliquienkult und Eucharistie im Presbyterium der Paulsbasilika, Ibid., pp. 277-292; Id., La tomba di San Paolo alla luce delle recenti scoperte, in G. Azzopardi (a cura di), Il culto di San Paolo nelle chiese cristiane e nella tradizione maltese, Atti simposio int. Malta 2627.6.2006, s.l. 2006, pp. 3-12, tavv. alle pp. 99-106; Id., Nuovi documenti sui lavori del 1838 nella vecchia Confessione, BMusPont 25, 2006, pp. 87-95; Id., Recenti ricerche nella Basilica di San Paolo fuori le mura, in M. De Matteis – A. Trinchese (a cura di), Il complesso basilicale di Cimitile. Patrimonio culturale dell’umanità? Der basilikale Komplex in Cimitile. Ein Weltkulturerbe?, Oberhausen 2007, pp. 123-137; Id., La tomba di San Paolo. I dati archeologici del 2006 e il taccuino Moreschi del 1850, BMusPont 26, 2007-2008, pp. 321352; H. Brandenburg, La basilica teodosiana di S. Paolo fuori le mura: articolazione, decorazione, funzione, in U. Utro (a cura di), San Paolo in Vaticano. La figura e la parola dell’Apostolo delle Genti nelle raccolte pontificie (cat. della mostra, Città del Vaticano 26.627.9.2009), Todi 2009, pp. 13-27; G. Filippi, Un decennio di ricerche e studi nella basilica ostiense, Ibid., pp. 29-43. 20 Annuncio di papa Benedetto XV del 29 giugno 2009; cfr. G. De Rosa S.J., Il sarcofago di S. Paolo e la sua più antica immagine, in La Civiltà Cattolica, 160, n. 3822, pp. 522-525. I resti sono stati datati al I-II secolo d.C. mediante l’esame al Carbonio 14. 21 Esplorazioni 1951; J. Ruysschaert, Réflexions sur le fouilles vaticanes, le rapport officiel e la critique. Données archéologiques, Revue d’histoire ecclésiastique, XLVIII, 1953, pp. 573-631; Id., J. Ruysschaert, Réflexions sur le fouilles vaticanes, le rapport officiel e la critique. Données épigraphiques et littéraires, Revue d’histoire ecclésiastique, XLIX, 1954, pp. 5-58; Guarducci 1953; TOYNBEE – WARD PERKINS 1956; T. Klauser, Die römische Petrustradition im Lichte der neuen Ausgrabungen unter der Peterskirche, Köln-Opladen 1956; E. Kirschbaum, Die Gräber der Apostelfürsten, Frankfurt a.M. 1957 (III ed. 1974); J. Ruysschaert, Recherches et études autour de la confession de la basilique vaticane 1940-1958. État de la question et bibliographie, in Triplice omaggio a Pio XII, II, Città del Vaticano 1958, pp. 3-47; Guarducci, I graffiti, cit. supra, nota 16; Guarducci 1959; PRANDI 1963; J. Ruysschaert, La tomba di Pietro. Considerazioni archeologiche e storiche, Studi Romani 15, 1967, pp. 268-276; D. O’Connor, Peter in Rome. The Literary, Liturgical and Archaeological Evidence, New York-London 1969; J. Ruysschaert, La tomba di Pietro. Nuove considerazioni archeologiche e storiche, Studi Romani 24, 1976, pp. 322-330; M. Guarducci, La tomba di S. Pietro, Roma 1989; A. Ferrua, La tomba di S. Pietro, in Scritti vari di epigrafia e antichità cristiane, Bari 1991, pp. 352-35; L. Reekmans, Bemerkungen zum Petrusgrab unter der Konstantinischen Basilika am Vatikan, Boreas 20, 1997, pp. 49-82; THÜMMEL 1999. È interessante e importante
osservare che le differenze tra le opinioni degli studiosi non sono direttamente legate alla confessione religiosa di appartenenza. 22 L’ultima monografia dedicata al problema (THÜMMEL 1999) compie un esame dettagliatissimo della pubblicazione dello scavo (Esplorazioni 1951; PRANDI 1963) e rileva differenze tra la documentazione grafica, quella fotografica e le descrizioni del campo P e del trofeo di Gaio, deducendone l’inaffidabilità e ritenendo che la documentazione sia stata ricostruita a posteriori. Benché la conduzione degli scavi non sia stata sempre chiara e lineare, tali osservazioni avrebbero bisogno di una verifica altrettanto puntuale sui resti conservati, cosa che l’autore considera a priori impossibile, ma che soprattutto non poteva materialmente compiere al momento della redazione dello studio, poiché non aveva la possibilità di uscire dalla allora Repubblica Democratica Tedesca. Thümmel propone una ricostruzione totalmente ipotetica, dunque non meglio fondata di quella che contesta, ma d’altra parte non nega la possibilità che l’apostolo fosse stato sepolto in quest’area anche se non precisamente sotto il trofeo di Gaio. Altri infine hanno proposto che il trofeo segnasse il luogo del martirio e non la sepoltura (Cullmann 1965, pp. 207, 212-213), ma sembra ipotesi più difficilmente difendibile. 23 Il culto dei due apostoli ad catacumbas è testimoniato dalla Depositio Martyrum, Monumenta Germaniae Historica, Auctores Antiquissimi IX.1 (1892), p. 71, rr. 14-16: Mense Iunio: III Kal. Jul. Petri in catacumbas et Pauli Ostense, Tusco et Basso cons., ossia: «29 giugno: [festività] di Pietro presso le Catacombe e di Paolo sulla via Ostiense. Sotto il consolato di Tusco e Basso (258 d.C.)». Si osservi che tale Depositio Martyrum, viene solitamente datata verso il 336 (L. Duchesne, Le Liber Pontificalis. Texte, introduction et commentaire, I, Rome 1886, pp. VI-VII; H. Stern, Le calendrier de 354, Paris 1961, p. 44) perché considerata complementare alla Depositio episcoporum, opera trasmessa insieme alla prima nella miscellnea di testi che costituisce il Cronografo del 354 e che può essere datata a quest’epoca. Tuttavia presa di per sé la Depositio Martyrum non ha alcun elemento interno che impedisca di datarla in un momento più precoce, ad esempio negli anni ’20 del IV secolo: cfr. R. Krautheimer, in Römisches Jahrbuch für Kunstgeschichte 25, 1989, pp. 18-20. 24 P. Styger, Gli Apostoli Pietro e Paolo in Catacumbas, Römische Quartalschrift 29, 1915, pp. 149-205; A. Prandi, La Memoria Apostolorum in Catacumbas, Città del Vaticano 1936; A. Ferrua, Rileggendo i graffiti di S. Sebastiano, La Civiltà Cattolica 116.3, 1965, pp. 428-437, 116.4, pp. 134-141 (ristampato in Scritti vari di epigrafia e antichità cristiane, Bari 1990, pp. 297314); M. Guarducci, Pietro e Paolo sulla via Appia e la tomba di Pietro in Vaticano, Città del Vaticano 1983; A. Ferrua, San Sebastiano, Città del Vaticano 1990; THÜMMEL 1999, pp. 73-95. A questo si aggiungono due ulteriori elementi: un’iscrizione (ICUR V 13273) di papa Damaso (366-384) sostiene che in epoca anteriore Pietro e Paolo avrebbero «abitato» presso il santuario sull’Appia, termine che è stato interpretato in maniera figurata come allusione a una loro sepoltura temporanea. Inoltre, secondo una tradizione tarda, testimoniata nel VI secolo dagli atti apocrifi dello PseudoMarcello 66 (ed. Lipsius, pp. 174-176), per un breve periodo i corpi degli apostoli sarebbero stato ospitati in questo luogo. L’ipotesi di una traslazione ebbe una certa fortuna a partire da H. Lietzmann (Petrus un Paulus in Rom: liturgische und archäologische Studien, Bonn 1915), ma più recentemente è stata generalmente abbandonata a seguito del fatto che gli scavi dell’area di culto a san Sebastiano – ormai completati – non hanno identificato nessuna struttura che possa essere interpretata come tomba e dunque si è pensato al solo trasferimento del culto causato dalle persecuzioni di Valeriano. Si vedano però anche le considerazioni alla fine del presente capitolo. 25 Reekmans, Bemerkungen zum Petrusgrab, cit. supra, nota 21. 26 S. Heid, The Romaness of Roman Christianity, in J. Rüpke, A Companion of Roman Religion, Oxford 2007, pp. 406-426, specie pp. 410-411. Ringrazio l’autore che mi ha gentilmente messo al corrente anche di ulteriori sviluppi della sua ricerca ancora inediti. 27 Ignazio di Antiochia, Lettera ai Romani. 28 Cfr. già in questo senso Cullmann 1965, p. 190. 29 CULLMANN 1965, pp. 91-213; Pesch, Simon Pietro,
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cit. supra, nota 9; Gnilka, Pietro e Roma, cit. supra, nota 9. L’eccezione è costituita dalla posizione radicalmente e pregiudizialmente negativa su tutta la questione di O. Zwierlein, Petrus in Rom. Die literarischen Zeugnisse (Untersuchungen zur antiken Literatur und Geschichte 96), Berlin – New York 2009, che non è questo il luogo di discutere in quanto richiederebbe un saggio appositamente dedicato. Per quanto di competenza, si osservi che l’autore in questione dedica poco più di tre pagine (su 476) agli scavi archeologici senza mai riferirsi le edizioni originali di scavo, ma solo sulla base di letteratura secondaria, unicamente di lingua tedesca e ferma agli anni ’50 del secolo scorso. 30 H. von Hesberg – S. Panciera, Das Mausoleum des Augustus. Der Bau und seine Inschriften, Bayerische Akademie der Wissenschaften. Philosophisch-Historische Klasse. Abhandlungen. Neue Folge, 108, München, 1994; H. von Hesberg, Mausoleum Augusti: das Monument, in LTUR III, 1996, pp. 234-237. 31 P. Liverani, Aelii Hadriani Sepulcrum, in LTUR I, 2001, pp. 15-19. 32 LIVERANI 1999, pp. 142-143, nota 2. 33 LIVERANI 1999, pp. 139-140. 34 Esplorazioni 1951, pp. 221-222; CIL VI 32004=41341, add. p. 3814; F.W. Deichmann (a cura di), Repertorium der christlich-antiken Sarkophage I, Wiesbaden 1967, pp. 279-283, n. 680, tavv. 104-105. Altri frammenti del coperchio furono rinvenuti nel 1940-43 e riconosciuti in due tempi dagli editori di Esplorazioni 1951 (pp. 220ss.; E. Josi, Rendiconti della Pontificia Accademia Romana di Archeologia XX, 1943-44, p. 9) e da G. Daltrop (Anpassung eines Relieffragmentes an den Deckel des Iunius Bassus Sarkophags, Rendiconti della Pontificia Accademia Romana di Archeologia LILII, 1978-80, pp. 157-170); E. Struthers Malbon, The Iconography of the Sarcophagus of Junius Bassus, Princeton 1990; J. Dresken-Weiland, Sarkophagbestattungen des 4.-6. Jahrhunderts im Westen des römischen Reiches, Römische Quartalschrift, 55. Supplementband, 2003, p. 372, Kat. E 5. Il sarcofago è oggi esposto nel museo all’ingresso del percorso di visita della necropoli nelle Grotte vaticane, mentre un calco si trova sia nel Museo Pio Cristiano dei Musei Vaticani, che nel Museo della Civiltà Romana. 35 A.H.M. Jones – J.R. Martindale – J. Morris, The prosopography of the later Roman Empire, 1, A.D. 260395, Cambridge 1971, p. 155 Iunius Bassus signo Theotecnius 15. 36 B. Nobiloni, Le colonne vitinee della basilica di S. Pietro a Roma, Xenia antiqua 6, 1997, pp. 81-142. 37 P. Liverani, Costantino offre il modello della basilica sull’arco trionfale, in M. Andaloro (a cura di), La pittura medievale a Roma. 312-1431. L’Orizzonte tardoantico e le nuove immagini, 312-468. Corpus I, Milano 2006, pp. 90-91, n. 2b; F.R. Moretti, La traditio legis nell’abside, Ibid., pp. 87-90; P. Liverani, Saint Peter’s, Leo the Great and the leprosy of Constantine, Papers of the British School at Rome LXXVI, 2008, pp. 155-172. 38 T.F. Mathews, The Clash of Gods. A Reinterpretation of Early Christian Art, Princeton 1993, pp. 12-22 (trad. italiana: Scontro di Dei. Una reinterpretazione dell’arte paleocristiana, Milano 2005, pp. 19-33); J.-M. Spieser, The Representation of Christ in the Apses of Early Christian Churches, Gesta 37.1, 1998, pp. 63-73 (specie p. 66). 39 MIELSCH – VON HESBERG 1986, pp. 9-10, tav. 1. 40 ECK 1996, p. 257. 41 MIELSCH – VON HESBERG 1996, p. 275. 42 TOYNBEE – WARD PERKINS, pp. 37-44; MIELSCH – VON HESBERG 1986, pp. 11-38, tavv. 1b-4; FERAUDIGRUÉNAIS 2001b, pp. 46-48, K 13. 43 PAPI 2000-2001, pp. 250-252, n. 5. 44 MIELSCH – VON HESBERG 1996, pp. 259-274, tavv. 33-35; FERAUDI-GRUÉNAIS 2001b, p. 62, K 25. 45 P. Liverani, in A. Donati (a cura di), Romana Pictura. La pittura romana dalle origini all’età bizantina (cat. della mostra, Rimini 28.3-30.8.1998; Genova 16.10.1998-10.1.1999), Milano 1998, p. 289, n. 60, fig. 60. 46 R. Santolini Giordani, Ibid., p. 290, n. 63, fig. 63; FERAUDI-GRUÉNAIS 2001b, pp. 63-65, K 26. 47 M. De Vos, in Gli Orti farnesiani sul Palatino (Conv. Int., Roma 28-30 novembre 1985), Roma 1990 (Roma antica, 2), pp. 173-176, fig. 9; S. Miranda, Francesco Bianchini e lo scavo farnesiano del Palatino (17201729), Milano 2000, pp. 225-226, n. 18.4; figg. 96, 110.
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H. Mielsch, Römische Wandmalerei, Darmstadt 2001, p. 159 fig. 186. 49 MIELSCH – VON HESBERG 1986, pp. 39-59, tavv. 56a; FERAUDI-GRUÉNAIS 2001b, p. 48, K 14. 50 AE 1987, 154. 51 FERAUDI-GRUÉNAIS 2001b, p. 48, nota 272, n. 2. 52 D(IS) M(ANIBUS) / TULLIA SECUNDA / FILIA HIC SITA / EST / PASSULENAE SECU/NDINAE MATER / CESSIT, FERAUDI-GRUÉNAIS 2001b, p. 48, nota 272, n. 1. 53 AE 1987, 148; ECK 1996, p. 253. 54 Si veda per esempio l’iscrizione apposta da Quintus Marcius Hermes sul suo sarcofago nella tomba f. Si potrebbe pensare che l’iscrizione fosse integrata da qualche elemento solo dipinto con una formula che specificasse la condizione vivente. 55 MIELSCH – VON HESBERG 1986, pp. 61-66, tavv. 6b7. 56 CIL XV 192. 57 MIELSCH – VON HESBERG 1996, pp. 235-255; FERAUDI-GRUÉNAIS 2001b, pp. 59-62, K 24. 58 H.P. L’Orange, Likeness and Icon. Selected Studies in Classical and Early Mediaeval Art, Odense 1973, 178180; TOYNBEE – WARD PERKINS, pp. 71-72; K. Werner, Mosaiken aus Rom. Polychrome Mosaikpavimente und Emblemata aus Rom und Umgebung, (diss.) Würzburg 1994, pp. 172-173 K 73. 59 A. Ahlqvist, Cristo e l’imperatore romano. I valori simbolici del nimbo, Acta ad archaeologiam et artium historiam pertinentia 15, 2001, pp. 207-227. 60 AE 1987, 160; F. Matz, Die antiken Sarkophagreliefs 4. Die dionysischen Sarkophage, IV.4, Berlin 1975, p. 479, n. 306, tavv. 320-321, 323: età di Alessandro Severo (222-235). 61 M.C. Parra, in Mélanges de l’École française de Rome. Antiquité 90, 1978, pp. 822-825. 62 MIELSCH – VON HESBERG 1996, pp. 71-91; FERAUDIGRUÉNAIS 2001b, p. 49, K 15. 63 AE 1945, 134; ECK 1996, p. 233; FERAUDI-GRUÉNAIS 2001a, p. 205, K 15, fig. 2. 64 Sui pappagalli in contesto funerario cfr. J.S. Østergaard, Avium Gloria – parakitter på et byromersk askealter, in M.S. Christensen (a cura di), Hvad tales her om? – 46 artikler om græske-romersk kultur. Festskrift til Johnny Christensen, Kjøbenhavn 1996, 159-168. 65 Stat., Silv. 2.6.92. Altre fonti non sono sempre attribuibili con certezza all’ambito funerario: cfr. CIL VI, 5306: hydriam onychinam; SHA, Heliog. 32.2: Onichina vasa. 66 TOYNBEE – WARD PERKINS, pp. 44-51; MIELSCH – VON HESBERG 1996, pp. 93-121; FERAUDI-GRUÉNAIS 2001b, pp. 49-50, K 16; ZANDER 2007, pp. 66-73. 67 G. Koch – H. Sichtermann, Römische Sarkophage, München 1982, p. 196. 68 CIL XV 1684. 69 AE 1987, 148; ECK 1996, p. 232. 70 Cfr. supra nota 52. 71 AE 1987, 149; SINN 1987, p. 222, n. 537, tav. 80b. 72 AE 1987, 150. 73 AE 1987, 151; SINN 1987, p. 220, n. 533. 74 AE 1987, 108; PAPI 2000-2001, pp. 252-256, n. 6.I. 75 AE 1987, 109. 76 AE 1987, 155; PAPI 2000-2001, pp. 252-256, n. 6.II. 77 AE 1987, 153; FERAUDI-GRUÉNAIS 2001a, p. 205, K 16, fig. 3. 78 ECK 1986, 233, 236, 248-251, n. 4; FERAUDI-GRUÉNAIS 2001a, p. 205, K 16, fig. 4. 79 AE 1987, 156; PAPI 2000-2001, pp. 256-257, n. 7, fig. 10: ANIMA DULCIS / GORGONIA // MIRE ISPECIE ET CASTITATI / EIUS, AEMILI(A)E GORGONIAE, QU(A)E / VIXIT ANN(IS) XXVIII, MENS(IBUS) II, D(IEBUS) XXVIII // DORMIT IN PACE. / CONIUGI DULCISSIM(AE) / FECI. 80 TOYNBEE – WARD PERKINS 1956, pp. 51-57; MIELSCH – VON HESBERG 1996, pp. 225-233, tavv. 26b-28, 39; FERAUDI-GRUÉNAIS 2001b, pp. 58-59, K 23; ZANDER 2007, pp. 36-38. 81 La parete d’ingresso, a causa della presenza della porta, non aveva spazio sufficiente per gli arcosolii. 82 M. De Vos, L’egittomania in pitture e mosaici romano-campani della prima età imperiale (EPRO 84), Leiden 1980, 9-12, n. 4, tav. B; 15-21, n. 9, tavv. XII-XIII. 83 R. Paris, scheda Le tarsie di Giunio Basso, in M.R. Di Mino – M. Bertinetti (a cura di), Archeologia a Roma. La materia e la tecnica nell’arte antica (cat. della mostra, Roma aprile-dicembre 1990), Roma 1990, 147150, nn. 122-123, fig. 122, tav. XVII. 84 F. Matz, Die antiken Sarkophagreliefs, Die dionysischen Sarkophage, IV.2, Berlin 1968, pp. 298-300, n. 48
159 (170-180 d.C.); P. Kranz, in Bullettino della Commissione archeologica comunale di Roma 84, 1974-75, p. 191 (inizi III secolo). Per un secondo sarcofago dionisiaco trovato nella tomba cfr. Matz., Die antiken Sarkophagreliefs, cit., IV.4 (1975), p. 481, n. 306, tavv. 322.1, 324.3, 325. 85 A. Ferrua, in Bullettino della Commissione archeologica comunale di Roma, 70, 1942, p. 104; TOYNBEE – WARD PERKINS 1956, p. 57; ZANDER 2007, p. 38. 86 MIELSCH – VON HESBERG 1996, pp. 123-142, tavv. 17-20; FERAUDI-GRUÉNAIS 2001b, pp. 50-51, K 17. 87 CIL XV, 293: H. Mielsch, RendPontAcc XLVI, 1973-74, pp. 79-82; H. Mielsch, Römische Stuckreliefs, RM 21. Ergh. 1975, pp. 164-165, K 101; MIELSCH – VON HESBERG 1996, pp. 123-142; ECK 1996, p. 254. 88 GUARDUCCI 1953; TOYNBEE – WARD PERKINS 1956, pp. 14-17, 78-79, 82-88; ECK 1986; Id., Iscrizioni sepolcrali romane. Intenzione e capacità di messaggio nel contesto funerario, in ECK 1996, pp. 233-234; MIELSCH – VON HESBERG 1996, pp. 143-208; PAPI 2000-2001, pp. 239-245, nn. 1-2; FERAUDI-GRUÉNAIS 2001b, pp. 51-53, K 18; CALIÒ 2007; ZANDER 2007, pp. 76-92. 89 C(AIUS) VALERIUS HERMA FECIT [SIBI] ET / FLAVIAE T(ITI) F(ILIAE) OLYMPIADI CONIUGI ET / VALERIAE MAXIMAE FILIAE ET C(AIO) VALERIO / OLYMPIANO FILIO ET SUIS LIBERTIS / LIBERTABUSQUE POSTERIQ(UE) EORUM. 90 TOYNBEE – WARD PERKINS 1956, p. 40 ritengono piuttosto che si tratti di un accesso dal terrazzamento superiore che si addossava a nord della fila di tombe. 91 CIL XV 780; GUARDUCCI 1953, p. 82 nota 22; ECK 1996, p. 254. 92 La lastra di chiusura del loculo fu smontata dagli operai costantiniani quando fu costruito il muro che attraversava il sepolcro e reimpiegata nel campo P per la cassa della sepoltura e (Esplorazioni 1951, pp. 113114, fig. 83; TOYNBEE – WARD PERKINS 1956, p. 101, nota 59). 93 ECK 1996, pp. 254-256. 94 Per la data della basilica cfr. R. Krautheimer, The Building Inscriptions and the Dates of Construction of Old St. Peter’s. A Reconsideration, Römisches Jahrbuch für Kunstgeschichte 25, 1989, pp. 3-22; P. Liverani, Saint Peter’s, Leo the Great and the leprosy of Constantine, Papers of the British School Rome 76, 2008, pp. 155-172. 95 P. Zanker, Die Maske des Sokrates. Das Bild des intellektuellen in der antiken Kunst, München 1995, 240242 fig. 139. 96 Non sarebbe coerente pensare a una patera per sacrifici e a una bacchetta magica come ritiene CALIÒ 2007, p. 295. Si pensi invece alla ciotola a conchiglia rinvenuta nel corredo da scriba della necropoli dell’Autoparco: STEINBY 2003, pp. 106-108, tav. 22. Cfr. anche il capitolo sul settore dell’Autoparco. 97 GUARDUCCI 1953, p. 5, pensava a un progenitore di Herma, il che si scontra però contro una difficoltà: il proprietario della tomba come liberto non poteva avere un padre nel senso giuridico del termine e inoltre il personaggio in questione è togato, dunque di stato libero; TOYNBEE – WARD PERKINS 1956, p. 84, pensano addirittura allo stesso Herma, ma ciò entrerebbe in conflitto con l’interpretazione del personaggio al centro della parete orientale e inoltre non si accorda con la testa di altorilievo che – come si vedrà – va attribuita al proprietario della tomba. 98 Cfr. H.R. Goette, Studien zu römischen Togadarstellungen, Mainz 1990, p. 28, 113 A d 8, tav. 4.6. 99 GUARDUCCI 1953, pp. 11-12. 100 Uso qui larario in senso metaforico, tuttavia non si può fare a meno di ricordare un classico esempio tramandato dalla Storia Augusta, una raccolta di biografie imperiali della fine del IV secolo, che unisce notizie di buona fonte a tratti di fantasia o di reinterpretazione tendenziosa. Si tratta di un brano della vita di Alessandro Severo (29,2) secondo il quale l’imperatore «nelle prime ore del mattino rendeva culto nel suo larario, nel quale conservava (le immagini degli) imperatori divinizzati, tra cui aveva scelto i migliori, e delle anime più sante tra le quali Apollonio (di Tiana) e, stando a quanto dice uno scrittore del suo tempo, Cristo, Abramo e Orfeo e altri di questo genere e i ritratti degli antenati». Nello stesso larario, poi, «consacrò (anche un’immagine di) Alessandro Magno» (31,5). Lo stesso imperatore avrebbe avuto un secondo larario minore in cui conservava l’immagine di Virgilio «assieme alla statua di Cicerone (...), dove erano anche
quelle di Achille e dei grandi uomini» (31,4). Indipendentemente dal loro reale valore storico queste notizie fotografano una mentalità. Già Ireneo, (Haer. 1,20,4), però, ricorda come nel II secolo d.C. la setta gnostica dei Carpocraziani avvicinasse personaggi ai nostri occhi assai eterogenei: Cristo, Pitagora, Platone e Aristotele o, secondo Agostino (De Haeres. 7), Cristo, Paolo, Omero e Pitagora. 101 MIELSCH – VON HESBERG 1996, pp. 186-192, nn. 13, figg. 230-234. 102 MIELSCH – VON HESBERG 1996, pp. 192-193, n. 4 figg. 235-236. 103 MIELSCH – VON HESBERG 1996, pp. 193-196, nn. 56, figg. 237-242. 104 H.R. Goette, Römische Kinderbildnisse mit JugendLocken, Mitteilungen des Deutschen Archäologischen Instituts, Athenische Abteilung 104, 1989, pp. 203217. 105 Per lo stesso periodo si possono citare due ritratti femminili privati e uno attribuito a Faustina maggiore scavati dal Fauvel tra la fine del XVIII e l’inizio del XIX secolo ad Atene nella necropoli del Dipylon, ma ora purtroppo dispersi o distrutti: Ph.-E. Legrand, RA s. III, XXX, 1897, p. 393. 106 MIELSCH – VON HESBERG 1996, pp. 196-198, nn. 10-12, figg. 246-253. 107 H. Drerup, Totenmaske und Ahnenbild bei den Römern, RM 87, 1980, pp. 81-129. 108 Oxford, cod. Bodleian. fol. 139: R. Lanciani, Storia degli Scavi di Roma, II, Roma 1903, p. 102 (II ed. a cura di L. Malvezzi Campeggi, Roma 1990, p. 108); CASTAGNOLI 1992, tav. LXXVIII, fig. 159; LIVERANI 1999, pp. 45-46, n. 2. 109 L. Chioffi, Mummificazione e imbalsamazione a Roma e in altri luoghi del mondo romano, Opuscula Epigraphica 8, Roma 1998. 110 GUARDUCCI 1953, pp. 8-10; cfr. CALIÒ 2007, p. 315. 111 Come si è visto la testa di Selene non è pertinente, il riccioli del piccolo Olympianus rinviano genericamente a una devozione a culti misterici non meglio specificabili, il rapporto Minerva-Iside non ha – almeno in questo – caso alcun appiglio, la mummificazione e le maschere funerarie sono diffuse in diverse regioni dell’impero senza che se ne possa dedurre necessariamente un collegamento con la religione egizia. Il repertorio dionisiaco, infine, è quello più diffuso di tutta l’arte funeraria romana e dunque il meno caratteristico. 112 B. Andreae, Sarkophage mit Darstellungen aus dem Menschenleben. Die römischen Jagdsarkophage, Die Antiken Sarkophagreliefs 1, 2, Berlin 1980, pp. 77-79, 183, n. 240, tavv. 44,2, 45,4-5, 46,1-6, 47,1-6, 50,1, 115,3, 121,4. 113 Su questo aspetto cfr. supra pp. 32-35. 114 GUARDUCCI 1953, p. 22, figg. 9-10: D(IS) M(ANIBUS). / VALERINUS / VASATULUS / VIXIT ANNIS XXXI, M(ENSIBUS) III, D(IEBUS) X, / H(ORIS) III. VALERIA FLO/RENTIA COIUS / FECIT MARITO / SUO ANIMO BENEMERENTI; D(E)P(OSITIO) EIUS VII IDUS S(E)PT(EMBRES). 115 M.L. Caldelli, Nota su D(is) M(anibus) e D(is) M(anibus) S(acrum) nelle iscrizioni cristiane di Roma, in I. Di Stefano Manzella (a cura di), Le iscrizioni dei cristiani in Vaticano, Inscriptiones Sanctae Sedis, 2, Città del Vaticano 1997, pp. 185-187 (con bibliografia precedente). 116 GUARDUCCI 1953, pp. 22-25; TOYNBEE – WARD PERKINS 1956, pp. 91-92. 117 C. Carletti, Dies mortis-depositio: un modulo ‘profano’ nell’epigrafia tardoantica, Vetera Christianorum 41, 2004, pp. 21-48, specie 29-37. 118 ECK 1986, p. 277, n. 28: FLAVIUS ISTATILIUS OLYMPUS CP / QUI VIXIT ANNOS XXXV ET MENSIS / DECEM DIES XVII FRATRI BENE/MERENTI FECIT. CUM OMNES / IOCATUS EST NUMQUAM RIXATUS / EST. 119 TOYNBEE – WARD PERKINS 1956, p. 271; ECK 1986, p. 277, n. 28. 120 D. Mazzoleni, Origine e cronologia dei monogrammi: riflessi nelle iscrizioni dei Musei Vaticani, in I. Di Stefano Manzella (a cura di), Le iscrizioni dei cristiani in Vaticano, Inscriptiones Sanctae Sedis, 2, Città del Vaticano 1997, pp. 165-171. 121 Cfr. supra, nota 94. 122 GUARDUCCI 1953. 123 GUARDUCCI 1953, p. 18: «Petrus roga Christus Iesus pro sanctis hominibus Chrestianis ad corpus tuum sepultis». 124 ZANDER 2007, p. 87.
125 GUARDUCCI 1953, pp. 70-72: l’autrice scagliona l’esecuzione delle varie iscrizioni in vari momenti fino al periodo successivo all’editto di Milano del 313. 126 TOYNBEE – WARD PERKINS 1956, pp. 14-17. 127 MIELSCH – VON HESBERG 1996, pp. 209-221, tavv. 25-26a; FERAUDI-GRUÉNAIS 2001b, pp. 53-56, K 19; ZANDER 2007, pp. 93-96. 128 Esplorazioni 1951, p. 30, nota 2. 129 R. Lindner, Der Raub der Persephone in der antiken Kunst (Beiträge zur Archäologie 16), Würzburg 1984. 130 Ibid., tav. 19.3. 131 A. Ferrua, in Rendiconti della Pontificia Accademia Romana di Archeologia XXIII-XXIV, 1947, p. 222, seguito da M. Schmidt, s.v. Alkestis, in LIMC I (1981) p. 536, n. 14; FERAUDI-GRUÉNAIS 2001b, p. 55. 132 MIELSCH – VON HESBERG 1996, pp. 214, 221. 133 MIELSCH – VON HESBERG 1996, p. 214, questi autori riconoscono nelle foto di scavo un oggetto nella mano della figura che interpretano come cornucopia, ma il recente restauro costringe ad abbandonare idea. Una interpretazione come Vittoria è stata avanzata da FERAUDI-GRUÉNAIS 2001b, p. 55. 134 B. Andreae, Studien zur römischen Grabkunst, Mitteilungen des Deutschen Archäologischen Instituts. Römische Abteilung, Ergänzungsheft 9, 1963, p. 44. 135 Ferrua, in Rendiconti, cit. supra, nota 131, p. 217, seguito da M. Schmidt, s.v. Admetos I, in LIMC I (1981) p. 221, n. 20; FERAUDI-GRUÉNAIS 2001b, p. 55. 136 L. Curtius, in Mitteilungen des Deutschen Archäologischen Instituts 4, 1951, p. 31; Andreae, cit. supra, nota 134; F. Canciani, s.v. Protesilaos, in LIMC VII (1994), p. 559, n. 29. 137 Esplorazioni 1951, pp. 29-37. 138 A. Ferrua, Esedra sepolcrale nel sepolcreto vaticano, RendPontAcc LVIII, 1985-86, pp. 181-187 (ristampato in Saggi in on. di G. De Angelis D’Ossat I, Roma 1987, pp. 40-42). L’esedra è posteriore tanto a L quanto a M al quale pure doveva appoggiarsi per breve tratto, pertanto deve risalire probabilmente agli inizi del IV secolo. 139 CIL XV 1065; Esplorazioni 1951, p. 30. 140 PAPI 2000-2001, pp. 257-259, n. 8, fig. 12. 141 Esplorazioni 1951, pp. 38-42; FERAUDI-GRUÉNAIS 2001b, pp. 56, K 20. 142 T. Alpharani, De Basilicae Vaticanae antica et nova structura, ed. Cerrati, Roma 1914, n. 8 della pianta. 143 Ibid., p. 154, appendice n. 6; cfr. anche p. 168, appendice n. 31; Esplorazioni 1951, pp. 39-40; CAR I, G24, A.XVII; CASTAGNOLI 1992, pp. 84-85; Liverani, in M.A. Tomei – P. Liverani (a cura di), Lexicon Topographicum Urbis Romae, Supplementum I.1. Carta Archeologica di Roma. Primo quadrante, Roma 2005, p. 239. 144 CIL VI 20293. L‘iscrizione fu portata «nella munizione della Fabbrica» di San Pietro, ma una generazione più tardi Giacomo Grimaldi la copiò in una casa privata: in horto Sabuntianorum transtiberim. Da allora se ne è persa traccia. 145 È questa infatti la lettura proposta da F.W. Deichmann, Zur Frage der Gesamtschau der frühchristlichen und frühbyzantinischen Kunst, Byzantinische Zeitschrift 63, 1970, p. 56, e B. Brenk, Spätantike und frühes Christentum, in Propyläen Kunstgeschichte, Supplementband 1, Berlin 1977, p. 51. 146 Esplorazioni 1951, pp. 38-42, tavv. X-XII; O. Perler, Die Mosaiken der Juliergruft in Vatikan, Freiburg 1953; TOYNBEE – WARD PERKINS 1956, pp. 72-74; T. Klauser, JACh 10, 1967, p. 100, n. 5, pp. 102-103; B. Sear, Roman Wall and Vault Mosaics, Mitteilungen des Deutschen Archäologischen Instituts, Römische Abteilung. Supplementband 23, 1977, pp. 127-128, n. 135, tav. 53.2.3; J. Miziolek, Apotheosis, ascensio o resurrectio. Osservazioni sull’Helios del Mausoleo dei Giulii sotto la basilica Vaticana di S. Pietro, Arte Cristiana 85, 1997, pp. 83-98; P. Zander, in A. Sperandio - P. Zander (a cura di), La tomba di San Pietro. Restauro e illuminazione della Necropoli Vaticana, Milano 1999, pp. 75-77; L. De Maria, Spunti di riflessione sul programma iconografico del mausoleo dei Giulii nella necropoli vaticana, Atti del VI Colloquio dell’Associazione italiana per lo studio e la conservazione del mosaico (Venezia 20-23 gennaio 1999), Ravenna 2000, pp. 385-396; FERAUDI-GRUÉNAIS 2001b, p. 56, K20; ZANDER 2007, pp. 99-100. 147 Miziolek, Apotheosis, cit. a nota precedente, tende ad abbassarne la datazione all’inizio del IV secolo. 148 Sempre valido il classico E. Auerbach, Lingua lette-
raria e pubblico nella tarda antichità e nel Medioevo, Milano 1960 (I ed. tedesca: Bern 1958). 149 S. MacCormack, Arte e cerimoniale nell’antichità, Torino 1995, pp. 176-183, fig. 37 (ed. originale, Art and Ceremony in Late Antiquity, Berkeley 1981); M. Perraymond, in F. Bisconti (a cura di), Temi di iconografia paleocristiana, Città del Vaticano 2000, s.v. Elia, pp. 170-171. 150 C. Ihm, Die Programme der christlichen Apsismalerei vom vierten Jahrhundert bis zur Mitte des achten Jahrhunderts, Wiesbaden 1960, pp. 58-59, XX, tav. I.1; G. Bovini, I mosaici del S. Aquilino di Milano, Corsi di cultura sull’arte ravennate e bizantina 17, 1970, pp. 6182; D. Kinney, Capella Reginae. S. Aquilino in Milano, Marsyas 15, 1970-71, pp. 13-35; C. Bertelli, I mosaici di Sant’Aquilino, in G.A. Dell’Acqua (a cura di), La basilica di San Lorenzo in Milano, Milano 1985, pp. 145-169; P.J. Nordhagen, The mosaics of the Cappella di S. Aquilino in Milan. Evidence of restoration, Acta ad archaeologiam et artium historiam pertinentia 2, 1982, pp. 77-94. 151 Sepolcro F, tomba di Aemilia Gorgonia; sepolcro H, tomba di Flavius Istatilius Olympius (?); sepolcro Z, sarcofago in terracotta anonimo. La situazione per l’area più vicina alla tomba di Pietro è un poco differente e certamente più complessa. 152 Esplorazioni, pp. 37-38; M. Guarducci, L’urnetta cineraria di C. Clodius Romanus nella Necropoli Vaticana, Archeologia Classica XLIV, 1992, pp. 185-191; Zander 2007, pp. 102-103. 153 Esplorazioni 1951, p. 37, tav. VIb; PAPI 2000-2001, pp. 259-261, n. 9. 154 M. Basso, Simbologia escatologica nella necropoli vaticana, Città del Vaticano 1981, pp. 159-160; Guarducci, L’urnetta cineraria, cit. supra, nota 152, p. 186; AE 1992, 185. 155 P. Mencacci-M. Zecchini, Lucca romana, Lucca 1981, pp. 120, 438, tavv. 59-60. 156 SINN 1987, n. 421, tav. 66a. 157 La datazione è proposta dal primo editore (Basso, cit. supra, nota 154), ma andrebbe verificata e precisata in quanto la moneta è ancora inedita. 158 Sepolcri B, C, D, E, H, I. 159 Esplorazioni 1951, pp. 37-38, tavv. VII-VIII; F.W. Deichman (a cura di), Repertorium der christlich-antiken Sarkophage I, Wiesbaden 1967, pp. 271-272, n. 674, tav. 102. 160 Esplorazioni 1951, p. 63; TOYNBEE – WARD PERKINS 1956, pp. 25, 34; ZANDER 2007, p. 106. 161 G.B. De Rossi, Bullettino di Archeologia Cristiana 1864, p. 50, n. 4; Esplorazioni 1951, pp. 46, 52-53. 162 Esplorazioni, pp. 43-53; PRANDI 1963, pp. 306-312; ZANDER 2007, pp. 104-105. 163 Cfr. l’introduzione topografica. 164 CIL XV 123 databile al 123; Esplorazioni 1951, p. 48. Il bollo è oggi nascosto da un pilastro in cemento costruito per ragioni statiche. 165 Esplorazioni 1951, p. 43, tav. IXb. 166 Esplorazioni 1951, pp. 48-49. Cfr. anche PAPI 20002001, pp. 246-248, n. 3. 167 Esplorazioni 1951, pp. 55-60; FERAUDI-GRUÉNAIS 2001b, pp. 56-58, K 21; ZANDER 2007, pp. 108-110. 168 M. Guarducci, Una moneta nella necropoli vaticana, RendPontAcc XXXIX, 1966-67, pp. 135-143; C. Pietri, in Mélanges W. Seston, Paris 1974, p. 414; SINN 1987, pp. 53, 265-266, n. 714, tav. 104f; P. Liverani, in Petros eni – Pietro è qui. 500 anni della Basilica di S. Pietro (cat. della mostra, Città del Vaticano 11.10.20068.3.2007), Roma 2006, p. 182, IV.2. 169 PAPI 2000-2001, pp. 248-250, n. 4: non conosciamo purtroppo i dettagli sul suo rinvenimento e non si può del tutto escludere un reimpiego. Dalle deposizioni calate dal pavimento della basilica proviene una lastra reimpiegata con la dedica di Cn. Coelius Masculus (Ibid., pp. 261-265, n. 10, fig. 10): questa tomba era coperta con una tegola che reca un bollo assai raro di Costante, figlio di Costantino CIL XV 1657; Esplorazioni 1951, p. 50. 170 H. Mielsch, in Aufstieg und Niedergang der römischen Welt II.12.2 (1981), p. 205 ritiene possibile scendere anche all’inizio del III secolo. 171 Esplorazioni 1951, pp. 60-62; FERAUDI-GRUÉNAIS 2001b, p. 58, K 22; ZANDER 2007, p. 107. 172 Esplorazioni 1951, pp. 69-77; PRANDI 1963, pp. 312-314. 173 LIVERANI 1999, pp. 139-140; sulla vicenda cfr. anche D’AMELIO 2005.
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174 Sono ricordati scavi nel 1536 davanti all’altar maggiore per un pozzetto di smaltimento delle acque (la nuova San Pietro era in costruzione e a cielo aperto in quel periodo), nel 1540 venne alla luce un sarcofago, nel 1544 sepolture medioevali presso la confessione e di nuovo nel 1592. Nel 1597 venne alla luce i sarcofago di Giunio Basso (cfr. nota 34) e soprattutto nel 1615 i lavori di Paolo V attorno all’altar maggiore scoprirono numerosi sepolcri, segnati nella pianta di Benedetto Drei del 1635. Su tutto ciò cfr. P. Liverani in Il Cortile delle Statue. Der Statuenhof des Belvedere im Vatikan. Atti Conv. Int. (Roma 21-23 ott. 1992), Mainz 1998, pp. 352-353; LIVERANI 1999. 175 Una di Ugo Ubaldi, canonico di San Pietro autore in seguito di una delle relazioni di scavo: Archivio Capitolare di San Pietro, cod. H 55, foll. 181-181v, 183184v; una seconda N. Alemanni, Risposta ad alcuni motivi fatti circa la fabrica della Confissione di S. Pietro, cod. Ferraioli 961, foll. 98-101v, ripresa dalla relazione dell’Ubaldi di cui a nota 179. 176 Risposta ad alcuni vani sospetti circa la Confessione di S. Pietro, Archivio Capitolare di San Pietro, cod. H 55, foll. 173-176, con allegata un’accurata pianta della confessione (fol. 172) e uno schizzo che spiega la distanza dalla confessione a cui andava praticato lo scavo di fondazione (fol. 171) ora pubblicate da D’AMELIO 2005, p. 133, figg. 10-11. Altre tre copie della relazione sono nello stesso codice (foll. 177-178, 186-188, 189-90) e una ulteriore nel cod. H 61, foll. 275ss. 177 Michel Lonigo, Breve relazione del sito, qualità et forma antica della Confessione di S. Pietro, dedicata a Urbano VIII (cod. barb. lat. 4516; cod. Ferraioli 691, fasc. 5); F.M. Torrigio, Discorso dei corpi trovati intorno al sepolcro di S. Pietro, cod. barb. lat. 4344, foll. 1-4. 178 H. Lietzmann, Petrus und Paulus in Rom, BerlinLeipzig 1927 (II ed.), pp. 304-310. Il testo, incompleto, è contenuto nel già citato codice dell’Archivio Capitolare di San Pietro, H 55, foll. 169b-169g. 179 U. Ubaldi, Relazione di quanto è occorso per cavare i fondamenti delle quattro colonne di bronzo, Archivio Capitolare di San Pietro, H 55, foll. 141-166 (copia in Archivio della Fabbrica di San Pietro, Arm. 12, ripiano D, vol. 3, foll. 1200-1215), edito da M. Armellini, Le chiese di Roma, Roma 1887 (II ed.) pp. 697-718. 180 G.M. Torrigio, Diarium anni MDCLXXVI sedente S.D.N. Urbano VIII, cod. barb. lat. 2324, pubblicato in LIVERANI 1999, pp. 159-160, appendice, n. 1. Purtroppo i disegni che secondo la documentazione d’archivio furono eseguiti di questi scavi da Giovanni Battista Calandra, Soprastante della Fabbrica di San Pietro e mosaicista, non si è più trovata traccia. 181 Archivio Capitolare di San Pietro, cod. H 55, fol. 191, lettera del 26.8.1626. 182 D’AMELIO 2005. 183 L’identificazione del sepolcro si deve a CASTAGNOLI 1992, p. 87, che ha corretto l’inversione tra i sepolcri R e S che si ritrova invece in Esplorazioni 1951, pp. 8688; TOYNBEE – WARD PERKINS 1956, p. 30; GUARDUCCI 1959, p. 74. La statua fu disegnata da Cassiano dal Pozzo: C.C. Vermeule, in Transactions of the American Philological Association n.s. 56.2, 1966, p. 37, n. 8548, figg. 136-136a; A. Claridge – N. Turner, in Quaderni Puteani 4, 1993, p. 46, n. 7, fig. 7. Cfr. anche il resoconto dello stesso Dal Pozzo, in Miscellanea di storia italiana XV, Torino 1876, pp. 175-176. Già nella collezione Barberini successivamente passò nel commercio antiquario (P. Arndt – W. Amelung, Photographische Einzelaufnahmen antiker Sculpturen, n. 5092) e si trova attualmente all’Indianapolis Museum of Arts: G. Pucci, L’epitaffio di Flavio Agricola e un disegno della collezione Dal Pozzo-Albani, Bullettino della Commissione archeologica comunale di Roma LXXXI, 1968-69, pp. 173-177; H. Wrede, in Archäologischer Anzeiger 1981, pp. 101-109, c, con bibliografia. Cfr. anche H. Häusle, Das Denkmal als Garant des Nachruhms, Zetemata 75, 1980, pp. 98ss. n. 32; P. Zanker, I sarcofagi mitologici e i loro osservatori, in Un’arte per l’impero. Funzione e intenzione delle immagini nel mondo romano, Milano 2002, p. 162, fig. 126, p. 181, n. 15 (ed. originale Die mythologische Sarkophagreliefs und ihre Betrachter, Bayerische Akademie der Wissenschaften. Philosophisch-Historische Klasse. Sitzungsberichte 2000, 2); K.M.D. Dunbabin, The Roman Banquet. Images of Conviviality, Cambridge 2003, pp. 103-104; M. Koortbojian, Classical Antiquity 24.2, 2005, p. 301; P. Zanker – B.C. Ewald, Mit Mythen Leben. Die Bilderwelt der römischen Sarkophage, München 2004, pp. 158-
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159, fig. 143; G. Davies, in Z. Newby – R. Leader Newby, Art and Inscriptions in the Ancient World, Cambridge 2007, 46-49, fig. 2.3; ZANDER 2007, pp. 112-113, fig. 204. 184 CIL VI 17985a = 34112; F. Buecheler, Carmina Latina Epigraphica I2 (1930), n. 856; L. Vidman, Sylloge inscriptionum Isiacae et Serapiacae, Berlin 1969, p. 217, n. 451; M. Malaise, Inventaire préliminaire des documents égyptiens découverts en Italie, EPRO 21, Leiden 1972, pp. 127-128, n. 51: «TIBUR MIHI PATRIA, AGRICOLA SUM VOCITATUS / FLAVIUS, IDEM EGO SUM DISCUMBENS, UT ME VIDETIS, / SIC ET APUT SUPEROS ANNIS, QUIBUS FATA DEDERE, / ANIMULAM COLUI NEC DEFUIT UMQUA LYAEUS. / PRAECESSITQUE PRIOR PRIMITIVA GRATISSIMA CONIUNCXS / FLAVIA ET IPSA, CULTRIX DEAE PHARIAES CASTA, / SEDULAQUE ET FORMA DECORE REPLETA, / CUM QUA TER DENOS DULCISSIMOS EGERIM ANNOS. / SOLACIUMQUE SUI GENERIS AURELIUM PRIMITIVUM / TRADIDIT, QUI PIETATE SUA COLERET FASTIGIA NOSTRA, / HOSPITIUMQUE MIHI SECURA SERVAVIT IN AEVUM. / AMICI QUI LEGITIS MONEO MISCETE LYAEUM / ET POTATE PROCUL REDIMITI TEMPORA FLORE / ET VENEREOS COITUS FORMOSIS NE DENEGATE PUELLIS; / CETERA POST OBITUM TERRA CONSUMIT ET IGNIS». 185 Esplorazioni 1951, p. 69: fu trovato un poliandrio per ciascuna fondazione di colonna: erano segnalati da un’iscrizione su lamina di piombo con lettere a rilievo che, nel caso del sepolcro S, dichiarava: CORPORA SANTOR(UM) / [P]ROPE SEPULCRUM S. / PETRI REPERTA CU[M] / FUNDAMENTA EFFODE/RENTUR AENEIS COL[U]MNIS AB URBANO VIII SU/PER HOC FORNI[CE] EREC/T[I]S HIC [S]IMUL COLLEC[T]A / ET RE[PO]SITA A(NNO) 1626 / 2[8] IUL[I]I. (I corpi dei santi, rinvenuti presso il sepolcro di san Pietro quando vennero scavate le fondazioni per le colonne bronzee da Urbano VIII erette sopra questo arco, vennero qui raccolte insieme e depositate il 28 luglio 1626). Cfr. Esplorazioni 1951, p. 69. 186 Esplorazioni 1951, pp. 69-88; PRANDI 1963, pp. 314-321. 187 Esplorazioni 1951, p. 229, nn. 16-17. 188 G. Koch, Die Mythologischen Sarkophage 6, Meleager (Die Antiken Sarkophagreliefs XII.6), Berlin 1975, 54-57, 131, n. 146, tavv. 120c, 121. 189 Esplorazioni 1951, pp. 88-93; PRANDI 1963, pp. 316-321, 338-344; CASTAGNOLI 1992, p. 103. 190 CIL XV 401; PRANDI 1963, p. 341. 191 Rispettivamente CIL XV 426 e 1220; PRANDI 1963, p. 342. 192 CIL VI 721; PRANDI 1963, p. 333. 193 Deichmann, Repertorium, cit. supra, nota 34, n. 681. 194 Esplorazioni 1951, pp. 96-107; PRANDI 1963, pp. 371-380; CASTAGNOLI 1992, p. 102. 195 Cfr. supra nota 23.
CAPITOLO QUARTO 1 Cfr. J.R. PATTERSON, in LTUR, V, Roma 1999, pp. 147148, s.v. «Via Triumphalis (1)»; L. BIANCHI, Ad limina Petri. Spazio e memoria della Roma cristiana, Roma 1999, pp. 39-44; LIVERANI 1999, pp. 34-40; STEINBY 2003, pp. 13-21. 2 Cfr. F. COARELLI, in LTUR, V, Roma 1999, p. 148, s.v. «Via Triumphalis (2)»; M. MAIURO, in LTUR, Suburbium, V, Roma 2008, pp. 202-207, s.v. «Via Triumphalis». 3 L. BOSIO, La Tabula Peutingeriana, una descrizione pittorica del mondo antico, Rimini 1983. 4 LIVERANI 1999, pp. 13-43; P. LIVERANI, in LTUR, Suburbium, V, Roma 2008, pp. 233-234, s.v. «Vaticanum», e pp. 235-236, s.v. «Vaticanus ager». 5 Oltre alle proprietà imperiali – deducibili, tra l’altro, attraverso le menzioni nelle iscrizioni sepolcrali di molti defunti di quest’area – si devono ricordare il Vaticanum rus, la proprietà suburbana di Quintus Aurelius Symmachus, il grande oratore e uomo politico pagano, ricordata in un paio di sue lettere del 398 d.C. nonché una seconda proprietà – definita praedium – di sua figlia e del genero Nicomachus Flavianus (cfr. LIVERANI 1999, pp. 20-21; ID., in LTUR, Suburbium, IV, Roma 2006, p. 94, s.v. «Nicomachi Flaviani praedium»; D. DE FRANCESCO, in LTUR, Suburbium, V, Roma 2008, pp. 234-235, s.v. «Vaticanum rus»). 6 P. LIVERANI, in LTUR Suburbium, IV, Roma 2006, s.v. «Pyramis in Vaticano».
P. LIVERANI, A. TOMEI, in LTUR Suburbium, I, Roma 2001, s.v. «P. Aelii Hadriani Sepulcrum», pp. 15-22. 8 E. JOSI, Scoperta d’un tratto dell’antica via Trionfale in Vaticano, in IllVat, 3, 17, 1932, p. 842; CAR, D 13; STEINBY 1987, p. 86; CASTAGNOLI 1992, pp. 30 e 115; LIVERANI 1999, pp. 52-53; STEINBY 2003, pp. 16-17 e 94; Carta I, n. 88. 9 Nei Rapporti mensili si menziona la consegna alla Direzione dei Musei Vaticani di materiali (iscrizioni, frammenti marmorei e fittili) rinvenuti nei giardini in occasione di lavori (ASMV, Rapporti mensili, 1920-30, 11/4/1928, p. 734; ASMV, Rapporti mensili, 1931-34, 21/4/1931, p. 986 e 18/7/1931, pp. 998-999; LIVERANI 1999, p. 46). Il Venuti (R. VENUTI, Accurata e succinta descrizione delle antichità di Roma, Roma 1763 [1a ed.], p. 108) ricorda che delle «urne sepolcrali furono trovate nel fabbricarsi il gran Cortile di questo palazzo» (cfr. CASTAGNOLI 1992, pp. 115-117; LIVERANI 1999, p. 57, n. 6). Tale notizia di incerta affidabilità si riferirebbe ad un tratto della necropoli sito nell’area dell’originario Cortile del Belvedere, l’enorme e monumentale corte rinascimentale e barocca – attualmente scandita nei cortili della Pigna, della Biblioteca e del Belvedere – che dalla sommità del Vaticano digradava verso sud. Cfr. in generale CASTAGNOLI 1992, pp. 114-115; LIVERANI, SPINOLA 1999, pp. 219ss.; LIVERANI 1999, pp. 46-52. 10 CASTAGNOLI 1992, pp. 115-116; CAR, G 5; STEINBY 1987, p. 88; LIVERANI 1999, pp. 58-60, n. 7; Carta I, n. 123. 11 S.P., IllVat III.8, 1932, p. 379; LIVERANI 1999, p. 91, n. 10. 12 R. KRAUTHEIMER, W. FRANKL, Corpus Basilicarum Christianarum Romae III, Città del Vaticano 1967, p. 177, tav. VII; LIVERANI 1999, p. 61, n. 8. 13 LIVERANI 1999, p. 92, n. 13. 14 JOSI, Scoperta d’un tratto dell’antica via Trionfale in Vaticano, cit. supra, nota 8, p. 842; B.M. APOLLONI GHETTI, A. FERRUA, E. JOSI, E. KIRSCHBAUM, Esplorazioni sotto la confessione di San Pietro in Vaticano, Città del Vaticano 1951, p. 12; CAR, D 15; F. MAGI, in EAA VI (1965), s.v. Roma, p. 869; STEINBY 1987, p. 86; CASTAGNOLI 1992, pp. 30, 115; LIVERANI 1999, pp. 5253, n. 4; Carta I, n. 89. 15 Cfr. STEINBY 1987; P. LIVERANI, L’Agro Vaticano, in PH. PERGOLA, R. SANTANGELI VALENZANI, R. VOLPE, Suburbium, Roma 2003, pp. 399-413. 16 Di questa seconda campagna di scavi, diretta da Paolo Liverani e Giandomenico Spinola con la supervisione dell’allora direttore generale dei Musei Vaticani prof. Carlo Pietrangeli, è imminente la pubblicazione dettagliata. 17 Anche di questa necropoli è in preparazione l’edizione scientifica. Lo scavo fu diretto da Paolo Liverani e Giandomenico Spinola, con la sovrintendenza dell’allora direttore dei Musei Vaticani Francesco Buranelli. 18 Cfr. BURANELLI, LIVERANI, SPINOLA 2005-2006, p. 464; SPINOLA 2006, p. 49. Certo non a caso Leone III su questa via, intorno all’anno 800, fondò la chiesa di San Pellegrino e questo tratto della via Triumphalis prese il nome di via di San Pellegrino o via del Pellegrino, toponimo tutt’ora in uso (cfr. S. DELLI, Strade in Vaticano, Roma 1982, pp. 110-111). 19 JOSI 1931; cfr. anche B. NOGARA, in RendPontAcc, VI, 1927-29, p. 132; BullCom, LXI, 1933, p. 285; LIVERANI 1999, pp. 160-161, nn. 1-2. 20 E. JOSI, Scoperta d’un tratto dell’antica via Trionfale in Vaticano, cit. supra, nota 8, p. 842; CAR, D 13; STEINBY 1987, p. 86; CASTAGNOLI 1992, pp. 30 e 115; LIVERANI 1999, pp. 52-53; STEINBY 2003, pp. 16-17 e 94; LIVERANI, SPINOLA 2006, pp. 12-29. 21 Cfr. supra nota 16. 22 Alcuni interventi di restauro sono stati condotti dal Laboratorio di Restauro dei Materiali Lapidei (dei Musei Vaticani), sotto la guida del maestro Luciano Ermo; altri lavori sono stati affidati a collaboratori esterni, quali Giuseppe Mantella, Chiara Scioscia Santoro, Paola Minoja e Giovanna Prestipino. Il rilievo planimetrico e la documentazione grafica sono stati curati dalla dott.ssa Angela Napoletano. 23 Inv. 54989. Marmo bianco italico a grana fine. Altezza cm 10,5; larghezza cm 39,5; profondità cm 28,3. 24 Durante i lavori per la realizzazione del nuovo ingresso e dei nuovi spazi per l’accoglienza giubilare del 2000 furono effettuati numerosi sterri e terrazzamenti sulle pendici nord del colle Vaticano. In questa occa7
sione, presso il Laboratorio di Restauro Marmi, furono ritrovate tracce di murature di tombe distrutte, con quattro laterizi bollati (invv. 57100-57103) e due frammenti di iscrizioni sepolcrali marmoree: «[- - -]E HED. D . / [- - -CON]TUBER(NAL-) / [- - -]SSIMAE» (inv. 57104; cm 23,3 x 14 x 3); «[- - -] / HOC MON(UMENTUM) HER(EDES) NON [SEQUETUR] / IN F(RONTE) P(EDES) VIII IN AGR(O) [P(EDES) - - -]» (inv. 57105; cm 16 x 94,2 x 25). Al di sotto del Cortile delle Corazze, nel 1998, si rinvenne anche l’iscrizione completa con la dedica del sepolcro di Quintus Codicarius Florentinus (inv. 54978; cm 61 x 78 x 12); P. Liverani, in Carta 2005, n. 77. 25 Una lastra iscritta (cm 51 x 47 x 2,5; inv. 57108) venne ritrovata reimpiegata come copertura di una fogna nell’area della rampa del nuovo posto di ristoro. Su di essa si conserva parte di alcune righe di una lunga iscrizione medievale: «[- - -] / [- - -]CVIV[- - -] / ET POS[T- - -] / ER[- - -] / TABULAE CON[- - -] / COLLECTA L[- - -] / SUMMUM CONSILIUM[- - -] / OBSEQUII GI[- - -] / ANNO CHRISTI[- - -]». 26 La tomba ad inumazione 28, una semicappuccina, si presenta con tre bipedali appoggiati obliquamente alla fondazione sud della tomba a camera 26. Due di questi recano un bollo (CIL XV 824) – APOL(LONIUS?) ANT(ONI) L(UCI) S(ERVUS) – databile agli inizi del I secolo d.C., una cronologia che sembra grossomodo potersi attribuire anche alla tomba a camera 26, cui la sepoltura si appoggia. Cfr. LIVERANI, SPINOLA 1999, p. 219; LIVERANI, SPINOLA 2006, p. 13. La Steinby (STEINBY 2003, pp. 17 e 29) ritiene invece possibile che i due laterizi bollati di età augustea siano stati reimpiegati e quindi non risultino in fase con la sepoltura. Questa prima terrazza non è ora più visibile, essendo stata coperta dalle strutture del magazzino moderno. 27 JOSI, in LIVERANI 1999, p. 51, n. 5; LIVERANI, SPINOLA 2006, p. 14. 28 JOSI 1931, p. 27, fig. 5; ID., in BullCom, 1933, p. 285; CAR, D 13.a; F. MAGI, in ActaInstRomFin, VI, 1973, p. 15, tav. IV.1; CASTAGNOLI 1992, p. 114; LIVERANI 1999, p. 46, figg. 10, 13-14; STEINBY 2003, p. 30; LIVERANI, SPINOLA 2006, p. 22. Probabilmente al di sotto dei «sampietrini» si conservano tuttora le fondazioni rasate, pur tagliate dalle successive infrastrutture inserite al di sotto della strada. 29 Misure approssimative: m 3,5 x 5. 30 LIVERANI, SPINOLA 2006, pp. 22-23, figg. 12, 14 e 15. 31 LIVERANI 1999, pp. 46 e 48; STEINBY 2003, p. 16; LIVERANI, SPINOLA 2006, p. 21, fig. 13. 32 Cfr. STEINBY 2003, p. 30; LIVERANI, SPINOLA 2006, p. 21. 33 CIL XV 265. LIVERANI, SPINOLA 1999, pp. 219-220; LIVERANI, SPINOLA 2006, pp. 21 e 29, nota 30. 34 CIL XV 265. 35 LIVERANI, SPINOLA 2006, pp. 22-25, fig. 17. Inv. 54980. Marmo bianco italico a grana fine. Altezza cm 57,5; larghezza cm 24,5; profondità cm 5,3. Per quanto concerne lo stile del ritratto ed il tipo di acconciatura si possono offrire alcuni confronti, ad esempio: G. KASCHNITZ WEINBERG, Sculture del magazzino del Museo Vaticano, Città del Vaticano 1937, p. 275, n. 654, tav. CIV; A. GIULIANO, Catalogo dei ritratti romani del Museo Profano Lateranense, Città del Vaticano 1957, p. 44, n. 48, tav. 30; L. MARTELLI, in A. GIULIANO (ed.), Museo Nazionale Romano. Le sculture, I/9,1, Roma 1987, pp. 228-229, n. R172; B. ANDREAE [ed.], Bildkatalog der Skulpturen des Vatikanischen Museum. Museo Chiaramonti, Berlin-New York 1995, p. 22*, tavv. 200-201; B. ANDREAE [ed.], Bildkatalog der Skulpturen des Vatikanischen Museum. Museo Pio Clementino. Cortile Ottagono, Berlin-New York 1998, p. 15*, tav. 172. 36 LIVERANI, SPINOLA 2006, pp. 25-26, figg. 16 e 18. 37 STEINBY 2003, p. 115; LIVERANI, SPINOLA 2006, p. 26, fig. 19. 38 LIVERANI, SPINOLA 1999, p. 223. 39 Da ultimo cfr. M.R. PICUTI, Il contributo dell’Epigrafia latina allo scavo delle necropoli antiche, in AA.VV., Pour une archéologie du rite. Nouvelles perspectives de l’archéologie funérarie (études réunies par John Scheid), Collection de l’École Française de Rome, 407, Roma 2008, pp. 49-50 (con bibliografia di riferimento). 40 LIVERANI, SPINOLA 2006, pp. 14, 25 e 28, figg. 16 e 20. 41 Come dice il nome latino, si tratta di mattoni quadrati di un piede e mezzo di lato pari a 45 cm.
42 Si tratta del bollo di un certo Aprilis (cfr. CIL XV, 1109 e 1110). 43 Il cappellaccio è una qualità di tufo che geologicamente fa, appunto, «da cappello» alle altre rocce vulcaniche. Questo tipo di tufo, piuttosto friabile, è molto diffuso nel Lazio, di conseguenza è stato frequentemente impiegato come materiale da costruzione. 44 JOSI 1931, p. 27; CASTAGNOLI 1992, p. 115; LIVERANI 1999, p. 51, figg. 21-23; STEINBY 2003, pp. 16-17 e 30. 45 Al suo interno venne rinvenuta un’iscrizione sepolcrale frammentaria: «[DIS] MANIBUS. / [- - - T]ROPHIMES / [- - -] AMANDUS / [UXORI (O CONIUGI) C]ARISSIMAE / [- - -] FECIT / [- - - VIX(IT) A]NNIS XXX». Cfr. I. DI STEFANO MANZELLA, in CASTAGNOLI 1992, pp. 115 e 138-139, n. 25; AE 1993, n. 399; LIVERANI 1999, p. 51. 46 JOSI 1931, p. 27; CASTAGNOLI 1992, p. 115; LIVERANI 1999, p. 50, figg. 19 e 20; STEINBY 2003, pp. 16 e 30. 47 Cfr. LIVERANI, SPINOLA 1999, p. 221; LIVERANI, SPINOLA 2006, p. 21. Queste cornici fittili trovano un ottimo confronto, ad esempio, con quelle in situ in numerosi sepolcri del II secolo d.C. nella necropoli di Porto (Isola Sacra, presso Fiumicino) e sulle fronti di edifici pubblici, quali i protiri monumentali degli ostiensi Horrea Epagathiana (cfr. G. BECATTI, Horrea Epagathiana et Epaphrodisiana, in NSc, 1940, pp. 32ss.; G. RICKMAN, Roman Granaries and Store Buildings, Cambridge 1971, passim), della metà del II secolo d.C., e del trasteverino Excubitorium della fine dello stesso secolo (cfr. A.M. RAMIERI, in LTUR, I, Roma 1993, pp. 292-294, s.v. «Cohortium Vigilum Stationes»). 48 JOSI 1931, p. 27, fig. 14 (foto capovolta); ID., in BullCom, 1933, p. 285; CAR, D 13.b; CASTAGNOLI 1992, p. 114, tav. LXXVII, figg.155-157; LIVERANI 1999, pp. 4850, figg. 15-17; LIVERANI, SPINOLA 1999, pp. 222-223, fig. 6; STEINBY 2003, pp. 24, 36 e 39; LIVERANI, SPINOLA 2006, pp. 15-17, figg. 4-8. 49 Le misure interne sono di m 3,68 di lunghezza e di m 2,10 di larghezza, esclusi gli spazi sotto gli arcosolii. 50 Cfr. LIVERANI, SPINOLA 1999, pp. 222-223, fig. 6; STEINBY 2003, p. 30; LIVERANI, SPINOLA 2006, pp. 1516. 51 Cfr. STEINBY 2003, pp. 104-105; LIVERANI, SPINOLA 2006, p. 16, fig. 5. 52 Cfr. ad esempio M. BORDA, La pittura romana, Milano 1958, pp. 314-322 e 332-333; H. JOYCE, The Decoration of Walls, Ceilings, and Floors in Italy in the Second and Third Centuries A.D., Roma 1981, pp. 40-67; R. LING, Roman Painting, Cambridge 1991, pp. 186197. 53 Cfr. BORDA, La pittura romana, cit. supra, nota 52, pp. 314-315. 54 Cfr. JOYCE, The Decoration of Walls, cit. supra, nota 52, pp. 44, 81 e 109, figg. 38, 39 e 94. 55 Cfr. BORDA, La pittura romana, cit. supra, nota 52, pp. 320ss.; F. ASTOLFI, in LTUR, II, Roma 1995, pp. 117-118, s.v. «Domus SS. Iohannis et Pauli». 56 Cfr. JOYCE, The Decoration of Walls, cit. supra, nota 52, p. 25, figg. 7 e 8. 57 B. ANDREAE (ed.), Bildkatalog der Skulpturen des Vatikanischen Museums, I, Museo Chiaramonti, III, Berlin-New York 1995, p. 85*, tav. 886 (con bibliografia precedente); LIVERANI 1999, p. 50, fig. 18; STEINBY 2003, p. 115. L’analisi più aggiornata è in P. LIVERANI, Sarcofago infantile con scena nilotica, in A. DONATI (ed.), Pietro e Paolo. La storia, il culto, la memoria nei primi secoli, Milano 2000, p. 205, n. 40. 58 In realtà il tema noto come «le isole dei Beati» allude ad un’ambientazione nilotica. Nell’antichità si favoleggiava riguardo la vita paradisiaca condotta, in ambiente alessandrino, alla foce del Nilo: nel delta si immaginavano feste e banchetti e, idealmente, ci si augurava altrettanto nell’Oltretomba. 59 Nel 1940 il pavimento venne staccato, restaurato e rimontato con una soletta e dei bordi in cemento. 60 Cfr. BECATTI, 1961, pp. 149-150, n. 287, tav. LXXIX; M.L. MORRICONE MATINI, Roma: Reg. X Palatium, Mosaici Antichi in Italia, Regione I, Roma 1967, pp. 92-93, tavv. XVIII-XIX; P. CHINI, «Mosaici inediti di Roma dall’archivio disegni della Sovraintendenza BB.CC. del Comune di Roma», in Atti del V Colloquio AISCOM 1997, Tivoli 1999, pp. 200-201, fig. 3. 61 M.E. BLAKE, in MAAR, XIII, 1936, tav. 39, n. 1; BECATTI 1961, pp. 195-196, n. 373, fig. 69, tav. LXXXVII.
62 C.C. VAN ESSEN, in MededRome, s. III, VIII, 1954, p. 115 (lo data al IV secolo d.C.); BECATTI 1961, pp. 199201, n. 379, tav. LXXXVIII (che però lo attribuisce all’età severiana). Cfr. anche i coevi mosaici editi in M.E. BLAKE, in MAAR, XVII, 1940, tav. II, n. 1 e p. 91 (Museo Nazionale Romano). 63 G. CALZA, La necropoli del Porto di Roma nell’Isola Sacra, Roma 1940, p. 175, fig. 87; BECATTI 1961, p. 335, tav. LXXVIII; I. BALDASSARRE, in Studi in memoria di Lucia Guerrini, Roma 1993, pp. 305-308 e 321-322, fig. 1. 64 Dal sepolcro provengono anche due iscrizioni: una dedica di [C]NEUS ASINIUS e l’epigrafe sepolcrale di [VOLUSSIA] MAXIMA (cfr. I. DI STEFANO MANZELLA, in CASTAGNOLI 1992, nn. 24 e 23; AE 1993, 398; STEINBY 2003, p. 16). 65 Lunghezza m 3,30, larghezza m 2,48 esclusi gli spazi sotto gli arcosolii. 66 LIVERANI, SPINOLA 1999, pp. 221-222, fig. 5; STEINBY 2003, pp. 36 e 39; LIVERANI, SPINOLA 2006, p. 18, fig. 9. 67 Nelle terre del recinto davanti al sepolcro era un frammento di lastra con iscrizione funeraria – «[—]US E GAVIA [—-] / [—-] / [—- FEC]ERUNT VOD[—-] / VIX ANN[—-]» – e una finestrella marmorea, con apertura rettangolare, che forse era inserita nella fronte della tomba (invv. 54984 e 54988). 68 BECATTI 1961, p. 182, n. 336. 69 Ibid., pp. 199-201, n. 379. 70 CIL XV 429; H. BLOCH, I bolli laterizi e la storia edilizia romana, Roma 1938, pp. 79, 298 e 339; T. HELEN, Organisation of Roman brick production in the first and second centuries A.D., Helsinki 1975, pp. 50-52. Il bollo presenta entro l’orbicolo una vittoria alata con una corona in mano. 71 Il riempimento delle formae all’interno della tomba non presenta materiali posteriori alla fine del II secolo d.C. Tra essi è anche un coperchio di urna cineraria della fine del I secolo d.C., da considerarsi però residuale (inv. 54983). 72 Cfr. LIVERANI, SPINOLA 1999, p. 221, fig. 4; STEINBY 2003, pp. 36 e 39; LIVERANI SPINOLA 2006, p. 19, fig. 10. 73 Dimensioni interne: lunghezza m 2,36 (esclusi l’arcosolio e le nicchie), larghezza m 2,16 (esclusi i banconi e gli arcosolii). 74 Cfr. M.L. MORRICONE MATINI, s.v. «Mosaico», in EAA, Supplemento, Roma 1970, pp. 518-520. 75 Il vano è detto anche «sala comune» o «sacello HS2». Cfr. S. AURIGEMMA, Villa Adriana, Roma 1961, p. 177, fig. 182. 76 R. PARIBENI, in NS, 1920, p. 161; BECATTI 1961, pp. 44 e 280, n. 66, tav. XL. Un altro confronto può esser istituito con un mosaico di Roma edito in M.E. BLAKE, in MAAR, XIII, 1936, tav. 10, n. 3. Cfr. STEINBY 2003, p. 36. 77 N. CASSIERI, Pavimenti musivi dal sito di Tres Tabernae nell’Agro Pontino, in Atti del VI Colloquio AISCOM, Tivoli 2000, p. 244, fig. 7. 78 Si tratta della stele di Marcus Ulpius Cuntianus (forse di origine numidica, a giudicare dal cognome) e di altri due frammenti di lastre con iscrizioni sepolcrali: «[- - -] FECIT [- - -] / [- - -] CONIUGI [- - -]» e «[- - ON]OMASTE EMIT S[IBI ET SUIS?- - -]» (invv. 54981, 54982, 54986). 79 LIVERANI, SPINOLA 1999, pp. 220-221, fig. 3; LIVERANI, SPINOLA 2006, pp. 20-21, fig. 11. 80 La muratura presenta delle specchiature bordate da listelli in laterizio ed è costituita da mattoni rossi e tegole legati da un letto di malta molto basso. L’angolo prevede l’appoggio, ad angolo retto, di una grande lastra di bardiglio (sulla fronte della tomba 7) su di un’analoga di travertino (sulla fronte della tomba 8); questa lastra poteva forse ospitare un’iscrizione dipinta, poi scomparsa. 81 Si tratta del bollo di una figlina domizianea: «CN(EI) DOMIT(I) ARIGNOT(I) / FEC(IT)»; CIL XV, 1094d. 82r Le misure sono circa m 3,60 di lunghezza e m1,84 di larghezza. 83 G. GHINI, Impianti residenziali a Lanuvio e loro decorazione musiva, in Atti del II Colloquio AISCOM, Bordighera 1995, Tivoli 1997, pp. 492-493, fig. 12. 84 L. QUILICI, «I mosaici delle case di via San Paolo alla Regola in Roma. Scavi e restauri 1993-1995», in Atti del III Colloquio AISCOM 1996, Tivoli 1998, pp. 516517, fig. 3. 85 M.L. MORRICONE MATINI, Roma: Reg. X Palatium,
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Mosaici Antichi in Italia, Regione I, Roma 1967, pp. 100-102, tavv. XXI-XXII. 86 G. BECATTI 1961, p. 87, n. 144, tav. XLIX. Ve ne sono anche altri tre molto simili, conservati nei magazzini di Ostia, ma di provenienza ignota (BECATTI 1961, p. 241, nn. 440-442, tav. XLIX). 87 P. LOPREATO, «Le grandi terme di Aquileia. I mosaici del frigidarium», in La Mosaïque gréco-romaine, IV, Trèves 8-14 Agosto 1984, Paris 1994, p. 96, tav. XLIX,2. Un altro mosaico simile, trovato nel 1889 nell’area del Policlinico di Roma, è documentato da un disegno edito in P. CHINI, «Mosaici inediti di Roma dall’archivio disegni della Sovraintendenza BB.CC. del Comune di Roma», in Atti del V Colloquio AISCOM 1997, Tivoli 1999, pp. 201-202, fig. 5. 88 Si rimanda all’edizione definitiva la corretta definizione del testo ed del preciso significato delle parole di questo complesso e affascinante epitaffio. 89 MAGI 1958, pp. 87-115; AA.VV. 1973; STEINBY 1987 pp. 85-110; CASTAGNOLI 1992 pp. 112-114, tavv. LXXV-LXXVI, figg. 151-153; LIVERANI 1999, pp. 54-57; STEINBY 2003; LIVERANI, SPINOLA 2006, pp. 30-55. 90 AA.VV. 1973, pp. 28-29, n. 5, tav. VI,2; BOSCHUNG 1987, p. 79, n. 29; STEINBY 2003, p. 45; LIVERANI, SPINOLA 2006, pp. 43-44, fig. 39. 91 AA.VV. 1973, pp. 27-28, n. 4, tav. VI,1; BOSCHUNG 1987, p. 103, n. 770; STEINBY 2003, pp. 46-47; LIVERANI, SPINOLA 2006, pp. 43-44, fig. 39. 92 MAGI 1958, p. 92, tav. IIa; STEINBY 1987, pp. 98-99; STEINBY 2003, pp. 96-98, tavv. 18.4 e 19.1; LIVERANI, SPINOLA 2006, p. 43, fig. 38. 93 STEINBY 2003, pp. 82-83, tav. 11.1-2; LIVERANI, SPINOLA 2006, pp. 47 e 49-51, fig. 46. 94 STEINBY 1987, p. 98; STEINBY 2003, pp. 82-83, tav. 11.1-2. 95 MAGI 1958, p. 92 e tav. III; STEINBY 1987, p. 99; STEINBY 2003, pp. 85-88, tavv. 13.1-2 e 14.1-3; LIVERANI, SPINOLA 2006, pp. 47-49, figg. 44-45. 96 STEINBY 2003, pp. 86-87, note 40-44. Tra questi confronti si può citare anche il sepolcro XXV di santa Rosa (cfr. infra e LIVERANI, SPINOLA 2006, pp. 66-67, fig. 66). 97 Lo sfondamento volontario della volta potrebbe far pensare al riuso del sepolcro interrato, per realizzare alcune fosse per inumati. 98 MAGI 1958, p. 96; STEINBY 1987, pp. 99-100; STEINBY 2003, pp. 90-95, tavv. 16.1-5 e 17.1; LIVERANI, SPINOLA 2006, pp. 44-47, figg. 41-42. 99 Su questo tipo di collegio cfr. supra, nota 39. Sulla parete di fondo, le due nicchie dell’ordine superiore conservano ben tre lastrine iscritte: la prima a sinistra è dedicata da Lucius Pontius Hermeros a sé ed alla moglie Atalante, le altre due, a destra, sono di «Eros, servus atriensis» (una sorta di portiere) degli Horti Serviliani, alla moglie Claudia Tiberia Venusta e di Manius Servilius Romanus, soldato della I coorte, alla moglie Betiliena Euryale. Sulla parete di sinistra una lastrina iscritta, relativa alla nicchia maggiore, attribuisce la proprietà dei cinerari a Tiberius Claudius Onesimus, liberto di Menophilus, ed a sua moglie Claudia Prisca, liberta di Iliades; la prematura morte del figlio ha fatto aggiungere una seconda dedica, relativa alla sepoltura di quest’ultimo. Cfr. AA.VV. 1973, pp. 5658, nn. 52-57, tavv. XXVIII,4, XXIX,1-2, XXX,1-2, XXXI,1. 100 AA.VV. 1973, p. 57, n. 55. Varie altre iscrizioni menzionano gli Horti in questione (CIL VI 8673; AE 1958, 278; AA.VV. 1973, pp. 41-42, n. 28, p. 64, n. 70, p. 68, n. 79 e pp. 158-160). A queste bisogna aggiungere una stele rinvenuta nella stessa area vaticana e conservata nel Lapidario Profano ex Lateranense (inv. 26593); su di essa è la dedica di Sextilia Secunda al suo contubernale (convivente), servo imperiale presso gli Horti Serviliani, che venne «trovata nel mese di giugno 1840 in alcuni antichi sepolcri discoperti nella piazza di Belvedere, in occasione dei nuovi lavori intrapresi quivi per ordine di Mr. Massimi maggiordomo [Emiliano Sarti]» (CIL VI 8674). Sugli Horti Serviliani cfr. L. CHIOFFI, in LTUR, III, Roma 1996, p. 84, s.v. «Horti Serviliani»; STEINBY 2003, pp. 20-21, 26. 101 Col rinvenimento di questa stele iniziò il lavoro archeologico del Magi. F. MAGI, in RendPontAcc, 29, 1956-57, p. 10; AE 1959, 299; AA.VV. 1973, pp. 43-45, n. 32, tav. XX; STEINBY 2003, pp. 58-59, tav. 6.2; LIVERANI, SPINOLA 2006, pp. 39-40, fig. 34. Si può ipotizzare che il saltus in questione possa esser connesso con gli Horti Serviliani menzionati in precedenza.
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102 AE 1959, 300 (B); F. MAGI, Il Titolo di Verecunda Veneria, in RömQSchr, 57, 1962, pp. 287-291; AA.VV. 1973, pp. 41-42, n. 28, tav. XVIII,1; STEINBY 2003, p. 56; LIVERANI, SPINOLA 2006, p. 42 (cfr. anche supra, note 100 e 101). Presso la stele di Verecunda sono altre due stele – la 27, di Hordonia e di Ptolemaeus, e la 29, di una liberta di Anpennius Felix – posteriori sia alla stele 28 che al colombario 1, cui si appoggiano (AA.VV. 1973, pp. 40-41, n. 27, tav. XVII,2, e p. 42, n. 29, tav. XVIII,2). 103 SUET., Nero, 6, 47; CASS. DIO, 63, 27, 3. 104 MAGI 1958, p. 95, tav. 8; AA.VV. 1973, pp. 38-40, nn. 24-26, tavv. XVI,1-2 e XVII,1; STEINBY 1987, p. 108; BOSCHUNG 1987, p. 79, n. 33; STEINBY 2003, pp. 4546; LIVERANI, SPINOLA 2006, p. 42, fig. 37. 105 MAGI 1958, pp. 94-95, tav. 7; STEINBY 1987, pp. 100-101; STEINBY 2003, pp. 75-78, tavv. 7.1-2 e 8.1-2; LIVERANI, SPINOLA 2006, pp. 41-42, fig. 36. 106 AA.VV. 1973, p. 43, n. 31, tav. XIX,2. 107 Altri «oboli di Caronte» sono stati ritrovati nel settore dell’Autoparco, in prossimità del pozzo 66 (cfr. STEINBY 2003, p. 134, n. 40, e p. 137, n. 71), e si possono considerare tali anche molte delle numerose monete rinvenute nello scavo (cfr. STEINBY 2003, pp. 126140), tra cui quelle all’interno di due formae e di un sarcofago della tomba 4 (cfr. infra). Sull’argomento in generale cfr. F. SINN HENNINGER, in G. KOCH, H. SICHTERMANN, Römische Sarkophage, München 1982, p. 41; G. BERGONZI, P. PIANA AGOSTINETTI, «L’obolo di Caronte», «aes rude» e monete nelle tombe: la pianura padana tra mondo classico e ambito transalpino nella seconda età del ferro, in ScAnt, 1987, 1, pp. 161-223; F. CECI, L’interpretazione di monete e chiodi in contesti funerari. Esempi dal suburbio romano, in M. Heinzelmann, J. Ortalli, P. Fasold (a cura di), Römischer Bestattungsbrauch und Beigabensitten in Rom, Norditalien und den Nordwestprovinzen von der späten Republik bis in die Kaiserzeit (Internationales Kolloquium, Rom 1.-3. April 1998), Palilia, 8, Wiesbaden 2001, pp. 87-97; STEINBY 2003, pp. 127-128. Molte relazioni sono state presentate in Trouvailles monétaires de tombes. Actes du deuxième Colloque International du Groupe Suisse pour l’étude des trouvailles monétaires (Neuchâtel, 3-4 mars 1995), Lausanne 1999. Cfr. anche Caronte. Un obolo per l’aldilà, Giornate di Studio, 20 (Salerno, 20-22 Febbraio 1995) in PP, 50, 1995, pp. 161-535; M.P. DEL MORO, L’utilizzo della monete in corso e l’utilizzo delle monete fuori corso nelle catacombe romane, relazione in Atti del XIII Congresso Internazionale di Numismatica di Madrid (15-10 settembre 2003). 108 MAGI 1958, p. 95, tav. IV; STEINBY 1987, p. 101; STEINBY 2003, pp. 79-80, tav. 9.1-2; LIVERANI, SPINOLA 2006, p. 37, fig. 31. 109 AA.VV. 1973, pp. 45-47, nn. 33, 34 e 35, tavv. XXI,12 e XXII,1; STEINBY 2003, pp. 59-60, tav. 6.3; LIVERANI, SPINOLA 2006, p. 37. 110 STEINBY 2003, pp. 28 e 103-104, n. S1, tav. 20.5; LIVERANI, SPINOLA 2006, p. 37, fig. 30. Il bollo è del tipo edito in CIL XV 1293 = Suppl. 530, attestato a Pompei (quindi precedente all’eruzione del Vesuvio nel 79 d.C.); la vasca è coperta da tre mattoni bipedali, due dei quali recano il bollo CIL XV 981, menzionante Cneus Domitius Afer, forse il console suffetto del 39 d.C. che morì nel 59 d.C. 111 AA.VV. 1973, pp. 50-51, nn. 40-43, tavv. XXIV e XXV, e p. 77, n. 95, tav. XLVI,2. 112 AA.VV. 1973, p. 49, n. 39, tav. XXIII,2; STEINBY 2003, pp. 47 e 100; LIVERANI, SPINOLA 2006, p. 54. 113 STEINBY 2003, pp. 62-63 e 100; LIVERANI, SPINOLA 2006, p. 54, fig. 52. 114 STEINBY 1987, p. 102; STEINBY 2003, p. 99, tav. 19.2 e 4; LIVERANI, SPINOLA 2006, p. 52, fig. 49. 115 Cfr. STEINBY 2003, p. 99, nota 93. 116 STEINBY 1987, p. 102; STEINBY 2003, pp. 95-96, tavv. 17.3-4 e 18.3; LIVERANI, SPINOLA 2006, p. 52, fig. 50. 117 U. SANSONI, Il nodo di Salomone. Simbolo e archetipo d’alleanza, Milano 1998; cfr anche la recensione di P. LIVERANI, in ArchCl, LI, 1999-2000, pp. 513-515. 118 STEINBY 1987, p. 102; STEINBY 2003, pp. 98-99, tav. 19.2-3; LIVERANI, SPINOLA 2006, pp. 51-52, fig. 48. 119 AA.VV. 1973, pp. 72-73, n. 87, tav. XLIII,2. 120 STEINBY 2003, pp. 98, 118-119, n. 3, tav. 24.1-2; LIVERANI, SPINOLA 2006, pp. 35-37, fig. 28. 121 STEINBY 1987, p. 102; STEINBY 2003, pp. 88-89, tav. 15.2-5; LIVERANI, SPINOLA 2006, p. 51, fig. 47.
AA.VV. 1973, pp. 52-53, n. 46, tav. XXVI,3. Una certa Apuleia Felix è sepolta in un’urna cineraria trovata all’interno del coevo colombario 9. È possibile che questa defunta possa aver avuto rapporti di parentela con i primi proprietari della piccola area sepolcrale (cfr. AA.VV. 1973, pp. 77-78, n. 96, tav. XLVII,2; STEINBY 2003, p. 89). 124 STEINBY 2003, p. 89. 125 STEINBY 2003, pp. 101-104. Tra i sarcofagi possiamo ricordarne uno fittile a vasca, databile al I secolo d.C., ma riutilizzato in età severiana (cfr. STEINBY 2003, p. 104, n. S2). 126 La tipologia più comune è costituita dalle inumazioni a cappuccina o a fossa semplice (cfr. STEINBY 2003, pp. 108-114; LIVERANI, SPINOLA 2006, pp. 44 e 47, fig. 40). 127 STEINBY 2003, p. 111, tav. 62. 128 STEINBY 2003, p. 158, tav. 41, figg. 1 e 2, e tav. 66; LIVERANI, SPINOLA 2006, p. 31, fig. 24. 129 MAGI 1958, p. 92; STEINBY 1987, p. 103; STEINBY 2003, pp. 78-79, tav. 8.3; LIVERANI, SPINOLA 2006, pp. 40-41, fig. 35. 130 STEINBY 2003, pp. 104-105, n. C 1. 131 Cfr. ad esempio T. NOGALES BASARRATE, J. MARQUEZ PÉREZ, Espacios y tipos funerarios en Augusta Emerita, in D. VAQUERIZO (a cura di), Espacio y usos funerarios en el Occidente Romano, I, Córdoba 2002, pp. 130-133. 132 STEINBY 2003, pp. 106-108, tav. 22. 133 MAGI 1958, p. 92, tav. IV; STEINBY 1987, p. 103; STEINBY 2003, pp. 80-82, tavv. 9.2 e 10.1-2; LIVERANI, SPINOLA 2006, pp. 37-39, figg. 32-33. 134 AA.VV. 1973, pp. 47-48, n. 36, tav. XXII,2; STEINBY 2003, pp. 60-61. Il colombario 4 deve decentrare il suo ingresso per rispettare la stele, di conseguenza si può dedurre l’anteriorità e l’uso della sepoltura segnalata da quest’ultima. 135 Per i confronti vedi STEINBY 2003, p. 81, nota 24. 136 Gli oscilla, in realtà, erano elementi marmorei – di forma circolare, semilunata o a pelta – che venivano appesi sotto le arcate o gli architravi dei portici, per decorarli appunto con il loro oscillare al vento. 137 AA.VV. 1973, pp. 48-49, n. 38; STEINBY 2003, pp. 49-50, n. 1, e p. 82, tav. 3.1. 138 MAGI 1958, p. 96, tav. IIb; STEINBY 1987, pp. 103104; STEINBY 2003, pp. 83-85, tav. 12.1-2; LIVERANI, SPINOLA 2006, p. 37, figg. 29 e 30. 139 Su questo tipo di collegio cfr. supra, nota 39. 140 STEINBY 2003, pp. 23 e 84-85. In una forma venne trovata una moneta – un asse – con dedica alla Diva Faustina (141-161 d.C.); si tratta di un conio più antico della cronologia attribuita al sepolcro, ma questa moneta potrebbe aver circolato per molti decenni. 141 STEINBY 2003, p. 162. 142 AA.VV. 1973, pp. 76-77, n. 94, tav. XLVII. 143 AA.VV. 1973, p. 66, n. 74, tav. XXXVI. 144 Il trattato tra la Santa Sede e lo Stato Italiano dell’11 Febbraio 1929. 145 La numerazione delle camere funerarie segue quella stabilita da JOSI 1931 e LIVERANI 1999. 146 JOSI 1931; E. JOSI, in RendPontAcc, VII, 1929-31, p. 195; G. GATTI, in BullCom, 1933, p. 285; P. STYGER, Römische Katakomben, Berlin 1933, pp. 348-349; ID., Römische Märtyrergrüfte, Berlin 1935, pp. 48ss., tavv. 37-40; L. CASTELLI, Quel tanto di territorio, Roma 1940, pp. 78, 80; B.M. APOLLONI GHETTI – A. FERRUA – E. JOSI – E. KIRSCHBAUM, Esplorazioni sotto la confessione di San Pietro in Vaticano, Città del Vaticano 1951, p. 20, fig. 7; A. VON GERKAN, Von antiker Architektur und Topographie, Stuttgart 1959, p. 361; CAR, G 3; F. MAGI, in EAA VI (1965), s.v. Roma, p. 868-869; ID., ActaInstRomFin VI, 1973, pp. 15-16, tav. III; S. DELLI, Strade in Vaticano, Roma 1982, pp. 110-111; STEINBY 1987, pp. 87-88; CASTAGNOLI 1992, pp. 108112; LIVERANI, SPINOLA 1999, pp. 223-225; LIVERANI 1999, pp. 61-90; Carta I, n. 124; LIVERANI, SPINOLA 2006, pp. 96-115. 147 La pianta schematica generale proposta da LIVERANI 1999, fig. 47 è realizzata in buona parte sulla base delle fotografie, e solo in parte sul rilievo diretto dei sepolcri ancora visibili. 148 JOSI 1931, fig. 10; LIVERANI 1999, pp. 78-79, n. 14, figg. 78-81; LIVERANI, SPINOLA 2006, pp. 109-110, figg. 125-126. 149 Doveva misurare circa m 2,5 per lato. 150 L’anfora dalla forma detta «Dressel 20» è certamente la forma più comune nel bacino del Mediterraneo 122 123
tra la metà del I e la metà del II secolo d.C., pur abbracciando la sua produzione un lungo ambito cronologico, dagli inizi del I secolo d.C. alla metà del III secolo d.C. 151 LIVERANI 1999, p. 79, figg. 81-83. Le anfore sono state trasferite nei magazzini dei Musei Vaticani, ove sono tutt’ora conservate. 152 CASTAGNOLI 1992, p. 110, n. p; LIVERANI 1999, pp. 79 e 81, figg. 89-90; LIVERANI, SPINOLA 2006, pp. 106107, fig. 123. Nell’area di questo monumento sepolcrale vennero alla luce parte di un sarcofago con un cavallo, parte di un vaso marmoreo baccellato e alcuni frammenti di iscrizioni. 153 Misura circa 2,80 metri per lato; JOSI 1931, fig. 11; CASTAGNOLI 1992, p. 110, n. g; LIVERANI 1999, p. 83, n. 21, figg. 93-96; LIVERANI, SPINOLA 2006, pp. 112113, fig. 132. 154 LIVERANI, SPINOLA 1999, p. 224. Cfr. BECATTI 1961, p. 97, n. 170, fig. 29, p. 102, n. 184, tav. XXXVI, p. 106, n. 195, fig. 39, tav. XXXVIII, p. 132, n. 265, tav. XXXIV). 155 Anche in questo caso, per la descrizione del colombario III, si rimanda al successivo paragrafo riguardante il settore di Santa Rosa. 156 Misure: circa 2,5 metri per lato. JOSI 1931, fig. 16; CASTAGNOLI 1992, p. 110, n. i; LIVERANI 1999, p. 83, n. 22, fig. 97; LIVERANI, SPINOLA 2006, pp. 113-114, fig. 131. 157 LIVERANI, SPINOLA 1999, p. 224. 158 CASTAGNOLI 1992, p. 109, n. h, tav. LXVIII, fig. 136; LIVERANI 1999, p. 61, n. 1, figg. 48-49; LIVERANI, SPINOLA 2006, p. 100, fig. 112. 159 Misure circa 4 x 3,2 metri. 160 JOSI 1931, figg. 4 e 18; CASTAGNOLI 1992, p. 109, n. c, tav. LXX, fig. 140; LIVERANI 1999, p. 61, n. 2, fig. 50; LIVERANI, SPINOLA 2006, pp. 100-101, fig. 113. 161 JOSI 1931, p. 29, figg. 17-18; CASTAGNOLI 1992, p. 110, n. h; LIVERANI 1999, p. 61, figg. 51-53; LIVERANI, SPINOLA 2006, p. 101, fig. 114. 162 JOSI 1931, fig. 7; CASTAGNOLI 1992, p. 110, n. e; LIVERANI 1999, pp. 67-68, n. 4, fig. 59; LIVERANI, SPINOLA 2006, p. 102, fig. 4. 163 LIVERANI 1999, p. 68, fig. 59; LIVERANI, SPINOLA 1999, p. 224. Non dissimile è il pavimento del colombario 1 della necropoli di Santa Rosa (cfr. infra) ed alcuni mosaici ostiensi (cfr. BECATTI 1961, p. 17, n. 16, tav. XIV e pp. 42-44, n. 64, tav. XV), tutti dei primi decenni del II secolo d.C. 164 JOSI 1931, p. 29, figg. 3, 4, 6, 15 e 18; CASTAGNOLI 1992, p. 109, n. d, tav. LXX, fig. 140; LIVERANI 1999, pp. 61 e 67, n. 3, figg. 54-56; LIVERANI, SPINOLA 2006, pp. 101-102, figg. 115-116. 165 Misure: circa 3,90 x 3,50 metri. 166 Inv. 38847. JOSI 1931, fig. 6; CASTAGNOLI 1992, tav. LXXI, fig. 142; LIVERANI 1999, pp. 61 e 67, figg. 57-58. 167 Riguardo simili esportazioni si può vedere D.U. SCHILARDI, Paros and the Export of Marble Sarcophagi to Rome and Etruria, in D.U. SCHILARDI, D. KATSONOPOLOU (edd.), Paria lithos, Athens 2000, pp. 537-557. 168 LIVERANI 1999, pp. 75-77, n. 12, figg. 76-77; LIVERANI, SPINOLA 2006, p. 109, fig. 125. 169 Della fine del I secolo a.C./inizi del II secolo d.C. 170 JOSI 1931, p. 27, fig. 8; CASTAGNOLI 1992, p. 109, n. a, tav. LXX, figg. 138-139; LIVERANI 1999, pp. 84-85, figg. 98-105; LIVERANI, SPINOLA 2006, p. 114. 171 I bipedali prendevano il nome dalla misura di due piedi = 60 cm. Alcuni presentano il bollo CIL XV 811d, di età traianea. Cfr. LIVERANI 1999, p. 85, nota 55. 172 P. STYGER, Römische Katakomben, Berlin 1933, tav. 54; JOSI, Scoperta d’un tratto dell’antica via Trionfale in Vaticano, cit. supra, nota 8, fig. 9; CASTAGNOLI 1992, tav. LXXIII, fig. 146; LIVERANI 1999, pp. 73-75, figg. 71-74; LIVERANI, SPINOLA 1999, p. 224, fig. 7; LIVERANI, SPINOLA 2006, pp. 73 e 75, figg. 71-74. 173 Cfr. ad esempio BECATTI 1961, p. 84, n. 136 e p. 89, n. 150, tav. LXXXI, pp. 149-150, n. 287, tav. LXXIX, p. 197, n. 377 e pp. 197-198, n. 378, tav. LXXXIII. Il mosaico venne staccato nel 1930 e quindi trasferito nei Musei Vaticani (inv. 45776). 174 Misura circa di 4 x 3 metri. 175 CASTAGNOLI 1992, p. 110, n. p; LIVERANI 1999, pp. 79-82, n. 19, figg. 41, 87-89; LIVERANI, SPINOLA 2006, p. 112, fig. 129. 176 Cfr. ad esempio alcuni mosaici ostiensi in BECATTI 1961, p. 17, n. 16, tav. XIV, pp. 42-44, n. 64, tav. XV, pp. 133-134, n. 267, p. 208, n. 394, p. 212, n. 394, tav. XIII. 177 LIVERANI 1999, p. 79, n. 15, fig. 84; LIVERANI, SPI-
2006, p. 110, fig. 127. A questo punto il vicolo diviene cieco e la tomba 15 si affaccerà su di una piazzola collegata solo con l’area limitrofa alla via Triumphalis. 179 Misure: circa 3,5 x 3 metri. 180 LIVERANI 1999, p. 79, n. 16, fig. 85; LIVERANI, SPINOLA 2006, p. 110, fig. 128. 181 LIVERANI 1999, p. 79, n. 17; LIVERANI, SPINOLA 2006, p. 110. 182 LIVERANI 1999, p. 79, n. 18, fig. 86; LIVERANI, SPINOLA 2006, p. 112. 183 CASTAGNOLI 1992, p. 110, n. l; LIVERANI 1999, pp. 82-83, n. 20; LIVERANI, SPINOLA 2006, p. 112. 184 JOSI 1931, p. 27, n. 3; CASTAGNOLI 1992, p. 111; LIVERANI 1999, p. 83, fig. 92; LIVERANI, SPINOLA 2006, p. 112, fig. 130. La statuetta è ora conservata nel Magazzino delle Corazze, nei Musei Vaticani (inv. 4739; G. VON KASCHNITZ WEINBERG, Le sculture del magazzino del Museo Vaticano, Città del Vaticano 1936-37, pp. 126-127, n. 269, tav. LVII; E. SCHMIDT, in LIMC, VIII, Zürich-München 1997, s.v. Venus, p. 203, n. 94). 185 JOSI 1931, fig. 12; CASTAGNOLI 1992, p. 111, nn. r, s; LIVERANI 1999, pp. 68-71, nn. 6, 7, 8, figg. 61-63; LIVERANI, SPINOLA 2006, p. 104, figg. 119-121. 186 LIVERANI 1999, p. 78, n. 13, figg. 41 e 42 (in alto); LIVERANI, SPINOLA 2006, p. 109. 187 CASTAGNOLI 1992, p. 110, n. f; LIVERANI 1999, p. 68, n. 5, fig. 60; LIVERANI, SPINOLA 2006, p. 102, fig. 118. 188 JOSI 1931, fig. 13; CASTAGNOLI 1992, p. 110, n. q, tav. LXXIV, fig. 149; LIVERANI 1999, p. 71, n. 9, fig. 64; LIVERANI, SPINOLA 2006, pp. 104-106, fig. 122. 189 CASTAGNOLI 1992, p. 110, n. n; LIVERANI 1999, pp. 71-73, n. 10, figg. 65-70; LIVERANI, SPINOLA 2006, pp. 106-107, fig. 123. 190 Misure: circa 4,10 x 4,90 metri. 191 Lo scavo è stato condotto, sotto la soprintendenza di Francesco Buranelli (allora direttore dei Musei Vaticani), da Paolo Liverani, Giandomenico Spinola e Leonardo Di Blasi, che ha curato, con l’aiuto di Giuseppe D’Errico, anche la parte grafica. Sono anche da ringraziare tra gli archeologi, a diverso titolo, Giorgio Filippi, Alessia Amenta, Daniele Battistoni, Claudia Valeri, Eleonora Ferrazza e Daniele Borgonovo. Inoltre vanno ricordati i restauratori dei Musei Vaticani che sono intervenuti nei cantieri e nei laboratori: per i marmi, i maestri Luciano Ermo e Guy Devreux, Massimo Bernacchi, Stefano Spada, Andrea Felice, Patrizia Rossi; per i mosaici, Roberto Cassio e Paolo Monaldi; per le terrecotte, i vetri ed i metalli, Flavia Callori, Henriette Schokking, Fabiana Francescangeli, Angelica Mazzucato, Alice Baltera, Massimiliana Landi, Giulia Barella, Eva Mentelli; per gli affreschi e gli stucchi, Alessandra Zarelli, Fabio Piacentini, Simone Virdia, Vittoria Cimino, Maria Pustka, Francesco Prantera, Paola Guidi, Marco Innocenzi e Bruno Marocchini, coordinati dal maestro Maurizio De Luca. Una preziosa collaborazione è stata data dal Laboratorio di Ricerche Scientifiche, nelle persone di Ulderico Santamaria e Fabio Morresi. Infine vanno menzionati il Laboratorio di Materie Plastiche, nelle persone di Fabio Mastrolorenzi e Alessandro Bartomioli, la squadra manutenzione, diretta da Antonio Maura, l’Inventario Generale, coordinato da Alessandra Uncini, e l’intero Archivio Fotografico, che ha curato la realizzazione della documentazione fotografica sullo scavo e sui materiali, in particolare Rosanna Di Pinto, Filippo Petrignani, Daniela Valci, Luigi Giordano, Pietro Zigrossi e, soprattutto, Alessandro Bracchetti, cui si deve l’ultima campagna fotografica. A parte va reso merito alla pregevole opera di Giovanni Lattanzi, autore di numerose fotografie dello scavo, effettuate nel 2006 in occasione di un articolo sulla rivista Archeo. A questi ultimi due fotografi va ascritto il merito di gran parte delle suggestive immagini qui riprodotte. 192 Le prime notizie sono state edite in L’attività della Santa Sede 2003, pp. 1294-1295; Ibid., 2004, p. 1308; F. BURANELLI, L. ERMINI PANI, MemPontAcc XVII, 2003, pp. 2-3; STEINBY 2003, pp. 1-3. Una presentazione dello scavo più completa è edita in F. BURANELLI, P. LIVERANI, G. SPINOLA, I nuovi scavi della necropoli della via Trionfale in Vaticano, in RendPontAcc, LXXVIII, 2005-06, pp. 369-390, in SPINOLA 2006 e, soprattutto, in LIVERANI, SPINOLA 2006, pp. 56-95. La schedatura delle sepolture individuali – a incinerazione e ad inumazione – si deve al lavoro di Isabella Bucci, che qui si ringrazia. NOLA 178
193 Il progetto si basa in buona parte sui finanziamenti di un gruppo di munifici sostenitori dei Musei Vaticani, il Canadian Chapter dei Patrons of the Arts in the Vatican Museums. I lavori, che prevedono anche un riallestimento delle due aree archeologiche contigue, dovrebbero terminare nell’autunno del 2010. 194 Sulla questione si può vedere anche J. ORTALLI, Scavo stratigrafico e contesti sepolcrali. Una questione aperta, in AA.VV., Pour une archéologie du rite. Nouvelles perspectives de l’archéologie funérarie (études réunies par John Scheid), Collection de l’École Française de Rome, 407, Roma 2008, pp. 137-159 (con bibliografia aggiornata). 195 Cfr. H. SCHROFF, in PAULY – WISSOWA, Real-Encyclopädie der classischen Altertumswissenschaft, s.v. Tabellarius, IV, A, 2, Stuttgart 1932, coll. 1844-1847. 196 TC 26; inv. 52374. Cfr. LIVERANI, SPINOLA 2006, p. 59. 197 TC 72; inv. 52393. Sui rapporti di unione tra donne libere e schiavi – e sulle leggi che di volta in volta li hanno regolati – si può vedere una sintesi in I. DI STEFANO MANZELLA, Felix Q. Canusi Praenestini libertus in un’epigrafe inedita, in BMonMusPont, XIV, 1994, pp. 90-92. 198 TC 12; inv. 52215. 199 TC 176; inv. 52424. Il testo può solo genericamente esser attribuito alla seconda metà del I secolo a.C. 200 TC 153; inv. 52423. BURANELLI, LIVERANI, SPINOLA 2005-2006, p. 467, fig. 17; LIVERANI, SPINOLA 2006, p. 69, fig. 70. 201 P. HABEL, in PAULY – WISSOWA, Real-Encyclopädie der classischen Altertumswissenschaft, s.v. Aquarii, II,1, Stuttgart 1895, coll. 311-312; E. DE RUGGIERO, Dizionario epigrafico di antichità romane, I, voce Aqua I.B Familia publica a) Aquarius, pp. 554-555, con numerosi confronti epigrafici. In ambito privato, tra gli schiavi, il compito degli aquarii era quello del trasporto dell’acqua entro orci, necessario in tutte le case private, come anche in molti luoghi pubblici e officine: Giovenale, nelle Satirae (VI, 332), parla degli aquarii come degli schiavi più umili. In questo caso, il particolare contesto topografico del Nemus Cai et Luci, rende probabile un lavoro connesso con i numerosi bacini d’acqua – e relative adduzioni – del luogo, presumibilmente svolto negli anni immediatamente successivi alla sua inaugurazione. 202 Res gestae divi Augusti, app. 2; SUET., Aug., 43, 2; CIL VI 31566 = XI 3772; cfr. anche TAC., Ann. 14, 15, 2. 203 DIO CASS., 66.25.3-4: §n t< =lsei t< toæ Ga~ou toæ te Lonk6ou. 204 PIR I 222 e 216. 205 Cfr. A.M. LIBERATI, LTUR III, Roma 1996, p. 337, s.v. «Naumachia Augusti»; E. PAPI, Ibid., p. 340, s.v. «Nemus Caesarum». Alcuni ritengono che questo complesso fosse nei pressi dell’attuale area di piazza San Cosimato, altri (F. COARELLI, in Ostraka, 1.1, 1992, pp. 39-54) fuori Porta Portese. 206 P. LIVERANI, in AA.VV., Vixerunt Omnes. Romani ex imaginibus. Ritratti romani dai Musei Vaticani (cat. della mostra, in giapponese), Tokyo 2004 (ed. italiana Tokyo 2005), p. 26, fig. 10; BURANELLI, LIVERANI, SPINOLA 2005-2006, p. 471, fig. 18; LIVERANI, SPINOLA 2006, p. 60, fig. 56; SPINOLA 2006, pp. 44-45. 207 Inv. 40674. Lo scultore, coadiuvato da un aiutante, sta realizzando, con il trapano corrente, la decorazione di un sarcofago a vasca con protomi leonine (cfr. J. STROSZECK, Die antiken Sarkophagreliefs, VI,1, LöwenSarkophage, Berlin 1998, pp. 19, 23, 72, 90, 95, nota 771, tav. 94, fig. 8; K. EICHNER, Technische Voraussetzungen für die Massenproduktion von Sarkophagen in konstantinischer Zeit, in G. KOCH (ed.), SarkophagStudien, 2, Akten des Symposiums «Frühchristliche Sarkophage», Marburg, 30.6-4.7. 1999, Mainz am Rhein 2002, pp. 75-77, tav. 26). 208 Galleria dei Candelabri, inv. 2671; G. LIPPOLD, Die Skulpturen des Vaticanischen Museums, Berlin 1956, pp. 317-318, n. 52, tav. 142; G. ZIMMER, Römische Berufsdarstellungen, Berlin 1982, pp. 157-158, n. 80; P. LIVERANI, in Vixerunt omnes (cit. supra, nota 206) Tokyo 2004, pp. 110-112, n. 14 (= ed. italiana Tokyo 2005, pp. 62-63); G. SPINOLA, Il Museo Pio Clementino. 3, Città del Vaticano 2004, pp. 255-256, n. 52 (con bibliografia precedente). 209 Si tratta di un contenitore prodotto tra Umbria ed Etruria, nell’alta valle del Tevere, per il trasporto del vino di qualità dell’Italia centrale. Il contenitore detto «di Spello» sembra diffuso in un ambito cronologico
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ben definito – tra il 50 ed il 150 d.C. – pur con sporadiche presenze anche leggermente oltre; il vino esportato potrebbe essere quello prodotto in quelle colline dalla vite menzionata da Plinio come hirtiola (o irtiola), appunto dalla gens Hirtia, e le piccole dimensioni dovrebbero indicare che tale vino era considerato di qualità. Progressivamente – dalla fine del I secolo d.C. – l’anfora «di Spello» viene a sostituire, anche se in forma ridotta, parte del mercato coperto dall’anfora «Dressel 2-4», adibita al trasporto vinario dell’intera penisola, ma soprattutto laziale e campano (cfr. Ostia I, p. 108, fig. 544; Ostia II, pp. 105-106, figg. 521-523; Ostia III, pp. 206 e 624, fig. 369; A. TCHERNIA, Le vin dans l’Italie romaine, Roma 1976, passim). 210 Si tratta di una serie di anfore derivate da un prototipo greco-insulare (Cos), ma di fabbricazione italiana o provinciale (spesso spagnola). In Italia il contenitore era prevalentemente adibito al trasporto dei vini campani e laziali, dalla fine del I secolo a.C. agli inizi del II secolo d.C. (cfr. Ostia II, pp. 119-124, 127-136, 143146, nn. 16-46; Ostia III, pp. 497-504; C. PANELLA, M. FANO, Le anfore con anse bifide conservate a Pompei: contributo ad una loro classificazione, in Méthodes classiques et méthodes formelles dans l’étude des amphores, in MEFRA, suppl. 32, 1977, pp. 133-177; L. FARIÑA DEL CERRO, W. FERNANDEZ DE LA VEGA, A. HESNARD, Contribution à l’établissement d’une typologie des amphores dites «Dressel 2-4», Ibid., pp. 179-206; M. SCIALLANO, P. SIBELLA, Amphores. Comment les identifier?, Barcelona 1994, p. 38). In alcuni rari casi l’anfora «Dressel 2-4» presenta alcune attestazioni anche più tarde (cfr. A. DESBAT, H. SAVAY GUERRAZ, in Gallia, 47, 1990, pp. 203-213). 211 BURANELLI, LIVERANI, SPINOLA 2005-2006, p. 471, fig. 20; LIVERANI, SPINOLA 2006, pp. 79-80, fig. 84; SPINOLA 2006, p. 45. 212 I servi lanternarii erano genericamente adibiti all’illuminazione notturna – ad esempio illuminavano il lavoro dei pittori d’iscrizioni (cfr. A. HUG, in PAULY – WISSOWA, Real-Encyclopädie der classischen Altertumswissenschaft, s.v. Lanterna, XII,1, Stuttgart 1921, coll. 693-694; AE 1915, 62) – ma alcuni di essi erano anche ostiari, quindi dimoravano presso l’ingresso delle abitazioni (cfr. CIC., Pis., 20). Una lanterna molto simile a quella della presente statuetta è scolpita sull’altare di Marcus Hordonius Philargurus Labeo, definito lanternarius, che in questo caso va inteso come fabbricante di lanterne, essendo un uomo libero (CIL X 3970; G. ZIMMER, Römische Berufsdarstellungen, Berlin 1982, pp. 203-204, n. 149). L’altare fu ritrovato a Ercolano, poi venne trasferito nella chiesa di San Michele a Capua, ma attualmente è irreperibile; una sua raffigurazione è incisa sulla tav. XXVII di Antiquités d’Herculanum, Gravées par Th. Piroli avec une explication par S.-Ph. Chaudé et publiées par F. et P. Piranesi, frères, Tome VI, Lampes et Candelabras, Paris 1806 (Antichità di Ercolano, tomo VIII, p. 265). 213 B. ANDREAE (ed.), Bildkatalog der Skulpturen des Vatikanischen Museums, I, Museo Chiaramonti, BerlinNew York 1995, p. 101*, n. 340, tav. 1068 (con bibliografia precedente). In questo caso la statuetta era parte di una fontanella; sull’orcio, infatti, era il foro da cui usciva uno zampillo d’acqua. 214 La statuetta è mancante di parte della gamba destra e presenta anche altre piccole lacune. Le parti fratturate non sono state ritrovate sotto l’anfora, di conseguenza si può ritenere che la piccola scultura sia stata sepolta nello stesso imperfetto stato di conservazione del rinvenimento: si tratta quindi del reimpiego di un manufatto lesionato, originariamente con altra destinazione. 215 BURANELLI, LIVERANI, SPINOLA 2005-2006, pp. 471472, fig. 21; LIVERANI, SPINOLA 2006, p. 59; SPINOLA 2006, p. 42. Tra queste sepolture si può ricordare l’incinerazione TC 15. Si possono confrontare, ad esempio, alcune urne cinerarie a forma di cassetta, con quattro peducci (cfr. quelle edite in F. SINN, Stadrömische Marmorurnen, Mainz 1978, p. 95, nn. 17 e 18; P. RODRIGUEZ OLIVA, Talleres locales de urnas cinerarias de sarcofagos en la Provincia Hispania Ulterior Baetica, in D. VAQUERIZO (a cura di), Espacio y usos funerarios en el Occidente Romano, I, Córdoba 2002, pp. 259-285) o altre urne cinerarie marmoree a forma di canestro (cfr. SINN, Ibid., pp. 62-63, 175, nn. 341-344). 216 Sulla creazione di spazi e recinti funerari, anche con l’uso di materiali deperibili, cfr. D. VAQUERIZO, Recintos y Acotados funerarios en Colonia Patricia Corduba,
340
in Madrider Mitteilungen, 43, 2001, pp. 168-205; ID., Espacio y usos funerario en Corduba, in D. VAQUERIZO (a cura di), Espacio y usos funerarios en el Occidente Romano, II, Córdoba 2002, pp. 168ss.; A.B. RUIZ OSUNA, La monumentalización de los espacios funerarios en Colonia Patricia Corduba (Ss. I a.C.-II d.C.), Arqueologia Cordobesa, 16, 2007, pp. 56ss.; M.R. PICUTI, Il contributo dell’Epigrafia latina allo scavo delle necropoli antiche, in AA.VV., Pour une archéologie du rite. Nouvelles perspectives de l’archéologie funérarie (études réunies par John Scheid), Collection de l’École Française de Rome, 407, Roma 2008, pp. 47-49 (con bibliografia di riferimento). 217 LIVERANI, SPINOLA 2006, pp. 67-69, fig. 68. La tomba presenta gli alzati quasi del tutto rasati già in antico. Di particolare interesse sono le olle cinerarie, di dimensioni maggiori del consueto e di un tipo attestato soprattutto nella prima età augustea. 218 LIVERANI, SPINOLA 2006, p. 69, fig. 69. Il sepolcro XXII è costruito in opera laterizia e conserva anche la sua copertura a botte, mancante solo dell’estradosso. Sulla fronte è un riquadro in laterizio, dove originariamente era inserita una lastra marmorea con la dedica ai titolari della tomba: questa iscrizione renderebbe pleonastica quella della stele. 219 La stele, identificata con la sigla TC 167, presenta subito di fronte un tubulo per le libagioni verso un cinerario (TC 165) e un’anfora (TC 166) relativa ad un’altra sepoltura a incinerazione. 220 LIVERANI, SPINOLA 2006, pp. 69-70, fig. 71. La tomba presenta l’ingresso rivolto ad est, verso valle, ma dopo più di mezzo secolo questo venne chiuso dal muro occidentale del sepolcro III. 221 Tubulo: TC 171; stele: TC 172. Davanti alla stele è anche una lucerna (inv. 52306) con un cervo, un ramo di palma e, forse, una faretra – del tipo Bailey Piii, databile tra la seconda metà del I e la prima metà del II secolo d.C. 222 E. DE RUGGIERO, Dizionario epigrafico di antichità romane, III, voce Hortator, p. 992; LIVERANI, SPINOLA 2006, p. 70, fig. 72; SPINOLA 2006, p. 45. Sono noti a Roma altri due hortatores della factio veneta (CIL VI 10074, 10076, entrambe da Villa Doria Pamphilj). 223 La stele – alta cm 98, larga cm 45 e profonda cm 25 – è databile intorno alla metà del I secolo d.C. e fa parte di un lotto di manufatti esportati clandestinamente dall’area archeologica di Santa Rosa nel dicembre 2002; attualmente sono in deposito giudiziario presso la caserma della Guardia di Finanza di Fiumicino. Nel testo di questa stele in travertino è di particolare importanza la menzione a Titus Albanus Hortator membro della factio veneta, appunto una delle quattro fazioni, che gareggiavano nelle corse del circo e che avevano una notevole rilevanza sociale (cfr. A. CAMERON, Circus Factions. Blues and Greens at Rome and Byzantium, Oxford 1976). Tra i materiali sequestrati sono anche tre are iscritte della metà del I secolo d.C.: la prima è dedicata da Titus Occius Euschemus ai genitori, Pinnia Heureusi e Titus Occius Telesphorus; la seconda è posta dal liberto Censorinus al liberto imperiale Callistus Abascantus e al liberto Creticianus; nella terza è la dedica di Lucius Sempronius Urbanus alla sorella e liberta Sempronia Genice, cui segue quella di Sempronia Thallusa, moglie di Urbanus, e di Ulvius Numerius Apollonius e del fratello Marcus Aponius Sabbio. 224 SUET., Vit. 14.3: «Quosdam et de plebe ob id ipsum, quod Venetae factioni clare male dixerant, interemit contemptu sui et noua spe id ausos opinatus». «Fece anche giustiziare semplici plebei solo perché avevano fatto ad alta voce una manifestazione contro la squadra degli Azzurri, pensando che essi avevano osato tanto per disprezzo verso di lui e nella speranza di una rivoluzione». 225 Dall’area vaticana sono emerse numerose testimonianze di sepolture legate all’ambiente circense, verosimilmente per la presenza del vicino circo di Caligola e Nerone. Come è noto, infatti, tale circo si trovava in corrispondenza dell’area a sinistra della basilica Vaticana e costituiva la struttura monumentale più importante e caratteristica del Vaticano pre-cristiano. Si possono infatti ricordare la grande iscrizione dell’auriga Publius Avilius Teres (CIL VI 37834), i cui frammenti sono stati rinvenuti a più riprese tra Castel Sant’Angelo e il Vaticano, l’iscrizione funeraria dell’auriga Pompeius (CIL VI 33953), proveniente dalla stessa area, le iscrizioni CIL VI 10056, dalla Basilica Vaticana, e CIL VI
10067, vista nella rotonda di Santa Petronilla prima della sua distruzione. Segnalazioni sempre dall’area vaticana risalenti a varie epoche ricordano l’iscrizione dell’auriga Appuleius Diocles (CIL VI 10048) e altre che non conservano il nome, ma pur sempre relative ai giochi del circo (CIL VI 10052, 10057). Dal vicino settore dell’Autoparco provengono la stele funeraria di Theseus (AA.VV. 1973, p. 69, n. 81, tav. XL), auriga dei Verdi (agitator della factio Prasina), e un bustino di auriga. Si può citare infine il cavallo Volucer della stessa fazione, sepolto in Vaticano dall’imperatore Lucio Vero (SHA, Verus 6. 3-4). Cfr. anche LIVERANI 1999, pp. 21-28 e 32-34; ID., in LTUR, Supplementum, III, Roma 2005, pp. 11-12, s.v. «Gai et Neronis Circus»; M.A. TOMEI, Ibid., pp. 12-13, s.v. «Gaianum». 226 LIVERANI, SPINOLA 2006, p. 67, figg. 67a, 67b. 227 LIVERANI, SPINOLA 2006, pp. 66-67, fig. 66. 228 Riguardo la funzione di questo tubulo maggiore si potrebbe considerare anche il parallelo con quanto constatato in tombe della vicina necropoli dell’Annona dove le foto dello scavo testimoniano pozzetti apparentemente destinati a incinerazioni in cui si innestano tubuli simili (LIVERANI 1999, pp. 84-85, n. 23, figg. 103-104; cfr. inoltre pp. 61-67, n. 3, fig. 58 e supra, p. 199 e infra, p. 235). 229 LIVERANI, SPINOLA 2006, p. 89. 230 Attualmente quasi tutto il sepolcro è purtroppo coperto da una grande soletta di cemento armato. 231 BURANELLI, LIVERANI, SPINOLA 2005-2006, pp. 457459, figg. 5-6; LIVERANI, SPINOLA 2006, pp. 88-89, figg. 98-100; SPINOLA 2006, pp. 42 e 44. 232 SPINOLA 2006, p. 42. Piuttosto vicini appaiono alcuni ritratti infantili di età tiberiano-claudia: cfr. ad esempio B. DI LEO, in A. GIULIANO (a cura di), Museo Nazionale Romano. Le sculture, I/9,1, pp. 172-174, n. R132; B. ANDREAE (a cura di), Bildkatalog der Skulpturen des Vatikanischen Museums, I, Museo Chiaramonti, Berlin-New York 1995, p. 17*, nn. 193 e 194, tavv. 131 e 132-133. 233 Il contesto, sigillato, permette di datare con certezza la vita di questa seconda fase del sepolcro. Si tratta infatti di lucerne «a becco tondo», con marchio di fabbrica MVNTREPT (tipo Bailey «Pi»; CIL XV, 2, 6565, e) attestato tra la fine del I e la metà del II secolo d.C. 234 Cfr. ad esempio A.A. AMADIO, in A. GIULIANO (a cura di), Museo Nazionale Romano. Le sculture, I/9, Roma 1987, pp. 202-203, n. R158. 235 La testa di un bustino simile era già stata rinvenuta nel settore dell’Autoparco, ma fuori strato (cfr. STEINBY 2003, p. 121, n. 6, tav. 25.2). Come confronti si possono ricordare altri manufatti simili in AA.VV., Mostra Augustea della Romanità (cat. della mostra), Roma 1938 (IV ed.), p. 920, n. 1c; V.F. CECI, Ermetta fittile dalla via Nomentana: un nuovo tipo di sonaglio di età romana, in ArchClass 42, 1990, pp. 441-448; G. MESSINEO, in RivStPomp 5, 1991-92, 130, figg. 25-26; E. SALZA PRINA RICOTTI, Museo della Civiltà Romana. Vita e costumi dei Romani antichi, 18, Giochi e giocattoli, Roma 1995, pp. 18-24. 236 D. VAQUERIZO GIL, Immaturi et innupti, Barcelona 2004, passim (con bibliografia precedente completa). 237 TF 3. LIVERANI, SPINOLA 2006, p. 66, fig. 65; SPINOLA 2006, p. 46. 238 LIVERANI, SPINOLA 2006, p. 63. 239 Alla tomba si addossano alcune sepolture, di cui si ricordano quelle segnalate da stele. Sulla fronte si dispongono la tomba che Avillius Felix costruisce per la madre Avillia Soractina (TC 40; inv. 52390), a diretto contatto con lo stipite sinistro del sepolcro XXVIII, la tomba fatta da Gratina ai servi Syrus e Roman[us?] (TC 53; inv. 52380) quella di Auctinus alla moglie Anthidis (TC 45; inv. 52379) e quella di Cestia Eutychia a Iucundus e ad Alexander (TC 48; inv. 52377), tutte e tre sull’altro lato, e la tomba che Zelothos dedica alla contubernale Aestiva (TC 43; inv. 52378), che oblitera l’ingresso dello stesso sepolcro; lungo il lato sinistro (quello orientale) sono invece tre stele anepigrafi TC 34 (inv. 52386), TC 36 (inv. 52387) e TC 39 (inv. 52389). 240 LIVERANI, SPINOLA 2006, pp. 61-63. Di questo colombario, della metà del I secolo d.C., sono visibili parte del muro settentrionale, con due nicchie per doppie olle cinerarie, e parte del muro di fondo occidentale, con una nicchia maggiore; le pareti sono intonacate e dipinte di rosso, mentre il pavimento prevedeva una cornice a listelli marmorei. 241 Tra le tombe XXI e XXVI si dispongono numerose in-
cinerazioni, alcune delle quali con una stele come segnacolo; molte dediche riportano i nomi di probabili liberti imperiali di età giulio-claudia. Tra queste si possono ricordare la stele con dedica a Caius Iulius Anchinus (TC 83; inv. 52434), quella con dedica al patronus Severus (TC 102; inv. 52433), quella di Claudia Nice al figlio Tiberius Claudius Vitalis (TC 104; inv. 52432) e quella di Tiberius Pyramus e Faenia Favor ai figli Ianuarius e Restitutus (TC 108; inv. 52431). 242 BURANELLI, LIVERANI, SPINOLA 2005-2006, pp. 464467, fig. 14; LIVERANI, SPINOLA 2006, pp. 81-82, figg. 88 e 89. Davanti alla lastra è inserita nel terreno un’anfora «di Spello» (50-150 d.C.), relativa a una incinerazione successiva. 243 BURANELLI, LIVERANI, SPINOLA 2005-2006, p. 467, fig. 15; LIVERANI, SPINOLA 2006, pp. 80-81, figg. 86 e 87; SPINOLA 2006, p. 43. In seguito intorno alla tomba si affollarono un gran numero di sepolture individuali a incinerazione; tra queste si possono ricordare quelle che conservano il nome del defunto scolpito su di una stele: come TC 117 (inv. 52429), frammentaria con iscritto R[---]ONIUS DULGENTISSIMUS, TC 125 (inv. 52410), con dedica del liberto Agathangelus al patrono Matius Martialis, e TC 137 (inv. 52422), di Attia Eutychia al marito Titus Senius Abascantus. 244 Ad una fase successiva all’abbandono della tomba di Alcimus appartiene la lunga stele con la dedica di Lucius Marcus Valerius Onesimus alla moglie Clodia Elpidiva, ritrovata addossata al sepolcro, ma non pertinente ad esso; probabilmente la stele è franata da una tomba più a monte in occasione dei grandi cedimenti del terreno del colle, intorno al 130-140 d.C. 245 Il termine custos (custode, guardiano, protettore), anche alla luce degli strumenti raffigurati presso Alcimus, va inteso in nell’accezione più generica di «curatore» (cfr. ad esempio le diverse letture in CIL VI 130, 1585, 3962, 6226, 8431). 246 Questi strumenti sono documentati in numerosi altari, basi e stele: cfr. G. ZIMMER, Römische Berufsdarstellungen, Berlin 1982, pp. 161-179, nn. 84-111. In età imperiale è nota la presenza di varie strutture necessarie agli spettacoli: i macchinari scenici, come il proscenium, la parte della scena vicina all’orchestra, su cui era spesso raffigurata l’ambientazione teatrale (una via, una piazza o altro), la scaenae frons, un fondale architettonico spesso integrato da pannelli dipinti, i periaktoi, dei prismi triangolari rotabili (derivati dal teatro greco) con i tre lati dipinti con una scena tragica, una comica e una satiresca, e l’auleum, una sorta di sipario che veniva calato o sollevato in occasione dei cambi di scena o alla fine della rappresentazione. 247 Cfr. P. GROS, in LTUR, V, Roma 1999, pp. 35-38, s.v. «Theatrum Pompei» (con bibliografia precedente). 248 TAC., Ann., 3, 72, 4 e 6, 45, 2; VELL., 2, 130; SEN., Dial., 6, 22, 4; SUET., Tib., 47, 1, Cal., 21, 1 e Claud., 21, 3; CASS. DIO, 57, 21, 3 e 60, 6, 8). 249 CASS. DIO, 63, 6, 1-2; cfr. anche PLIN., Nat. Hist., 33, 54. 250 CASS. DIO, 66, 24, 2. 251 Cfr. pp. 199 e 235. 252 BURANELLI, LIVERANI, SPINOLA 2005-2006, pp. 455457, figg. 3 e 4; LIVERANI, SPINOLA 2006, pp. 86-88, figg. 95-97. Il muro perimetrale del colombario (di circa 5 metri per lato) «ritaglia» parzialmente le strutture del colombario XIV e della tomba IV (dei Natronii), comunque senza distruggerli: queste tombe più antiche presumibilmente dovevano già essere in un primo stato di abbandono. 253 Inserita nella muratura della parete di fondo, al di sotto di una delle nicchie ed accanto a un incasso per una lastra maggiore, è una lastrina marmorea con la dedica di Lucius Granius Restitutus al figlio Restitutus. Un’altra grande nicchia, con al di sotto un incasso rettangolare per una lastra di grandi dimensioni, è nella parte superiore della stessa parete di fondo; la nicchia, con incorniciatura a rilievo e con due olle cinerarie murate, era probabilmente destinata ai titolari del mausoleo e la lastra, purtroppo perduta, recava l’iscrizione principale, con la dedica del monumento sepolcrale. 254 Il colombario, edificato verso il 60 d.C., deve aver accolto deposizioni almeno fino alla fine del I secolo d.C. 255 Al di sopra della ghirlanda marmorea, due piccoli chiodi dovevano fissarne una vegetale. 256 Cfr. D. BOSCHUNG, Antike Grabaltäre aus den Nekropolen Roms, Bern 1987, pp. 96-97, nn. 643, 644,
649, 651, 656. 257 La figura femminile si appoggia a un tino con la mano sinistra. La lettura della scena presenta dei margini d’incertezza, in quanto potrebbe invece rappresentare i giochi infantili del dio, ospite delle ninfe di Nysa. 258 Cfr. P. CASTRÉN, Acta Instituti Romani Finlandiae VI, 1973, pp. 158-161; STEINBY 2003, pp. 20-21, 26. 259 R. HANSLIK, RE XVIII (1949), s.v. Passienus, cc. 20972098, n. 2; PIR VI2 (1998) Passienus 146. Ringraziamo Claudia Lega e Ivan Di Stefano per aver discusso con noi gli aspetti prosopografici. 260 SCHOL. AD IUV., 4.81; HIER., Chron. ad a. 38 (p. 178 Helm). Sulle sue tenute sulla riva destra del Tevere cfr. P. BACCINI LEOTARDI, in LTUR, Suburbium, II, Roma 2004, pp. 169-170, s.v. «C. Crispi Passieni Praediorum». 261 LIVERANI, SPINOLA 2006, pp. 85-86, figg. 93-94. La tomba è solo genericamente databile alla seconda metà del I secolo d.C. 262 LIVERANI, SPINOLA 2006, pp. 63-64, figg. 61-62; SPINOLA 2006, p. 43. 263 La tomba deve esser stata soggetta a frequenti piccole frane e interri, visto che, intorno all’ingresso si è creata un’area libera delimitata da alcuni laterizi posti di taglio, per preservare la tomba dalle infiltrazioni di terra e il suo accesso da altre sepolture. 264 La muratura della volta copre le facce laterali dell’ara-cinerario, ove sono scolpiti i due canonici elementi sacrificali, l’urceus e la patera. 265 La tomba (TC 75; inv. 52385) è corredata da una stele, con dedica a Seria Fortunata da parte del marito Lucius Serius Secundus, sotto cui è una lastra con i fori per le libagioni; a fianco è parte di un’anfora (TC 74) pertinente ad un’altra incinerazione. 266 BURANELLI, LIVERANI, SPINOLA 2005-2006, p. 471, fig. 19; LIVERANI, SPINOLA 2006, pp. 64-65, figg. 6364; SPINOLA 2006, p. 43. 267 Si tratta di un gran numero di incinerazioni, tra cui la menzionata stele TC 75 (inv. 52385; cfr. supra), la stele frammentaria TC 62 (inv. 52420) e molti cinerari segnalati da tubuli e anfore. Inoltre poco a nord, tra il colombario XVI e la tomba XXI, è da ricordare la stele di Marcus Eulutus Proculus, con dedica al figlio Primus e alla moglie e liberta Pyramidis (TC 77; inv. 52394). Un’ara-cinerario – con la dedica di Rutilia Sunthyche al figlio Publius Rutilius Felix, morto a soli 5 anni – proviene da un’area della necropoli non definibile, in quanto rinvenuta fuori contesto; sulla fronte il fanciullo è raffigurato in toga, con ai suoi piedi il contenitore dei rotoli. Un’altra ara-cinerario è stata rinvenuta fuori contesto e mostra evidenti tracce del suo riutilizzo: l’incavo per le ceneri, sul retro, è stato murato e sulla fronte è stata incisa la dedica «D(ONUM) D(EDIT)» di Sextus Aonius Barronius, liberto di Aonius Thophimus (cfr. CIL VI 4731), posta a Sancto Silvano. Forse il reimpiego, con la nuova dedica votiva, è da porre in relazione ad un luogo di culto di Silvano dendroforo, all’interno del grande santuario della Magna Mater (Cibele) prossimo a quest’area vaticana. Esistono varie dediche dei dendrofori (componenti del collegio professionale dei commercianti e artigiani del legno) a Silvano e alla Magna Mater. A Roma, nella Basilica Hilariana, furono rinvenute per esempio alcune dediche dei dendrophori a Silvano (CIL VI 637 e 641; cfr. anche CIL VI 642), mentre a Ostia si conosce la dedica dell’apparator (sacerdote addetto ai sacrifici e alle cerimonie) della Magna Mater, Caius Atilius, di una statua di Silvano ai dendrofori ostiensi (CIL XIV 53). Altro diretto e interessantissimo legame con Attis e la Magna Mater nell’iscrizione su una colonna (CIL IX 3375) di Aufinum (Ofena). Nella Basilica Hilariana i dendrofori partecipavano alle cerimonie del taglio del pino di Attis (arbor sancta) e al suo trasporto processionale. 268 BURANELLI, LIVERANI, SPINOLA 2005-2006, p. 467, fig. 16; LIVERANI, SPINOLA 2006, p. 63, fig. 60; SPINOLA 2006, pp. 44-45. 269 Non conosciamo più precisamente di quale mandato fosse stato investito tale legatus e se la sua ambasceria fosse diretta all’imperatore, al senato o a qualche alto funzionario dell’amministrazione. Le motivazioni di legazioni municipali e coloniali attestate dalle fonti letterarie o epigrafiche sono raccolte in G. IACOPI, s.v. Legatus n. 5, in E. DE RUGGIERO, Dizionario epigrafico di antichità romane, IV, 512-521. 270 Accanto è stata rinvenuta la stele TC 22 (inv. 52370), con dedica di Glaucinus alla moglie Iunia
Cryso, franata da un sepolcro poco a monte. 271 BURANELLI, LIVERANI, SPINOLA 2005-2006, p. 464, figg. 12 e 13; LIVERANI, SPINOLA 2006, pp. 70-74, figg. 73-77; SPINOLA 2006, pp. 45-46. 272 Cfr. H. JOYCE, The Decoration of Walls, Ceilings, and Floors in Italy in the Second and Third Centuries A.D., Roma 1981, pp. 72-78, figg. 69, 70, 71, 73-79. 273 Questo motivo illusionistico, irregolarmente adattato alle dimensioni del vano e creato da elementi quadrati, a «L» ed esagonali, ricorda quello di alcuni mosaici ostiensi del 120-130 d.C. (cfr. ad esempio BECATTI 1961, p. 102, n. 184, tav. XXVI e pp. 123-124, n. 225, tav. XXX). 274 Al di sotto della preparazione del mosaico – rimosso per ragioni conservative e successivamente ricollocato in posto – sono state appunto ritrovate quattro olle cinerarie. 275 La scena si svolge sulle rive dello Stige; nel mondo greco questo fiume mefitico era però inteso come una divinità femminile, figlia di Okeanos e Teti (Esiodo) o della Notte e dell’Erebo (Igino). Viceversa l’Acheronte è in forme maschili, essendo un figlio di Gaia, condannato ad essere un fiume infero per aver dissetato i Giganti nella lotta contro gli Dei. La personificazione barbata, comunque, potrebbe essere anche una più generica raffigurazione dell’Averno, il lago vulcanico campano ritenuto l’ingresso dell’Ade. 276 De Acherontis Transitu (VI, 384-425): «Quindi continuano il viaggio iniziato e s’avvicinano al fiume. Ma quando il nocchiero li vide venire di lì ormai dalla onda Stigia per il bosco selvoso e volgere il piede alla riva, così per primo li affronta a parole e inoltre li sgrida: “Chiunque tu sia, tu che armato giungi ai nostri fiumi, su dì perché vieni da lì e ferma il passo. Questo è il luogo delle ombre, del sonno e della notte soporifera: è proibito trasportare corpi vivi con la barca stigia. Davvero non mi son rallegrato d’aver accolto sul lago Alcide (Ercole), che avanzava, né Teseo e Piritoo, benché fossero figli di dei e invitti per le forze. Il primo con la mano mise in catene il custode del Tartaro e lo strappò tremante dalla soglia dello stesso re: i secondi, assalitala, tolsero dal letto la signora di Dite”. A questo brevemente la profetessa Anfrisia rispose: “Qui non ci sono tali insidie (smetti d’esser spaventato) le armi non portano violenza; l’enorme portinaio atterrisca pure nell’antro latrando in eterno le pallide ombre, la casta Proserpina conservi pure la casa dello zio”. Il troiano Enea, famoso per pietà ed armi, discende dal padre alle profonde ombre dell’Erebo. “Se nessuna immagine di sì grande pietà ti commuove, riconosci però questo ramo” (mostra il ramo che nascondeva sotto la veste). Allora i cuori gonfi dall’ira si placano, e nulla (risponde) a ciò. Egli ammirando il venerabile dono della verga fatale, visto dopo lungo tempo, volge la cerulea poppa e s’avvicina alla riva. Quindi sloggia le altre anime, che sedevano per i lunghi banchi, ed allarga i posti; poi accoglie sullo scafo il gigantesco Enea. La barca cucita gemette sotto il peso e screpolata accolse molta (acqua di) palude. Infine incolume oltre il fiume depone l’eroe e la profetessa nell’informe fango e nell’alga verdastra. Cerbero gigantesco rimbomba questi regni col latrato di tre bocche, enorme sdraiandosi davanti nell’antro. A lui la profetessa, vedendo che ormai i serpenti si rizzavano sul collo, butta una focaccia soporifera di miele e frutta drogata: Egli aprendo le tre gole con fame rabbiosa, lanciata, l’afferra e scioglie il dorso terribile e buttato a terra, gigantesco si stende per tutto l’antro. Enea occupa l’entrata, sepolto il guardiano, veloce supera la riva dell’onda inattraversabile». L’episodio dell’aiuto della Sibilla ad Enea, con il ramo d’oro, è narrato anche nelle Metamorfosi di Ovidio (OV., Met., XIV, 101128): in questo caso, però, il mitico dono sembra servire solo per uscire dagli Inferi, essendo invece facile entrarvi. «Quando superò queste regioni e a destra lasciò le mura di Partenope, dalla parte sinistra il tumulo del figlio di Eolo, abile nel canto, e approda ai lidi di Cuma, luoghi pieni di acque paludose, ed entra nell’antro della longeva Sibilla e le chiede di potersi avvicinare all’ombra paterna nell’Averno» (versi 101-107); «Alla virtù nessuna via è inaccessibile» finì di dire (la Sibilla) e indicò un ramo splendente d’oro nella selva di Giunone infernale e gli ordinò di strapparlo dal suo tronco (trad. Scivoletto; versi 113-115); «O che tu sia una dea vera e benefica o che sia carissima agli dei – disse – per me sarai pari a una divinità e ammetterò che io sono debitore del tuo dono, tu che hai voluto
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che penetrassi nei luoghi della morte, che hai voluto che uscissi da questi stessi luoghi dopo aver visto la morte; e in cambio di questi doni io, uscito a respirar l’aria, innalzerò a te vivente un tempio, ti renderò gli onori con l’incenso» (versi 123-128). 277 L’ingresso di Enea nell’Averno compare invece, come miniatura (circa 400 d.C.), ad illustrare il relativo passo del cosiddetto Virgilio Vaticano (Biblioteca Apostolica Vaticana, Vat. Lat., 3225, fol. 52r). 278 OV., Met., VII, 297-349: «Ma per non rinunciare alle sue arti, la donna del Fasi [Medea] finse di odiare il marito e fuggì alla reggia di Pelia chiedendo asilo. Anche costui era fiaccato dal peso degli anni e così lei fu accolta dalle figlie. In poco tempo astutamente se le ingraziò con la malia di una falsa amicizia; ed enumerando i propri meriti, citò, fra i maggiori, quello d’aver sottratto Esone allo sfacelo; insistendo sull’argomento riuscì a insinuare nelle fanciulle la speranza di poter ringiovanire con quelle arti il loro genitore. E questo chiedono, invitandola a fissare lei stessa il compenso. Medea per un po’ tace, quasi incerta se accettare o no, e, affettando un’aria grave, le tiene col cuore in sospeso. Infine, dopo averglielo promesso: “Perché abbiate più fiducia nel dono che vi faccio” dice, “prima trasformerò coi miei filtri il più vecchio montone, che guida il vostro gregge, in agnello”. Subito, tratto per le corna attorte intorno al solco delle tempie, le viene condotto un montone stremato da un’infinità d’anni. Con un coltello d’Emonia la maga trafigge la gola flaccida dell’animale (solo qualche goccia di sangue macchia la lama), poi, insieme ai suoi succhi di rara virtù, ne immerge il corpo in una caldaia di bronzo. I succhi rimpiccioliscono gli arti, corrodono le corna e con le corna gli anni, così che dal cuore della caldaia si ode un tenero belato. È un lampo: fra lo stupore generale un agnello balza fuori e saltellando corre via in cerca di poppe piene di latte. Attonite le figlie di Pelia, appurato che c’è da fidarsi della promessa, insistono con foga ancor maggiore. Tre volte Febo aveva tolto il giogo ai suoi cavalli immersi nel fiume d’Iberia e alla quarta notte scintillavano radiose le stelle, quando la perfida figlia di Eèta mise a bollire sul fuoco ardente acqua fresca ed erbe senza alcun potere. E già il re, con il corpo abbandonato, e tutte le sue guardie erano in preda a un sonno simile alla morte, un sonno infuso per incanto in virtù della magia che hanno le parole. Come ordinato, le figlie varcano la soglia con lei e attorniano il letto. “Perché ora esitate e non agite?” dice Medea, “Impugnate le spade e cavate il sangue invecchiato, così ch’io possa riempire le vene esangui di giovani umori. Nelle vostre mani sono la vita e la gioventù sua: se avete un po’ d’affetto e non rimuginate la speranza invano, rendete a vostro padre questa grazia, cacciatene la vecchiaia con la forza e fate uscire il sangue affondando il pugnale” A questi sproni sono le più devote a farsi empie per prime, e per evitare un delitto, lo commettono. Però nessuna ha il coraggio di guardare mentre colpisce: distolgono gli occhi e di spalle infliggono con mano crudele ferite alla cieca. Malgrado grondi sangue, Pelia riesce a levarsi sui gomiti, mezzo squartato tenta di alzarsi dal letto e tendendo fra tanti pugnali le braccia esangui: “Che fate, figlie mie?” grida. “Chi mai vi arma contro la vita di vostro padre?”. Quelle si sentono mancare il cuore e le braccia. E avrebbe detto di più, se Medea non gli avesse troncato in gola la voce, affogandolo, così straziato, nell’acqua in fiamme». 279 H. MEYER, Medeia und die Peliaden, 1980, pp. 1516, tav. 15,2-3; E. SIMON, in LIMC, VII, Zürich-München 1994, s.v. Pelias, p. 276, n. 22; V. SAMPAOLO, in Pompei. Pitture e mosaici IX (1999), p. 8, n. 10. 280 M. SCHMIDT, Der Basler Medeasarkophag, 1968, p. 16, tav. 29,3; H. MEYER, Medeia und die Peliaden, 1980, p. 14, tav. 14,3; E. SIMON, in LIMC, VII, ZürichMünchen 1994, s.v. Pelias, p. 276, n. 23. 281 Sull’iconografia cfr. ad esempio J. VALEVA, The painted coffers of the Ostrusha Tomb, Sofia 2005, pp. 79-85, fig. 1-5. 282 Cfr. A. KOSSATZ-DEISSMANN, in LIMC, I, ZürichMünchen 1981, s.v. «Achilleus», pp. 147-161. 283 Nell’interro si è rinvenuto un ricco contesto ceramico, con vasellame del II secolo d.C. ed alcune anfore coeve, del tipo «Dressel 20» (cfr. supra). 284 LIVERANI, SPINOLA 2006, p. 74, fig. 79. 285 LIVERANI, SPINOLA 2006, p. 76, fig. 80. Al di fuori del sepolcro, presso la facciata, è la stele dedicata da Theodorus e Mnesteleris al figlio Theodorion, morto a
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dieci anni, forse legato a uno dei defunti sepolto nel colombario. 286 Molti cinerari conservano il vasellame minuto di corredo, composto prevalentemente da vasetti del tipo a pareti sottili. 287 Questo tipo di decorazione è piuttosto comune e trova in questo periodo numerosi confronti, come tre mosaici ostiensi datati tra il 110 ed il 130 d.C. (BECATTI 1961, p. 99, n. 175, p. 102, n. 185, tav. XXXV e p. 125, n. 229, tav. CCXXIV). 288 La parete esterna in laterizio del colombario XVIII costituisce il fondo delle nicchie sulla parete destra del colombario II. Tale appoggio deve essere avvenuto in un periodo non distante dalla costruzione dei colombari precedentemente descritti, comunque sempre da circoscriversi nei primi anni del II secolo d.C. Con la costruzione del colombario II viene anche chiusa, con una lastra di marmo, la finestrella nel muro posteriore del colombario I. 289 LIVERANI, SPINOLA 2006, pp. 77-79, figg. 81-83. Al di fuori del sepolcro, di fianco all’ingresso, è la stele che Gellia dedica al giovane fratello Nestor e indica in quel luogo anche il posto per la sua sepoltura. Probabilmente i due personaggi sono in relazione con altri defunti all’interno del colombario. 290 In un secondo tempo la parte inferiore della nicchia venne parzialmente chiusa da un muretto in laterizi. 291 L’area si presenta libera da sepolcri in muratura, ma è fittamente occupata da incinerazioni protette da anfore «di Spello» dimezzate (50-150 d.C.), poste ad una quota inferiore alla frana, e successivamente sarà nuovamente interessata da alcune inumazioni entro fossa, posteriori alla serie di tombe in questione. 292 Le loro fondazioni affondano nello strato ghiaioso della frana e, in qualche caso vengono appoggiate alle strutture delle tombe precedenti sepolte. 293 LIVERANI, SPINOLA 2006, pp. 82-84, figg. 90-91. 294 Cfr. ad esempio M.E. BLAKE, in MAAR, XIII, 1936, pp. 126-127, tav. 29, n. 3; ID., Ibid., XVII, 1940, p. 101, tav. 12; C.C. VAN ESSEN, in MededRome, s. III, VIII, 1954, p. 76; BECATTI 1961, p. 14, nn. 6 e 7, tavv. XXII e XXVI, p. 165, n. 300, tav. XXIV. 295 Cfr. BECATTI 1961, p. 172, n. 319 e p. 194, n. 370, tav. XL, pp. 201-202, nn. 380 e 383, tav. XLI. 296 LIVERANI, SPINOLA 2006, pp. 90-91, fig. 102; SPINOLA 2006, p. 45. 297 Cfr. supra. Condivide con questo sepolcro il muro di fondo, in parte contro terra, e la muratura laterale divisoria, in opera listata. Al di sotto del lato destro del colombario I si può anche osservare la lastra marmorea del bancone della prima fase dei Natronii; inoltre la fronte del sepolcro si appoggia al «fornetto» dell’anticamera. 298 L’opera isodoma è un tipo di muratura, di lontana origine greca, che prevede l’alternanza, in filari sfalsati, di blocchi posti di testa e blocchi di taglio. Presso l’angolo sinistro del fondo del mosaico è inserita una lastrina forata di marmo, collegata ad un cinerario sottostante. 299 Cfr. BECATTI 1961, p. 17, n. 16, tav. XIV, pp. 42-44, n. 64, tav. XV e p. 133, n. 267, tav. XIII. Tutti i mosaici ostiensi sono datati tra il 120 ed il 140 d.C., anche se vi sono degli esempi simili anche nel I secolo d.C. Leggermente più tardo (della seconda metà del II secolo d.C.) è il mosaico, con motivo che ripete l’opera isodoma, del sepolcro 19 dell’Annona (cfr. supra). 300 Le fondazioni tagliano le stratigrafie precedenti e, allo stesso tempo, vengono completamente rasati e coperti due colombari del I secolo d.C., sotto le fondazioni occidentali, e altre tombe più antiche, con murature in opera reticolata, al di sotto dell’area meridionale. 301 TC 228. La dedica è apposta dalla figlia, Sutoria Fortunata, da un liberto, Lucius Sutorius Felix, e da Caius Iulius Augustalis, per loro e per i loro figli e posteri. Originariamente l’iscrizione doveva esser riferita ad un sepolcro di un certo impegno, verosimilmente posto non lontano dal luogo del reimpiego. 302 TC 227. Si tratta della dedica della statua funeraria di Iulia Prima (di cui si vedono le impronte dei perni per il fissaggio), posta dalla madre, Iulia Ampelis, dal contubernale (compagno, convivente) Blastus e da altri personaggi ancora da individuare (la base è infatti ancora semisepolta). 303 La pendenza della rampa è ricostruibile attraverso l’andamento di uno strato d’intonaco chiaro disposto alla base del muro esterno nord-est della tomba XII.
304 Le fosse partono da un piano di calpestio ad una quota di circa mezzo metro inferiore a quella del vicolo e giungono a tagliare un esteso piano di calce, che potrebbe esser posto in relazione con il cantiere di costruzione delle tombe del 180-190 d.C. Solo le tombe TF 6, 10 e 16 presentano una copertura a cappuccina di tegole, mentre le altre – TF 7, 8, 9, 10 11, 12, 13, 14, 15, 17 – sono senza copertura in laterizi. 305 LIVERANI, SPINOLA 2006, pp. 60-61. I sepolcri sono composti da tre singole camere sepolcrali – con tre distinti ingressi verso est – appartenenti a unico edificio. In particolare le camere XXIX e XII hanno la fronte ed il retro sullo stesso allineamento e sono separate solo da setti di muratura, mentre la camera IX, con cui la XXIX condivide una parete, risulta decentrata. L’accesso alle camere avveniva tramite una scaletta (nella tomba XXIX legata a un pilastro centrale), ma non si può esser certi che le tombe non prevedessero a una quota superiore (non conservata) un secondo ambiente. 306 Il sarcofago a colonne appartiene a una tipologia di derivazione microasiatica, ben attestata a Roma soprattutto dalla fine del II a tutto il III secolo d.C. (sul tipo cfr. ad esempio R. BELLI, in A. GIULIANO [a cura di], Museo Nazionale romano. Le sculture, I/8, Roma 1985, pp. 154-157, n. III,11; M. SAPELLI, Ibid., pp. 305-306, n. VI,15, pp. 316-317, n. VI,19, pp. 318-320, n. VI,20; N. AGNOLI, in G. KOCH (ed.), Sarkophag-Studien, 1, Akten des Symposiums «125 Jahre Sarkophag-Corpus», Marburg, 4.-7. Oktober 1995, Mainz am Rhein 1998, pp. 132 e 134, tavv. 66,7 e 70,1; A. AMBROGI, Note su alcuni sarcofagi di tipo attico e microasiatico, in G. KOCH (ed.), Sarkophag-Studien, 3, Akten des Symposiums des Sarkophag-Corpus, Marburg, 2.-7. Juli 2001, Mainz am Rhein 2007, pp. 66-67, tav. 26,7). 307 LIVERANI, SPINOLA 2006, p. 94. Della tomba, che originariamente doveva presentare una pianta quadrata di quasi 6 metri per lato, si conserva solo parte del lato occidentale, mentre il resto è stato tagliato dai moderni lavori per la realizzazione del parcheggio, avvenuti prima dell’intervento archeologico. 308 LIVERANI, SPINOLA 2006, p. 90, fig. 101. La tomba purtroppo si conserva rasata al livello del pavimento ed in gran parte coperta dalle moderne strutture del parcheggio. 309 Il termine sanctitas si trova in molte iscrizioni paleocristiane, ma non è un’esclusiva di esse, comparendo sporadicamente anche in epigrafi pagane; inoltre nella titolatura della defunta è presente la definizione H(ONESTA) F(EMINA), che si riscontra con una certa frequenza nelle iscrizioni cristiane di Roma a partire dal III secolo d.C. – data a cui andrà riferita anche la nostra iscrizione – come titolo attribuito a matrone della classe equestre o della nobiltà municipale. 310 Alcune inumazioni vengono praticate all’interno di sepolcri in abbandono – come la tomba I e la tomba III – scavando delle fosse nell’interro o scalpellando le nicchie per ricavarne dei rozzi arcosolii (cfr. anche la tomba 1b del settore della Galea). 311 TF 1 e TF 2. 312 Si conserva solo parte del nucleo cementizio, con un piccolo tubulo inserito nella parte nord-ovest e, all’interno, la sepoltura; il rivestimento d’intonaco rosso è completamente mancante. 313 Si è già fatto cenno a questo rituale a proposito di un’inumazione infantile nella tomba 1 dell’Autoparco (cfr. supra, nota 107, con bibl. relativa). Nel settore di Santa Rosa il cosiddetto obolo di Caronte è attestato entro una forma del sepolcro XXX e in un’inumazione sotto una semicappuccina (TF 4), che si appoggia al muro esterno dello stesso sepolcro. Meno definibile è il significato di alcune monete rinvenute in altri contesti dello scavo, talvolta in relazione a sepolture a incinerazione. 314 Uno strato d’intonaco bianco a fasce rosse, viene steso per unificare otticamente i due differenti tratti di muro. 315 BURANELLI, LIVERANI, SPINOLA 2005-2005, pp. 459464, figg. 7-11; LIVERANI, SPINOLA 2006, pp. 91-94, figg. 103-108; SPINOLA 2006, pp. 46-49. L’edificio è conservato per una notevole altezza, con l’esclusione dell’area in corrispondenza dell’angolo orientale, in gran parte danneggiata. 316 J. TOYNBEE, J. WARD PERKINS, The Shrine of St. Peter and the Vatican Excavations, London-New YorkToronto 1956, pp. 51-57; H. MIELSCH, H. VON HE-
SBERG,
Die heidnische Nekropolen unter St. Peter in Rom. Die Mausoleen E-I und Z-PSI, MemPontAcc, XVI, 2, 1996, pp. 225-233; P. ZANDER, La Necropoli sotto la Basilica di San Pietro in Vaticano, Roma 2007, pp. 3639, figg. 47-51. 317 Due sarcofagi – quello con vittorie alate e quello di Publius Caesilius Victorinus – sono appunto stati trovati in situ, di fronte al primo arcosolio della parete destra (rispetto l’ingresso), mentre di altri due si possono leggere le impronte delle basi sul mosaico lungo il lato di fondo e lungo il lato sinistro. 318 Si conservano solo delle fasce rosse, su fondo bianco, che incorniciano le pareti e gli arcosolii. 319 Simili soggetti sono piuttosto comuni e risultano molto attestati in tutte le epoche (cfr. ad esempio il colombario 21 dell’Annona, della fine del I-inizi del II secolo d.C.); in età severiana sono riprodotti, in forme stilisticamente vicine, sia in ambito sepolcrale sia in architetture domestiche (cfr. ad esempio H. JOYCE, The Decoration of Walls, Ceilings, and Floors in Italy in the Second and Third Centuries A.D., Roma 1981, p. 39, fig. 31, pp. 54-56, figg. 53 e 55, p. 79, fig. 80). 320 Cfr. ad esempio J. BALTY, ANRW, II, 12.2, 1981, p. 363; C. AUGÉ, P. LINANT DE BELLEFONDS, LIMC, III, Zürich-München 1986, s.v. Dionysos (in peripheria orientali), p. 522, nn. 81-83. 321 Nella composizione – ma senza la scena centrale con Dioniso ebbro – è molto simile il mosaico d’ambiente E (sul lato nord) dell’Insula dell’Aquila a Ostia (cfr. BECATTI 1961, pp. 195-196, n. 373, tav. LXXXVII). Questo mosaico si presenta però in forme più schematiche, con le figure più rigide e meno naturalistiche di quello di Santa Rosa. 322 Il sarcofago risulta iconograficamente e stilisticamente simile ad altri di produzione romana degli anni intorno al 220-240 d.C.: cfr. H. SICHTERMANN, RM 86, 1979, pp. 358-363, tavv. 95-100; G. KOCH, H. SICHTERMANN, Römische Sarkophage, München 1982, pp. 238-241, nn. 284 e 285; P. KRANZ, Jahreszeiten-Sarkophage, Die antiken Sarkophagreliefs, V, 4, Berlin 1984, pp. 211-213, nn. 96, 102, 107 e, soprattutto, 108 (iconograficamente quasi identico); G. SPINOLA, in P. LIVERANI (a cura di), Laterano 1. Scavi sotto la basilica di S. Giovanni in Laterano. I materiali, Città del Vaticano 1998, p. 32, n. 63, fig. 71. Al di sotto della cassa sono stati reimpiegati, per realizzare due basi, alcuni blocchi prelevati da tombe smantellate, tra cui un piedritto in travertino ove era iscritta l’area di rispetto di un sepolcro: forse era pertinente alla tomba XI, rasata per costruire il sepolcro VIII. 323 Sulla parte sinistra dell’alzata, dopo il mascherone angolare, sembra di poter leggere un gruppo di cacciatori intenti a stanare le prede: uno sta per scagliare il masso che tiene sulle spalle e un altro è piegato per accendere un fuoco. Sulla parte destra, a fianco dell’iscrizione, è un servo, con una brocca in mano, che offre una coppa a un convitato seduto; poco oltre è una coppia semidistesa a banchetto, forse su di uno stibadium o sigma (un letto semicircolare). Questi soggetti sono frequentemente raffigurati sulle alzate di sarcofago soprattutto verso la fine del III secolo e nella prima metà del secolo successivo (cfr. I. RODÀ, Sarcofagos cristianos de Tarragona, in G. KOCH [ed.], Sarkophag-Studien, 1, Akten des Symposiums «125 Jahre Sarkophag-Corpus», Marburg, 4.-7. Oktober 1995, Mainz am Rhein 1998, pp. 155-157, tav. 78,3); in particolare, però, si trovano assonanze stilistiche soprattutto con lavori di età tardoseveriana e della metà del III secolo d.C. (cfr. ad esempio R. AMEDICK, Die Antike Sarkophagrelief, IV,14, Die Sarkophage mit Darstellungen aus dem Menschenleben. Vita privata, Berlin 1991, pp. 157-158, 163-164, nn. 223, 260). 324 È interessante notare come le sovradipinture in rosso siano conservate molto bene sui frammenti che sono stati reimpiegati, capovolti, per risarcire le lacune del pavimento a mosaico. Le parti che invece erano a diretto contatto con lo strato di riempimento del sepolcro invece hanno perso quasi del tutto il colore, a causa dell’acidità del terreno. 325 P. LIVERANI, in J.M. NOGUERA CELDRÁN, E. CONDE GUERRI (a cura di) Escultura Romana en Hispania V (Actas de la reunión internacional, Murcia, 9-11 noviembre 2005), Murcia 2008, pp. 78-79. 326 L’iconografia e lo stile sono molto vicini ad alcuni sarcofagi della prima metà/metà del III secolo d.C. (cfr. ad esempio G. KOCH, Meleager, Die Antike Sarkophagrelief, XII,6, Berlin 1975, pp. 94 e 100, nn. 27,
52; F. VALBRUZZI, Su alcune officine di sarcofagi in Campania, in G. KOCH (ed.), Sarkophag-Studien, 1, Akten des Symposiums «125 Jahre Sarkophag-Corpus», Marburg, 4.-7. Oktober 1995, Mainz am Rhein 1998, pp. 123-124, tavv. 62-65). Per qualità, invece, il sarcofago è confrontabile con gli esempi migliori della serie, come il grande sarcofago tiburtino del Palazzo dei Conservatori e quello dal soggetto analogo di Woburn Abbey, entrambi della seconda metà del III secolo d.C. (KOCH, Meleager, cit., pp. 102-103, n. 67 e p. 105, n. 71; J. BOARDMAN, LIMC, II, Zürich-München 1984, s.v. Atalante, p. 942, n. 24). 327 Cfr. D. BIELEFELD, Die Antike Sarkophagrelief, V,2,2, Stadtrömische Eroten-Sarkophage. Weinlese- und Ernteszenen, Berlin 1997, pp. 109, 116-117, 122, 136, nn. 50, 93, 129, 197. I confronti riportati in realtà si riferiscono a sarcofagi datati qualche decennio più tardi rispetto alla cassa con la caccia al cinghiale di Calidone, ma sono vicini nello schema compositivo. 328 Lo schema è invertito rispetto a quello tradizionale, ove è Amore ad accarezzare il volto di Psyche: qui Psyche stringe la guancia di Amore e quest’ultimo accarezza la pancia della fanciulla. Su questo schema meno comune cfr. F. GERKE, Die christlichen Sarkophage der vorkostantinischer Zeit, Berlin 1940, p. 69, tav. 42,3; C. VERMEULE, in Festschrift für F. Matz, Mainz 1962, p. 104, tav. 29,2; M. SAPELLI, in A. GIULIANO (a cura di), Museo Nazionale romano. Le sculture, I/10,2, Roma 1988, pp. 122-123, n. 143. 329 Sul tipo cfr. ad esempio D. BIELEFELD, Die Antike Sarkophagrelief, V,2,2, Stadtrömische Eroten-Sarkophage. Weinlese- und Ernteszenen, Berlin 1997, pp. 103104, 113, 116, nn. 25, 74, 92. 330 Cfr. P. KRANZ, Die antiken Sarkophagreliefs, V,4, Jahreszeiten-Sarkophage, Berlin 1984, pp. 191, 200-201, 211, 213, 226, 243, nn. 27, 58, 96, 160, 108, 305. I confronti si distribuiscono tra il periodo tardo-severiano e l’età gallienica, ma stilisticamente sembrano più vicini gli esempi più antichi. 331 I sarcofagi della prima metà del III secolo d.C. risultano particolarmente vicini nello stile e nel marmo: la loro presenza nella stessa tomba di famiglia potrebbe far pensare all’acquisto da un’unica bottega romana. 332 Stilisticamente il frammento trova confronti in sarcofagi di produzione severiana, come anche in lavori di poco successivi (cfr. ad esempio L. MUSSO, in A. GIULIANO (a cura di), Museo Nazionale romano. Le sculture, I/10,2, Roma 1988, pp. 117-118, n. 138; M. SAPELLI, Ibid., I/10,1, Roma 1995, pp. 256-157, n. 104). 333 Bisogna ricordare che un sarcofago marmoreo di un adulto, con relativo coperchio, ha un peso medio valutabile intorno ad una tonnellata. 334 Dopo lo scavo si è dovuto affrontare un delicato restauro del pavimento, essendo lo strato di allettamento delle tessere estremamente sottile e di scarsa consistenza. Si è dunque dovuto procedere al distacco, per poi effettuare il consolidamento e, infine, la ricollocazione. Tuttavia, poiché nel mosaico esistevano una serie di avvallamenti e di impronte che testimoniavano la posizione dei piedritti di sostegno dei sarcofagi presenti nella tomba, si è deciso di non spianare il mosaico stesso per non perdere questi elementi che costituivano una testimonianza interessante. A tal fine, prima del distacco, è stato realizzato un calco di tutta la superficie pavimentale su cui è stato riadagiato in laboratorio il mosaico stesso, in modo da permettere la conservazione dell’andamento originario della superficie musiva. Dopo lo stacco si è proceduto ad uno scavo al di sotto del mosaico, che ha restituito brani del tappeto musivo originario, in corrispondenza delle aree interessate dal restauro antico. 335 I saggi di scavo successivi al distacco del mosaico hanno permesso di rinvenire – sotto le risarciture del pavimento musivo, direttamente a contatto con la superficie dei tratti di mosaico originari sprofondati – alcuni frammenti di affresco, forse crollati dalla volta. Queste tracce di affreschi caduti lasciano aperta la possibilità di un antico danneggiamento del sepolcro. 336 J. STROSZECK, Die antiken Sarkophagreliefs, VI.1, Löwen-Sarkophage, Berlin 1998, p. 128, n. 175, p. 130, n. 192, p. 131, nn. 195 e 196. 337 I frammenti del coperchio sono stati ritrovati all’interno della forma, alle spalle del luogo ove venne posta la cassa. L’attribuzione del coperchio alla cassa è certa, in quanto il coperchio è di forma ovale e la cassa è l’unica a lenòs (vasca) rinvenuta nella tomba; inoltre
corrispondono perfettamente i fori e le impronte delle grappe che fissavano il coperchio alla cassa. 338 Cfr. G. BARATTA, La mandorla centrale dei sarcofagi strigilati. Un campo iconografico ed i suoi simboli, in F. e T. HÖLSCHER (a cura di), Römische Bilderwelten. Von der Wirklichkeit zum Bild und zurück (Kolloquium der Gerda Henkel Stiftung am Deutschen Archäologischen Institut Rom 15.-17. März 2004), Heidelberg 2007, pp. 191-215. CAPITOLO QUINTO Cfr. NICOLOSI 1949, pp. 310-317. Già nel 1947 era stato realizzato un robusto solaio in ferro e cemento a copertura di uno dei sepolcri della necropoli ed era stato allestito e preparato quanto necessario per «coprire» un solaio di cemento armato l’intera area degli scavi. Tale solaio, che ha una superficie di 330 mq, è costituito da una serie di piastre in cemento armato di 18 cm di spessore, rinforzate da nervature con grosse travi di ferro. Il solaio che separa le grotte dai sottostanti scavi archeologici, è stato appositamente realizzato su due livelli per rispettare ogni parte della necropoli precostantiniana. Nel 1949, completata la struttura di cemento armato e relativi solai, si è provveduto alla posa in opera dei pavimenti nelle sacre grotte, utilizzando il travertino nelle navate dell’area centrale e in alcune parti annesse e il marmo per le cappelle e per la maggior parte delle sale adiacenti. Sull’argomento si veda L’Attività della Santa Sede nel 1947, 1948 e 1949, rispettivamente alle pp. 233, 241 e 270. 3 Le opere di risanamento sono state programmate e avviate da S.E. il cardinale Virgilio Noè, presidente della Fabbrica di San Pietro tra il 1989 e il 2002. I lavori sono stati inizialmente condotti con il contributo della Società Enel e hanno interessato, in due diverse campagne di restauro (1998-1999 e 2000) l’area adiacente alla tomba di San Pietro e le tombe del settore occidentale della necropoli. Successivamente, nell’anno 2007, si è provveduto all’impegnativo restauro della tomba H o «dei Valerii», grazie al sostegno della Fondazione Pro Musica Arte Sacra-Mercedes Benz. 4 Il Dott. Nazzareno Gabrielli negli ultimi dieci anni ha con me condiviso, in accordo con la Fabbrica di San Pietro, le scelte metodologiche per la conservazione e il restauro degli ambienti ipogei della necropoli di San Pietro. A lui esprimo gratitudine e riconoscenza per il sostegno ricevuto e per la costante attenzione rivolta alle problematiche conservative degli scavi di San Pietro. Alla sua cortese disponibilità e collaborazione devo la pubblicazione di questo breve saggio, i cui contenuti sono stati in parte presentati sulla rivista Kermes. Sull’argomento cfr. GABRIELLI – ZANDER 2008, pp. 53-66. 5 APOLLONJ GHETTI – FERRUA – JOSI – KIRSCHBAUM 1951; L’Attività della Santa Sede nel 1951, p. 393. 6 Tali fotografie vennero in buona parte pubblicate nei seguenti lavori: PRANDI 1957; GUARDUCCI 1953; GUARDUCCI 1958; GUARDUCCI 1965. 7 Cfr. MIELSCH – HESBERG – GAERTNER 1986 e 1995. La campagna fotografica condotta dall’Istituto Archeologico Germanico comprende le seguenti tombe: A, B, C, D, E, F, G, H, Y, C, F, Z. 8 Cfr. SPERANDIO – ZANDER 1999, pp. 18-25. Tale impegnativo e spesso disagevole lavoro è stato svolto, secondo un meditato programma di riprese con pellicole per bianco e nero e per trasparenze colore dal Sig. Merco Anelli, il quale ha provveduto personalmente anche alla stampa delle fotografie. La documentazione preliminare al restauro e quella successiva agli interventi conservativi è stata realizzata in bianco e nero e a colori, mentre riproduzioni fotografiche a colori sono state generalmente realizzate per gli interventi di restauro in corso d’opera. La campagna fotografica 1998-2000 ha interessato le seguenti tombe: Z, F, H, I, M, N, O, Q, R, R’, S, T, U. Nel 2007 sono state eseguite riprese in digitale ad alta risoluzione all’interno della tomba H o «dei Valerii». 9 Cfr. L’Attività della Santa Sede nel 1975, p. 763. 10 Cfr. ZANDER 2005, pp. 103-107; ZANDER 2008, pp. 102-113. 11 Cfr. NICOLOSI 1941, p. 4. 12 Cfr. APOLLONJ GHETTI – FERRUA – JOSI – KIRSCHBAUM 1951, p. XI. 13 Cfr. MIELSCH – HESBERG – GAERTNER 1995, p. 150; 1 2
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ZANDER 2007 e 2009, pp. 80 e 82. 14 Cfr. PRANDI 1957. 15 Cfr. L’Attività della Santa Sede nel 1979, pp. 12591260. Lo studio e il rilievo architettonico nell’area orientale della necropoli sotto la basilica di San Pietro venne eseguito dal prof. Henner von Hesberg e dagli architetti Kai Gaertner, Rainer Roggensbuck, Jutta Weber e Woytek Bruszewski. In particolare la campagna di rilievo architettonico condotta dall’Istituto Archeologico Germanico comprende le seguenti tombe: A, B, C, D, E, F, G, H, Y, C, F, Z. Sull’argomento cfr. MIELSCH – HESBERG – GAERTNER 1986 e 1995. 16 Cfr. SPERANDIO – ZANDER 1999, pp. 26-37; L’Attività della Santa Sede, 1998, p. 1199; 1999, p. 1274. 17 Il monitoraggio microclimatico, l’acquisizione dei dati e lo studio dei parametri ambientali della necropoli di San Pietro viene condotto dalla Società Lambda Scientifica di Vicenza, che già nel biennio 19921994 ebbe l’incarico dalla Fabbrica di San Pietro di eseguire la verifica in continuo dei valori di umidità relativa e di temperatura in alcuni edifici sepolcrali (tombe Z, B, H, I e F) per favorire un approfondimento circa le possibili cause del degrado delle decorazioni pittoriche, degli stucchi e delle cortine in laterizio. Sull’argomento cfr. L’Attività della Santa Sede nel 1992, pp. 1431-1432; SPERANDIO – ZANDER 1999, pp. 66-71. 18 La quantità in grammi di acqua allo stato di vapore che può essere contenuta nell’aria è in funzione della temperatura e della pressione atmosferica: più è alta la temperatura e maggiore è la quantità di acqua che può esistere allo stato di vapore nell’aria. Un eventuale diminuzione della temperatura con valori di umidità comunque elevati può determinare fenomeni di condensa (punto di rugiada). Di solito questo si raggiunge quando si abbassa la temperatura e la quantità in grammi di vapore, contenuta nell’atmosfera, diviene l’umidità massima a quella temperatura. 19 Le analisi di laboratorio, nelle fasi iniziali del restauro, sono state eseguite dal Gabinetto di Ricerche Scientifiche dei Musei Vaticani. Analisi difrattometriche di malte ed intonaci sono state realizzate dal prof. Giacomo Chiari. Cfr. SPERANDIO – ZANDER 1999, p. 123. 20 Le salificazioni individuate sono, rispetto alle loro quantità, le seguenti: cloruri, solfati, (solfati di sodio decaidrato e solfati di sodio anidri e solfati di calcio bidrato) nitrati e fluoruri. Le indagini hanno rivelato, inoltre, la presenza di salificazioni di carbonati misti a silicati. Questi sali costituivano concrezioni particolarmente tenaci e fortemente adese alle superfici degli affreschi. I carbonati sono pertinenti alle soluzioni ricche di calcio che per lungo tempo hanno permeato le opere; mentre i silicati sono da ritenersi propri dei feldspati solubili (ortoclasio e albite) delle argille e delle pozzolane. 21 Nell’anno 1999 e durante i successivi interventi di restauro, vennero eseguite verifiche strumentali e sperimentali per valutare l’andamento delle correnti d’aria nella necropoli di San Pietro. Sull’argomento cfr. SPERANDIO – ZANDER 1999, p. 70; L’Attività della Santa Sede nel 1999, p. 1273. 22 Spostamento di una massa d’aria provocata da un gruppo di persone che si muove, in un sito stretto, lungo e confinato. Si tratta del medesimo fenomeno che si verifica nelle stazioni della metropolitana all’arrivo del treno. 23 Porte ad apertura automatica e sequenziale al passaggio delle persone sono state collocate lungo il percorso di visita della necropoli di San Pietro nei seguenti luoghi: 1-2. Passaggi est e ovest davanti alla tomba Z o «degli Egizi»; 2. Iter, tra tomba I o «della Quadriga» e tomba L o «dei Caetennii minori»; 3. Piazzola davanti a tomba S. 24 Le botole aperte nel 1979 all’interno delle Tombe N e O sono state chiuse con pannelli isolanti, mentre quelle ubicate nella tomba f e davanti alle tombe F e M, vennero dotate di chiusure a serranda regolabili per eventuali aperture a comando automatico. Sull’argomento cfr. L’Attività della Santa Sede nel 1979, p. 1254, dove si parla espressamente di «Aerazione della Necropoli Vaticana». Si veda inoltre: SPERANDIO – ZANDER 1999, p. 70; L’Attività della Santa Sede nel 1999, p. 1273. 25 Lo spazio fra i due vetri è di 20 mm. Per evitare fenomeni di condensa all’interno del vetro camera, nel caso di cattiva tenuta o vetustà delle guarnizioni, è sta-
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to inserito all’interno della camera gel di silice perfettamente anidro nella quantità di 20 kg/mc, ovviamente in proporzione della cubatura della «camera». In aggiunta al gel di silice è stata prevista la possibilità di saturare la camera con l’azoto, immettendolo da una piccola valvola di ritegno posta nell’angolo inferiore a sinistra del vetro visarm e predisponendo una valvola di uscita del gas, posta sulla diagonale, nell’angolo opposto superiore. 26 Le indagini aerobiotiche e fitosociologiche sono state effettuate dal laboratorio di microbiologia della RCScientifica di Vicenza. Sull’argomento cfr. SPERANDIO – ZANDER 1999, pp. 55-66; L’Attività della Santa Sede nel 1999, p. 1273. 27 Si decideva di far ricorso all’uso di biocidi selettivi per debellare i microrganismi, non potendo ricorrere ad altre soluzioni come, ad esempio, l’ozono per i deleteri effetti di ossidazione che avrebbe provocato su tutti i materiali della necropoli e, soprattutto, sulle grappe metalliche dei sarcofagi. 28 I prodotti biocidi testati sono: Preventol R80, Nipacide DDF, Nipacide DFX, Troysan 174, Troysan AF3, Traetex 225, Metatin 70/40, Metatin 58/10 e 4-cloro, 3metilfenolo. 29 Il Troysan 174 esercita la sua migliore azione nei solventi polari: acqua e alcoli. Volendo evitare l’uso dell’acqua il migliore risultato può essere ottenuto con l’isopropanolo, alcool che consente un’ottimale diluizione e un buon tempo di contatto sulle opere. Il Metatin 70/40 può essere invece diluito in acqua ragia minerale, withe spirit o meglio nelle frazioni alcaniche pure. Grazie a uno studio del Dott. Nazzareno Gabrielli è stato possibile appurare che un eccellente risultato, di totale abbattimento degli attinomiceti e dei microfunghi, si poteva ottenere con una soluzione di Metatin 70/40 al 3% in n-ottano, data direttamente sulle pitture murali. Tale prodotto può essere nebulizzato, anche se sarebbe preferibile una prima applicazione a pennello. Si precisa infine che l’applicazione del Troysan 174, diluito in isopropanolo, deve sempre precedere l’applicazione del Metatin 70/40 diluito in n-ottano. Per la disinfezione di superfici non affrescate (cortine in laterizio, mosaici, ecc.) il Metatin 70/40 può essere più semplicemente diluito in white spirit. 30 Per la valutazione dell’impiego di lampade ultraviolette germicide nella necropoli di San Pietro il Dottor Nazzareno Gabrielli ha condotto specifiche ricerche e sperimentazioni. In particolare sono stati attentamente verificati eventuali fenomeni di degrado che potrebbero aversi sulle pitture murali con l’impiego di lampade germicide che fanno uso di radiazioni ultraviolette. Premesso che sulle superfici pittoriche della necropoli di San Pietro non sono presenti lacche, né altri pigmenti di origine organica, con un apposito esperimento si è voluta verificare l’influenza dell’ultravioletto puro sui pigmenti di origine minerale. A tale scopo sono stati applicati dei colori in affresco su una tavellina intonacata. Dopo la completa e consolidata carbonatazione, l’affresco è stato posto sotto una lampada germicida da 15 W, ad una distanza di circa un metro. Per poter valutare nel tempo l’eventuale alterazione dei pigmenti sono stati misurati con il colorimetro lunghezza d’onda, purezza e brillanza di ogni colore. È stata inoltre coperta la metà di ogni stesura di colore con una striscia di politene nero, in modo da poter rilevare, dopo molte ore di esposizione (per lo meno 1.000), eventuali differenze cromatiche dei pigmenti fra le parti protette e quelle scoperte che hanno assorbito la radiazione ultravioletta. In seguito le misurazioni e le verifiche effettuate sia sulle prove di colore esposte all’ultravioletto che su quelle protette, hanno dimostrato il buon esito dell’esperimento, rendendo così possibile il ponderato ed eventuale impiego di lampade germicide. 31 Per rendere più pratica e semplice l’applicazione di tali pannelli sul soffitto degli edifici sepolcrali, si è deciso di stendere su di essi un’adatta vernice ai silicati, invece di un intonaco anticondensante, ovvero molto poroso, formulato con calce e perlite o con calce e scheletro pozzolanico. Pur avendo ottenuto soddisfacenti risultati è intuitivo, tuttavia, che l’applicazione di un intonaco anticondensante può meglio prevenire fenomeni di condensazione dell’umidità con conseguenti pericolosi effetti di stillicidio sulle opere. Pannelli isolanti di «cadorite» o «termanto» sono stati collocati all’interno delle seguenti tombe: C, E, F, H, O, Z e T. 32 È noto infatti che il processo di ionizzazione consiste
nella rimozione di un elettrone esterno da una molecola o da un atomo del gas atmosferico, formando così un elettrone libero e uno ione positivo rispettivamente N+, O+, N+2, O+2. L’elettrone estratto può esistere liberamente solo per brevissimo tempo. Esso si attacca facilmente all’ossigeno e all’azoto; ma, poiché, l’elettronegatività dell’ossigeno è maggiore di quella dell’azoto, si ha come conseguenza che gli ioni negativi sono essenzialmente costituiti da ossigeno ionizzato. I vecchi apparecchi producevano indiscriminatamente ioni positivi, ioni negativi, e spesso anche ozono, mentre gli ionizzatori di ultima generazione ionizzano l’aria selettivamente negativa e non producono ozono. Sebbene i meccanismi che sottostanno alla risposta biologica siano ancora da indagare in maniera approfondita, sono molti gli autori che sostengono gli effetti benefici sull’organismo degli ioni negativi. Varie ricerche effettuate nell’ambito di problemi respiratori hanno dimostrato che, mentre gli ioni positivi rendono difficile la respirazione, gli ioni negativi aiutano respirare meglio e migliorano l’assorbimento di ossigeno. La predisposizione di dispositivi per la ionizzazione negativa dell’aria lungo il percorso di visita potrebbe quindi contribuire a migliorare la qualità dell’aria di un’atmosfera confinata come quella della necropoli di San Pietro. 33 Al riguardo è attualmente in corso la sperimentazione di un piccolo apparecchio a flusso d’aria continuo ideato dal Dott. Nazzareno Gabrielli. Tale apparecchio aspira l’aria nella sua parte inferiore e la spinge verso l’alto. Nel suo percorso ascensionale l’aria, incontra dei contenitori, con membrane permeabili, pieni di calce sodata prima e di carbone attivo dopo e fuoriesce dalla parte superiore dell’apparecchio depurata della CO2. L’apparecchio descritto è inoltre dotato di lampade ultraviolette germicide per la disinfezione dell’aria in uscita. Una volta valutata la funzionalità di questa macchina sperimentale, verrà valutata la possibilità di collocare simili «purificatori» nei luoghi dove è stata rilevata la maggiore concentrazione di CO2. Tali apparecchi sarebbero naturalmente provvisti di quantitativi di calce sodata proporzionati alla cubatura d’aria da bonificare. 34 Cfr. L’Attività della Santa Sede, 1970-2008, dove, nell’ambito del capitolo dedicato alla Fabbrica di San Pietro al termine della descrizione delle attività dell’Ufficio Scavi, vengono riportate tabelle che registrano per ciascun mese l’affluenza dei visitatori agli scavi, suddivisi per lingue di appartenenza (italiano, inglese, francese, tedesco, spagnolo). 35 Per la particolare collocazione del sito nei sotterranei della Basilica e per le ridotte dimensioni del luogo è consentito l’accesso agli scavi solo ad un limitato numero di persone di età superiore ai quindici anni. L’autorizzazione alla visita guidata può essere concessa previa richiesta scritta alla Fabbrica di San Pietro tramite fax (+39 06 69873017) o e-mail (scavi@fsp.va), indicando il numero delle persone, la lingua, le date disponibili e un recapito per la risposta. Le visite agli scavi si effettuano dal lunedì al sabato, dalle ore 9:00 alle ore 18:00, ad esclusione della domenica e dei giorni festivi in Vaticano. 36 L’Attività della Santa Sede nel 1951, p. 392. 37 Per la progettazione dell’impianto illuminotecnica la società Enel si è avvalsa di «LED Studio Associato Cinzia Ferrara e Pietro Palladino». La presentazione estetica dell’impianto nelle sue componenti è stata curata da «Studio Associato di Architettura Adriana Annunziata e Corrado Terzi Architetti». 38 Fotosintesi clorofilliana o sintesi degli idrati di carbonio: trasformazione dell’energia luminosa in energia chimica mediante la clorofilla. 39 Cfr. SPERANDIO – ZANDER 1999, pp. 111-121. 40 Le opere di restauro nella necropoli di San Pietro sono state precedute da sopralluoghi di esperti, di diversi ambiti disciplinari, chiamati a dare un loro parere per la definizione del piano d’intervento. Al riguardo particolarmente significativo è stato il contributo dei professori Paolo e Laura Mora dell’Istituto Centrale del Restauro di Roma. La Direzione dei Lavori per la Fabbrica di San Pietro venne assunta nel 1998 da chi scrive e dall’architetto Antonio Sperandio, entrambi membri di un Comitato Scientifico composto da: S.E. il cardinale Virgilio Noè, mons. Vittorio Lanzani, Sandro Benedetti, Margherita Cecchelli, Nazzareno Gabrielli, Paolo Liverani, Danilio Mazzoleni, Patrick Saint-Roch. I lavori di restauro vennero eseguiti
da Franco Adamo e Adele Cecchini (1999-2000; 2003; 2007-2009); Giorgio Capriotti, Lorenza D’Alessandro e Sabina Marchi (1999-2000), ciascuno coadiuvato dai loro rispettivi collaboratori. Sull’argomento cfr. SPERANDIO – ZANDER 1999, p. 1223. 41 Il restauro della tomba M o «degli Iulii» è stato eseguito da Giorgio Capriotti nell’anno 1999. 42 Cfr. PAPI 2008, pp. 423-436. 43 Gli importanti lavori di restauro sono stati presentati il 27 maggio del 2008 nella Sala della Biblioteca della Fabbrica di San Pietro in Vaticano. Le relazioni tecniche sui lavori eseguiti in questa importante tomba, sono state introdotte dalla Dott.ssa Maria Cristina Carlo Stella, Capo Ufficio della Fabbrica di San Pietro, che qui ringrazio per l’attenzione rivolta alle problematiche conservative della necropoli. 44 Il restauro della tomba H o «dei Valerii» è stato eseguito da Franco Adamo e Adele Cecchini, con la collaborazione di: Paola Minoja, Corinna Ranzi, Sara Scioscia, Chiara Scioscia Santoro. 45 Sono stati individuati diversi tipi di armatura e ancoraggio delle decorazioni a stucco. Le colonnine ai lati delle nicchie per le olle cinerarie avevano all’interno supporti costituiti da elementi tubolari di terracotta o da assi di legno. A seconda della sporgenza e del peso, le decorazioni a stucco venivano ancorate alla muratura con chiodi e grappe di legno di diversa lunghezza.
Lo studio dei fori lasciati da tali sostegni, ha consentito di ricostruire la forma di perdute sculture in stucco della tomba H o «dei Valerii», dove peraltro sono ancora visibili i graffiti sull’intonaco per la realizzazione delle immagini a rilievo. 46 Interessanti particolarità tecniche sulla realizzazione delle decorazioni architettoniche a stucco sono emerse nel corso degli interventi di restauro. Infatti è stato possibile appurare che per le modanature più semplici venivano utilizzate sagome che consentivano di ottenere il profilo voluto nel senso della lunghezza, mentre per motivi decorativi ripetitivi venivano adoperati stampi che lasciavano la loro impronta sullo stucco ancora fresco. 47 «PETRUS, ROGA XS HS/ PRO SANC[TI]S/ HOM[INI]BUS/ CHRESTIANIS AD/ CORPUS TUUM SEP[ULTIS]» («Pietro prega per i santi uomini cristiani sepolti presso il tuo corpo». sull’argomento cfr. GUARDUCCI 1953. 48 Le indagini multispettrali nella tomba H o «dei Valerii» sono state eseguite, su incarico della Fabbrica di San Pietro, da Art-Test s.n.c. Tali importanti misurazioni ottiche e le successive elaborazioni informatizzate sono state realizzate da Luciano Marras e Anna Pelagotti, coadiuvati da Marco Milano, Girolamo Carlucci, Anna Carloni e Fabio Remondino. A tale scopo è stata impiegata una fotocamera scientifica CCD raf-
freddata, dotata di un set di filtri interferenziali a banda media (40-50 nm). Le indagini sono state realizzate in multibanda, utilizzando lampade UVe alogene e sfruttando l’intero range di sensibilità del sensore di silicio (380-1125 nm) per verificare effetti di riflessione o fluorescenza in corrispondenza di stretti intervalli spettrali, che possono risultare visivamente non percettibili. 49 Nella parola «HOM[INI]BUS» della presunta iscrizione nella nicchia centrale della parete nord, il primo tratto verticale della lettera H e il secondo tratto discendente della lettera M appaiono in florescenza e pertanto sono chiaramente riconducibili al disegno. Il secondo tratto verticale della lettera M sembra essere pertinente ad una colatura di colore. 50 Oltre a fenomeni di «normale assestamento» successivi al restauro, per le instabili condizioni microclimatiche i sali solubili, contenuti come naturali impurezze nelle argille dei mattoni o nell’impasto delle malte interstiziali, migrano verso l’esterno depositandosi sulle superfici e provocando, talvolta, sollevamenti di piccole scaglie di laterizio. È preferibile spolverare i sali all’inizio del loro formarsi, piuttosto che intervenire nella loro rimozione dopo molto tempo, quando ormai i sali sono divenuti più tenaci anche a causa dei fenomeni di carbonatazione, rendendo il lavoro di pulitura più lungo e impegnativo.
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INDICE DEI NOMI, DEI LUOGHI E DELLE COSE NOTEVOLI i numeri in corsivo si riferiscono alle pagine delle illustrazioni
Abascantus 216
Acheronte, fiume 251 Achille 256; 255 Adamo 57 Admeto 70, 108, 113 Adone 113 Adonea 17 Adriano 14, 16-17, 42, 60, 68, 77, 83, 89, 164 sepolcro di, v. Castel Sant’Angelo Aelia Andria 72 Aelius Valerianus 72 Aemilia Gorgonia 83; 82 Aemilia Severa 155 Ager Latinus 13 Lucullanus 13 Romanus Antiquus 12 Solonius 13 Vaticanus 12-13 Aglauro 72 Agrippina Maggiore 5, Agrippina Minore 173, 240 Alacer do sal 101 Alberti Leon Battista 302 Alcesti 70, 108, 113, 251 Aldobrandini Antonio Maria 133 Alessandria d’Egitto 16, 101 Alessandro Severo 77 Alessandro VI, papa 142 Alessio G. 290; 296 Amasi 17 Amore 265; 273 Angera 29 Antinoo 16-18 Antonia Titiana 161 Antonino Pio 77, 83, 133 Antonio da Sangallo il Giovane 48 Anubis 84 Apis 84 Apollo 96, 108, 113 Apollonj Ghetti Bruno Maria 291 Apuleia Atticilla 187 Apuleii, famiglia 187 Apuleius Valens 187 Aquileia 36, 160 Aquilina Carmelo 291 Arianna 62, 64, 89; 63, 90 Arsinoe II Artemide 108, 265 Artoria Prima 222 Asinoinis 241 Atalanta 134-135, 265; 135 Atene 101 Attis 19 Augusta Firma Astigi (o Écija) 241 Augusto 16, 216 Aulus Cocceius Hilarus 241 Aura 152 Aurelia Eutychiane 83 Aurelio Primitivo 134
Aurelius Hermes 60 Aurelius Nemesius 83 Aventino 13
Baccanti (o Menadi) 68
Basilica Ulpia 18 Bernini Gianlorenzo 48, 56, 127, 289 Biblioteca Apostolica Vaticana 133 Bracciano, lago 216 Bramante 48 Corridoio del 145 Scala del 145
Caecilii, famiglia dei 64
Caere (o Cerveteri) 14 Caetennia Hygia 13 Caetennia Procla 114 Caio Cesare 216 Caio Giulio Cesare 14, 16, 34, 235; 14 Caius Valerius Hymnus 173 Calidonio 134, 265; 270 Caligola 14, 16, 235 Circo di 18-19, 42, 46, 65, 222 Campidoglio 8, 19, 142 Campo Marzio 13-14, 16 Canova 119 Capo Tenaro 62 Caracalla 60 Caronte 180, 251, 263 Cassio Dione 216, 235 Castagnoli Ferdinando 19 Castel Sant’Angelo (o sepolcro di Adriano) 14, 18, 142; 15 Cecrope 72 Cerbero 251; 251 Cerere 25 Cerialis 241 Cerveteri, v. Caere Chios 62 Cibele 19, 20 Cicconetti Giovanni 291 Cicerone 14, 16, 25 Cincinnato 13 Circo di Caligola e Nerone 18, 65, 222 Circo Massimo 18 Circo Variano 13, 16, 18 Cisterna di Latina 160 Claudia Epiteusis 187 Claudia Stacte 216 Claudio 235 Clemens 222 Clemente VIII, papa 56 Clemente IX, papa 145 Cocceia Marciana 9, 263 Collezione Albani 17 Cominia Optata 216 Commodo 190 Cordoba 16 Costantino 24, 52, 55-56, 62, 78, 89, 289, 322, 329 Costanza, mausoleo di 16
Costanzo II, imperatore 56 Crescens 29, 173;176 Cristo 34-35, 48, 54, 56-57, 105, 114, 119, 139, 320, 322; 51, 58, 116, 293 Crustumerium 12 Cuma 262
Daniele 57, 120 Decimus Laelius Alexander 126 Decimus Laelius Lucilianus 124 Demetra 101, 108 Dioniso (o Bacco) 62, 65, 68, 70, 72, 89, 101, 133-134, 240, 265, 273; 63, 90, 238 Domizia Calvisa Lucilla minore 16 Domizia Longina 16 Domizia Paulina Lucilla maggiore 16 Domiziano 16, 34, 42, 135 Dynate 97 Elagabalo 18
Elia, profeta 119 El-Jem 101 Enea 251; 251 Eneo 265 Eracle (o Ercole) 70, 108 Ercolano 7 Erotis 222 Erse 72 Esquilino 7 Etruria 7 Ettore 256 Eubulus 190; 197 Euripide 68 Eusebio di Cesarea 46-47 Eutropos 216 Eva 57
Faenia Favor 229
Faenia Lyris 229 Fidene 12 Filippo, apostolo 47 Fjürgenson F. 290; 298, 300-301 Flavia Olympia 92, 97-98; 100 Flavia Primitiva 133 Flavius Agricola 24, 133-134 Flavius Faustinus 35 Flavius Istatilius Olympius 105 Flora 9, 240 Fontana, architetto 16 Fontana dell’Annona 9 Foro romano 7 Fulcinia Nereidis 216 Furio Camillo 142
Gabrielli Nazzareno 290
Gaio 47 trofeo di 48, 52, 54-55, 127; 51-52 Gaius Clodius Romanus 119; 118, 120 Gaius Popilius Heracla 13 Gaius Sallustius Crispus Passienus 240
347
Gaius Valerius Eutychas 97 Gaius Valerius Herma 92, 96-98, 101; 100 Gaius Valerius Olympianus 92, 101; 102 Gallieno 190 Gerusalemme 57 Geta 16 Giasone 251 Giobbe 57 Giona 114, 120, 320; 117, 293, 322 Giovanni Paolo II, papa 312 Giove 19 Girolamo, santo 46 Giulia Domna 16 Giunio Basso 56-57, 84; 58 Giunone 19, 60, 65, 113 Glaucia 222 Gorgone 84; 86 Goti 18 Granicolo 12 Granicolo 142 Grathus 216 Gregorio XVI 146 Grenier Jean-Claude 16 Guarducci Margherita 52, 54, 105, 290, 322, 329; 52
Heid Stefan 54
Helios 62, 114 Herennia Secunda 216 Hermes 70, 96, 108 Hermopolis 101 Horti Apronianus 16, 18-19 di Cesare 216 di Domizia 16-19, 65 di Scapula 16 Sallustiani 17-19 Serviliani 173 Spei Veteri 18 Horus 84, 101; 86
Ierapoli in Frigia 47
Ignazio di Antiochia 54 Innocenzo VIII Cybo, papa Palazzetto di (Belvedere) 143, 145 Isacco 56, 120 Iside 101, 133; 195 Isola Farnese, v. Veio Isola Sacra, necropoli (v. Porto) 155 tomba 34 155 tomba 55 155 Iulia Mamea 77 Iulia Palatina 114 Iulia Prima 259 Iulia Threpte 173; 178 Iulia Tryphera 173 Iulius Tarpeianus 114
Josi Enrico 143, 145, 150, 197-198 Kaas Ludwig, monsignore 290
Kastel presso Mainz 19
Lanuvio 160 Laodamia 113 348
Larcius Hermeros 241 Lari, dei 25, 28 Latium Vetus 7 Lazzaro 120 Leda 72 Leptis Magna 101 Levi A. 290; 293 Lione 19, 101, 126 Lucca 119 Lucifer 127; 127, 133 Lucilla 190 Lucina 216 Lucio Cesare 216 Lucio Roscio Ottone 16 Lucio Vero 190 Lucius Maecius Onesimus 173 Lucius Passienus Evaristus 240 Lucius Passienus Optatus 240 Lucius Sutorius Abascantus 259 Lucius Tullius Hermadion 83 Lucius Tullius Zethus 64, 78 Lucius Volusius Successus 119 Luni 62
Ma 29, 173; 176
Maconiana Severiana 32 Maderno Carlo 48, 57, 145 Maggi Giovanni145 Mani, dei 25, 28, 103, 113-114, 119, 124, 235, 256, 284 Marcia Successa 263 Marcia Thrasonis 72 Marcii Valerii Messallae, famiglia 164 Marco Aurelio 16, 83, 97-98, 135 Marcus Aebutius Charito 119 Marcus Aurelius Amandus 164 Marcus Aurelius Filetus 114 Marcus Aurelius Hieron 83 Marcus Caetennius Antigonus 65, 78 Marcus Caetennius Chryseros 83 Marcus Caetennius Ganymedis 83 Marcus Caetennius Hymnus 113 Marcus Caetennius Proculus 113-114 Marcus Caetennius Tertius 83 Marcus Nonius Pythagora 161 Marcus Oppius Receptus 164 Marcus Vibius Marcellus 241; 244 Maria, mausoleo di 16 Maria Quinta 241 Marte 60, 62, 64-65, 70 Martignano, lago 216 Magi Filippo 19, 42, 143, 161, 187 Martino di Tours 34 Mascardi Giacomo145 Massenzio 55 Matteo, evangelista 34 Medea, 251; 251 Medusa 77, 240; 238 Meleagro 134-135, 265; 135 Menandro 16 Meta Remi (o sepolcro di Gaio Cestio) 18 Meta Romuli (o sepulcrum Scipionis) 13, 18, 42, 142 Milano basilica di San Lorenzo 119 Minerva 19, 65, 96, 101
Minosse 89 Minotauro 89 Monte Mario 14, 142 Mosé 120 Munda 16 Mura Aureliane 7, 13-14, 17-18 Musei Vaticani 8-9, 20, 145, 216, 290; 20, 161, 217 Museo Chiaramonti 145, 217 Museo Gregoriano Egizio in Vaticano 17 Museo Nazionale Romano di Palazzo Massimo 35, 222
Nardone Giovanni Battista 133
Nasso 62, 89 Natronia Sinphyle 225 Naumachia Augusti 108216 Navalia 13 Nemus Cai et Luci 108 Nereidi 63 Nerone 9, 16, 18, 34, 42, 55, 173, 229, 235, 240 Circo di 18-19, 42, 46, 65, 222 Terebinto di 18, 42 Nerva 164 Nettuno 126 Nicolosi Giuseppe 289 Nicomaco Flaviano 20 Nilo 16, 70 Nonia Stratonice 42 Nunnius 173, 190; 176-177 Ny Carlsberg Glyptotek 17
Onesimus 222 Onorio, mausoleo di 16 Orazio 12-13 Ostia 7, 28-29, 35, 64 Campus di Cibele 20 Decumano 160 domus dei Pesci 155 domus di Apuleio 160 Insula dalle Pareti Gialle 152 Insula dell’Aquila 155 Schola del Traiano 155 via della Casa di Diana 152 Ottavii, famiglia dei 64 Ovidio 25, 28, 251 Pacelli Eugenio, v. Pio XII
Paetinus 146 Palatino 17 Domus Transitoria 64 Pan 62, 96 Pandroso 72 Paolino di Nola 34 Paolo V, papa 145 Paolo VI, papa Aula delle Udienze 42 Papinio Stazio 77 Parioli 16 Passiena Prima 28, 240; 235, 238 Passino Crispo 16 Passulena Secundina 65 Patroclo 256 Pelia, re 251; 251 Peliadi, 251; 251
Penteo 68; 68 Persefone 108; 109 Phrygianum 19; 20 Piazza dei Protomartiri Romani 19 Piazza del Risorgimento 14, 214 Pincio 16 Pio IV, papa 101 Pio VI, papa 119, 124 Pio XI, papa 8 Pio XII, papa 8, 47-48, 290 Pirro Ligorio 101 Plinio il Vecchio 12-13, 187 Plutone 108 Pompei 7, 251 Pompeo 16 Teatro di 229, 235 Pons Neronianus 8, 14, 16, 42, 142; 15 Ponte Elio 142 Ponte Milvio 14, 142 battaglia di 55, 105 Ponte Sant’Angelo (già Ponte Elio) 14; 15 Ponte Vittorio Emanuele II 14; 15 Ponzio Pilato 57 Poppidia Musa 222 Porta Pinciana 17 Porta Salaria 17 Porta San Paolo 18 Porticus Aemilia 13 Porto (v. Isola Sacra) 222; 189 Prandi Adriano 290-291 Priamo 256; 255 Priapo 208; 206 Primus 216 Priscus 216 Proclo 47 Proserpina 64 Protesilao 113 Protestato, catacombe 251 Protocensis 146 Prudenzio 19 Pseudo-Acrone 13 Pseudo-Marcello 18 Psyche 265; 273 Publius Aledius Priscus 229 Publius Caesilius Victorinus 263, 273, 284; 278 Publius Cornelius Protoctetus 146; 149 Pucci Lorenzo 42 Pullius Peregrinus 35
Quintilia Albana 222 Quintilia Tyche 222 Quinto Aurelio Simmaco 20 Quintus Cominius Abascantus 28 Quintus Marcius Hermes 72; 73 Quintus Muttienus Atimetus 184 Quintus Poppidius Thesmus 222 Quintus Sentius Philetus 180 Ratti Achille, v. Pio XI
Ramsete II 17 Rea Silvia 62-63, 70 Rubellia Augustalis 241
Samiaria Hermocratia 126
San Damaso, cortile di 143 San Giovanni e Paolo al Celio, chiesa 152 San Giovanni in Laterano, basilica 55 San Paolo 34, 47, 54-56, 136, 139; 58 tomba di 52, 55 San Paolo alla Regola, chiesa 160 San Pellegrino degli Svizzeri, chiesa 143 San Pietro, apostolo 14, 18-19, 46, 47, 52, 54-57, 103, 105, 136, 139, 322; 52, 58 tomba di Pietro 8, 42, 47, 55, 105, 113, 143, 216, 284, 291, 313 San Pietro, basilica 7-8, 13, 16, 19-20, 42, 56, 68, 96, 142, 197, 284; 42, 57-58 Campo P 48, 135-136, 139; 46, 53 Nicchia dei Palli 48; 51 tomba g 48 tomba q 48 trofeo di Gaio, v. Gaio Grotte 47-48, 77, 119, 289; 46, 57 recinto Q 135-136, 139; 138 sepolcro A (di Popilius Heracla) 13, 42, 48, 55, 57, 60, 124; 43, 303, 309 sepolcro B (di Fannia Redempta) 42, 60, 62, 64, 68, 124, 290, 314; 294, 298, 310 sepolcro C (di Lucius Tullius Zethus) 42, 64, 68, 78, 114, 124, 311; 66, 311 sepolcro D 42, 68, 77, 124 sepolcro di Sant’Andrea 19 sepolcro E (degli Aelii) 28, 42, 72, 77, 83, 124, 290, 314; 74, 77, 298, 320 sepolcro F (dei Tullii e dei Caetennii maggiori) 8, 28, 65, 7778, 83-84, 89, 113, 124, 290, 314; 43, 78, 80, 82, 296, 298, 300, 306, 320-322, 324 sepolcro G (del Docente) 42, 60, 64, 89, 92, 96, 124, 314; 93 sepolcro H (dei Valerii) 25, 28-29, 46, 65, 77, 89, 92, 101, 105, 113, 119, 124, 290-291, 322, 329; 94-95, 99, 104, 105, 291, 298, 301, 303, 305, 308, 323, 328-329 sepolcro I (della Quadriga) 92, 108, 113, 290; 109, 112, 289, 298 sepolcro L (dei Caetenii minori) 28, 113-114, 120, 289, 314; 124 sepolcro M (degli Iulii o del Cristo Sole) 113-114, 120, 290, 320; 116117, 124, 293, 298, 314, 322 sepolcro N (degli Aebutii e dei Volusii) 114, 119-120, 124; 118, 120-121, 124, 293, 303, 314, 320 sepolcro O (dei Matucci) 28, 42, 120, 124; 125, 306 sepolcro R 24, 46, 134-136, 139; 136 sepolcro R’ 135-136, 139; 136 sepolcro S (di Flavius Agricola) 42, 124, 127, 133-136, 139; 135-136 sepolcro T (di Trebellena Flaccilla)
24, 46, 124, 126-127, 290; 127, 294, 298, 326 sepolcro U 46, 120, 124, 126-127; 127, 314 sepolcro V 120, 314; 314 sepolcro Z (degli Egizi) 83, 263, 290; 85-86, 89-90, 298 sepolcro C (dei Tullii e dei Caetennii) 62, 68, 70, 72, 83; 63 sepolcro F (dei Marcii) 62, 64, 68, 83-84, 290; 68, 70-71, 73, 289, 291, 298 sepolcro Y 42, 60 San Policarpo, vescovo 54 San Sebastiano, catacombe di 54, 139; 54 Villa Piccola 152 Sansaini Renato 290 Sansonetti Franco 291 Sant’Elena, mausoleo di 16 Santa Croce in Geusalemme, basilica 18 Santo Stefano degli Abissini, chiesa 19 Saturninus 173 Sciro 62 Segoni Giovanni 52 Selene 96, 101 Settimio Severo 16, 60, 68, 135, 190 Severi, famiglia dei 18 Sibilla 251 Signa Felicula 256 Silvestro, papa 52 Siricius 83 Sisto I, papa 114 Sisto V, papa 16 Stiaccia Helpidis 285 Stige, fiume 251 Sousse 10 Successus 216 Sulpicio Severo 34 Svetonio 222
Tempio della Speranza 18
Teodosio 20 Teos 62 Teseo 89 Tevere 12-14, 18, 142; 14-15 ripa Veientana 12 Thot 84, 89 Tiberio 235 Tiberius Claudius Abascantus 42 Tiberius Claudius Optatus 9, 28, 240; 235, 238 Tiberius Claudius Proclus 240 Tiberius Claudius Thesmus 216, 259; 221 Tiberius Iulius Threpte 173 Tiberius Iulius Tyrus 42 Tiberius Natronius Venustus 9, 29, 225; 225 Tiberius Natronius Zmaracdis 225 Tilia Giuseppe 302; 303 Tiridate, re d’Armenia, 235 Tito Quinzio Scapula 16 Titus Aelius Tyrannus 72 Titus Albanus 222 Titus Manius Antigonus 187; 184
349
Titus Matuccius Demetrius 124 Titus Matuccius Entimus 124 Titus Matuccius Hermaiscus 124 Titus Matuccius Pallas, 124 Titus Matuccius Zmaragdus 124 Tivoli, 133-134 Villa Adriana 17 Tolomeo II Filadelfo 17 Torrigio Francesco Maria 133 Totila 18 Traiano 18, 68, 164 Trastevere 13, 142 Naumachia di Augusto 216 Trebellena Flaccilla 124; 127 Treviri 36 Trinità ai Monti 17 Troia 18, 113 Tullia Athenais 64-65 Tullia Secunda 64-65, 78, 83 Tullius Athenaeus 64 Tuya, regina 17
Ubaldi Ugo 133
Ulpia Marcella 259; 260 Urbano VIII Barberini 127 Urbino, Museo Archeologico 216
Vacchini Francesco 291
Valeria Asia 97 Valeria Florentia 103 Valeria Maxima 92, 97, 101, 119; 102 Valeria Tecina 124 Valerinus Vasatulus 32, 103 Valerius Princeps 97 Vandali 7 Veio (o Isola Farnese) 8, 14 Venere 32, 60, 62, 78, 113, 134, 173, 208; 63, 80, 206 Verecunda 173 Vespasiano 48, 164 Vesper 127 Vesta 64 Via Appia 139 Via Aurelia 14, 16, 19, 42 Via Cassia-Clodia 142 Via Cornelia 8, 14, 16, 19, 42, 142 Via del Pellegrino 197 Via della Conciliazione 13, 18, 42, 142 Via della Tipografia 197 Via della Traspontina 13 Via Giustiniana 142 Via Leone IV 143, 214 Via Portuense 108 Via Sardegna 17 Via Toscana 17 Via Trionfale (o via Triumphalis) 8, 14, 142, 143, 152, 161, 164, 173, 190, 197-199, 208, 214, 225, 235; 142 necropoli (settore) dell’Annona Vaticana 143, 197; 197, 202, 206 tomba 1 197-198 tomba 2 197-199; 202 tomba 3 180, 197-199; 204 tomba 4 197-199, 208; 204 tomba 5 197-198, 208 tomba 6 190, 198, 208, 259 tomba 7 190, 198, 208, 259
350
tomba 8 190, 198, 208, 259 tomba 9 198, 208 tomba 10 197-198, 208; 207 tomba 11 197-199; 206 tomba 12 197-199 tomba 13 198, 208 tomba 14 197-198, 208 ; 204 tomba 15 197, 199, 208 tomba 16 198, 208 tomba 17 198, 208 tomba 18 198, 208 tomba 19 197, 199, 208 tomba 20 198, 208 tomba 21 197-198, 208; 203 tomba 22 197-198 tomba 23 197, 199 necropoli (settore) dell’Autoparco 8, 143, 161, 173, 214, 217; 161, 164, 166-167, 176-178, 189, 192193, 195, 197 altare 4 164, 171 altare 5 164, 171 altare 24 173 altare 25 173 altare 26 173 recinto 4a 164, 171, 180, 188 recinto 10 171 tomba 1 29, 173, 187; 179, 186 tomba 2 187-188; 186 tomba 3 180 tomba 4 171, 188, 190 ; 191 tomba 4a 171, 180 tomba 5 180, 190, 259 tomba 6 171, 180, 188; 173 tomba 7 29, 161, 180, 187; 184 tomba 8 171, 187; 173 tomba 9 180, 184; 181 tomba 10 164, 180; 170 tomba 11 180, 184, 187 tomba 12 180, 184; 181 tomba 13 180, 184; 181 tomba 14 180 necropoli (settore) della Galea 143, 145, 197; 145 tomba 1a 24, 146, 150 tomba 1b 24, 146, 150, 161; 147 tomba 2 24, 150, 152, 155, 160-161, 190, 199, 257; 150, 153, 155-156 tomba 3 150 tomba 4 150 tomba 5 146 tomba 6 24, 150, 155, 160, 188, 190, 208, 257; 157 tomba 7 24, 150, 155, 160-161, 188, 190, 208, 257; 158 tomba 8 150, 160-161, 188, 190, 208, 257; 159 tomba 10 150 tomba 11 24, 146, 150, 155, 160; 149 tomba 17 146 tomba 18 146 tomba 19 150 tomba 20 150 tomba 21 150 tomba 22 150, 160 tomba 23 150
tomba 24 150 tomba 25 150 tomba 26 150, 160 tomba 27 150 necropoli (settore) di Santa Rosa 8, 143, 171, 197, 208; 209-210, 212214, 217, 221, 225, 228, 230, 235, 266, 270, 274-275, 278, 280 sepolcro I 199, 256-257, 259, 263 sepolcro II 214, 241, 256; 244, 255 sepolcro III 198, 214, 241, 256, 259, 263; 244, 248, 250-251, 255 sepolcro IV (dei Natronii) 225, 257, 259 sepolcro V 241, 257; 258 sepolcro VI (dei Passienii) 225, 235, 257 sepolcro VII 190, 257, 259 sepolcro VIII (dei sarcofagi) 32, 143, 198, 259, 263, 265, 273; 264 sepolcro IX 190, 208, 257, 259, 263; 260 sepolcro X 257; 258 sepolcro XI 259, 263 sepolcro XII 190, 208, 229, 257; 260 sepolcro XIII 241, 257, 263; 242 sepolcro XIV 225, 259 sepolcro XV 190, 259; 224 sepolcro XVI 29, 241; 242 sepolcro XVII 214, 241, 256, 263; 244 sepolcro XVIII 214, 241, 256, 263, 284; 244 sepolcro XIX 235, 240 sepolcro XX (di Alcimus) 180, 229, 235, 263; 233-234 sepolcro XXI 229; 231 sepolcro XXII 222, 259; 223 sepolcro XXIII 229 sepolcro XXIV 229 sepolcro XXV 180, 222, 225, 229 sepolcro XXVI 229 sepolcro XXVII 229 sepolcro XXVIII 229, 263; 262 sepolcro XXIX 190, 208, 257, 259, 263; 260 sepolcro XXX 257 sepolcro XXXI 222 sepolcro XXXII 240; 242 sepolcro XXXIII 229 sepolcro XXXIV 222; 223 sepolcro XXXV 180, 222 sepolcro degli Ottavii 152 tomba degli Haterii 161; 161 Via Veientana 142 Via XX Settembre 17 Viale Angelico 14 Vibia Marcella Victoria 241 Victorina 241 Virgilio 25, 251 Visigoti 7 Vitellio 222 Viva Anthiocis 241 Voghenza 29 Volusia Megiste 119 Zander Giuseppe 291
CREDITI FOTOGRAFICI ArchivioFotograficodeiMuseiVaticani: A. Bracchetti:30,31,147,148,151,153,154,156,157,158,159,168-169,170,172,174-175,176,177, 178,179,181,182,183,184,185,186(fig.31,33),189,191,192,193,194,195,196,223,224,226,227, 234,238,239,242,243,244,245,246,248,249,250,253,254,255,258,260,261,264,280,281,282, 283,285;G.Lattanzi:22,26-27,37,38-39,166-167,209,215,218-219,220,221,228,230,231,232, 233,236,237,247,252,262,266,267,268-269,270,271,272,274-275,276,277,278,279;nomeMantella:149;Napoletano:144;StudioDiGrazia:162-163;C.Valeri:263;200(XXVI-14-27),201(senzan°), 202(XXVI-16-5),203(XXVI-14-7),204(XXVI-15-18),205(XXVI-16-12;XXVI-16-15;XXVI-16-10),206(senzan°;XXVI-14-9),207(XXVI-14-13),217(inv.9237),MuseoPioCristiano:33,35. FabbricadiSanPietro: 43,44-45,46(fig.4),49,50,52,53,58,59,61,63(fig.25),66,67,69,70,71,73,74,75,76,77,78,79, 80,81,82,85,86,87,88,90,91,93,94,95,99,100,102,104-105,106-107,109,110,111,112,115,116, 117,118,120,121,122-123,125,126,127,128-129,130,131,132,135,137,138,286,288,289,291, 292,293,294,295,296,297,298,299,300,301,305,306,307,308,309,310,313,314,315,316-317, 318,319,320,321,322,323,324,325,326,327,328,329. SuconcessionedelMinisteroperiBenieleAttivitàCulturali–SoprintendenzaSpecialeperiBeniArcheologicidiRoma–PalazzoMassimo:222. DanielaBlandino:10,12,40,140. P. Liverani12,15(fig.5),17(fig.7-8),36(fig.13MuseoNazionaleArcheologicoAquileia) HaraldMielsch:63(fig.23,24). BAMSphotoRodella:15(fig.6). G. Spinola: 28, 29, 161 Museo Gregoriano Profano, 186 (fig. 32), 188, 235