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Il mostro della cripta

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Temple

Temple

e commedia in cui si alternano tematiche e registri cinematografici differenti - dalla crisi d’identità al tema del doppio, dalla maternità alla passione, dalla rivalità femminile alle dinamiche di coppia - senza però riuscire ad approfondirne uno.

Il risultato è un film stucchevole e fin troppo verboso che, nonostante le premesse iniziali, finisce per aggrovigliarsi su se stesso, attraverso un turbinio di dettagli, sottotesti, simbolismi e forzati intenti autoriali che non fanno altro che creare una confusione narrativa priva di una vera e propria risoluzione finale.

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Eppure l’idea della psicologa-scrittrice che cerca di ritornare alla sua prima passione, la scrittura, era un buon viatico, così come quella di far confluire il personaggio di Margot con quello di Sibyl mediante un affascinante gioco di specchi tra realtà e fantasia letteraria. Non a caso, il cinema della Triet fa leva soprattutto su questa ambiguità tra quello che accade realmente e i pensieri/desideri/incubi della protagonista. Quello che succede - a cominciare dal rapporto con l’amante - potrebbe essere soltanto nella sua testa.

Ma è troppo poco per riuscire a innalzare il valore complessivo di un’opera non particolarmente innovativa e coinvolgente. Sembra a tratti di assistere a qualcosa di già visto, o a qualcosa persino che punta troppo in alto, strizzando l’occhio al Godard ne Il disprezzo, per poi passare alle somiglianze con Un’altra donna di Allen o ai più recenti deliri metacinematografici di Polanski in Quello che non so di lei.

Per quanto riguarda il cast, sono degne di nota le ottime prove della coppia di attrici formata da Virginie Efira (20 anni di meno) e Adèle Exarchopoulos (La vita di Adele) che da sole riescono a illuminare ogni scena del film grazie alla loro incantevole bellezza e bravura. Entrambe interpretano i ruoli di due donne tanto simili quanto diverse, accomunate dalla voglia di (ri)mettersi in gioco, andando incontro ai loro tormenti psicologici e drammi interiori, sebbene per motivi opposti: Sibyl per trovare ispirazione e assomigliare alla giovane donna, Margot per riuscire a vincere il disagio di condividere il set con una regista e un attore che la odiano.

Interessante infine, anche la scelta delle location, divise tra Parigi, Lione e l’isola di Stromboli.

Presentato il 24 maggio 2019 alla 72esima edizione del Festival di Cannes, il terzo lungometraggio della cineasta francese è stato candidato per la Palma d’oro come miglior film. Rimasto inedito in Italia, è stato distribuito il 2 settembre 2021 da Valmyn (dopo più di due anni dalla sua prima uscita).

aLessio d’angeLo

RRoma, 1988. Un astronomo scopre un singolare fascio di luce tra le stelle e viene assassinato da uno strano individuo.

Bobbio, 1988. In un paese che ha come unica particolarità un misterioso pilone di 20 m, Giò passa il tempo a girare film amatoriali insieme ai suoi amici mentre sogna Vanessa.

Il ragazzo, come tutte le settimane, acquista il suo fumetto preferito Squadra 666 di Diego Busirivici e, proprio di fronte alla casa dei Valmont, la famiglia più inquietante del paese, nota in una pagina il pilone di Bobbio. Tornato a casa, il giovane riguarda il girato del giorno e nel frattempo viene sgridato dalla madre che, poi, gli comunica che sarà fuori il fine settimana per lavoro.

Leggendo il fumetto, Giò si allerta e chiama Alberino: nella storia è presente una chiesa con cripta molto simile a quella del paese. Bisogna controllare.

Entrati nell’edificio, i ragazzi vedono il prete e un Valmont uscire da una porta dietro l’organo, così aspettano nascosti che la via si liberi. Dietro trovano la stessa bara

di Daniele Misischia

Origine: Italia,2021 Produzione: Antonio Manetti, Marco Manetti per Mompracem, Vision Distribution Regia: Daniele Misischia Soggetto e Sceneggiatura: Antonio Manetti, Marco Manetti, Paolo Logli, Alessandro Pondi, Cristiano Ciccotti, Daniele Misischia Interpreti: Lillo (Diego Busirivici), Tobia De Angelis (Giò Spada), Claudio Camilli (Commissario), Amanda Campana (Vanessa), Giovanni Calcagno (Vice Commissario Valmont), Chiara Caselli (Fabienne), Ludovico Girardello (Christian), Eleonora De Luca (Milva) Durata: 116’ Distribuzione: Vision Distribution Uscita: 12 agosto 2021

del fumetto che, secondo la storia, dovrebbe contenere un mostro ma, aperta, quest’ultima si presenta vuota. Intanto Sara, una loro coetanea, viene rapita.

Il giorno seguente Giò decide di andare al pilone. Lungo la strada, oltre a Vanessa che amoreggia con il nuovo ragazzo, vede delle impronte di artigli su un albero. Poi, arrivato a destinazione, trova Sara in fin di vita. Il giovane la libera ma in quel momento arriva Vanessa che lo crede un assassino e corre dalla polizia. In commissariato, in veste di ufficiale, c’è un Valmont, lo stesso che ha ucciso l’astronomo a Roma e che, raccolta la deposizione della ragazza, si reca sul posto insieme al collega che di lì a poco farà una brutta fine.

I Valmont, a questo punto, iniziano una mattanza. Il poliziotto assassino va a casa di Vanessa ma la ragazza si accorge subito che qualcosa non va e riesce a scappare. Intanto Giò prende un bus verso Bologna e suona alla porta di Busirivici per sapere di più sul fumetto. Dopo un po’ di resistenza, lo strambo autore gli mostra un foglio antico preso al mercato al quale si è ispirato. Per il resto non sa altro: è solo finzione.

Il giorno dopo Giò convince Diego ad accompagnarlo in paese ma il viaggio in auto è interrotto da un albero che blocca la strada. Arrivati a Bobbio, l’atmosfera è spettrale. Al commissariato trovano il Valmont che si rivela subito ostile ma non in grado di acciuffarli. I due raggiungono allora casa di Alberino e si rifugiano nel seminterrato. Tramite walkie-talkie contattano Christian che cerca di raggiungerli ma, nel tragitto, viene fatto fuori. Giò vuole vendicarlo e Fabienne, ex componente dei Valmont, gli dà la soluzione: il libro delle rivelazioni che si trova a casa loro.

Arrivati dai Valmont, Giò decide di entrare da solo ma viene scoperto dal capofamiglia mentre cerca di rubargli le chiavi. Fortunatamente interviene Fabienne che butta il vecchio nella vasca di acido, uccide anche la madre e poi muore trafitta. Il gruppo si riunisce e, aperta la porta, scopre il libro: un alieno, che i Valmont adorano e che si trova sulla terra, sta cercando di richiamare i suoi simili. Il poliziotto rientra in casa, vede i suoi genitori morti e tenta di uccidere gli intrusi ma questi riescono a fuggire, a dotarsi di armi e a uccidere l’inseguitore.

Intanto Vanessa, che si era ricongiunta con il ragazzo ucciso poi da un Valmont, cerca rifugio nella miniera non sapendo che è proprio lì che si nasconde il mostro. La ragazza riesce ad allontanarsi e a ricongiungersi finalmente con il gruppo che è sopraggiunto nel luogo. Dopo aver attirato la creatura, Giò riesce a farla fuori e a salvare il mondo, conquistando finalmente la ragazza dei suoi sogni.

A

Anni Ottanta, citazionismo e cliché, questi gli ingredienti che il regista Daniele Misischia ha utilizzato per realizzare il suo secondo lungometraggio, Il mostro della cripta. Prodotto dalla Mompracem, la società dei Manetti Bros., a partire da una loro vecchia sceneggiatura, il film è stato presentato fuori concorso al Locarno Film Festival.

Una commedia horror condita da tematiche adolescenziali per un b-movie contemporaneo come non se ne vedevano da anni. Di fatto l’opera non parla di relazioni o di mostri ma parla di nostalgia, la nostalgia è il vero leitmotiv: il film si inserisce in quel filone di produzioni che fanno spesso parlare di una sorta di revival moderno degli anni ottanta, capitanato dalla serie Stranger Things. Tutto nella pellicola è anni ottanta: le auto, lo stile (compreso quello dei paninari e delle sfitinzie), l’atmosfera, i poster, i fumetti ma anche le ambizioni (fare un film era lo stesso sogno del regista).

Ma trasuda di nostalgia anche la scelta di omaggiare un certo cinema di genere a basso budget che oggi non troverebbe mai spazio e che Misischia spinge al limite riproponendone tutti i cliché (sia narrativi che di messinscena) ed esasperandone le ingenuità: a questo proposito, dopo lo sbigottimento iniziale, diventa quasi piacevole trovarsi di fronte a scene splatter che mettono in mostra mani mozzate palesemente finte o notare un morto che respira in un inquadratura più che secondaria. Non c’è sospensione di incredulità perché, per buona parte del film, il piacere sta proprio lì: notare quello che, nelle produzioni a basso budget, un regista spera passi inosservato nel flusso complessivo, in un gioco inverso e postmoderno che riesce ad accontentare cinefili e nostalgici.

Questo piacere postmoderno, però, si esprime anche dalla vasta quantità di citazioni di un certo cinema (anche d’autore) presenti nel film. La scelta è ampia e la ricerca sarebbe lunga: aldilà di quelle più manifeste e immediatamente visibili come i poster, le atmosfere alla Dario Argento, i film di Nanni Moretti o la riproposizione della celebre scena dell’accetta di Shining, c’è tutta una serie di rimandi più nascosti che vale la pena individuare e apprezzare (come il simpatico “Wendy sono a casa” riferito al cane del protagonista col medesimo nome).

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