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France

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Temple

Temple

di trovare una nuova dimensione estetica per raccontare una storia di silenzi, declinata attraverso le potenzialità del linguaggio cinematografico, più adatto per Gassmann a restituire il senso profondo del testo e ad accentuare il senso di claustrofobia di Villa Primic e dei suoi non-luoghi rispetto al più limitato palcoscenico teatrale.

D’altronde, sin dai tempi del silent cinema l’immagine filmica è stata capace di elevarsi al di sopra della parola parlata e di qualsiasi distinzione linguistica, esplicitando secondo un teorico come Paolo Bertetto un processo di semiosi in atto attraverso i propri codici specifici, in una riscrittura simulacrale del reale in grado di inaugurare un proprio linguaggio, come autori del calibro di Antonioni ci hanno insegnato attraverso storie di silenzi e alienazioni accentuate dal loro portato visivo, più che verbale.

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Nel film di Gassmann, l’obiettivo di un’estetica del silenzio entra in profondo conflitto con l’inevitabile pervasività del testo letterario di partenza, da cui una maggior identità teatrale rispetto a una declinazione più cinematografica della vicenda, da cui un privilegio della parola parlata a svantaggio del, seppur curato, apparato estetico. L’esperienza che Gassmann racconta dell’opera di De Giovanni ha un sapore trasformativo e metamorfico tale da stimolare la sua capacità immaginale a tal punto da innestare nel testo dei momenti allucinatori e surreali inerenti alle visioni del protagonista, generando però un cortocircuito a causa di un’instabile inscrizione dell’onirico nella vicenda, ricadendo in un caricaturale leggermente stonante, incluso il breve cameo autoironico del regista nel ruolo di Fideschi.

Nonostante ciò, il film non può essere bollato in maniera tranchant come fallimentare, vantando un’attenzione piuttosto ragguardevole nella messinscena, in particolare della fotografia curata da Mike Stern Sterzynski, nonché un cast notevole in cui si distingue l’eccellente Massimiliano Gallo, in una delle sue performance più notevoli. Nota di merito è sicuramente la straordinaria partecipazione di Marina Confalone nel ruolo di Bettina, monumento del cinema e del teatro napoletano sin dalle sue collaborazioni con Edoardo e perfetta nel restituire la saggezza popolare di una donna poco acculturata ma capace di fare da guida esistenziale a un uomo colto ma disorientato dalla vita e dai rapporti umani, intrappolato in quel “silenzio grande” contraltare del pandemonio di voci e di parole su cui il film si costruisce.

Leonardo Magnante

di Bruno Dumont

Origine: Francia, Germania, Italia, Belgio, 2021 Produzione: Jean Bréat, Muriel Merlin, Rachid Bouchareb per 3B Productions, in coproduzione con Red Balloon Film GMBH, Tea Time Film, Ascent Film, Scope Pictures, Arte France Cinema, Bayerischer Rundfunk, Rai Cinema Regia: Bruno Dumont Soggetto e Sceneggiatura: Bruno Dumont Interpreti: Léa Seydoux (France De Meurs), Blanche Gardin (Lou), Benjamin Biolay (Fred De Meurs), Emanuele Arioli (Charles Castro), Juliane Köhler (Mme Arpel), Gaëtan Amiel (Jo), Jawad Zemmar (Baptiste), Marc Bettinelli (Lolo) Durata: 133’ Distribuzione: Academy Two Uscita: 21 ottobre 2021

F

France de Meurs è la giornalista di punta di una stazione televisiva francese dedicata alle notizie a tutto campo. Giovane, bella, ricca, conduce i confronti tra gli uomini politici, approfondisce i dati che giungono in redazione minuto per minuto e, cosa per lei più importante, è inviata speciale in tutte le parti del mondo in cui ci siano guerre, rivoluzioni, catastrofi.

La vediamo correre, elmetto in testa, da una parte all’altra con cameramen e interprete, intervistare ribelli e rivoluzionari, soldati al fronte e combattenti nei posti più sperduti della terra.

Se la scena non viene bene la si ripete migliorando l’inquadratura con i suoi primi piani e posizionando soldati e combattenti in maniera diversa affinché la falsa ricostruzione sia più vera del vero.

La vita personale di France non può essere certo ricca di sentimenti e calore: ha un marito algido e lontano e un bambino viziato, capriccioso, privo di affetto e interesse verso i genitori.

L’esposizione mediatica di France è enorme, la gente adora la sua ricostruzione scenica degli avvenimenti, la rincorre e le chiede autografi come a una star mentre i paparazzi ne vogliono carpire espressioni di forza o cedimento in una ubriacatura continua. Un’esistenza così pompata, perpetuamente di corsa e tenuta ai massimi dell’equilibrio psicofisico può barcollare da un momento all’altro, basta un niente.

Un giorno, per una distrazione in mezzo al traffico, France investe un motociclista tunisino a cui è riscontrata una piccola lussazione del ginocchio. Un po’ perché il ragazzo ne approfitta e i genitori consenzienti nascondono dietro la loro ingenuità di immigrati la contentezza per quanto sta accadendo, France crolla: ha di colpo la percezione della falsità del proprio mondo e regala ai tunisini comprensione, vicinanza, considerazione e, ovviamente, denaro.

France decide così di mollare e sotto la spinta della sua assistente, la vera anima dannata del suo successo, si fa ricoverare in una clinica psichiatrica per ritrovare se stessa e un po’ di serenità.

Lì accade un altro problema: un giornalista freelance che confeziona pezzi fortemente scandalistici per una testata tabloid si è fatto ricoverare nella stessa clinica per ghermire a France notizie e fatti che mostrino l’isterica bulimia di un giornalismo ipergonfiato. Purtroppo il colpo riesce anche se il giornalista nelle settimane successive dichiarerà a France più di una volta che di lei si è innamorato davvero.

Il colpo peggiore però avviene poco dopo: il marito di France e il piccolo Jojo muoiono in un incidente nel quale la loro potente vettura precipita in una scarpata per lo scoppio di una gomma.

Lei pare restare davvero fuori gioco ma pian piano riesce lo stesso a risalire la brutta caduta dedicandosi ad argomenti forti come l’intervista a una donna che ha vissuto trent’anni con un marito rivelatosi un violentatore e killer di bambine, senza accorgersi di nulla.

Questa materia così scabrosa dove France supera ogni limite della riservatezza e del buon gusto la rilancia nuovamente nel firmamento della notizia esplosiva; la giornalista si ritrova ancora a cavalcare l’onda del suo universale successo anche se, è lei stessa a confessarlo, la sua vita non potrà essere più quella di prima.

LLa “patacca” è fin dai primi fotogrammi: a una conferenza stampa con il Presidente Macron, France chiede subito la parola per rivolgergli una domanda piuttosto articolata e spiazzante: il Presidente risponde (ben utilizzato un pezzo vero e riorganizzato con il montaggio e doppiaggio ricostruito) con abilità seducente ed eloquio smarcante. L’assistente di France fa immediatamente vedere alla sua protetta l’accavallarsi esponenziale di followers sul cellulare che esprimono il plauso isterico per questo ennesimo, trionfale, coup de theatre della giornalista amatissima, incurante, ormai, di quello che è detto in conferenza visto che il suo obiettivo è stato centrato al primo colpo.

Immediata conclusione: né al Presidente, né alla giornalista, né alla sua assistente e a nessuno interessa l’argomento sul terreno, bensì la padronanza della parola e della scena: convincono se stessi e gli spettatori del meeting di avere raggiunto il controllo (manipolato) di quel momento esistenziale, fatto non di materia ma di contraffazione sorniona, di governo seducente di cose e persone, di rielaborazione astratta di ciò di cui la gente crede di avere bisogno.

Da qui parte una valanga di finzione, di banalità, di atteggiamenti mostruosi, di volgarità, di spazzatura, di artificiosità, in un tasso così forte che spinge a domandarsi increduli se davvero l’esistenza abbia assunto una connotazione così mistificatoria oltre il punto di non ritorno.

Non c’è vita, non c’è calore, non ci sono sentimenti né relazioni; il figlio di France ha appreso da subito l’inutilità di tutto questo, ma solo una continua falsificazione del vero, punteggiata da una lacrima che frequentemente bagna la fissità degli occhi della giornalista.

C’è del dolore su questa terra? Ci sono avvenimenti reali? C’è uno scambio di umanità tra esseri umani? Parrebbe di no, oppure se c’è interessa maggiormente la loro alterazione che conduce a prendere l’impostura per realtà e l’inganno per abitudine.

Straordinaria la realizzazione di questa montagna di spazzatura con il colore, dalla varietà di violenti rossetti che dipingono le labbra della protagonista, al fenomenale nero grafitato per la densa capigliatura del marito, al nero e rosso della sua abitazione, al giallo e verde dello studio televisivo, al rosso e rosa dei suoi abiti di scena.

Insomma non ha avuto pietà il regista Bruno Dumont nel presentare questa volgarità nel modo più “pornografico” perché fosse chiara la distanza emotiva da porre tra la fiducia ancora esistente e l’intrattenimento pernicioso e sporco da cui lo spettatore viene imbrogliato tutti i giorni.

Grande l’interpretazione della Seydoux che dilata la sua France De Meurs (che suona Francia dei costumi...) a una morbosità universale, a una tristezza glaciale e colorata di disumana perfezione.

FaBrizio Moresco

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