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150 ANNI di STORIA ATTRAVERSO LE PAGINE DEL NOSTRO QUOTIDIANO
SUPPLEMENTO AL NUMERO ODIERNO A CURA DI
Umbria
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La Nazione fu presente in Umbria dal primo giorno di pubblicazione La Val Ternana? È il luogo ideale per accogliere l’industria militare I Fascisti arrivano da Firenze Durissimi scontri a Perugia A Terni è arrivato il circo A Spoleto un nuovo teatro Una piccola stanza all’Hotel Posta ed il marchese Ubaldo a lavorarci L’amore di Wojtyla per la nostra terra Un Papa a Perugia dopo 129 anni Il dramma di Orvieto “Una voragine al giorno” La tragedia di Todi Ermini, professione rettore La terra trema. L’Umbria è sconvolta La testimonianza “Crollò la Basilica, mi salvai per miracolo” Dalle scale mobili al minimetrò Il Festival dei Due Mondi a Spoleto C’è un mostro a Foligno La prima volta del Perugia in A La Ternana in serie A Quella volta che l’Umbria scoprì di amare il jazz Hanno rapito Augusto De Megni Fezzuoglio, così muore un eroe Meredith, un mistero di sangue Supplemento al numero odierno de LA NAZIONE a cura della SPE Direttore responsabile: Giuseppe Mascambruno
UMBRIA
150 anni di storia attraverso le pagine del nostro quotidiano.
Non perdere in edicola gli altri 2 fascicoli regionali che ripercorreranno, attraverso le pagine de La Nazione, la storia fino ai nostri giorni e i 17 fascicoli locali con le cronache più significative delle città. In copertina: Giovanni Paolo II è accolto dal sindaco di Perugia Giorgio Casoli, il Duomo di Orvieto, il minimetrò che ha trasformato il capoluogo medievale in una città all’avanguardia nella tecnica.
Vicedirettori: Mauro Avellini Piero Gherardeschi Antonio Lovascio (iniziative speciali) Direzione redazione e amministrazione: Via Paolieri, 3, V.le Giovine Italia, 17 (FI) Hanno collaborato: Mimmo Coletti Gianfranco Ricci Roberto Conticelli Sofia Coletti Rosanna Mazzoni Patrizia Peppoloni Stefano Cinaglia
Donatella Miliani Paolo Ippoliti Erica Pontini Luciano Salvatore Pier Paolo Ciuffi Progetto grafico: Marco Innocenti Luca Parenti Kidstudio Communications (FI)
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La Nazione fu presente in Umbria dal primo giorno di pubblicazione Vi arrivava clandestinamente, e clandestini erano i primi corrispondenti da Perugia che agivano sotto il potere romano Una visione laica dello Stato pur nel massimo rispetto della Chiesa, così la volle Bettino Ricasoli
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a Nazione fu venduta e fatta circolare in Umbria fin dall’indomani dell’armistizio di Villafranca, e dunque, fin dal primo giorno di pubblicazione. Ci arrivava clandestinamente, e dall’Umbria riceveva le notizie – soprattutto politiche – che potevano servire alla causa risorgimentale.
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primi corrispondenti da Perugia furono infatti dei giovani intellettuali, appartenenti all’aristocrazia, che osavano sfidare il potere romano. E clandestinamente, fin dal suo primo numero ufficiale, quello del 19 luglio 1859, La Nazione entrava nello stato pontificio: Perugia e Foligno, ma anche a Terni, tanto che nel suo primo numero era prevista anche la quota di abbonamento per le “province romane”. Quote più alte, ovviamente, perché non era facile consegnare il foglio di Ricasoli in certe zone. E così, se per un anno di abbonamento, a Firenze, la Nazione costava 72 paoli, per l’Umbria e per le Marche ne costava 123. Ma comunque c’era, come c’è ancora oggi, e per questo motivo, l’anniversario dei 150 anni vale per i toscani come per gli umbri. Nascere con l’Italia e accompagnarla, giorno dopo giorno, fino ad oggi. Nessun altro giornale vanta questo primato. E infatti, se anche una testata, la Gazzetta di Parma, sicuramente è più antica di quasi 100 anni rispetto al giornale fiorentino, è anche vero che per lunghi periodi ebbe un altro nome, in altri sospese le pubblicazioni, e in ogni caso non svolse il ruolo fondamentale per l’Unità d’Italia che toccò al foglio di Bettino Ricasoli.
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ià, perché fu proprio lui, il “Savonarola del Risorgimento” come lo definiva Spadolini, a volere che il nostro giornale fosse in edicola, redatto e composto in una sola notte, alla notizia dell’armistizio di Villafranca. La storia è nota. L’11 luglio del 1859, nel pieno della seconda guerra di indipendenza, quando le truppe franco piemon-
tesi avevano vinto battaglie di rilevanza enorme, come quella di Solferino, e già si pensava come invadere e liberare il Veneto, all’improvviso francesi ed austriaci firmarono un armistizio ed i Savoia non ebbero la forza per opporsi. Lo fecero perché la Francia cominciava a temere un attacco da parte della Prussia che stava ammassando le sue truppe a confini. Lo fecero, perché un’Italia libera e indipendente poteva anche andar bene alla grandi potenze europee, ma non doveva essere eccessivamente forte. E dunque, ecco che al Piemonte veniva concessa quasi per intero la Lombardia, ma il Veneto, il Trentino e la Dalmazia restavano agli austriaci, mentre in Toscana sarebbero tornati i Lorena, e in ogni caso si ipotizzava una federazione di stati del Centro Sud sotto la guida del Papa.
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lla notizia, Cavour, dopo uno scontro durissimo con Vittorio Emanuele si dimise. E l’unico a sostenere la causa dell’Italia da unire, restò in quelle ore il capo del governo toscano costituitosi dopo la partenza del granduca, Bettino Ricasoli appunto. La notizia dell’armistizio arrivò a Firenze nel pomeriggio del 13 luglio e i patrioti si riunirono in Palazzo Vecchio dove regnava la rabbia, il caos, la voglia di reagire ma anche un profondo senso di impotenza. E l’unico che dimostrò di avere le idee chiare, ben al di là della logica, delle possibilità offerte dalla diplomazia, si rivelò Ricasoli che non poteva a nessun costo accettare quanto stava accadendo. E infatti, lui guidava un governo toscano provvisorio con l’unico scopo di arrivare al plebiscito per l’annessione al Piemonte, e se fossero tornati i Lorena tutto sarebbe crollato. Sotto il profilo politico ma anche sotto il profilo personale. Così, dimostrandosi in quelle ore il
Fin dal primo numero del 19 luglio 1859 La Nazione prevedeva l’abbonamento in Umbria al costo di 123 paoli.
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Posano per la foto ricordo i militari che hanno partecipato alla liberazione di Perugia. La piazza Vittorio Emanuele ad Assisi (nel tondo).
vero artefice del Risorgimento, ancor più dello stesso Cavour che in qualche modo aveva gettato la spugna, Ricasoli spedì due ambasciatori a Torino e a Parigi per tentare di modificare le cose. Ma nello stesso tempo mandò a chiamare tre patrioti fiorentini, il Puccioni, il Fenzi ed il Cempini, che a suo tempo avevano proposto di stampare un quotidiano in appoggio alle posizioni del governo toscano, e disse loro: “È arrivato il momento, per domattina voglio il giornale.” E a niente valsero le timide proteste dei tre che, comprensibilmente, facevano notare come fossero già le nove di sera e come non sarebbe stato facile mettere insieme i testi e farli comporre in poche ore. Ma Ricasoli insisteva “O domattina o mai più.” E dette anche il nome alla testata “La Nazione”, che era tutto un programma, anzi, era il programma.
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uccioni, Fenzi e Cempini presero una carrozza e si fecero portare in via Faenza alla tipografia di Gaspare Barbera, un patriota piemontese arrivato a Firenze nei giorni in cui la città fu capitale, e qui cominciò
un lavoro frenetico a redigere i testi ed a comporli. Come nelle migliori tradizioni del giornalismo, redattori e tipografi lavoravano gomito a gomito. Un articolo non era ancora concluso e già la prima parte passava ai compositori. Un articolo non era del tutto composto – all’epoca non estivano le linotype ed ogni parola era composta a mano – e già si facevano le bozze per le correzioni della prima parte. Alle cinque del mattino Ricasoli si presentò alla tipografia, lesse le bozze e dette il consenso. Alle dieci, tirate pare in tremila copie, due pagine in mezzo foglio, oggi diremmo formato tabloid, erano in vendita nel centro cittadino. Si trattava di un’edizione senza gerenza, senza il nome dello stampatore, senza il prezzo, senza pubblicità. Praticamente un numero zero. E così si andò avanti fino al 19 luglio quando, finalmente, La Nazione uscì nel suo primo numero ufficiale, con formato a tutto foglio, le indicazioni di legge, i prezzi per l’abbonamento e per la pubblicità. Così, dunque, nacque il nostro giornale. Che conobbe i giorni fausti dell’Italia Unita, e
poi quelli pieni di problemi, non solo economici, in cui Firenze fu provvisoriamente capitale. Quindi la questione romana, la breccia di Porta Pia, e insomma tutte le fasi che con alterne vicende portarono alla nascita dello Stato italiano.
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a fu proprio con Roma Capitale che La Nazione dovette modificare il proprio tipo di impegno. Che fare, seguire il governo e il mondo politico fino a Roma, là dove si sarebbero svolte da allora in poi tutte le vicende, e prese le decisioni relative all’Italia? La domanda fu posta ed era più che legittima. Nessun altro quotidiano aveva il diritto di continuare le proprie pubblicazioni nella sede del regno e del governo italiano, più di quello che l’Italia aveva contribuito a farla nascere. Ma fu compiuta una scelta, che di certo non fu di tipo economico: restare. Restare a Firenze, accompagnare la vita della città dove era nata, ma nello stesso tempo continuare ad estendersi
nelle aree contigue, in prima fila l’Umbria, e dedicare sempre di più le proprie attenzioni anche alla vita quotidiana, a quella che oggi diremmo la cronaca di ogni giorno. Insomma, da grande foglio risorgimentale carico di tensioni ideali, a giornale come oggi lo intendiamo. Con rubriche dedicate alla moda, allo sport, con grandi spazi dedicati alla vita musicale e teatrale. Con la disponibilità a condurre grandi battaglie nel nome e per conto di Firenze, che già allora viveva con naturalezza la sua doppia natura, ancor oggi visibile: quella di una dimensione provinciale aperta al mondo.
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ese possibile questa scelta di obiettivi un grande direttore, Celestino Bianchi. Che seppe conquistare il
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pubblico femminile, interessare anche la media e piccola borghesia mercantile, ma soprattutto richiamare intorno al foglio di Ricasoli le migliori firme italiane del momento. Che, del resto, già erano presenti su La Nazione, fin dai primissimi anni. E allora ecco il D’Azelio e il Tommaseo, ecco il Manzoni e il Settembrini, e poi il Collodi, il De Amicis, Alessandro Dumas, Capuana, il Carducci e in seguito anche il Pascoli, ed infinti altri. Grandi firme che sarebbero continuate durante il fascismo e nell’Italia repubblicana fino ad oggi. Da Malaparte a Bilenchi, a Pratolini, ad Alberto Moravia, a Saviane, a Luzi. Dopo aver ospitato Papini, Prezzolini, Soffici, e gran parte dei letterati delle Giubbe Rosse nel periodo che precede e che segue la grande Guerra.
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ueste le scelte che permisero a La Nazione, pur dovendo affrontare momenti di crisi e di difficoltà, di battere ogni volta le testate concorrenti. Se esisteva una difficoltà di vendita o addirittura di immagine, sempre riuscì a trovare gli uomini e le energie per risollevarsi. Liberale infatti, fu sempre il quotidiano fiorentino, ma di un liberalismo illuminato che sapeva aprirsi ogni volta ai temi di interesse sociale, e per farlo non esitava ad ospitare anche firme lontane dalle proprie posizioni. Così, quando si trattò di presentare ai fiorentini, e commentare, la nascita delle scuole serali, fu chiesto un articolo a un giovane e rivoluzionario poeta, il Carducci. E fu tra i primi giornali, La Nazione di Firenze, a porre sul tappeto il dramma del lavoro minorile, e a pubblicare le relazioni di Sidney Sonnino sulla condizione dei bambini, quelli del Nord Italia, che a sette anni lavoravano anche 13 ore al giorno nell’industria della seta e quelli di Sicilia, costretti a starsene chini, senza luce né acqua, nelle solfatare di Sicilia. Ancora di più colpisce, per il giornale del Risorgimento, la moderazione con la quale fu seguita la questione romana e fu data notizia della breccia di Porta Pia.
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infatti, mentre la retorica anticlericale si scatenava, creando con i suoi estremismi solo un effetto boomerang,
La Nazione fu capace di analisi e di intuizioni che a distanza di 90 anni, con il Concilio Vaticano II, perfino il mondo cattolico avrebbe fatto proprie. Scriveva infatti il nostro giornale: “Il potere temporale ha trattenuto il cattolicesimo fermo sull’idea imperiale”. Del resto non era il Ricasoli religiosissimo? E dunque, è in omaggio ad una visione laica delle differenze fra Stato e Chiesa, una visione totalmente deducibile dai vangeli che si combatté quella battaglia, che non significava affatto compiacersi di un assoluto anticlericalismo ideologico, o ancor di più di una qualsiasi forma di ateismo conclamato.
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ancora, quando si trattò di decidere se trasferirsi a Roma capitale, seguendo le sorti del governo e del re, la spiegazione data ai lettori fu questa. “Noi non vogliamo che Roma attiri a sé tutta la forza intellettuale. Noi vogliamo che Napoli, Firenze, Bologna, Venezia, Milano, Torino, serbino la loro influenza legittima, portino il peso nella bilancia delle sorti politiche nazionali. Ogni regione ha elementi originali da custodire e nello stesso tempo è sentinella dell’Unità inattaccabile.”
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na prosa intelligente, modernissima, attuale ancor oggi, 140 anni dopo. Un atteggiamento che La Nazione conservò anche in epoche ben diverse. Così, durante il fascismo, pur costretta come tutte le testate a pubblicare le veline del minculpop, non per questo La Nazione si allineò mai totalmente al Regime. Tanto da opporsi, allorché il Regime voleva imporre come direttori uomini di assoluta fede a Mussolini. E ospitare firme, come quella di Montale, il personaggio che per il suo antifascismo era pur stato “licenziato” dal Vieusseux, uno stile, un modo di essere, che la premierà quando, pur con mille problemi tornerà alle pubblicazioni nel 1947.
Un anno prima: nel dipinto del Verga l’attacco a Perugia da parte degli Svizzeri del 1859.
14 settembre 1860 I BERSAGLIERI ENTRARONO DA PORTA SANT’ANTONIO Alla fine delle scalette di Sant’Ercolano sorgeva un albergo nato nel Settecento e che molta parte ha avuto ad agitare le coscienze europee e a sostenere la conquista della libertà di Perugia e dell’Umbria. Si chiamava Hercolani, poi Europa, in seguito Grand’Hotel de France e infine, nome profetico, Esperance. Avvenne dunque che nel 1859 le stragi delle milizie papaline, delle guardie svizzere, fossero viste e descritte dai coniugi americani Perkins e dalle Cleveland, madre e figlia, che lì soggiornavano. Fu ucciso, tra gli altri, l’albergatore e due dipendenti, il Perkins venne derubato. E non tardò a inviare lettere infuocate e circostanziate al Times e all’ambasciata americana a Roma. Con un effetto deflagrante, un convergere di sdegno che parecchio giovò alla causa indipendentista. Un anno dopo, il 14 settembre, il rovesciamento di posizioni fu totale. I bersaglieri del generale Manfredo Fanti entrarono da Porta Sant’Antonio trovando debolissima resistenza ma dovettero impegnarsi a fondo a Porta Santa Margherita per l’ultimo, disperato baluardo papalino. Dissolto, comunque. E lo Schmid si risolse a chiedere la resa. Da rammentare che Borgo XX Giugno si chiamò così proprio in ricordo delle nefandezze del ’59, per onorare le uccisioni dei patrioti. Ci fu una solenne cerimonia proprio cent’anni fa per intitolare questa parte della città così caratteristica a un fatto storico bagnato di sangue. Tra l’altro il Borgo racchiude, all’inizio e alla fine, la venerazione dei due patroni: con la Chiesa di S. Ercolano, vescovo e martire decapitato da Totila, e con quella dedicata a S.Costanzo. Un riassunto lungo tanti secoli ma rivolto a scandire l’epopea risorgimentale.
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da La Nazione del 2 marzo 1872
La Val Ternana? È il luogo ideale per accogliere l’industria militare L’Italia è fatta, Roma è capitale, adesso si tratta di ridistribuire l’industria di Stato nelle varie regioni. Terni è in prima fila per la produzione militare e La Nazione la sostiene con ampi articoli ospitati in prima pagina
Una immagine storica della “fabbrica d’armi” che avviò la presenza dell’industria pesante a Terni.
Ecco il primo di questi a firma di un improbabile Campo Fregoso, di certo lo pseudonimo del corrispondente che firmava nei giorni in cui la città umbra era ancora dominata dal papato. SULL’URGENTE NECESSITÀ DI RIUNIRE A TERNI TUTTI I GRANDI STABILIMENTI D’INDUSTRIA MILITARE Già da molto tempo ci siamo proposti di richiamare l’attenzione dei militari sulla grande importanza della posizione di Terni e sulla opportunità di stabilirvi il pernio per la difesa della parte peninsulare dell’Italia.
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llora il nome di Terni suonava ancora affatto nuovo pei nostri militari ed è con grande soddisfazione che vediamo ora sempre più diradarsi quelle folte tenebre che l’apatia, l’indifferentismo e l’ignoranza avevano condensato su quella regione. Si parla e con insistenza della costruzione di una nuova fabbrica d’armi in Val Terzana: ciò per ora; ma noi non dubitiamo che si riconoscerà la necessità di riunire gradatamente in quella valle tutto ciò che concerne ad armare, equipaggiare, nutrire un esercito come polverifici, fonderie, arsenali di costruzione, laboratori pirotecnici, di precisione, pirico farmaceutico, stabilimenti di deposito di materiale da guerra, di equipaggiamento ecc. che si trovano ora sparsi in città della valle del Po, e della penisola tutte aperte ed esposte ai primi attacchi della Francia. Infatti come essere sicuri di poter provvedere ai
bisogni dell’esercito durante una guerra, quando si ha un polverificio a Scafati, una fabbrica d’armi a Brescia, una fonderia di cannoni a Torino, una raffineria a Genova e non si può sperare un serio appoggio nell’industria privata?...
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sso dovrà trovarsi in una grande posizione strategica, sicura per natura o per arte e preferibilmente nel grande ridotto generale in difesa in un grande centro di comunicazione specialmente ferroviarie… Ci faremo ora a dimostrare come questa valle di Terni si presti sotto ogni aspetto a servire da emporio a tutti i nostri grandi stablimenti militari, a tutta la nostra industria militare… CONDIZIONI ECONOMICHE DELLA VAL TERZANA POTENZA IDRAULICA DELLA NERA E SUO IMPIEGO
Questa Val Terzana la natura ha ricolma di tutti i suoi favori e benedetta col suo sorriso… le sue pianure, sebbene di non grande estensione, sono però tra le più
produttive d’Italia per il loro buon sistema d’irrigazione, la dolcezza del clima la feracità del suolo… Val Terzana è inoltre lo scalo naturale degli Abruzzi, della Sabina, della Val d’Umbria, di Val Tevere media e inferiore e quindi di loro grandi ricchezze in legnami, carboni, torbe, bitumi, lignite, ferro, gesso, marmi, cementi idraulici, travertino, zolfo, tufi, minerali d’ogni fatta, sostanze varie vulcaniche, olii, grani, cereali, foraggi, cani, vini, frutta, eccetera…
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a Nera, sebbene occupi un posto assai modesto per estensione di bacino, pure è uno dei più cospicui per grande volume di acque che perennemente convoglia. Le sue sorgenti che si trovano sulle parti più elevate della catena Appennina: dai monti Sibillini al Monte Velino, sono ricchissime e perenni: i laghi Restini servono come da moderatori e grandi serbatoi di riserve danno alla Nera le prerogative dei fiumi lombardi. V’ha inoltre un rimarchevolissimo fenomeno geologico che contribuisce a rendere perenne il corso della
Nera, esso è dovuto all’azione eminentemente moderatrice dei terreni permeabili ond’è costituito gran parte del bacino di questo fiume, i quali assorbono, immagazzinano, se è così lecito esprimersi, l’acqua che cade negli anni eccessivamente piovosi, per rendere poi al fiume lentamente e per sotterranei meati nelle epoche di siccità.
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Terno dove trovansi riuniti in un sol fascio gli sparpagliati bacini di Nera, Velino, Turano, Salbo, si ha la considerevole portata di 150 metri cubi al secondo e talvolta di 500…
Terni veniva indicata come il centro ideale per l’industria militare a causa della sua posizione strategica e delle considerevoli riserve d’acqua. L’importanza del bacino della Nera.
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Perugia 24 marzo 1921
I fascisti arrivano da Firenze Durissimi scontri a Perugia Colpi di rivoltella in corso Vannucci. Cinquanta i feriti
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l partito comunista è nato a Livorno nel gennaio del 1921. E la situazione sociale è gravissima. Gli scontri con i fascisti sono quasi all’ordine del giorno. Le zone minerarie, le zone industriali sono i terreni preferiti per gli scontri. Nel mese di marzo Malatesta ed altri anarchici, in carcere a Milano hanno dato inizio ad uno sciopero della fame e le tensioni riprendono particolarmente vigore, fino a sfociare in un attentato di anarchici individualisti al teatro Diana che provocherà 21 morti e 50 feriti. Ebbene, il 22 marzo la Camera del Lavoro di varie città italiane proclamò uno sciopero generale contro il quale si opposero le squadre fasciste. Scontri si ebbero a Livorno, a Carrara, ma soprattutto nelle miniere di lignite del Valdarno. Perugia non restò indenne. I fascisti arrivarono da Firenze, La Nazione dette ampio risalto alla “furiosa battaglia” con la cronaca che segue.
Un’altra furiosa battaglia fra fascisti e socialisti a Perugia L’arrivo dei fascisti da Firenze - Perugia 24 marzo Ieri sera, circa le ore 22, nella città nostra è avvenuto un altro gravissimo scontro tra fascisti e socialisti. Fino dalle prime ore del mattino si sapeva che questi ultimi avevano chiesto rinforzi nei paesi limitrofi per usare violente rappresaglie in città per l’incendio della loro tipografia sociale. I fascisti perugini, a loro volta, avevano chiesto aiuti nei paesi vincitori accettando inoltre di buon grado l’offerta dei compagni di Firenze che giunsero infatti ieri sera a Perugia a tarda ora con camion e per ferrovia. Giunge notizia che i camion dei fascisti fiorentini erano tre, due dei quali furono fermati da socialisti a San Giovanni Valdarno. L’autorità aveva ordinato alla forza pubblica e alle truppe di presidiare il Palazzo Municipale, diverse associazioni politiche e cittadine e la Camera del lavoro. La colonna fascista forte di oltre 5mila gregari fra perugini e fiorentini, giunse alla stazione in città alle ore 23 circa imboccando Corso Vannucci. Fu fatta segno a molti colpi di rivoltella sparati dai socialisti nascosti nelle vie laterali. La scintilla come è facile immaginare fece divampare l’incendio. Nella via più centrale della città si impegnò una furiosa lotta fra fascisti e socialisti con scambio di oltre duecento revolverate. I socialisti a un certo punto hanno lanciato una bomba, colpendo al capo il fascista Pallarini della vicina Tuoro, al quale all’ospedale vennero estratte due schegge di proiettile. La battaglia ha durato oltre una decina di minuti e quando è accorsa la forza pubblica al comando del vice questore Minuti e del capitano dei RR.CC. Marcati i contendenti si sono sbandati. Si calcola che vi siano oltre cinquanta feriti. All’ospedale però se ne sono presentati solamente sei e cioè Gardi Giovanni, Boila Giuseppe, Spaterna Arnaldo, Pagliari Vittorio, Monticci Luigi, Primavalle Nello.
La camera del lavoro devastata
Sedata questa mischia, la forza pubblica ha dovuto fronteggiare i reiterati assalti dei fascisti al Municipio riuscendo a impedirne l’entrata. Contemporaneamente una duplice e forte schiera di fascisti si avviava in due direzioni alla volta della Camera del Lavoro. I carabinieri e le truppe che la presidiavano presi da due fuochi, non hanno potuto arginare la duplice marea fascista che penetrata nella Camera del Lavoro l’ha messa a soqquadro. Lo stabile non è stato incendiato perché abitato nei piani sovrastanti da varie famiglie di inquilini. Intanto, nel corso Vannucci e nelle vie adiacenti avvenivano non pochi cozzi isolati. Il più grave di essi si è avuto verso le ore 24 in piazza Umberto I dove l’orologiaio socialista Gaetano Stivaloni ha insultato e poscia ferito all’occipite il fascista perugino Angelici ricevendo a sua volta nella zuffa un colpo di rivoltella all’inguine per il quale è stato condotto in grave stato all’ospedale.
Errico Malatesta (in alto) fu all’origine degli scontri del marzo 1921. L’anarchico in quei giorni era in carcere e aveva iniziato lo sciopero della fame.
Si chiedono le dimissioni del consiglio comunale
La notte è trascorsa calma. Tutti gli operai si sono ripresentati compatti al lavoro. La città è imbandierata. Si è avuto solo un incidente verso mezzogiorno in Corso Cavour dove i fascisti hanno assalito e devastato il circolo comunista Libertà. Mentre telefono si prepara una grande riunione in prefettura dove una numerosa rappresentanza composta di tutti i partiti della città pare abbia in animo di chiedere al Capo della prefettura le dimissioni della amministrazione comunale socialista. L’animo popolare dà segni manifesti di consentimento all’opera dei fascisti che tende a liberarla dal giogo rosso.
Un’immagine storica del centralissimo corso Vannucci a Perugia. (nel tondo in basso a destra).
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da La Nazione del 9 agosto 1878
A Terni è arrivato il circo A Spoleto un nuovo teatro
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ue buone notizie a distanza di 70 anni l’una dall’altra. La prima è una corrispondenza estiva che risale addirittura all’agosto del 1878. Si parla di una calda estate a Terni con visite illustri esibizioni equestri, “uomini volanti” ed altre amenità del genere. Quasi nascosta, invece, la vera e propria notizia, ovvero l’inaugurazione del nuovo teatro a Spoleto con la messa in scena dell’Affricana. Ed ecco il testo completo della corrispondenza: Terni 9 agosto
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odiamo di una stagione magnifica. Il caldo è qui temperato dalle aure balsamiche. Abbiamo un non piccolo numero di visitatori: S.E. il ministro delle finanze ebbe lieta accoglienza dalla cittadinanza allorché, or sono alcuni giorni, si recò a visitare la sua famiglia che è venuta qui a passare l’estate.
La sera la compagnia equestre Tuzzi-Steckel, ci offre uno spettacolo attraente e svariatissimo. L’uomo volante Alessandro Steckel fa ogni sera miracoli di agilità e di bravura. Miss Esther e suo fratello Luigi Gilet eseguiscono sul cavallo giuochi prodigiosi. Nella compagnia Tuzzi-Steckel (e il Tuzzi è un cavallerizzo perfetto) si trovano i clowns fratelli Beli e fratelli Viviani e il bravo ginnastico R. Venturi e due giovanetti, Rodolfo e Ortensia Gilet. Quest’ultima è veramente prodigiosa, essa prenderà posto in breve fra le più rinomate cavallerizze. Nella vicina Spoleto si sono fatti grandi preparativi per la messa in scena dell’Affricana, con la quale si inaugurerà domani il nuovo teatro. Vi prendono parte le due prime donne soprano Clara Bernau e Adele Orlandini, il tenore Signoretti e il baritono Vaselli. La Società delle ferrovie Romane ha accordato un ribasso notevole per viaggi di andata e ritorno.
La fortuna ha scelto bene
Ha fatto dodici un ricoverato al sanatorio di Perugia Nel dicembre del 1949, ecco invece da Perugia una notizia di tutt’altro tenore ma pur sempre di cronaca bianca, anzi, di “cronaca lieta”. L’Italia ha da poco ripreso a vivere dopo le tragedie della guerra, e il totocalcio – ancora sono lontani gli anni del boom economico – è la grande scommessa collettiva alla quale si affida il proprio futuro. Un ricoverato al sanatorio di Perugia ha fatto dodici. E La Nazione, nella sua edizione del lunedì, saluta l’evento con un titolo a due colonne in prima pagina dove si legge testualmente. Perugia 20 - La fortuna è entrata nel sanatorio Grocco dalla porta riservata ai malati. Uno dei ricoverati, il trentaduenne Amos Segapeli ha imbrocco un dodici con la schedina del Totocalcio e adesso attende quella che gli intenditori affermano essere una pioggia di milioni. Amos Segapeli ha fatto in realtà quattordici perché ha azzeccato anche le due partite di riserva. La dea bendata ha fatto questa volta un’opera buona ed ha agito senza benda. Perché la storia di questo povero ragazzo è tale che non si può non essere felici con lui come lo sono stasera tutti i suoi compagni. Tre anni fa lavorava nella tipografia “Leonardo da Vinci” di Città di Castello quale compositore, quando venne assalito per la prima volta dal terribile morbo. Da quel giorno a lunghi periodi e da 18 mesi in continuità dovette lasciare la propria famiglia composta dai genitori, dalla moglie e due bambini per essere ricoverato al sanatorio. La moglie si mise a lavorare quale operaia al tacchificio, la mamma quale operaia in una lavanderia dell’ospedale civile, mentre il padre, date le condizioni ancora critiche fu ricoverato in un ospizio. Il Segapeli ha trentadue anni è alto un metro e cinquantanove e la malattia lo ha ridotto oggi a perdere 43 chili. Da principio permise che tutti si passassero la sua schedina ma poi la riprese per custodirla nel portafoglio. Ha giocato sei colonne che consegnò al giornalaio Balzelli. Il quale, possedendo un’edicola in largo Cacciatori delle Alpi ha nel suo giro il sanatorio. Non era una novità perché tutte le settimane giocava così, ma sinora senza fortuna. La fortuna è arrivata tutta insieme e per la storia la colonnina fortunata è stata la penultima. La matrice del biglietto risulta essere 20 RO n.53032. Attorno al dodicista stasera fanno festa grande nel sanatorio Grocco. Ora può aiutare i suoi e curarsi tanto bene da essere certo della guarigione.
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Così nel dopoguerra
Una piccola stanza all’Hotel Posta ed il marchese Ubaldo a lavorarci Alla fine del conflitto mondiale La Nazione riprese le pubblicazioni da Perugia Quella notte che nevicava tanto e il fuorisacco era rimasto in tasca E la città “non aveva cacciato la campagna”
scarsi i comunicati, notizie da conquistare, una dopo l’altra. Anche fatti minuti, minimi, damiliari perché così era l’acropoli allora. Già, tutti si conoscevano, o quasi. I caffé erano il punto di ritrovo, corso Vannucci la vasca da percorrere per vedersi, malignare, sorridere.
I di Mimmo Coletti
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uel dolce fascino del passato che viene dai racconti, dalle memorie, dalle pagine ingiallite. Dopo la guerra, oltre la stagione degli odi contrapposti, attorno alla città era rifiorito l’amore, si apriva una sorta di primavera dai colori esangui, ma con tanta voglia di fare, di rimboccarsi le maniche.
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empi eroici, e comunque tanto diversi da apparire perfino estranei. Non esisteva una redazione del nostro giornale come s’intende oggi, invece esisteva un ufficio di corrispondenza, un ufficetto che si trovava in una piccola stanza dell’hotel Posta, proprio quello ricordato da Dumas nel Conte di Montecristo. Sulla sinistra entrando, un cinque per quattro poco illuminato, arredato in modo minimalista si direbbe,
con un bel telefono troneggiante. Fuori della porta una cassetta dove si impostavano le notizie, recensioni della stagione di concerti ripresa alla grande con gli Amici della Musica di donna Alba Buitoni, mostre di pittura, tra cui la biennale d’arte sacra, che fiorivano mosse da quest’ansia di nuovi respiri.
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tempi pioneristici dell’informazione erano alle spalle, comunque. C’era finalmente una pagina intera che raccoglieva cronache da tutta l’Umbria, soprattutto dal capoluogo: caratteri piccoli, strozzati, righe che si succedevano prive di respiri, titoli stretti, una grafica dal sapore antico. Conquiste graduali in un’epoca che conosceva la macchina da scrivere e da taluni ancora e solo la penna stilografica. Non c’erano i lanci di agenzia,
l redattore del tempo era discendente di un’antica schiatta nobiliare, che annoverava anche uno storico insigne: il marchese Ubaldo Degli Azzi Vitelleschi, mezzo toscano eternamente tra le labbra, elegante con moderata armonia, signore di vecchio stampo dall’educazione e dallo stile misuratissimi, flaneur convinto. Fu grande la rivoluzione del cambio di sede, una conquista che parecchio significava: due stanze in piazza della Repubblica, sulla destra del negozio Perugina che aveva già sostituito le magnifiche insegne liberty per un modernismo privo di squilli. Corte file di scale, un primo vano con un paio di tavoli, un secondo dove stava solo “il capo” e al di sotto la vita che scorreva, tranquillamente. I contatti con la casa madre erano giornalieri. Nel senso che esistevano due fisse telefoniche, alle 18.30 per dettare agli stenografi gli avvenimenti della mattina e quella serale delle 20.30 che concludeva la giornata. E poi esisteva il mezzo del fuorisacco, della posta che aveva priorità assoluta. Una busta capiente, riempita di fogli scritti, cronaca rosa e bianca, iniziative benefiche, i balli popolari e i grandi veglioni, note d’arte che non mancavano mai. L’impaginazione avveniva a Firenze, da Perugia partiva il materiale. Talora anche eccessivo. Ma il volto urbico man mano mutava. Le cronache di allora sottolinearono la fine della cosiddetta piazza d’Armi, sempre più ristretta fino a una striscia per gli ultimi giocatori di bocce,
lo sventramento sotterraneo per la costruzione del traforo che fu poi la galleria Kennedy, la costruzione dell’aula magna dell’università centrale che ebbe fieri avversari, destò polemiche anche aspre e da molti fu definita sdegnosamente “il silos”.
E
ra una città che non aveva cacciato la campagna, lingue di verde, orti, coltivazioni si insinuavano tra le pietre etrusche e medievali. Un centro fatalmente destinato a ingrandirsi che raccontava se stesso in maniera sommessa, fragile, civile.
I
l fuorisacco, già. Si spediva ogni giorno, doveva essere imbucato alle dieci di sera. Immancabilmente. Allora il clima era diverso, e non è una battuta. Nevicava spesso e con violenza alpina. Successe che una sera di gennaio, proprio sul far dei primi anni Cinquanta, il giovane giornalista che curava la nera si incamminò verso casa prima del solito, con una tosse stizzosa facendosi largo tra una quarantina di centimetri di coltre bianca. Abitava in una collinetta vicino, otto chilometri all’incirca da fare a piedi, discese e salite da mozzare il fiato. Appena entrato in casa, già gustando il calore del letto, s’accorse che la busta con le notizie era in tasca. Scordata, dimenticata, un dramma. Chinò il collo tra le spalle, si rialzò il bavero e in un’ora di cammino raggiunse di nuovo il centro, imbucò il fuorisacco appena in tempo per il treno verso la Toscana e rifece il sentiero inverso. In giro non si vide per dieci giorni: una polmonite furente. Così andava il piccolo mondo perugino. Tanto differente che a narrarlo sembra incredibile.
Una foto storica: ragazzi con i pantaloni alla zuava in corso Vannucci a Perugia.
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L’AMORE DI WOJTYLA PER LA NOSTRA TERRA Giovanni Paolo II fu più volte in visita all’Umbria Il legame strettissimo con Assisi di Gianfranco Ricci
Nel tondo: il Papa polacco sorride tra la folla. Nella foto grande: il centro di Perugia colmo di autorità e di fedeli che rendono omaggio al Pontefice.
L’
Umbria e Giovanni Paolo II: incontri non casuali, sempre scanditi da grande e reciproco coinvolgimento. Karol Wojtyla venne per la prima volta all’indomani del terremoto che, nel 1980, sconquassò la Valnerina. Poi, nel corso degli anni, è stato anche a Terni, a Perugia e ad Assisi addirittura ha programmato sei appuntamenti. Le sue sono visite che hanno lasciato sempre segni da affidare alla storia. Nel marzo del 1980 l’elicottero lo accompagnò fino allo stadio di Norcia. Era una giornata piena di sole, ma sulle strade c’era tanta neve. Durante la celebrazione della Messa, in piazza San Benedetto, ci fu anche una violenta scossa di terremoto che impaurì i presenti. Il giorno successivo l’omaggio a Santa Rita da Cascia. È rimasta nella memoria visiva l’immagine del Santo Padre con in testa l’elmetto da operaio delle acciaierie ternane: era il 19 marzo 1981. Anche lui, in gioventù, era stato operaio: quel 19 marzo si confrontò con il Consiglio di fabbrica, pranzò fianco a fianco con i lavoratori. Poi, allo stadio ‘Liberati’ si intrattenne con quarantamila persone.
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metà degli anni ’80 un rapido viaggio pontificio anche ad Orvieto ove ribadì la sua grande devozione alla Madonna di fronte alla facciata del Duomo di Santa Maria della Stella. Per motivi conseguenti al sisma il Papa è tornato in Umbria anche il 3 gennaio 1998. Poche settimane prima le scosse avevano messo in ginocchio parte del territorio regionale. Il Papa anche quella volta giunse in elicottero. Atterrò ad Annifo. E al parroco, don Flavio Orazi che l’accolse in lacrime, disse: “Vi esorto a non cedere allo scoraggiamento”. Ai terremotati che gli si fecero incontro non rivolse solo parole di umano conforto,
aggiunse: “La sofferenza patita non ha cancellato dai cuori il tesoro più grande: il patrimonio di valori cristiani e umani della vostra comunità”. Per il Pontefice era un ritorno nel folignate: c’era già stato il 20 giugno 1993 per pregare sulla tomba della Beata Angela. Ma è Assisi il luogo umbro che il Papa polacco scelse come particolarissimo riferimento spirituale. C’è tornato sei volte. Il 5 novembre 1978, pochi giorni dopo l’elezione al soglio di Pietro, decise a sorpresa di visitare il Santuario dedicato al Patrono d’Italia.
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ornò il 12 marzo 1982 in occasione dell’ottavo centenario della nascita di San Francesco. Ma è nel 1986 (27 ottobre) che Assisi, per sua iniziativa, assurge a simbolo mondiale della pace ospitando un evento storico: la prima giornata di preghiera celebrata dai rappresentanti di tutte le religioni della terra. L’auspicio fu la costruzione di un’umanità più giusta e solidale. Da quella giornata, straordinariamente capace di fondere i migliori
intenti dei rappresentanti delle spiritualità universali, scaturì quell’emozione che proprio Wojtyla, parlando pochi giorni dopo alla Curia romana e al Corpo diplomatico, definì “lo spirito di Assisi come motivo di speranza per il futuro”. Cioè capacità di dialogare nel tentativo di superare le differenze. Un nuovo viaggio ad Assisi il 9 e 10 gennaio 1993: confronto con le Confessioni religiose per dedicare una speciale preghiera alle sorti della ex Jugoslavia dilaniata dalla guerra civile. La quinta visita assisiate il 3 gennaio 1998 in coincidenza con il volo realizzato per portare solidarietà alle popolazioni umbre e marchigiane colpite dal terremoto. Ultimo appuntamento il 24 gennaio 2002, a pochi mesi dalla strage americana dell’11 settembre. Parteciparono di nuovo i rappresentanti delle varie Confessioni religiose con l’intento di scongiurare le
divisioni e le guerre... “In nome di Dio - scandì Giovanni Paolo IIandiamo, tessiamo la pace con il filo d’oro della giustizia, della libertà e del perdono”. In tutto dodici viaggi in Umbria. Significativa, il giorno della morte di Karol Wojtyla (2 aprile 2005) la riflessione dell’Arcivescovo perugino Giuseppe Chiaretti, allora presidente della Conferenza episcopale: “In Giovanni Paolo II abbiamo avuto un coraggioso evangelizzatore e un forte assertore del dialogo ad oltranza. I suoi contatti con la nostra gente hanno confortato anche perché ha mostrato ammirazione per la bellezza dell’ambiente e dell’arte. Rendendo costantemente omaggio a Francesco, a Benedetto, simboli universali, da piccoli che eravamo ci ha fatto sentire importanti”.
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Un Papa a Perugia dopo 129 anni
Quel 26 ottobre in corso Vannucci
“M
i piace stare qui, mi piace molto”: eretto sul sagrato della Cattedrale di Perugia Giovanni Paolo II improvvisa uno di quei colpi di scena ai quali, da istintivo comunicatore, ha abituato il mondo intero. Il Papa abbandona il testo scritto, salta a piedi pari la ritualità ufficiale e, con voce carica di emozione, idealmente si cala in mezzo alle oltre diecimila persone assiepate in piazza IV Novembre. Si sente uno di loro, desidera che tutti provino le sue dolci sensazioni. Il sole, riapparso soltanto da pochi minuti, dà tepore ad un incontro di coinvolgente cordialità. Attorno alla Fontana maggiore scoppia un lunghissimo applauso. L’ovazione si diffonde lungo Corso Vannucci, gremitissimo come mai. Sono le 11 del 26 ottobre 1986, Giovanni Paolo II ha soltanto 66 anni. È un uomo in pieno vigore. Agita le braccia, ha una voce tonante. Non interpreta il ruolo del Sommo Vescovo in visita pastorale. Colma, in quegli istanti, un vuoto che si protraeva da 129 anni, cioè da quando un Pontefice (Pio IX) aveva salito per l’ultima volta la gradinata della Cattedrale. Il suo elicottero è atterrato allo stadio di Santa Giuliana alle 8,50. Atteso dall’Arcivescovo, monsignor Cesare Pagani, dal sindaco Giorgio Casoli, dal presidente della Giunta regionale Germano Marri e, in rappresentanza del Governo, dal ministro degli Esteri Giulio Andreotti, rapido, eppure ricco di indelebili tracce, il suo giro della città: subito nel salone del palazzo comunale, poi nell’aula magna dell’Università italiana (Magnifico Rettore Giancarlo Dozza), quindi il bagno di folla davanti alle testimonianze di una storia che è civiltà e cultura. Testimonianze che il Papa apprezza e conosce: “Mi piace -rileva scandendo a caldostare in quest’ambiente stupendo, ove parlano il genio umano, il genio italiano, il genio cristiano, i secoli. Ma nulla -aggiunge- sarebbe quello che è senza di voi che riempite questi monumenti antichi della vostra giovinezza e consentite a questi antichi monumenti di sentirsi giovani come voi siete”. E subito, giocando sulle parole, aggiunge: “Qui anch’io mi sento meno anni addosso… qui Giovanni è giovane”. Giovane, ma non dimentico degli anziani e dei sofferenti: eccolo, allora, nel pomeriggio all’Oasi di Sant’Antonio, per l’incontro coi malati. Seguito, poco dopo, dal dialogo con le forze del lavoro. L’intensa giornata s’avvia verso un altro straordinario appuntamento con la gente: alle 17, allo stadio Curi, partecipa alla Concelebrazione eucaristica. Gli spalti sono gremiti da quarantamila persone. A tutti parole da amichevole interlocutore. E infine: “Vi ringrazio e vi invito, almeno spiritualmente, per domani ad Assisi”. Alla sera un sonno ristoratore alla casa del Sacro Cuore. In attesa di salire in auto e raggiungere Assisi per lo storico appuntamentio con i rappresentanti di tutte le fedi religiose del mondo.
G.R.
Il Papa aveva 66 anni ed era nel pieno del vigore. Nella foto il sindaco Giorgio Casoli accoglie il Santo Padre a Perugia.
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da la Nazione del 25 aprile 1983
IL DRAMMA DI ORVIETO “UNA VORAGINE AL GIORNO”
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iamo nei primi anni Ottanta, per Orvieto il governo ha varato a suo tempo una legge speciale. Ma i fondi stanno per finire e nella rupe le crepe, e perfino le voragini, si susseguono. L’ultima si è aperta addirittura a pochi metri dal Duomo. Bruno Brunori, scrive così una cronaca della prima pagina de La Nazione del 25 aprile 1983 che suona come un vero Sos. Ecco di seguito l’articolo del corrispondente dall’Umbria del nostro giornale.
Il duomo di Orvieto in tutta la sua imponenza.
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l masso tufario su cui si posa Orvieto – ci dice una delle guide che attendono le comitive dei turisti sulla piazza del Duomo – è come un grande dente canino. È un masso malato: il suo principale nemico, però, è l’acqua che va a rigonfiare l’argilla e su questa, scivolosa come il sapone, scorrono via i “lastroni”. L’acqua, sì, quella che cade dal cielo, quella delle vecchie fogne della città, che non regge più niente, quella, anche, dell’ac-
quedotto che sembra perda da ogni parte. L’ultimo segno della malattia che mina la salute dell’acrocoro tufaceo, si è avuta venerdì: una voragine profonda quattro metri e larga altrettanto si è aperta in un giardino della centralissima via Cesare Nebbia, di proprietà del signor Guido Stopponi, a poche decine di metri in linea d’aria dal Duomo del Maitani. I tecnici del comune accorsi assieme ai vigili hanno ipotizzato che la frana fosse attribuibile al crollo di una delle tante cavità esistenti nel sottosuolo della città.
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eri la voragine è stata ispezionata dai giovani del Gruppo Speleologico di Orvieto guidato da Giorgio Belloccio: “Non abbiamo potuto procedere nella nostra ispezione – ha detto Belloccio – perché le possibili
strade risultavano ostruite, si ha però la sensazione che ci si trovi di fronte al crollo della volta di una cavità artificiale delle tante che esistono nel sottosuolo di Orvieto.” Il gruppo Speleologico ha fatto altri interventi di questo tipo? “Certamente, l’ispezione nella buca apertasi in via Nebbia rientrava in un lavoro di ricerca e di studio nelle cavità di Orvieto, intrapreso da tempo. Abbiamo già censito circa 800 grotte, tutte artificiali, molte delle quali risalenti al periodo etrusco, ma la maggior parte di esse del periodo medievale. Ultimamente abbiamo segnalato una frattura sul bordo esterno della rupe alla Commissione apposita, e i membri della stessa stanno adesso studiando le possibilità di intervento.” La voragine di per sé non desta eccessive preoccupazioni, ma
è l’insieme dei fenomeni che si collegano fra loro che provocano apprensione in città. Lo sottolinea il sindaco Franco Barbatella, preoccupato anche del fatto che stiano ormai esaurendosi i soldi disposti dalle legge speciale per Orvieto e per Todi. Se la legge non verrà prontamente rifinanziata, tutto il lavoro svolto fino ad oggi andrà perduto. Intanto si stanno sistemando le vecchie, fatiscenti fognature, ma fra due – tre mesi le squadre di operai e di tecnici che stanno “curando” la rupe dovranno fermarsi, perché allora, i fondi risulteranno completamente “bruciati”.
L
a giunta comunale è preoccupata: nella legge finanziaria dello Stato, non è previsto alcun finanziamento per Orvieto: con le elezioni politiche alle porte, ci sarà il tempo e la possibilità di far passare in extremis una leggina per il necessario rifinanziamento?
Si stanno esaurendo i fondi della Legge Speciale per Orvieto, ma la rupe continua ad aprirsi in pericolose voragini.
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Era il 25 aprile del 1982
La tragedia di Todi Trentaquattro morti nel Palazzo del Vignola dove si inaugurava la mostra dell’antiquariato di Mimmo Coletti
Una cascata di fiamme avvolge i locali in pochi secondi.
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na domenica di festa e in redazione, all’ultimo piano di un palazzo storico che si affaccia su Corso Vannucci, si stava organizzando il lavoro. Articoli da comporre di lì a qualche ora, soprattutto uno sguardo attento alle pagine sportive con la verifica degli spazi assegnati ai corrispondenti. La telefonata giunse improvvisa, qualche minuto dopo le undici di quel terribile 25 aprile 1982. Fumo, si alzava fumo dal palazzo del Vignola che ospitava la mostra dell’antiquariato, la quattordicesima, inaugurata alla fine di marzo, ospiti di prestigio, pezzi ricchi di vibranti armonie testimoni di epoche trascorse.
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on si capisce ancora, aveva detto il giornalista locale de La Nazione, ma forse è qualcosa di grave. Di corsa in macchina, senza aver sospetto minimo di quello che poteva essere. Sarà stato
un corto circuito, roba da poco. Quando arriveremo sarà tutto finito, il tempo per sapere che è accaduto, un paio di interviste, un aperitivo e poi il ritorno. Sì, certo, il Perugia giocava in casa e “voglio fare in tempo a vederlo”. Todi pare un vascello dai profili dolomitici di pietra e di marmo, dal basso sembra sempre in procinto di veleggiare lontano. Ma che presagio nero vedere una colonna di fumo che si alzava a rigare il cielo grigio, un fumo pesante, denso, maligno. Presto, bisognava fare presto. Velocità impennata, parcheggio improvvisato, passi affrettati sulla salita mozzafiato, fatica e ansia di vedere. Sulla piazza gente smarrita. Sulla destra del Duomo, man mano che ci si avvicinava, il disegno dell’orrore. Folla vociante, finestre del cinquecentesco palazzo che vomitavano fumo acre, urla, terrore nei volti di chi assisteva. Brucia tutto, aiuto. Contorni di una tragedia che non si immagina, che si fatica a comprendere, che si fa largo però quasi subito con particolari agghiaccianti. Lì, in un angolo, ad assistere impotenti. Un camion vicino al portone d’ingresso, arrivato a clacson spiegato. Un tendone provvidenziale, ecco due, quattro persone che si calano, che si buttano. Salvi. Altri invocano aiuto, l’inferno ha questa dimensione agghiacciante. Il cuore stretto, minuti che non si dimenticheranno mai. “È un macello là dentro, un macello” strilla un uomo dal volto nerastro, quasi abbrustolito.
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rriva un gruppo di speleologi del gruppo di Todi, ragazzi bravissimi. Salgono, sfidano il terrore, si buttano dentro. Calcolano il rischio, lo sfidano. Il loro compito meraviglioso è salvare. Trovare qualcuno vivo, estrarlo, portalo fuori dal vulcano ribollente di stanze trasformate in un incubo. Dopo poco scende un giovanotto, si toglie la maschera, la
butta per terra. Ha le guance rigate di lacrime, e non è per l’atmosfera quasi irrespirabile anche all’esterno. È entrato in una camera (non ha più senso parlare di stand), ha visto un mucchio di corpi. No, nessuno vivo. Una catastrofe. Ci si aggira come automi, prendere appunti è un esercizio gratuito in quella dimensione, in quella tragedia. Si ricorderà tutto, ogni particolare, ogni momento, ogni dolore convulso, ondate di sofferenza, di dramma attraversato, catastrofe immane. Arrivano i rinforzi dalla redazione perugina, stanno per giungere gli inviati. La sciagura deve essere raccontata stringendo i denti, facendo leva sulla cosiddetta professionalità quando magari uno avrebbe voglia di urlare, di singhiozzare senza ritegno.
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i moltiplicano i tentativi, qua e là vagano i superstiti. C’erano 150 persone quando è venuta giù una nube a velocità pazzesca, come sparata da un lanciafiamme. Si sono salvati quelli vicino alla porta, al primo piano. Se fosse accaduto poche ore dopo, di pomeriggio, la catastrofe avrebbe avuto numeri apocalittici. Trentaquattro morti, il primo allucinante bilancio. Frasi spezzate che coincidono, arredamento scintillante, moquette e tendaggi sul blu, materiali infiammabili. Forse colpa dell’impianto elettrico, forse, si sostiene, una sigaretta accesa gettata in un contenitore per i rifiuti di carta. Non c’erano estintori (ma con quella rapidità di propagazione?), mancavano le uscite di sicurezza. Il cronista trova un antiquario amico, salvo per miracolo, lo porta al bar, e quello non riesce neppure a bere un bicchiere d’acqua, se lo rovescia addosso, con gli occhi sbarrati. Le ore passano rapide, incalzanti, i contorni del disastro si precisano. Si parla come per trovare conforto nell’altro, si gira ad ascoltare, chiedere, sentire.
S
ole spezzato, poi una pioggia fina, noiosa, insistente. Ma chi ha tempo per pensarci? Nel pomeriggio, passate da poco le cinque, un incarico pietoso. Fuma ancora il Vignola e fuori c’è un funzionario con un foglio in mano. Espressioni impietrite, c’è chi è fasciato sommariamente, chi ha mani ustionate, volti gonfi. Si leggono i nomi, ed è come una condanna. I morti. Lo strazio, il pianto, la tortura, le invocazioni.
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uando calano le ombre della sera si deve tornare. A scrivere quello che pesa sull’animo, a ricomporre le tessere di un mosaico impazzito, a tentare di offrire pietà e comprensione senza dimenticare nulla. A riempire cartelle che grondano sangue.
Catene umane si formarono nel tentativo di sfuggire all’incendio. Alcune persone si gettarono dalla finestra e miracolosamente si salvarono. Urlavano: “Là dentro è un macello!” Nelle immagini: i sopravvissuti invocano aiuto dalle finestre del palazzo (in alto). Finalmente entrano in azione i vigili del fuoco (in basso).
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Fu “Magnifico” per 32 anni
Ermini, professione rettore
Giuseppe Rufo Ermini fu un giurista di raffinate competenze. Nel tondo sotto: il Presidente della Repubblica Antonio Segni venuto in visita all’Ateneo perugino il 24 febbraio 1963.
di Gianfranco Ricci
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ominciò a indossare l’Ermellino obbedendo ad una designazione militare; poi quel simbolo del potere universitario l’ha tenuto sulle spalle per 32 anni. Assurgendo a simbolo della grande crescita
culturale che lo storico Studium perugino (nato nel 1308) seppe registrare fino al 1976. Giuseppe Rufo Ermini, giurista di raffinate competenze, divenne Commissario e Pro-rettore per designazione delle forze alleate che, dopo lo sbarco di Anzio, aveva cacciato i tedeschi da Perugia. Il Rettore
Paolo Orano, catturato dagli anglo-americani, era stato trasferito nel campo di concentramento di Padula (Salerno) dove morirà il 7 aprile 1945. Ermini, nato a Roma il 20 luglio 1900, insegnava Diritto a Perugia fin dal 1932. Lo Stato Maggiore alleato gli chiese di riportare la vita dell’Università ai fasti degni di una realtà in passato così prestigiosa. E lui promise solennemente di voler scongiurare dilettantismo, malafede, intrighi e personalismi, ponendo gli studi al di fuori di ogni particolarismo settario. Cominciò subito a fare sul serio: riaprendo le porte ai docenti che erano stati epurati e rimettendo mano senza indugi agli edifici danneggiati dagli eventi bellici. Consentì la ripresa regolare dei Corsi. Pochi mesi dopo la prima delle elezioni accademiche di un Rettore che si prese una sosta soltanto nel 1954 allorché venne nominato Ministro della Pubblica Istruzione. Al suo posto, per un anno, il professor Carlo Fuschini. E non è difficile immaginare chi quella volta venne da Roma per l’inaugurazione dell’anno accademico: naturalmente lui, il padre moderno dell’Università perugina.
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el corso di lunghi, intensi lustri, ha portato da sei a nove le Facoltà. Oggi ci sono anche Ingegneria e Architettura. E piena fu l’evolu-
zione delle Case degli studenti. Ermini dedicò grande attenzione alla costruzione di nuove realtà edilizie e alla ristrutturazione di quelle esistenti. Sfoderando anche polemicamente il concetto aristocratico della Cultura si scontrò, con la grinta ironica che gli era consueta, con quei settori politici che ritenevano assurda la tutela dei palazzi universitari nel cuore della città storica. Lui volle affermare il principio che lo Studium, anche nei tempi moderni, dovesse svilupparsi là ove era nato quasi sette secoli prima.
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l “Magnifico”seppe sopportare frecciate talora insolenti. Tirò avanti per la sua strada, ottenendo… molti anni dopo, i riconoscimenti che oggi nessun perugino gli nega. Gli innegabili e costanti successi registrati dall’Ateneo li plasmò con la sua intelligente determinazione e con gli appoggi politici di cui era certo di godere a Roma. Ammesso che un tipo tosto come lui avesse avuto bisogno di sostegni mediatici, è giusto ricordare, alla luce degli eventi successivi, che La Nazione volle e seppe dare atto, nell’immediato, alle strategie di un Rettore che aveva a cuore l’Università molto più che la tessera della Dc, dal cui elettorato, peraltro, riceveva pieni mandati parlamentari.
Fu lui a condurre e vincere la battaglia che permise di conservare l’università nei palazzi del centro storico.
Ma sapeva essere anche un goliardo Per lui, soprattutto per lui, vennero in visita ufficiale due Presidenti della Repubblica: Giovanni Gronchi il 19 gennaio 1958, Antonio Segni il 24 febbraio 1963. Gronchi firmò la Gazzetta ufficiale recante il Decreto di istituzione della facoltà di Lettere e Filosofia. Pur essendo attestato sulle convinzioni che la Cattedra dovesse essere il simbolo del sapere autorevole il professor Ermini non dimenticò mai di coltivare con sapiente condiscendenza il rapporto con gli studenti e anche con la goliardia. Era goliarda quanto bastava per non farlo considerare rinserrato nella turris eburnea di palazzo Murena. Gli allievi sapevano di poter ottenere da lui consensi anche superiori a quelli previsti da consuetudini ormai pronte per lo svecchiamento. Partecipava, consigliava, governava perfino le incursioni e le manifestazioni degli studenti impegnati nelle fasi del divertimento e persino di quelli alle prese con le ostilità politiche.
Lui c’era anche quando sembrava che non ci fosse. Sapeva distinguere la preparazione dalla pedanteria: il cronista, all’esame con lui, ebbe la soddisfazione di veder rimbrottato l’assistente che pretendeva di condurre l’interrogazione sulle minuscole note di un libro carico di alcune centinaia di pagine. “Lascia stare tu… interrogo io…” E a quei tempi, i tempi di Giurisprudenza, il cronista era per il prof. un perfetto sconosciuto. Solo dopo, a laurea conseguita, si trasformò anche in un compiaciuto intervistatore. Il professor Giuseppe Rufo Ermini si tirò in disparte a metà del 1976. Salutato, finalmente, anche dalle strette di mano dei molti che l’avevano avversato ritenendolo poco compatibile con i diktat di una certa politica. Passò il testimone a Giancarlo Dozza che, al termine di un lungo ballottaggio, prevalse su Lucio Severi.
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26 settembre 1997
LA TERRA TREMA L’UMBRIA È SCONVOLTA L’esempio di onestà ed impegno di un popolo nei lunghi mesi dell’emergenza Gli aiuti del nostro giornale alle vittime del sisma
di Roberto Conticelli
S Prima le tende, poi un villaggio di container a Colfiorito diventarono l’immagine simbolo del terremoto in Umbria. Nel tondo da sinistra: il direttore de La Nazione di allora Andrea Biavardi, il responsabile della redazione di Foligno Roberto Conticelli e il responsabile delle edizioni dell’Umbria e attuale direttore del giornale Giuseppe Mascambruno. I tre sono ritratti durante uno dei viaggi per la consegna ai terremotati degli aiuti da parte dei lettori de La Nazione.
vegliarsi di soprassalto perchè il mondo ha deciso di mettersi a frullare e il letto sembra una barchetta nel mare in tempesta, la sveglia digitale che «dice» 2.34, pochi secondi per abbozzare un vano tentativo di riordino mentale, qualche istante di improbabile silenzio e lo squillo impazzito del telefonino. È iniziata così. Movimenti meccanici nella stanza, la bocca impastata, appena fuori dalla finestra sirene, grida e sgommate dei pneumatici di auto che si allontanano a tutto gas. Riesco in qualche modo a rispondere: è Renato Campana, amico e fotoreporter freelance: «Terremoto, terremoto... C’è stato il terremoto e tu dormi? Dai, passa a prendermi che andiamo a vedere».
E’
la notte del 26 settembre 1997 ma accerto la mia reale presenza nel mondo dei vivi e degli spaventati soltanto grazie alle sballottanti curve e controcurve della statale 77, che poi le cronache de La Nazione ribattezzeranno «strada del terremoto». L’emergenza per ora è solo quel lampeggiante che squarcia le tenebre, poi ne arriva un altro e decine ancora nel fulmineo correre dei secondi. Gente in strada all’ingresso dei primi borghi incontrati lungo il tragitto. Avverto la sensazione di vivere un tempo che verrà ricordato per sempre: qui e altrove, nel bar sotto casa come nelle cronache del mondo. Poi l’allarme diventa il terrore dipinto nei volti di alcune donne che gridano accanto a un’abitazione della quale, dalla strada, scorgiamo il salotto grottescamente lindo e composto al secondo piano: la parete non c’è più, sbriciolata sotto i nostri piedi, e una parte di tappeto svolazza nel vuoto a mo’ di bandiera. Renato scatta a
raffica, io annoto i nomi, imprimo nella mente i volti, parlo con la gente e la gente mi chiama, mi accerchia: «Nazione, Nazione, siamo della Nazione». Le curve puntano dritte all’epicentro del sisma. E dietro ogni svolta una storia, i frantumi di un edificio, bambini tenuti per mano e abbracciati stretti, perché si amano di più avendo appena vissuto la prospettiva di poterli perdere in un lampo, soltanto per un folle capriccio della terra in una notte qualunque della vita.
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iventiamo un punto di riferimento e un appiglio, qualcosa di organizzato che arriva laddove regna il caos, anche perché in certe zone giungiamo prima della pur rapida macchina dei soccorsi.
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Casenove consoliamo un medico dallo sguardo stralunato. È sconvolto, eppure capace di assistere con professionalità chiunque gli si faccia incontro: riposava nel letto della sua postazione di guardia medica quando l’improvviso ruggito del sottosuolo ha spinto una pesante trave di legno giù dal soffitto, fino a spaccare in due il suo giaciglio. Con un balzo, risvegliandosi appena in tempo, ha evitato lo spunzone per un soffio: vivo per miracolo. Eppure eccolo, e non sono trascorsi che pochi minuti, misurare la pressione a un anziano e intanto, con la mano libera, dare un buffetto a quel bimbo dagli occhioni spalancati su una notte mai vista prima. Un eroe, quel dottore. Un semplice, banale eroe nella straordinaria quotidianità dello sconquasso. Superiamo Colfiorito e l’impressione che si ha giungendo in paese è di gelo.
Eppure è una notte calda: l’innaturale tepore delle folate di vento del terremoto. Il soffio del diavolo, dicono gli anziani. Gelo nei volti impietriti della gente umbra che mostra di accogliere l’immane disgrazia con calma non rassegnata e insieme, fatalità operosa. C’è già l’ansia di rinascita. Ancora avanti, ci superano auto di polizia e carabinieri, ma anche mezzi dei vigili del fuoco: è l’esercito degli «angeli del terremoto» che ha appena dichiarato guerra al destino e muove le proprie pedine sul campo di battaglia.
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l confine regionale, poco oltre Annifo, ci viene incontro un’altra storia: due braccianti albanesi che saltano festosi al collo del loro datore di lavoro, e lo coprono di baci, e gli cantano una litania incomprensibile. «Ho avvertito un movimento della terra - racconta l’anziano possidente - e così, d’istinto, mi sono alzato dal letto, correndo di sotto, nella casetta vicina, dove dormivano gli operai. Li ho svegliati e tirati via per un braccio. Appena in tempo: con la scossa più forte la piccola costruzione s’è sfaldata, rovesciandosi addosso alla stanza in cui loro stavano dormendo. Quando è crollato tutto eravamo appena fuori. Ecco spiega commosso - perché sono così felici...».
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icino Cesi la gente ci fa segno con ampi gesti. Ci fermiamo. Una donna è in preda a una crisi di nervi. Sguardo vitreo e fisso nel vuoto, ma il resto del corpo si muove scompostamente e in petto il respiro le balla da far esplodere il cuore: «Mia figlia, mia figlia - ripete a voce alta, ritmicamente -, oddio, fate qualcosa». «Mamma, mamma, è tutto a posto, calmati, sono qui»: urla, accanto a lei, una ragazza che avrà vent’anni. Poi uno zio spiega: «L’abbiamo tirata fuori dalla camera da letto al primo piano. La stanza non è crollata, ma era venuta giù la porta. Sua madre, vedendo l’uscio ritorto e le macerie tutt’intorno, ha pensato al peggio, alla morte della figlia». La giovane abbraccia sua madre, che adesso si mette a gridare scompostamente. «Ci vorrà un calmante», aggiunge qualcuno, ma non fa in tempo a terminare la frase che arriva l’ambulanza del 118 folignate con i solerti soccorritori.
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Collecurti, ma siamo già nelle Marche, troviamo l’intero paese stretto intorno al rudere della morte: là sotto, tra polvere e pietrisco, due anziani senza vita. Sono abbracciati nell’ultimo gesto delle loro esistenze. Torniamo indietro e l’albeggiare ora mostra chiaramente i contorni del dramma. C’è silenzio nell’abitacolo dell’auto, ogni nostra parola sarebbe superflua. Dietro e davanti a noi altre vetture piene zeppe di gente impaurita: le prime fughe dall’area del sisma. Febbrili telefonate con la redazione, c’è da rimboccarsi le maniche e «fare le pagine». È in arrivo a Foligno il vicedirettore Mascambruno, il «Beppe» della mia precedente esperienza professionale a Livorno. Riunione di redazione con i brividi: alle 11.42, io e Beppe seduti l’uno davanti all’altro, ecco la scossa devastante del mattino, nono grado Mercalli (quella della notte aveva sfiorato l’ottavo, tanto per gradire).
T
errore, fiato grosso, fuga non all’«inglese» dalla redazione al terzo piano di Largo Carducci e quindi, dopo qualche minuto di riadattamento al mondo, sperando in una sua prolungata stabilità (poi smentita dai fatti delle settimane successive), ecco avviarsi una sorta di riunione in strada,
con i curiosi intenti a osservare stupiti quattro persone impegnate a prendere appunti in ginocchio o appoggiati sui talloni.
L’
avventura-terremoto è andata avanti prima per settimane e poi per mesi, raggiungendo, tra una scossa e l’altra, la primavera inoltrata del ‘98. Si può avere nostalgia della terra che balla improvvisamente sotto i tuoi piedi? A me capita. Riaffiorano nella mente i sorrisi di Renato, che non c’è più, le lucide scelte professionali di Beppe, quelle infinite giornate vissute nel sotterraneo dell’«Hotel Umbria» dove nel frattempo la redazione de La Nazione si era dovuta trasferire sotto l’incessante incalzare del sisma, l’estro di Maurizio Naldini, grande inviato, amico e impareggiabile maestro di giornalismo, la brillante saggezza di Giovanni Morandi, altro inviato di punta del giornale insieme al quale dovetti correre affannosamente verso piazza del Comune per assistere in diretta al torrino che andava in mille pezzi, e infine la calda simpatia di Vittorio Dell’Uva, inviato de Il Mattino e spesso nostro ospite nel bunker sotto l’albergo, capace di farci
dimenticare ogni affanno con la sua prorompente verve partenopea.
S
ono flash, «pillole» di vita vissuta del mestiere di cronista del terremoto. E come non ricordare l’aiuto concreto che La Nazione, anche grazie alle Misericordie toscane e al costante impegno di Pierandrea Vanni, seppe offrire agli sfollati, arrivando a donare un ospedale da campo e varie abitazioni d’emergenza, via via fino a raccogliere tra i propri lettori importanti somme di denaro poi messe a disposizione della rinascita del territorio... Qualità dell’informazione (a Nocera Umbra agiva Sandro Bennucci, ad Assisi Alessandro Antico, Roberto Germogli scattava in ogni dove) e radicata presenza sul territorio. Dicevi «siamo della Nazione» e scorgevi, pur nella sofferenza, un sorriso sul volto dell’interlocutore.
Si abbattono case pericolanti nei dintorni di Foligno (foto grande). Nel tondo: la redazione mobile del nostro giornale fu presente nelle zone terremotate per oltre un mese. Qui alcuni bambini si fanno fotografare dopo aver ricevuto giocattoli offerti dai nostri lettori.
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La testimonianza
“Crollò la Basilica Mi salvai per miracolo” di Sofia Coletti
U
n sibilo acuto, fortissimo, una scossa che non finisce mai, la volta che si apre tanto che sembra di vedere il cielo e poi, anche se pare impossibile, viene giù con quell’immensa ondata di polvere. E lascia sotto di sé quattro morti, Bruno Brunacci e Claudio Bugiantella, tecnici della Soprintendenza, il postulante Zdzislaw Borowiec e padre Angelo Api. E un patrimonio d’arte ferito per sempre. A distanza di oltre 11 anni, il ricordo di quella giornata di venerdì 26 settembre 1997 ad Assisi è rimasto immutato, preciso in tutti dettagli, anche quelli minori e forse insignificanti.
E
ra una bella mattina, caldissima e piena di sole, prima che alle 11.42 il terremoto tornasse a colpire la Basilica di Assisi e l’Umbria. Io ero là dentro, insieme a un gruppetto di persone. Eravamo entrati mezz’ora prima con i tecnici della soprintendenza, una serie di autorità e alcuni religiosi. Bisognava verificare i danni che una prima scossa della notte, quella delle 2.33, aveva provocato agli affreschi della Basilica. La Chiesa era stata chiusa ai fedeli per precauzione ma io e il cameraman Paolo Antolini avevamo insistito per partecipare a quella ispezione, si doveva fare un servizio giornalistico e volevamo vedere di persona cosa era successo davvero. È bastato fare un giro nella Basilica Superiore per accorgersi che la prima scossa si era fatta sentire, una patina di polvere, sassolini e piccoli detriti aveva coperto il pavimento e le panche della chiesa. Qualcuno dice di aver sentito una scossa di avvertimento, una decina di minuti prima. Io ricordo i visi tranquilli di tutti, l’attenzione e l’interesse con cui seguivamo le spiegazioni degli esperti. Alcuni camminavano, io prendevo appunti mentre Paolo faceva le riprese. Alle 11.40 la visita era praticamente finita, bisognava solo spostarsi in un altro punto del Sacro Convento, forse gli Appartamenti Papali, per vedere altri danni provocati dal sisma. Ero appoggiata all’altare, aspet-
tavo che il cameraman finisse le riprese quando lui mi chiama, mi chiede di avvicinarmi per sapere quali affreschi erano da inquadrare meglio.
D
opo neanche un minuto l’altare non esisteva più, sbriciolato dal crollo della vela. Io però quella non l’ho vista cadere, il mio sguardo era rivolto verso l’ingresso della chiesa. Erano le 11.42 quando la scossa è arrivata, con uno stridìo stranissimo. È durata 12-15 secondi, mi hanno detto dopo, a me è sembrata eterna. Poi la vela sopra l’ingresso si è come aperta, ripiegata su se stessa, è caduta e tutta quella valanga di polvere e calcinacci ha iniziato a correre verso di noi. Rispetto alle immagini che hanno visto tutti, la mia visione è più allargata, più indietro, ricordo benissimo l’ondata che arrivava e Paolo che veniva travolto. Sono rimasta immobile, non ho neppure respirato, mi sembrava impossibile che potesse succedere una cosa del genere proprio in quel momento, ho pensato, con grande serenità, di stare per morire. Come gli altri là dentro. E poi tutto è diventato buio, immobile e silenzioso. Da lontano iniziano ad arrivare delle voci che invitano a seguire le luci. Per anni ho pensato di essere uscita da una finestra laterale, che non esiste, invece devo aver attraversato la chiesa, ho superato non so come la montagna di detriti e sono uscita dal portone principale, che qualcuno aveva scardinato. Là fuori mi ha colpito vedere che tutto era rimasto uguale a prima, nulla era distrutto. Ho camminato per un po’, finché non ho ritrovato Paolo Antolini e altri che erano con noi. Eravamo come fantasmi, completamente coperti di bianco e di una polvere che per giorni non è andata via da vestiti e capelli. Solo allora ho cominciato a rendermi conto di quello che era successo.
La mattina del 26 settembre una seconda terribile scossa: crolla la vela d’ingresso della Basilica di Assisi. Quattro persone perdono la vita. La nostra collega era con loro e così ricorda quegli istanti.
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DALLE SCALE MOBILI AL MINIMETRÒ Salvare la città medievale e renderla raggiungibile dai visitatori: una scommessa vinta con soluzioni d’avanguardia
migliaia di autovetture. Moltissime, naturalmente, le idee e affollati i suggerimenti. Bisognava selezionare, cercando di fondere l’utile e il dilettevole. Il primo passo.
U
Inizialmente i parcheggi e le scale mobili, poi il minimetrò, hanno reso facilmente raggiungibile il centro storico.
di Gianfranco Ricci
I
problemi di una città costruita, nei secoli, su un cucuzzolo hanno cominciato ad agitare i sonni degli amministratori cittadini fin da quando, negli anni del cosiddetto “miracolo economico”, anche da queste parti le automobili si moltiplicarono vertiginosamente, soffocando di mese in mese, sempre di più, il centro storico ancora generosamente aperto all’accesso, al transito e alla sosta. E La Nazione non esitò a entrare, con inchieste, interviste e allarmanti immagini fotografiche, a proporre gli emergenti allarmi riscontrabili in un acrocoro assediato
dalle “quattroruote”. Si parcheggiava anche in Corso Vannucci e in piazza della Repubblica. Una goduria per noi che avevamo la redazione proprio a fianco del teatro Pavone. Però l’opportunismo più bieco non poteva soverchiare la palese verifica di cronisti che avevano sotto gli occhi situazioni via via sempre più intollerabili. A palazzo dei Priori si cominciò a immaginare che fosse indispensabile progettare soluzioni capaci di fondere la modernità con le irrinunciabili regole di una realtà urbana assolutamente non compatibile con l’ammasso scomposto di
na spinta ad andare avanti anche nei rilievi statistici: “Gli italiani, perugini compresi, perdono in macchina una quantità di ore pari a un mese lavorativo e corrispondenti a dieci giornate complete della loro vita annuale. Chi usa l’auto passa, in media, 54 minuti al giorno su strada, in un anno 246 ore. E comunque è difficile, quasi impossibile, trovare alla fine un parcheggio”. Di elucubrazione in elucubrazione si giunse a supporre che, intanto, si poteva alleggerire il traffico con una realizzazione rivoluzionaria: le scale mobili all’interno della Rocca Paolina. “Soluzione antistorica”- sentenziarono i nemici, subito andati in scena. Ma il Comune volle tener botta e il 18 giugno 1983 quelle scale tanto bistrattate vennero ufficialmente consegnate ai perugini e ai turisti. Taglio del nastro affidato al sindaco Giorgio Casoli, strenuo di una graduale, ma crescente, chiusura al traffico verso la parte cittadina più alta. La sfida, dapprima contestata, fu poi osannata, e addirittura copiata, non solo in Italia. Se ne compiacque molto anche Alexander Dubcek, leader cecoslovacco, venuto in visita ai tempi del sindaco Mario Silla Baglioni.
T
anto favorevoli quegli esiti che il percorso meccanizzato, seguito nei suoi andamenti statistici dalle cronache de La Nazione, venne ribadito nel 1991 tra piazzale della Cupa e via dei Priori. E poco dopo, in un evolversi sempre più convinto, la salita “mobile” venne allestita anche a piazzale Europa. Rimedi sufficienti? Certamente no. Tutti convinti, in Comune, che servissero realizzazioni più ampie e concrete. A palazzo dei Priori due sindaci (Mario Valerntini e Gianfranco Maddoli) cominciarono ad esaminare ipotesi di un trasporto alternativo che, in sostituzione delle auto, portasse al centro migliaia di persone ogni giorno. Un prototipo di trenino urbano visto a Parigi incoraggiò non poco Valentini. E il suo successore, Maddoli, consentì
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La scala mobile corre all’interno della Fortezza e immette all’inizio di corso Vannucci. Nella foto a sinistra: un suggestivo scorcio di Perugia visto dal minimetrò.
che prendesse corpo l’idea del minimetrò. Addirittura la incoraggiò, sia delineando l’impianto operativo, sia contattando l’architetto internazionale Jean Nouvel, sollecitato a disegnare il bello accanto all’utile.
F
atali le prime polemiche al manifestarsi di strategie trasportistiche che avrebbero trasformato una buona parte del territorio perugino. I dibattiti teorici si sono fatti più assedianti quando, dal 1999, con l’avvento del sindaco Renato Locchi, si è passati dalla fase del dire a quella del fare. Insurrezioni in parte politiche, ma anche reazioni più squisitamente estetico-funzionali. Perfino allarme per i rischi di quegli immaginati vagoncini da far correre sulla testa della gente e financo sotto le gallerie. Dibattito, si direbbe, diretta-
mente proporzionali alla grande novità che ci si accingeva a portare avanti. Forse non si esagera ravvisando, come puntualmente fece il nostro giornale, il formarsi di due fazioni: gli entusiasti, quelli che credevano nello stesso successo delle scale mobili, e gli ostili, pronti ai più foschi presagi, conditi anche da iniziative di dissenso condotte in sedi giudiziarie e da inquiete interrogazioni rivolte al governo nazionale. La storia dirà domani se gli amministratori comunali hanno fatto bene a perseguire con tenacia le loro convinzioni. Di certo nei primi anni del 2000 si è andati avanti fra annunci positivi e drastiche contestazioni. Singole e pure associate: “Opera inutile, brutta e dispendiosa”. Qualcuno, voglioso di replica, fece circolare una conosciutissima espressione di Margherite Yourcenar: “...costru-
ire è collaborare con il passato proiettandolo verso l’avvenire. È imprimere il segno dell’uomo su un paesaggio che ne resterà modificato, per sempre; contribuire a quella lenta trasformazione che è la vita stessa della città...”.
L
e tappe di avanzamento verso il programmato traguardo si sono concatenate in termini sempre più pressanti: nel 2003 alle opere più tipicamente cantieristiche si sono aggiunte quelle tecniche affidate alla Leitner, la Società che domina il “trasporto volante” nelle Dolomiti e nel mondo. Il 29 gennaio 2005 è caduto l’ultimo diaframma della galleria scavata tra la Cupa e il Pincetto. Ed esattamente tre anni dopo, nel giorno dedicato a San Costanzo, uno dei protettori della città, varo ufficiale di
quei venticinque vagoncini che, benevolmente, la fantasia popolare ha battezzato “brucomela”. C’era il ministro Bianchi per il Governo. E oltre alle autorità umbre e perugine, sono intervenuti esponenti politici e amministrativi di mezzo mondo. In gran parte interessati a scoprire i “segreti” di quella sconvolgente innovazione urbanistica. Da allora milioni di viaggiatori hanno animato il “trenino”. Residui di polemiche, tuttavia, specie sul rumore che, comunque, col tempo s’è parecchio attenuato. I verdetti -s’è detto- sono affidati più alla storia che alla cronaca.
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Spoleto, i Due Mondi
Mezzo secolo di Festival Nel 1958 si realizzò il sogno di Gian Carlo Menotti
un’amministrazione comunale con al vertice il sindaco Gianni Toscano che capì la portata del progetto e mise a disposizione la città. Un modello successivamente imitato al punto che in Italia i festivals non si contano più.
di Rosanna Mazzoni
I Anni Sessanta: volti noti dello spettacolo, attrici, ballerine, animarono le scalinate e i vicoli di pietra di Spoleto.
l 5 giugno 1958, con il “Macbeth” di Verdi diretto da Thomas Schippers, per la regia di Luchino Visconti, prese il via una delle esperienze culturali e artistiche più esaltanti del XXI secolo: il Festival dei Due Mondi di Spoleto. Frutto della creatività del musicista italo-americano, Gian Carlo Menotti che a 45 anni, dopo aver soddisfatto negli Usa molti dei suoi sogni artistici (vinse anche due premi Pulitzer), decise di realizzare in Italia un festival che fosse il palcoscenico di tutte le arti e punto di incontro tra la cultura europea e d’oltreoceano. Per mesi scandagliò i paesi dell’Italia centrale e settentrionale. Poi approdò a Spoleto. A suggerirgli di visitare la cittadina umbra fu l’avvocato e musicologo Adriano Belli che dal 1947 aveva fondato il Teatro Lirico Sperimentale di Spoleto che, allora come oggi, forgia fino al debutto giovani talenti della lirica. La cittadina convinse il Maestro: era vicina a Roma e quindi al suo aeroporto, aveva due teatri pregevolissimi, un assetto urbanistico medievale di grande suggestione e molti spazi da utilizzare o adattare alle esigenze dei “suoi” artisti. A completare il quadro c’era
C
on quel “Macbeth” Spoleto inaugurò una stagione felicissima. La città abbracciò la manifestazione diventandone parte attiva e ammirata. Negli anni gli spazi teatrali hanno tenuto a battesimo autentici capolavori, pensati, realizzati o interpretati da artisti emergenti: Giuseppe Patroni Griffi e Luca Ronconi (per la regia), Massimo Ranieri (come attore), solo per citare quelli più noti al grande pubblico. Piazza Duomo diventa il punto di incontro fra le più diverse culture, punto di dialogo e di performance. Wally Toscanini, Jerome Robbins, Romolo Valli, Rossella Falk, Alain Delon, Brigitte Bardot, Sofia Loren, Franco Zeffirelli, Mario Soldati, Dino Buzzati, Indro Montanelli, Pablo Neruda, Pier Paolo Pasolini, Salvatore Quasimodo, Eugenj Evtuschenko, Al Pacino e Mariangela Melato, Ezra Pound, Alexander Calder, Giovanni Leone, Sandro Pertini, le sorelle Fendi, tra gli ultimi, l’amatissimo attore Andy Garcia: artisti, intellettuali, rappresentanti delle massime istituzioni e del bel mondo si danno appuntamento in questo luogo che diventa fucina di nuovi percorsi culturali. Una favola che per decenni è riuscita a garantire l’indipendenza dell’arte da ogni condizionamento.
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razie all’autorevolezza di Gian Carlo Menotti che per far fronte ai costi del “suo” Festival non ha esitato in più occasioni a dar fondo al proprio patrimonio personale.
N
egli ultimi anni il Maestro, morto due anni fa a Montecarlo, venne affiancato dal figlio Francis nella conduzione della kermesse. Nemmeno il tempo di riprendersi dal lutto e l’erede è stato sostituito. Da tempo i rapporti tra l’Associazione Festival dei Menotti e la Fondazione Festival che teneva le “borse” dei finanziamenti pubblici destinati alla manifesta-
zione si erano logorati. La morte del Maestro ha decretato la fine dell’era Menotti. Dall’edizione 51, infatti alla guida del Festival sia dal punto di vista artistico che amministrativo c’è Giorgio Ferrara. The show must go on. Il 52° Festival dei Due Mondi si terrà dal 26 giugno al 12 luglio.
Nel tondo di lato: Spettacolo all’aperto durante il Festival dei Due Mondi. La manifestazione coinvolge per giorni la città per intero.
Qui a fianco: Gian Carlo Menotti in una delle ultime immagini, ritratto nella piazza del Duomo di Spoleto.
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4 ottobre 1992 - 7 agosto 1993
C’è un mostro a Foligno Fu lo stesso Luigi Chiatti, un geometra di venticinque anni, a definisri “mostro” in una lettera agli investigatori
familiari delle vittime: Luciano, il padre di Lorenzo, che da anni si batte per i diritti dell’infanzia violata, è arrivato a pronunciare la parola perdono ma insiste: «Chiatti deve rimanere dentro ed essere curato». Una prospettiva cui si sono ribellati formalmente tanti sindaci umbri che, in cordata, hanno detto «no, perché persiste la pericolosità sociale». Una prospettiva che pesa sulla coscienza collettiva di una regione che ha perso due piccoli figli.
di Patrizia Peppoloni
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uattro ottobre 1992. Sette agosto 1993. Due date macchiate di sangue bambino che hanno rotto per sempre l’incantesimo di una terra francescana. Due piccole vite spezzate da un bruto, un «mostro», di quelli che ogni tanto escono dagli incubi e diventano veri. E seminano orrore. E cambiano per sempre la sensibilità collettiva di una regione che ostinatamente, forte del suo verde-speranza, continuava a credere di essere lontana dai «mostri». Il quattro ottobre del ’92 Simone Allegretti, tre anni e mezzo, venne rapito sotto un albero di noci, mentre giocava a pochi metri da casa sua, una zona tranquilla, di campagna. Di lui rimase una biciclettina appoggiata all’albero. L’inizio di un incubo che prese un nome solo dopo il secondo delitto del «mostro»: il 7 agosto, era un sabato assolato, a un centinaio di metri dalla villetta dove era stato ucciso, venne ritrovato il corpo straziato di Lorenzo Paolucci, 13 anni. Lo cercavano da ore e ore a Casale. E tra coloro che lo cercavano c’era anche qualcuno che sapeva bene cos’era accaduto a Lorenzo.
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uel qualcuno era il suo assassino, era l’assassino di Simone. Quel «mostro», fu lui stesso a definirsi così, era Luigi Chiatti, al tempo venticinquenne, geometra, un tipo introverso, che si sentiva a suo agio solo coi bambini, uno senza fidanzata né amici, figlio adottivo di una maestra e di un medico, una persona che la vita aveva già offeso, fin da bambino, e che aveva per questo sviluppato un potenziale offensivo fino a quel momento inimmaginabile.
Un uomo con tendenze pedofile, un uomo che era diventato uno spietato killer di bambini: Simone fu violato e alla fine soffocato, Lorenzo finì con la gola straziata da un forchettone e il suo cadavere occultato a poca distanza dalla villetta di Casale, residenza estiva della famiglia Chiatti. Le tracce lasciate sta-
bilirono subito il collegamento con la morte di Lorenzo. Poche ore dopo la confessione, l’agghiacciante racconto, meticoloso, privo di emotività, fatto con la freddezza di chi descrive un film con dovizia di particolari. E da quel momento via all’iter giudiziario, via agli psichiatri che iniziano a scavare nel buco nero
della mente del «mostro». Poi l’ergastolo tramutato in trent’anni per il riconoscimento della seminfermità mentale. Poi addirittura la possibilità che, tra sconti, indulto e meccanismi «premiali» previsti dalla legge, Chiatti possa usufruire di permessi, tornare fuori. Una prospettiva cui si sono ribellati i
Luigi Chiatti durante il processo (foto grande) dove fu condannato all’ergastolo poi tramutato in una pena di trent’anni per seminfermità mentale. Nel tondo in basso il piccolo Simone Allegretti. In alto Lorenzo Paolucci.
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Era il 22 giugno del 1975
La prima volta del Perugia in A In tre mesi sorge lo Stadio di Piano e comincia un periodo esaltante La città si immerge nei colori bianco-rossi
l’ultimo capello. Tutto risolto? No, troppo comodo. Dai meandri balzò in scena il pasticciaccio della “partita truccata”: una valigia piena di soldi perugini avrebbe raggiunto (incontro al famigerato casello autostradale) le tasche di alcuni atleti parmensi. Periodaccio anche per il cronista chiamato a correr dietro alle pieghe di un’indagine (richiesta dalla Reggina) che minacciava di infrangere ogni residua fiducia. Processo davanti alla “Disciplinare” e poi alla Caf. Il tutto condito, come si fa nel penale, da testimonianze sugli alibi e da riscontri su colloqui salvifici. Indirettamente c’entrò perfino Peppino De Filippo che -secondo una delle tesi difensive- a Salsomaggiore avrebbe amabilmente chiacchierato con uno dei dirigenti perugini che, invece, secondo l’accusa in quell’ora sarebbe stato al casello a consegnare il malloppo. Alla fine dell’incubo, l’estasi. Assolti quantomeno per insufficienza di prove.
Primo anno di serie A: nell’impatto con un avversario c’è tutta la grinta di Walter Alfredo Novellino, detto ‘Monzon’ per la somiglianza con il campione di boxe argentino.
di Gianfranco Ricci
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uando si dice che talora dal male può scaturire il bene: come può dimenticare il cronista gli avvenimenti calcistici perugini che si snodarono tra il 1974 e il 1975? In pochi mesi la città -è riduttivo parlare dei soli tifosi- transitò dall’incubo di un’avvilente condanna per illecito sportivo all’estasi della promozione. Addirittura in serie A, traguardo mai attinto in precedenza.
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hi c’era è giusto che ricapitoli a beneficio di quelli che son venuti dopo. Rapida la collocazione storica degli eventi. Nella primavera 1974 il Perugia si trovò a vivere un periodo cupissimo, sia sul fronte societario, sia su quello più squisitamente tecnico. Con gesto di inquieta rinuncia da più di un anno Lino Spagnoli (il gran capo che con l’allenatore Guido Mazzetti aveva
conquistato, nel 1966, la serie B) aveva passato il testimone a Dino Fanini. Costanzo Balleri in panchina. Eventi infelici, classifica sempre più a rischio. Negli ultimi mesi di una stagione disgraziata l’ingaggio disperato di un vecchio “lupo di calcio” come Leandro Remondini. Che, in effetti, fu in grado se non altro di far pesare la saggia esperienza nel bel mezzo di una squadra malmessa e moralmente avvilita. Il buon “Remo” sa stringere i denti: alterna amarezze a qualche riscatto. Comunque proprio in chiusura si trova anche lui alle prese col dramma perché arrivano due sconfitte “ammazzasperanza”: a Como 3-2 e in casa con la Reggina 1-0. Sembrava il verdetto di una retrocessione pressoché definita. Ma la domenica successiva ecco lo storico 2-0 sul campo di Parma. I gol di Scarpa. Salvezza acchiappata per
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d inizio di tutta un’altra vicenda. In poche settimane, dopo l’ultimo dei verdetti liberatori, prese corpo, anche per l’impegno di qualche politico più attento (Pietro Conti), una nuova struttura societaria (Franco D’Attoma, Spartaco Ghini) e un quasi sconosciuto assetto tecnico (Silvano Ramaccioni, Ilario Castagner, Giorgio Molini). Specie per l’occhio lungo di Ramaccioni si riuscì ad assemblare un gruppo di giocatori non assillati dall’obbligo di vincere. Merita ricordarli: Mauro Amenta, Bruno Baiardo, Renato Curi, Pierluigi Frosio, Claudio Giubilei, Nello Malizia, Roberto Marconcini, Maurizio Marchei, Michele Nappio, Sergio Pellizzaro, Paolo Petraz, Giuseppe Picella, Giancarlo Raffaelli, Paolo Ricci, Walter Sabatini, Giancarlo Savoia, Mario Scarpa, Paolo Sollier, Claudio Tinaglia, Franco Vannini Miguel Vitulano. Una stagione affrontata giusto per riprendere un po’ il fiato dopo le troppe vicissitudini dei mesi appena trascorsi, si trasfor-
mò in una graduale scalata al successo. “Perugia efficace… Perugia simpatico”- cominciarono a scrivere anche i giornali nazionali. Alla fine del girone d’andata il campionato cominciò a profumare di A. Tanto che La Nazione, circondata dalle attenzioni di una tifoseria sempre più ampia, dapprima prese a sponsorizzare i viaggi verso le trasferte dei grifoni, poi addirittura allestì una gigantesca cena al Brufani: ospiti diverse centinaia di tifosi, la squadra al completo, i dirigenti e i tecnici. Da Firenze venne lo stato maggiore del nostro giornale. Una festa grandiosa per fare i complimenti e per formulare auspici. Auspici che, per l’entusiasmo generale, andarono felicemente a segno: verso la fine del torneo qualche allarmante cedimento) tre sconfitte), ma poi lo straordinario en plein di Verona (due reti di Curi) e il pareggio a Pescara (15 giugno 1975, risultato 1-1, col gol di Sollier al 90’) decretarono la sicurezza della grande ascesa. Celebrazioni, celebrazioni solenni e smisurate come non
In basso: Leggero infortunio a Renato Curi, il centrocampista che morì sul campo il 30 ottobre 1977, colpito da un attacco cardiaco nel corso della sfida interna con la Juventus.
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18 giugno 1972: Ternana in serie A Il giorno del tripudio: il 18 giugno del 1972 la Ternana batte 3-1 il Novara in un gremito e stacca il biglietto per la serie A. Prima squadra umbra ad accedere nella massima serie. La città si trasforma in una bolgia rossoverde, immagini e fotogrammi stampati nei ricordi di chi visse in prima persona quell’estasi collettiva e ancora oggi riproposti a memoria di un’epoca e di una Terni che primeggiava, nel calcio ma anche nell’economia. Era lì, con i suoi cronisti e fotografi, a documentare ed immortalare frammenti di storia che legavano indissolubilmente la città alla sua squadra. Una Ternana di ternani, presieduta dal compianto Giorgio Taddei, che senza spendere grosse cifre tagliò per prima il nastro di quel campionato di serie B lasciandosi alle spalle compagini blasonate, come Lazio e Palermo, ma soprattutto il Perugia. Partite in sordina che gara dopo gara impressionarono l’Italia. In panchina c’era quel Corrado Viciani che con il suo, antesignano della pluriosannata, conserva ancora un posto negli almanacchi del calcio. Sotto la guida di Viciani, un gruppo di seri professionisti lontani dai riflettori del grande calcio che, con applicazione e sacrificio, regalarono a Terni il sogno. E la città, di estrazione operaia, figlia delle Acciaierie, si immedesimava in quei giocatori umili e vincenti, da Pandrin a Benatti, da Marinai a Cardillo, e ancora Mastropasqua, Valle, Migliorini. Ma era anche una Terni vitale, attiva, forse non ricca ma decisamente in ascesa. Così ricorda quella promozione e quell’epoca l’avvocato Antonio Mattiangeli, che era il legale della società rossoverde.
se ne ricordavano a memoria d’uomo. Perugia si immerse nei colori bianco-rossi.
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e tracce di quell’euforica ubriacatura sono rimasti sui muri fino ai giorni d’oggi. La sintesi di tanto buon umore per l’ultima gara della storia al Santa Giuliana: 22 giugno 1975, ospite il Novara, quasi… un invitato al trionfo. Finì 2-1 (Pellizzaro, Frosio e Galli), ma quello fu un banale dettaglio circondato da majorettes, gruppi folkloristici, sbandieratori, consegne di medaglie, ospiti d’onore (fra gli altri Nando Martellini e Paolo Valenti), balli, canti, invasioni
Uno dei simboli del Perugia che conquistò la serie A: il capitano Pier Luigi Frosio (a sinistra) fa gli onori di casa
di campo. L’arbitro Lanzetti di Viterbo fece sfoggio di una comprensibile tolleranza. E da quel giorno scattò una diversa epoca: per il Perugia e per il calcio italiano. Sorse in tre mesi lo stadio di Piano, Franco D’Attoma si mise a scalare le gerarchie federali fino a diventare l’uomo delle sponsorizzazioni (una spallata clamorosa per quei tempi più o meno fintamente puritani) e a portare a Perugia Paolo Rossi, il Pablito d’Argentina. Vennero anni belli, perfino ammalianti, finiti, per la faccendaccia del calcio-scommesse, con un altro rinvio a giudizio. Ma questa evidentemente è tutta un’altra storia.
Stefano Cinaglia
CURI, DUE VOLTE A SEGNO Pomeriggio di quieto sole in una città bella come Verona, in uno stadio lindo come il Bentegodi. Accade che il Perugia vada due volte a segno con l’indimenticabile Curi che oltre a ragionar calcio ne diventa la punta terminale, sciorini bel gioco secondo i dettami della razionalità applicata al pallone. Insomma, un dominio. Facendo fare una figura barbina ai veneti che escono tra i fischi e i lazzi di un pubblico serenamente imbestialito. Presto, ci sono da fare i resoconti, anche note di colore se uno vuole. E la partita offre spunti a volontà. Allora il diligente cronista si mette da un lato sulla tribuna vuota, tira fuori dall’astuccio la portatile perché allora non esistevano i computer e gli articoli uno li doveva dettare agli stenografi. I due amici de La Nazione sono discosti, una ventina di metri in alto. I ricordi sono netti: a un certo momento una banda di ultras gialloblu fa irruzione, bandiere avvolte attorno ad aste spianate, ululati ed espressioni poco amicali. Reclamano giustizia, urlano la loro rabbia, schiumano invettive contro uno dei loro, Zigoni che di regola dovrebbe fare l’attaccante ma nella circostanza è stato spettatore senza pagare il biglietto. È uno dei colpevoli della disfatta, anzi il colpevole massimo. Il tifo spesso non ragiona. Il giornalista part-time che il giorno dopo deve tornare a scuola a spiegare Masaccio e l’arte fiorentina, si trova circondato, spintonato. Come se fosse responsabile della formazione, parente dell’allenatore o peggio ancora fratello dell’odiato Zigoni. “Per chi scrivi?” gli viene ululato. La paura (vera e non retorica) aguzza l’ingegno. Si fa leva su trascorsi veneziani, la parlata è quella, dolce e musicale insieme. “Per il Gazzettino” è la risposta, pronunciando il nome con una zeta sola e molto strisciata. Bene, allora il commando attornia compatto e intima al cronista di scrivere un pezzo a tamburo battente su un atleta che deve ritirarsi in campagna “a far dano lì e non a noaltri”. Ordine perentorio: Le righe scorrono, l’invenzione gira, le accuse scritte si srotolano tra gente sempre più disponibile. Finita la cartella, un applauso. “Tu si che hai capito. Quando esce?” Domattina, senz’altro. Quelli se ne vanno cantando cori della curva. E tu ripieghi con cura il foglio e ne rimetti un altro. Guardi intorno: lassù in alto, un collega leva il pollice, un altro ha il volto tra le mani. No, non piange, sussulta dalle risate.
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23-26 agosto 1973
Quella volta che l’Umbria scoprì di amare il jazz Un’idea vincente che è diventata realtà da 36 anni Tutto cominciò con un contributo di 13 milioni
Un rito musicale che pose molti problemi di ordine pubblico. Due soste, la seconda delle quali durata tre anni. Poi la ripresa e una nuova formula.
di Minno Coletti
Durante il festival Perugia, Terni e Gubbio furono invase da una folla incontenibile di giovani.
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l silenzio dei secoli lacerato, infranto. Sostituito d’improvviso da una marea tonitruante di giovani, dal miagolio del sax, dagli squilli della tromba, percussioni, chitarre, ritmi distanti dalla vocazione lontana di un territorio verde di natura e con rare, rarissime esaltazioni. L’idea fu geniale e risale al 1973, data di nascita di Umbria Jazz, festival dagli orizzonti che andavano meglio precisati oltre l’entusiasmo primigenio e che visse all’avvio stagioni convulse, di successo se si vuole, ma condite anche dal fiele della polemica. Eppure la mossa doveva rivelarsi vincente come un esempio che venne seguito, imitato, condiviso. C’erano avanguardie di una musica conosciuta dagli specialisti e da rari adepti locali: fu l’invasione, l’indiscriminato bivacco a cielo aperto, note in libertà, personaggi da seguire, ammirare, applaudire, ma calore anche troppo debordante. La delibera della giunta regionale, relatore Alberto Provantini, stabilì di avviare l’appuntamento in quattro giornate, dal 23 al 26 agosto, a Perugia, Terni e Gubbio.
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redici milioni di contributo ad Alberto Alberti, manager italiano degli artisti più in vista, direzione artistica affidata a Carlo Pagnotta. Pronti, via: tredici giornalisti accreditati, per La Nazione in quel momento c’era Alessandrini, poi le critiche furono affidate alla sapienza di Vigna. Ma l’evento fu seguito palmo a palmo anche nella cronaca locale: attesa in avvio, molti spiazzati e altrettanti convinti da Sun Ra in Piazza IV Novembre con
la sua “Intergalactic Arkestra” che si esibiva dopo il gruppo dei Perigeo, il pianista Waldron e Giorgio Gaslini. Simboli esoterici, paludamenti, colori evocativi, un mix che si univa a suoni laceranti, una sorta di free jazz alla nubiana. Un rito musicale che molto piacque agli hippies e ancor più convinsero Mingus e le stelle che affollarono i cieli notturni di un paio d’anni dopo. A sentire Sarah Vaughan, Dizzy Gillespie, Sam Rivers, Horace Silvers furono un turbine di descamisados.
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l festival era giovane e già scoppiava in mano agli organizzatori, cittadine, centri storici presi d’assalto, servizi igienici al collasso, montare sordo di proteste, clima fin troppo teso. Una prima pausa nel ’77, momento duro per tutti, ripresa nel ’78 con la formula di due concerti in due centri lontani. Andò bene solo a Terni e a Perugia, ma nei centri più piccoli la ressa fu enorme e così i disagi, le provocazioni, le prese di posizione. Il nostro giornale registrò con puntualità malesseri profondi, contrarietà, ipotesi, formulando anche proposte intrise di saggezza (e non si dice questo per puro senso di campanilismo). Morale: uno stop di tre anni. Ma Umbria Jazz aveva evidentemente in sé un progetto vincente, perché
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Negli anni Novanta il pubblico e la nuova formula dell’intera manifestazione si rivelarono maturi e all’altezza delle attese.
nell’82 si ripresentò. Edizione non da incasellare tra le maggiori, però quiete ristabilita poco a poco, equilibrio raggiunto, dosaggio migliore delle forze in campo. Niente più peregrinazioni per l’Umbria, concerti gratuiti ma per i maggiori si pagava.
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questo bastò per depurare l’ambiente. Una pedana di lancio che si rafforzò. L’83 fu la rivelazione per Wynton Marsalis che di anni ne faceva appena ventidue, il 1984 di Miles Davis con la sua malinconia e la poesia pensosa e pensata, ma senza fare di necessità una sintesi cronologica il pensiero corre all’evento principe, a quella notte dell’undici luglio 1987 quando trentamila persone al Curi inneggiarono alla strabiliante performance di due mostri sacri come Gil Evans e Sting.
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esta nella memoria e la cronaca giustamente indugiò su un evento assoluto. Spazi maggiori nelle nostre pagine culturali regionali, interviste ai personaggi, curiosità, attenzione anche agli attori all’apparenza minori e dove magari si nascondevano talenti mirabili,
Nel tondo di lato: gli incredibili bivacchi di giovani nel centro storico di Perugia.
assi seguiti passo passo, indiscrezioni e tutto quanto può fare da cornice a uno spettacolo dalle mille rifrazioni. Anche considerando che con gli anni Novanta UJ mutò rotta, inserendo in cartellone venature di jazz non ortodosso: Ornette Coleman, un mito di sessant’anni esaltò e qualcuno non convinse, Carla Bley tornò nel’92 dopo un’esperienza sfortunata di quattordici anni prima a Castiglione del Lago con gente aggrappata sul palco, e stavolta si trovò tanto bene da incidere quattro anni dopo un disco memorabile a San Francesco al Prato.
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ent’anni compiuti dal festival, pubblico più maturo, avvezzo a sentire e giudicare tendenze e personalità di spicco autentico, di nuovo nelle piazze umbre, esordio da incorniciare di Caetano Veloso, lirismo e nostalgia di un Brasile sognato e sognante. E poi la raggiunta, totale maturità, sponsor e spalle più solide, allargamento d’orizzonti, frequentazioni con artisti di origini ed espressioni diverse, l’arena di Santa Giuliana pronta a ospitare concerti da tutto esaurito. Ecco: l’immagine calzante è che da un pubblico pieno di fervore ma pesantemente odoroso non di colonia si è passati a gente competente, seria, interessata e convinta di assistere ad appuntamenti di pregio. Nessuno avrà mai la cravatta, ci mancherebbe. Ma la musica non si ascolta con quella.
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È il 3 ottobre 1990
Hanno rapito Augusto De Megni Un bambino di undici anni è protagonista di uno dei più clamorosi episodi di cronaca nera
di Donatella Miliani
Nei giorni del sequestro, a complicare le cose, entra in vigore la legge che blocca i beni alle famiglie dei rapiti. Nella foto grande il piccolo Augusto nel giorno della sua liberazione. Nel tondo: Augustino con la madre.
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la sera del 3 ottobre 1990. Augusto De Megni è un bambino di 11 anni, è appena rientrato nella villa di Piscille con il padre Dino; non sanno che in cucina li stanno aspettando due uomini con il viso coperto da passamontagna, sono armati di pistole e fucili a canne mozze. I banditi legano e imbavagliano il genitore e fuggono portandosi via il piccolo. Fuori dalla villa un terzo complice li sta aspettando in auto con il motore acceso. Dopo circa un’ora Dino de Megni riesce a liberarsi e a dare l’allarme. Ma è tardi: i banditi hanno avuto il tempo di allontanarsi e cambiare l’auto. I De Megni sono un’importante famiglia di Perugia. Possedevano una banca privata il Banco de Megni, poi divenuto Banco di Perugia, venduto in seguito a un grande gruppo bancario nazionale.
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l nonno Augusto (il bambino porta lo stesso nome), è anche gran Maestro del Rito scozzese. Una massoneria che in Europa e nel mondo ha un peso molto importante. De Megni ha amicizie di rilievo: capi di stato, diplomatici e politici. Passano quasi cinque settimane però prima che i rapitori si facciano vivi. Il contatto arriva solo il 20 novembre e la richiesta di riscatto è esorbitante: 20 miliardi di lire. a trattativa è difficile, i giorni passano e i rapitori scelgono di nuovo il silenzio. Il 26 dicembre sono i frati francescani d’Assisi a lanciare un appello diretto chiedendo la liberazione del piccolo, senza ottenere però alcun risultato. Il sequestro scuote l’opinione pubblica anche per la giovane età del rapito. I principali sospettati del sequestro sono sardi, una delle più pericolo-
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se e temibili organizzazione criminali. Proprio nei giorni del rapimento di Augusto viene approvato dal governo il decreto d’emergenza per il sequestro preventivo dei beni delle famiglie dei rapiti. Si tratta del decreto che comunemente viene indicato come «la legge del blocco dei beni». Lo Stato cerca di scoraggiare i sequestri: in quel momento sono ben sette gli ostaggi nelle mani dei criminali, tra loro Cesare Casella. La famiglia De Megni ha le mani legate, tenta un ricorso contro il blocco ma viene respinto. Poi, la svolta improvvisa. Arriva una segnalazione sicura che individua il nascondiglio dei rapitori nei pressi di Volterra nella campagna toscana. Il supporto logistico è una fattoria di pastori sardi. Dopo 113 giorni, scatta il blitz dei Nocs (Nuclei Operativi Centrali di Sicurezza della Polizia di Stato).
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uecento agenti, all’alba, circondano la zona di Poggio La Rocca, dove si trova la «buca». È il 22 gennaio, i Nocs raggiungono l’obiettivo in elicottero. Un paio di mesi prima nel viterbese era stato fermato un pastore sardo Graziano Delogu, residente a Volterra. Dopo il rilascio era stato seguito fino alla prigione del piccolo Augusto. È proprio Delogu a essere catturato per primo, con lui altri due pastori. Sono tutti implicati e in breve viene scoperto il nascondiglio dove tengono prigioniero il bambino, che viene liberato dopo una trattativa con il carceriere Antonio Staffa. Alla fine vengono tutti arrestati: sono in quattro, fra essi un pericoloso latitante. Staffa però viene indicato dal bambino, a causa della Sindrome di Stoccolma, come il «buono». «È stato lui ad
opporsi al taglio dell’orecchio che volevano fare gli altri. Mi misi a piangere in ginocchio...», racconterà Augusto ai giudici.
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l processo si conclude nel 1992 con la condanna di nove banditi sardi. Per Staffa, uno sconto di pena di dieci anni. Augusto de Megni ha oggi ventinove anni. Dopo aver vinto l’edizione 2006 del «Grande Fratello», è ora commentatore sportivo per un’emittente privata. «Spero - dice - di diventare un giornalista professionista».
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È il 30 gennaio 2006
Fezzuoglio, così muore un eroe di Paolo Ippoliti
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n pomeriggio di un giorno da cani. Davvero. Ma non era il set di un film, quello, famoso, di Sidney Lumet. A terra, c’era un giovane carabiniere. Era bello come un attore, si, con quei grandi occhi azzurri, ma il sangue era vero. Quegli occhi, ancora spalancati perché li chiuse un prete, don Pietro Vispi, insieme alla benedizione che gli aprisse le porte del Cielo. Così morì il 30 gennaio 2006 Donato Fezzuoglio, vittima di una banda di assassini, che stava rapinando il “Monte dei Paschi di Siena” di Umbertide. Di pattuglia con un collega, Enrico Monti, era a poche centinaia di metri dalla banca. La “gazzella” arrivò mentre i banditi stavano uscendo dall’edificio, per finire nel fuoco incrociato dei criminali. Una raffica di Kalashnikov sparata alle spalle centrò Fezzuoglio uccidendolo all’istante mentre Monti rimase ferito. I suoi assassini scapparono facendo fuoco tra la gente. Si lasciarono dietro una scia di sangue e - solo per miracolo - due feriti, Tumide Scalzi e Sante Fiorucci entrambe anziani, cui scaricarono addosso la pistola per appropriarsi delle loro automobili. Centomila euro il prezzo di quel sangue, il prezzo del cuore irrimediabilmente lacerato della moglie di Donato Fezzuoglio, Manuela Becchetti e del piccolo
Michele, quell’angelo di sei mesi che, con i suoi occhioni azzurri, era la fotografia del padre.
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e ricerche della banda scattarono immediatamente, ma, forse poco coordinate non ebbero fortuna. La pista iniziale, quella di criminali venuti dall’est, lasciò posto ben presto
a quella sarda, puntando alla banda di Raffaele Arzu, primula rossa del banditismo dell’isola e protagonista, nel continente in assalti ai furgoni e alle banche, con perfetta tecnica militare. Recentemente il comandante dell’Arma della Regione Umbria, Claudio Curcio, insieme al comandante provinciale Claudio
Corbinelli hanno dichiarato che le indagini sono a buon punto e che presto ci sarà la svolta. Un bambino ed una vedova, una famiglia cui è stato strappato il figlio ed il fratello, una intera città e l’Arma dei carabinieri aspettano quel giorno.
Una folla commossa (foto grande) ai funerali del carabiniere Donato Fezzuoglio.
Una medaglia d’oro per Manuela La porta con orgoglio quella medaglia d’oro appuntata sul petto Manuela Becchetti (nella foto), la giovane vedova di Donato Fezzuoglio. È quanto le resta assieme al piccolo Michele ed ai tanti ricordi, di quel marito morto a trent’anni. La medaglia è al valor militare, alla memoria, perché il suo uomo cadde con la pistola in pugno per fare il suo dovere di carabiniere. Non è stato quello il solo riconoscimento che la città, l’Arma, le istituzioni, i cittadini hanno voluto tributare al militare. La caserma di Umbertide, è stata dedicata alla sua memoria nel 2008. All’interno ed all’esterno due lapidi ne ricordano la morte in servizio con queste parole: “fulgido esempio di eroismo, di elette virtù militari ed altissimo senso del dovere, spinti fino all’estremo sacrificio. Nel luogo dove cadde, in via Andreani, davanti alla Banca del Monte dei Paschi di Siena, una lapide ne ricorda il sacrificio e, in un angolo, riservato come il dolore che chiunque passa riscopre dentro pensando a quel
giorno, non mancano mai i fiori. Davanti alla Chiesa di Cristo Risorto, che ne accolse la salma il giorno dei funerali, tra una folla immensa e stordita, uno slargo ne ricorda il gesto ed una targa recita “La città di Umbertide in memoria del giovane carabiniere Donato Fezzuoglio, caduto il 30 gennaio 2006 nell’adempimento del dovere. Medaglia d’oro al valor militare alla memoria”. A questa gara di solidarietà – un fiume dai mille rivoli di riconoscenza - partecipò anche La Nazione, che insieme alla Banca Popolare di Spoleto indisse un’immediata raccolta di fondi tra i lettori e che in breve tempo giunse alla cospicua cifra di oltre cinquantamila euro, consegnati dal caporedattore Luciano Salvatore alla famiglia: il modo di tanta gente, non solo degli umbri, per dire in un modo semplice e diretto “grazie” a Donato ed ai suoi cari.
Paolo Ippoliti
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Meredith, un mistero di sangue di Erika Pontini
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u piede nudo di donna che spunta da un piumone. Tutto intorno sangue. Sangue anche sui muri, segnati con le mani imbrattate. Brandelli di abiti strappati nella foga di un orrendo delitto sul pavimento. Segni di una violenza sessuale. Fuori l’apparente quiete di un casolare a due passi dal centro storico, preso in affitto da un gruppo di ragazze. È il 2 novembre 2007 quando la scoperta del cadavere di Meredith Kercher, studentessa inglese di 21 anni inserita nel progetto Erasmus, catapulta Perugia nel novero delle città degli omicidi efferati e la proietta sui network di tutto il mondo.
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a vittima è di Londra: è stata stuprata prima di essere sgozzata. Ha lottato ma è stata sopraffatta. La presunta assassina che sarà arrestata qualche giorno dopo è di Seattle, negli Stati Uniti. Amanda Knox ha il volto etereo degli angeli e una dose di fascino perverso capace di imporre l’agenda alla stampa mondiale. Con lei finiscono in cella il fidanzato, uno studente barese – Raffaele Sollecito – e,
poco dopo, Rudy Guede, ivoriano. All’inizio però è un musicista, gestore di un pub – Patrick Lumumba – a fare la parte dell’assassino. Accusato dalla bella Amanda che per lui faceva la cameriera e poi risultato completamente estraneo ai misteri di via della Pergola. Il delitto di Mez riscopre una Perugia dove si spaccia parecchia droga e a buon prezzo, dove è pieno di studenti universitari, sia italiani che stranieri che si godono i loro vent’anni senza preoccuparsi troppo di lezioni ed esami. È la “noia”, stabilirà il primo giudice che si occupa del caso, ad avere armato la mano di una coppia di neo-fidanzatini. Loro negano, si contraddicono, si sbagliano. Giurano di essere stati insieme ma non ricordano se hanno fatto l’amore la notte in cui Meredith veniva minacciata con un coltello per persuaderla ad un gioco sessuale che non voleva e che le è costato la vita. Soprattutto i ragazzi in cella scrivono. Scrivono diari. “My pryson” lo intitola Amanda e racconta dei suoi amici negli States, del suo amore americano, Dj’, delle sue compagne di cella; “Appunti di viaggio” è scritto sul frontespizio
di quello di Raffaele. Scatta la caccia ai memoriali: dall’estero i tabloid sono disposti ad aggiudicarseli a suon di migliaia di euro. “La Nazione” pubblicherà per intero e senza ovviamente aver pagato un euro l’intero manoscritto di Raffaele. Nel quale, tra l’altro, Sollecito cerca di giustificare una delle ‘prove’ portate dalla procura contro di loro. Su un coltello trovato a casa sua c’è il dna di Meredith sulla lama e quello di Amanda sul manico. Sostiene di aver punto Mez su un dito mentre cucinava ma la studentessa inglese non è mai stata a casa sua. I legali parlano subito di contaminazione, anche involontaria, dei reperti isolati sulla scena del crimine dalla polizia. Stessa strategia per sostenere l’altro dato scientifico che incastra Raffaele: il suo codice genetico sul gancetto del reggiseno di Mez. Gran parte dell’inchiesta si gioca sui risultati del dna. Rudy ha disseminato di tracce il casolare: le sue feci in bagno, il suo cromosoma y sui tamponi vaginali della vittima, le sue tracce biologiche sulla felpa della ragazza e sulla sua borsa, l’impronta della sua scarpa nel sangue della vittima.
Non può negare di essere stato con lei. Ma racconta una storia inaccettabile. “Per credergli bisognerebbe fare un sovrumano atto di fede” sentenzia il giudice Paolo Micheli che lo condanna a trent’anni di carcere.
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a scelto di correre da solo la strada tortuosa del processo con il rito abbreviato, separandosi dai coimputati. Loro lo accusano di essere l’unico killer di Mez, di essere entrato per rubare. Ma sono accuse fumose, sbiadite, mai dirette. Lui dice di averli visti fuggire dopo l’omicidio ma non si ritaglia alcun ruolo, nemmeno di secondo piano. E perciò diventa non credibile. Sarà ora la Corte d’assise di Perugia, davanti alla quale è iniziato il processo il 16 gennaio, a stabilire se e quale ruolo ebbero Amanda e Raffaele nel delitto. Il duello tra la procura rappresentata dai pm Manuela Comodi e Giuliano Mignini e le difese – tra cui spicca anche il nome dell’onorevole Giulia Buongiorno - è appena iniziato.
Nella foto grande la casa dove è avvenuto il delitto e nei tondi Amanda Knox e Raffaele Sollecito. A sinistra in alto Meredith Kercher, sotto Rudy Guede.
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