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Ariaferma

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Temple

Temple

mori, suoni e sensazioni: visive, tattili, uditive. Il verde degli ulivi, il grigio delle ciminiere, il nero di una gazza, il bianco di un velo da sposa che diventa schermo di protezione per le larve degli insetti coltivate dalla protagonista.

Presentato al Bari International Film Fest del 2020 e alla Berlinale dello stesso anno (nella sezione Panorama), il film è il secondo lungometraggio del regista pugliese dopo La mezza stagione.

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Per il ruolo di Nica Caputo ha voluto Yile Yara Vianello (giovane attrice che si era fatta notare nell’opera di Alice Rohrwacher Corpo celeste), capace di conferire la giusta misura a un personaggio combattivo e riflessivo, forte e fragile allo stesso tempo.

Merito del regista è di aver costruito un film che, pur partendo da forti riferimenti alla realtà, non è un’opera di denuncia, quanto piuttosto una favola misteriosa e a tratti poetica.

Dramma ambientale con evidenti derive allegoriche, sociali e antropologiche, Semina il vento si fa apprezzare soprattutto per l’importante messaggio che veicola: la terra avvelenata, i parassiti di ogni specie, l’attaccamento e il rispetto per la natura che viene meno quando alla fatica per il lavoro della terra si è preferito il posto in fabbrica, tra quelle ciminiere che sputano veleno.

Una sorta di strana magia e richiami a un tempo lontano pervadono il film: cigolii, suoni, vecchi saperi soprannaturali, una gazza che accompagna la protagonista durante le sue ricerche (l’uccello che secondo la madre è lo spirito della nonna, considerata una specie di “strega”). Nica prova a coniugare scienza e magia, razionale e irrazionale, studio e sentimento.

Il regista indugia forse un po’ troppo in immagini e suoni evocativi, insistendo su alcune evidenti metafore ma coglie nel segno evitando un film che sia solo un ‘j’accuse’, facendo leva sulla parte misteriosa e fiabesca che ha il suo culmine nel finale.

Vittime o carnefici, tutti i protagonisti si ritrovano nella sequenza della processione che celebra le radici dell’uomo con la propria terra, diventando la funzione aggregante del rito arcaico. Sono i due volti contraddittori del sud descritto da Caputo; al limitare della campagna e degli uliveti, in lontananza, le ciminiere dell’industria che avvelenano (seminando il vento appunto).

Ecco la peculiarità del sud extraurbano descritta dal regista tarantino (come già in pellicole di autori come Winspeare, Patierno o Frammartino) che sembra risiedere nella persistenza delle forme di celebrazione popolare della terra ancora vive accanto ai segni dello scempio ambientale.

“In natura ogni predatore diventa la preda di qualcun altro. È un equilibrio, funziona così” dice Nica: anche l’uomo è predatore, in questo caso predatore di una terra che prima coltiva, semina e cura e su cui poi sversa veleni. Quella stessa terra che cerca nuova vita con l’aiuto di qualche spirito coraggioso che la ami, ne ascolti il respiro, la protegga e la salvi. Prima che sia troppo tardi.

eLena Bartoni

di Leonardo Di Costanzo

LLe guardie giurate di Mortana stanno festeggiando la chiusura del carcere quando vengono contattati dalla direttrice, che comunica loro che dodici detenuti non possono essere accolti nella prigione a cui erano destinati. Mentre la direttrice potrà abbandonare il carcere per gestirne altri due, un gruppo di guardie, tra cui Gaetano, è costretto a rimanere a Mortana per sorvegliare i dodici, collocati in un’aula comune dove poterli controllare più facilmente nel periodo di attesa del trasferimento, in cui saranno interrotti i colloqui con i familiari e non potranno usufruire della mensa, sostituita da rifornimenti esterni. Ai detenuti si aggiunge anche Fantaccini, orfano accusato di aver scippato un anziano.

I carcerati sono sempre più furiosi per non poter vedere i familiari e per il cibo schifoso, mentre le condizioni mentali di uno di loro, Arzano, peggiorano ogni giorno di più. In seguito al rifiuto collettivo del cibo, le guardie iniziano a temere una rivolta; di conseguenza, uno dei detenuti più pericolosi, Carmine Lagioia, si offre volontario per cucinare, avendo intuito la situazione precaria a

Origine: Italia, Svizzera, 2021 Produzione: Carlo Cresto-Dina per Tempesta con Rai Cinema, in coproduzione con Amka Films Productions, RSI Radiotelevisione Svizzera, in collaborazione con Vision Distribution Regia: Leonardo Di Costanzo Soggetto e Sceneggiatura: Leonardo Di Costanzo, Bruno Oliviero, Valia Santella Interpreti: Toni Servillo (Gaetano Gargiulo), Silvio Orlando (Carmine Lagioia), Fabrizio Ferracane (Franco Coletti), Salvatore Striano (Cacace), Roberto De Francesco (Buonocore), Pietro Giuliano (Fantaccini), Nicola Sechi (Arzano), Leonardo Capuano (Sanna), Antonio Buíl (Bertoni), Giovanni Vastarella (Mazzena), Francesca Ventriglia (Direttrice) Durata: 117’ Distribuzione: Vision Distribution Uscita: 14 ottobre 2021

cui anche i sorveglianti sono costretti. Dal momento che Lagioia è giunto al termine della sua pena e, di conseguenza, non farebbe mai qualcosa che potrebbe inficiare sulla sua libertà, Gaetano acconsente in modo da placare gli animi dei carcerati, nonostante il disaccordo di alcuni colleghi, offrendosi come sorvegliante di Lagioia in mensa e coinvolgendo anche Fantaccini per distribuire il cibo. Nonostante Gaetano espliciti la sua superiorità morale rispetto a Lagioia, il detenuto fa presente la medesima prigionia in cui anche le guardie giurate si ritrovano.

Un avvocato d’ufficio convoca Fantaccini e, dopo il colloquio, il detenuto è scoperto in lacrime e con un pezzo di vetro in mano: l’anziano che ha aggredito è in coma, il che complica la sua condanna. Di conseguenza, Gaetano fa trasferire un altro carcerato nella cella di Fantaccini per controllarlo durante la notte; l’unica persona che sembra interessarsi al detenuto è proprio Lagioia.

Una sera, il maltempo provoca un blackout durante la cena. Gaetano accetta la richiesta dei detenuti di mangiare fuori dalle celle e in compagnia delle guardie; durante la cena Arzano vuole unirsi a loro, ma ciò crea delle tensioni nel gruppo, che non vuole condividere quel momento con un molestatore di bambine. Tornata la corrente, la cena si interrompe e i detenuti sono costretti a rientrare nelle celle.

Fantaccini deve lasciare il carcere per essere sottoposto al processo, andandosene tra la solidarietà dei suoi compagni. Gaetano continua a sorvegliare Lagioia mentre raccoglie delle erbe per il pranzo e, parlando dei rispettivi padri, il detenuto gli racconta che il suo non gli ha mai fatto visita per la vergogna.

PPresentato fuori concorso a Venezia 78, Ariaferma nasce in seguito alla visione di Leonardo Di Costanzo di uno spettacolo teatrale realizzato dalle donne di un carcere di alta sicurezza, in un momento di particolare riflessione sul concetto di colpa e di pena e, di conseguenza, sulle soluzioni che lo Stato e la società attuano per punire e riabilitare tali soggetti.

A partire dal titolo, il motivo principale che sembra attraversare l’intera vicenda, nonché l’apparato formale abilmente curato dall’autore, è una staticità che si ripercuote su una temporalità ciclica, sempre identica a se stessa; tale eterno ritorno del medesimo si abbatte sulle esistenze tanto dei detenuti quanto dei sorveglianti, un tempo che si estende all’interno di un impianto diegetico dilatato, funzionale all’indagine dell’interiorità dei personaggi, più che delle loro azioni iterative, facendo percepire quello spreco di tempo che secondo Silvio Orlando rappresenta quanto di più angosciante possa esperire l’essere umano.

L’autore procede verso una congeniale spazializzazione di questa temporalità ciclica e monotona attraverso la collocazione dei personaggi all’interno di un’ala circolare, che definisce materialmente l’idea di un’esistenza intrappolata nella monotonia di uno scorrere tautologico e irrimediabile, giostrato su una foucaultiana rete di sguardi che, al contempo, non ribadisce una vera e propria superiorità delle guardie sui detenuti, quanto la condivisione della medesima realtà. Intrappolati nello stesso girone infernale, l’atmosfera che Di Costanzo costruisce tende a un clima sospeso, quasi da incubo, accentuato dalle inquadrature esterne sul carcere isolato e in rovina che, in una specifica sequenza del film, l’autore intensifica attraverso il ricorso al bianco e nero e a una musica tetra, che sembra prendere le distanze dalla mera estetica della sorveglianza per favorire un’atmosfera più da film dell’orrore.

Denso di un immaginario cristologico che non ricade mai nel didascalico, l’apparato formale di Ariaferma compartecipa alla definizione di soggettività spogliate delle proprie differenze e accomunate dalla tediosa monotonia della realtà carceraria, elevando la luce a elemento determinante l’affinità dei detenuti con le loro guardie. Esemplificativo il blackout, intervento quasi divino che, gettando i personaggi nell’oscurità, permette ossimoricamente la possibilità di una vicinanza tra soggetti grazie alla mancata distinzione tra Io interiore e Io sociale, riscoprendosi come esseri umani, la cui coscienza è salvaguardata dall’assenza di quella luce che, una volta ricomparsa, non può che ribadire quelle colpe ineluttabili e la significativa ricostituzione di uno status quo granitico e inviolabile.

L’abilità dell’autore sta nella capacità di affrontare la vita carceraria con grande rigore formale e narrativo, facendo percepire la sua esperienza documentaristica attraverso uno sguardo osservativo che evita qualsiasi forma di giudizio, senza manicheismi espliciti e retorici, nonché svolte narrative attendibili, per sospendere il tutto all’interno di un mondo sempre uguale a sé e dove si è tutti prigionieri della medesima alienazione.

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