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150 ANNI di STORIA ATTRAVERSO LE PAGINE DEL NOSTRO QUOTIDIANO
SUPPLEMENTO AL NUMERO ODIERNO A CURA DI
Pisa
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Un giornale per l’Italia Unita Gli “ozi di Capua” dei reali a San Rossore Nasce la Filarmonica Galilei È il terremoto: panico a Pisa morti e feriti nella provincia Il comunicato di Padre Alfani “La cieca furia nemica ha straziato la città di Pisa” A poche ore dall’attentato a Togliatti Il linciaggio del 14 luglio ‘48 Nasceva La Nazione in via Cavour e sorgeva di nuovo il Ponte di Mezzo La Carrà urlava: “Sindaco chiudi la Torre” (e tutto divenne uno show televisivo) L’alluvione del ‘66 Una domenica poco dopo l’alba finisce in Arno il Ponte Solferino “La notte a scuola fanno le orge” denuncia il preside del liceo classico Così nacque “il movimento” A Pisa sanno troppe cose sui delitti delle Brigate Rosse Sono ormai “anni di piombo” Un attentato a Marina di Pisa (ed una iniezione al curaro) Scontri con i paracadutisti: “pace fatta” dice il sindaco Compie cento anni il calcio pisano Quegli indimenticabili anni Ottanta sotto la guida di Romeo Anconetani Supplemento al numero odierno de LA NAZIONE a cura della SPE Direttore responsabile: Giuseppe Mascambruno
PISA
150 anni di storia attraverso le pagine del nostro quotidiano.
Non perdere in edicola il terzo fascicolo regionale che ripercorre, attraverso le pagine de La Nazione, la storia fino ai nostri giorni e i 17 fascicoli locali con le cronache più significative delle città. In copertina: Lord Byron, che visse a Pisa tra il 1820 e il 1821 con un’immagine della Torre di Piazza dei Miracoli e varie prime pagine de La Nazione.
Vicedirettori: Mauro Avellini Piero Gherardeschi Antonio Lovascio (iniziative speciali) Direzione redazione e amministrazione: Via Paolieri, 3, V.le Giovine Italia, 17 (FI) Hanno collaborato: Valeria Caldelli Renzo Castelli Giuseppe Meucci
Progetto grafico: Marco Innocenti Luca Parenti Kidstudio Communications (FI) Stampa: Grafica Editoriale Printing (BO)
Pubblicità: Società Pubblicità Editoriale spa DIREZIONE GENERALE: V.le Milanofiori Strada, 3 Palazzo B10 - 20094 Assago (MI)
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Quel 14 luglio del 1859
”UN GIORNALE PER L’ITALIA UNITA” Perché La Nazione, nata nel Granducato di Toscana per volontà di Bettino Ricasoli non volle seguire il Re e il Governo a Roma capitale
Un’immagine de La Nazione del 1864. Nel tondo: il fondatore del quotidiano Bettino Ricasoli.
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ascere con l’Italia e accompagnarla, giorno dopo giorno, fino ad oggi. Nessun altro giornale vanta questo primato. E infatti, se anche una testata, la Gazzetta di Parma, sicuramente è più antica di quasi 100 anni rispetto al giornale fiorentino, è anche vero che per lunghi periodi ebbe un altro nome e in ogni caso non svolse il ruolo fondamentale per l’Unità d’Italia che toccò al foglio di Bettino Ricasoli. Già, perché fu proprio lui, il “Savonarola del Risorgimento” come lo definiva Spadolini, a volere che il nostro giornale fosse in edicola alla notizia dell’armistizio di Villafranca. La storia è nota. L’11 luglio del 1859, nel pieno della seconda guerra di indipendenza all’improvviso francesi ed austriaci firmarono un armistizio ed i Savoia non ebbero la forza per opporsi. Lo fecero perché la Francia cominciava a temere un attacco da parte della Prussia. Lo fecero, perché un’Italia libera e indipendente poteva anche andar bene alla grandi potenze europee, ma non doveva essere eccessivamente forte. E dunque, ecco che al Piemonte veniva concessa quasi per intero la Lombardia, ma il Veneto il Trentino e la Dalmazia
restavano agli austriaci, mentre in Toscana sarebbero tornati i Lorena, e in ogni caso si ipotizzava una federazione di stati del Centro Sud sotto la guida del Papa.
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lla notizia, Cavour, dopo uno scontro durissimo con Vittorio Emanuele si dimise. E l’unico a sostenere la causa dell’Italia da unire, restò in quelle ore il capo del governo toscano, Bettino Ricasoli appunto. Era la sera del 13 luglio e Ricasoli chiamò Puccioni, Fenzi e Cempini in Palazzo Vecchio. Chiese loro di redigere e stampare il primo numero de La Nazione per l’indomani. I tre presero una carrozza e si fecero portare in via Faenza alla tipografia di Gaspero Barbera, un patriota piemontese, e qui cominciò un lavoro frenetico a redigere i testi ed a comporli. Alle cinque del mattino Ricasoli si presentò alla tipografia, lesse le bozze e dette il consenso. Alle dieci, tirate pare in tremila copie, due pagine in mezzo foglio, oggi diremmo formato tabloid, erano in vendita nel centro cittadino. Si trattava di un’edizione senza gerenza, senza il nome dello stampatore, senza il prezzo, senza pubblicità. Praticamente un numero zero. E così
si andò avanti fino al 19 luglio quando, finalmente, La Nazione uscì nel suo primo numero ufficiale, con formato a tutto foglio, le indicazioni di legge, i prezzi per l’abbonamento e per la pubblicità. Così, dunque, nacque il nostro giornale. Che conobbe i giorni fausti dell’Italia Unita, e poi quelli pieni di problemi, non solo economici, in cui Firenze fu provvisoriamente capitale. Quindi la questione romana, la breccia di Porta Pia, e insomma tutte le fasi che con alterne vicende portarono alla nascita dello Stato italiano. Ma fu proprio con Roma Capitale che La Nazione dovette modificare il proprio tipo di impegno. Che fare? Seguire il governo e il mondo politico fino a Roma, là dove si sarebbero svolte da allora in poi tutte le vicende, e prese le decisioni relative all’Italia? La domanda fu posta ed era più che legittima. Nessun altro quotidiano aveva il diritto di continuare le proprie pubblicazioni nella sede del regno e del governo italiano, più di quello che l’Italia aveva contribuito a farla nascere. Ma fu compiuta una scelta, che di certo non fu di tipo economico: restare. Restare a Firenze, accompagnare la vita della città dove era nata, e dedicare sempre di più le proprie attenzioni anche alla vita quotidiana, a quella che oggi diremmo la cronaca di ogni giorno. Insomma, da grande foglio risorgimentale carico di tensioni ideali, a giornale come oggi lo intendiamo. Con rubriche dedicate alla moda, allo sport, con spazi dedicati alla vita musicale e teatrale. Rese possibile questa scelta di obiettivi un grande direttore, Celestino Bianchi che seppe conquistare il pubblico femminile, interessare anche la media e piccola borghesia mercantile, ma soprattutto richiamare intorno al foglio di Ricasoli le migliori firme italiane del momento. Che, del resto, già erano presenti su La Nazione, fin dai primissimi anni. E allora ecco il D’Azelio e il Tommaseo, ecco il Manzoni e il Settembrini, e poi il Collodi, il De Amicis, Alessandro Dumas, Capuana, il Carducci e in
seguito anche il Pascoli, ed infinti altri. Grandi firme che sarebbero continuate durante il fascismo e nell’Italia repubblicana fino ad oggi.
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a Malaparte a Bilenchi, a Pratolini, ad Alberto Moravia, a Saviane, a Luzi. Dopo aver ospitato Papini, Prezzolini, Soffici, e gran parte dei letterati delle Giubbe Rosse nel periodo che precede e che segue la grande Guerra. Queste le scelte che permisero a La Nazione, pur dovendo affrontare momenti di crisi e di difficoltà, di battere ogni volta le testate concorrenti. Se esisteva una difficoltà di vendita o addirittura di immagine, sempre riuscì a trovare le energie per risollevarsi. E ancora, quando si trattò di decidere se trasferirsi a Roma capitale, seguendo le sorti del governo e del re, la spiegazione data ai lettori fu questa. “Noi non vogliamo che Roma attiri a sé tutta la forza intellettuale. Noi vogliamo che Napoli, Firenze, Bologna, Venezia, Milano, Torino, serbino la loro influenza legittima, portino il peso nella bilancia delle sorti politiche nazionali. Ogni regione ha elementi originali da custodire e nello stesso tempo è sentinella dell’Unità inattaccabile.”
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na prosa intelligente, modernissima, attuale ancor oggi, 140 anni dopo. Un atteggiamento che La Nazione conservò anche in epoche ben diverse. Così, durante il fascismo, pur costretta come tutte le testate a pubblicare le veline del minculpop, non per questo La Nazione si allineò mai totalmente al regime. Tanto da opporsi, allorché il Regime voleva imporre come direttori uomini fedeli a Mussolini e ospitare firme, come quella di Montale, il personaggio che per il suo antifascismo era pur stato “licenziato” dal Vieusseux. Uno stile, un modo di essere, che la premierà quando, pur con mille problemi tornerà alle pubblicazioni nel 1947.
Il “Barone di Ferro” si rivolse a Puccioni, Fenzi e Cempini dicendo: “Voglio La Nazione per domani mattina”. Era la sera del 13 luglio del 1859 e l’indomani, alle dieci del mattino, il nostro giornale fu distribuito in tremila copie.
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da La Nazione del 19 dicembre 1904
Gli “ozi di Capua” dei reali a San Rossore Così li definivano in consiglio comunale i esponenti repubblicani “Una maggioranza sgarbata e piazzaiola” la definisce il cronista
Nella foto a destra: una suggestiva immagine della Tenuta di San Rossore dove per generazioni la famiglia reale ha trascorso periodi di vacanza. Attualmente la tenuta è inglobata nel Parco di Migliarino.
Siamo agli inizi del Nocecento, il comune di Pisa è in mano ai repubblicani e la famiglia reale è in vacanza a San Rossore. <Perché - si chiede un consigliere - dobbiamo pagare noi la sicurezza per una “tale” famiglia?> Da notare il disagio, anzi, il disgusto, col quale il cronista de La Nazione riporta l’episodio.
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l consiglio comunale di Pisa, da quando è spadroneggiato dai radico–repubblicani non solo come maggioranza assoluta ma come unanime oligarchia di 60 padri coscritti tutti di una risma e di un colore fa, di quando in quando, parlare di sé, per qualche manifestazione sgarbata e piazzaiola, che contrasta con lo spirito di correttezza della cittadinanza pisana, vera.
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n una delle sedute serali recentissime, discutendosi il bilancio preventivo 1905, uno dei consiglieri che vanno per la maggiore nel patrio consesso, propose la sospensione della somma preventivata nel progetto di bilancio per le spese di casermaggio delle guardie di città, dicendo che un’amministrazione democratica deve fare atto di ribellione per tutto quello che fa capo allo stato centrale: probabilmente se quel consigliere, invece di essere un padre coscritto della monarchica Italia fosse magari un piccolo maire della repubblicana Francia non avrebbe pronunciato quella frase comicamente ribelle, ma ciò che vogliamo rilevare non è qui: Si può infatti , magari convenire che certe spese aventi carattere di pensione dello Stato debbano far carico a queste più che agli enti locali; ma sempre come voto di riforma, perché la ribellione fu presto sedata dalla
iscrizione in bilancio, per parte della Giunta provinciale amministrativa, della spesa disposta dalle leggi vigenti. Ma quel che non si può lasciare inosservata è la frase con la quale si rivelò che certe spese il Comune le paga perché “nelle vicinanze di Pisa una tale famiglia viene a godere gli ozii di Capua”. L’allusione agli Augusti Ospiti e alla loro presenza a San Rossore è manifesta…
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li ozi di Capua… La frase pretenziosa è dopo tutto rivelatrice della cultura storica che si ha nel consesso municipale, una cultura da meritare una bocciatura ginnasiale: gli ozii di Capua dei tempi di Annibale paragonati al soggiorno in San Rossore dei Reali d’Italia, sono qualcosa di portentoso…
Nasce la filarmonica Galilei La quota? Una lira al mese Pisa 13 – ( A.B.) La caratteristica di questa era nuova che altamente onora la civiltà progredente è quella di restringere con il vincolo del mutuo soccorso tutti gli animi eletti, pei quali l’umanità e carità di paria non sono nomi vani. I soli cultori della più antica fra le arti belle non hanno ancora cercato nel mutuo soccorso e la forza di condurre una vita migliore ed un sollievo alle sofferenze prodotte dalle malattie. Alcuni cittadini, animati dalla idea di costituire su solide basi una società filarmonica, le imposero il glorioso nome di Galileo, la cui storia assegna un nome posto immortale, circonfuso di luce ed armonia; e di poi statuivano che la nuova scuola dell’arte, eminentemente civile, trovasse nel mutuo soccorso i più sicuri elementi di una rigogliosa esistenza. L’idea venne favorevolmente accolta e la filarmonica Galileo Galilei, che si è già fatta conoscere al pubblico coadiu-
vando i promotori di opere decorose e benefiche, confida che quanti sono cittadini a quali stia a cuore la gentilezza dei costumi ed il benessere delle classi operaie, vorranno favorire una istituzione educativa per eccellenza, iscrivendosi nell’albo dei soci. Coloro che sentiranno di dovere partecipare al governo dell’amministrazione sociale e fruire dei vantaggi del mutuo soccorso, pagheranno la tassa mensile di una lira; chi vorrà semplicemente cooperare all’incremento della Filarmonica pagherà cinquanta centesimi per ogni mese: per i patroni è riposta piena fiducia nella liberalità dell’animo loro. In questa nostra Pisa, dove è sì vivo l’amore per l’arte che imparadisa l’anima, è dato sperare che per il trionfo della nobile idea possa ripetersi, con l’immortal Galileo: Eppure si muove!
da La Nazione del 16 marzo 1891
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da La Nazione del 7 settembre 1920
È il terremoto: panico a Pisa morti e feriti nella provincia
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Il comunicato di Padre Alfani Firenze. L’illustre padre Guido Alfani direttore dell’Osservatorio Ximeniano ci comunica: Nel comunicato di ieri sera accennavo che probabilmente avremmo avuto delle lievi ripetizioni ed escludevo con questo qualunque pericolo, dando così una parola rassicurante. Durante tutta la notte, però, non è stata segnalata nessuna scossa di ripetizione, e questo ha subito delineato in me una seria preoccupazione, perché il fenomeno assumeva un andamento del tutto anormale. E il timore non solo era fondato ma ha avuto purtroppo una conferma quanto mai sollecita e grave. Alle 7,56, 10” una serie di ondulazioni che sono andate aumentando rapidamente in ampiezza con alternative di riposi e riprese ha scosso il nostro suolo producendo una impressione vivissima. Il carattere dei sismogrammi è identico a quello di ieri, resulta così l’epicentro ad una distanza di circa 79 – 80 chilometri da noi direzione Nord. Naturalmente l’ampiezza dei tracciati sono, direi, senza confronto più gravi di quelli di ieri…
re 9. Stamani alle 7,55 si è avvertita una forte scossa di terremoto in senso ondulatorio e sussultorio che gli apparecchi dell’osservatorio di Santa Caterina non hanno registrato stante la sua gravità. Qualche comignolo ed alcuni tegoli sono caduti, e i campanelli delle case hanno sonato a lungo. La popolazione che ha avvertito distintamente la scossa si è riversata impaurita nelle strade temendo una ripetizione del movimento tellurico. Purtroppo si hanno a deplorare due gravi disgrazie. Certa Marianna Brini fu Ferdinando di anni 62, abitante in via S. Marta numero 8, udendo rumore dalla strada si è affacciata alla finestra. In quel mentre è battuto il terremoto che ha fatto cadere diversi tegoli del tetto. Uno di questi è caduto sulla testa della poveretta colpendola con violenza: soccorsa dai familiari la Bini è stata subito condotta all’ospedale, ove riceveva le cure amorevoli del chirurgo di guardia. Ma le condizioni della povera vecchia sono assai gravi: infatti essa ha riportato una ferita alla regione interparietale lunga 15 centimetri con frattura del tessuto esterno: il giudizio prognostico è riservato. La giovinetta Bruna Tolomei di Giuseppe, d’anni 15, abitante in via provinciale Lucchese 25, impaurita dalla violenza delle scosse, non sapendo forse dove trovare una via di scampo, si è gettata dalla finestra per fortuna non molto alta. Anche lei è stata ricoverata all’ospedale ove i sanitari le riscontrarono la frattura del 3° e 4° metacarpo del piede destro, guarirà in una
trentina di giorni. Anche a Marina di Pisa la scossa è stata sentita dai bagnanti che, impressionatissimi sono usciti tutti dalle case.
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re 11,15. Qui a Pisa certo Gagliardi, della Cooperativa Ferroviari, si è gettato dalla finestra producendosi gravi lesioni interne. Egli ha compiuto quest’atto per timore che nuove scosse di terremoto si ripetessero. La scossa di terremoto avvertita alle 7,50 ha prodotto gravi lesioni all’Archivio di Stato, alla Chiesa di San Michele degli Scalzi, e alla casa situata in via del Giglio n. 18. È caduta la ciminiera della Fonderia Piccoli. Alle 10,10 un’altra scossa che è durata circa 4 secondi ha prodotto nuovo gravissimo panico fra la popolazione che si è riversata all’aperto. Si ha notizia da Calcinaia che è crollata una casa uccidendo certa Assunta Pichi di anni 57 e ferendo gravemente il figlio Guido, di anni 16, che è stato trasportato all’ospedale di Pontedera. Sono crollate in parte altre sei case. Si hanno a lamentare altri 6 feriti fra quali il più grave è certo Tambursi Adelindo. Per Calcinaia sono partiti in auto il medico provinciale dottor Calfati e l’ingegner Pisani del Genio Civile. A Molino di Quosa è crollata la volta di un mulino, ma sembra che non vi siano vittime.
Il terremoto fu di magnitudo 6,5, con epicentro a Fivizzano. Provocò 300 morti solo nel comune che all’epoca contava circa 18.000 abitanti.
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Quel 31 agosto del 1943
“La cieca furia nemica ha straziato la città di Pisa” Così titolava La Nazione dopo il primo bombardamento degli alleati Quattrocentottanta tonnellate di esplosivo e 952 morti in sette minuti di inferno
di Giuseppe Meucci
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Quando su Pisa si scatenò l’inferno il destino della guerra e del regime fascista apparivano ormai segnati. Nello scenario pisano gli orrori della guerra irruppero d’improvviso il 31 agosto del ’43. Proprio in quei giorni, un giovane comico di talento, Renato Rascel, stava lanciando dai microfoni della radio una famosa canzonetta «...è arrivata
la bufera....è arrivato il temporale...», di cui nessuno però riuscì a cogliere il significato premonitore. E a Cassibile, in Sicilia, un ufficiale italiano si stava apprestando a firmare la resa che sarebbe stata comunicata al paese solo una settimana dopo, l’8 settembre, quando già interi quartieri di Pisa e di altre città italiane erano ridotti in macerie. “Il 31 agosto 1943 missione a Pisa, con partenza alle 5,30 dalla base di Massicault, in Tunisia. Carichiamo bombe da demolizione e dopo cinque ore e mezzo di volo vedo la storica Torre Pendente da 20.000 piedi».
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uando il secondo tenente navigatore James Franklin Boston, del 32° gruppo dell’aviazione statunitense, fece questa osservazione, poi
riportata sul diario di bordo, la sua missione stava per compiersi. Erano le tredici in punto e l’avvistamento della Torre fu il segnale. Tutto successe in sette minuti. Il “Bomber group” che quel giorno operò su Pisa era formato da trentotto B-17 che volavano divisi in tre gruppi sfalsati in altezza, da 6.000 a 10.000 metri in quota. Giunti sulla verticale di Pisa alcuni aerei sganciarono il carico di bombe da circa 8.000 metri, altri da circa 6.000. In tutto 480 tonnellate di esplosivo che trasformarono i quartieri a sud della città e la zona industriale di Porta a Mare, compreso la Stazione Centrale e il nodo ferroviario in un cumulo di macerie. Sotto, colti di sorpresa dal bombardamento, persero la vita un migliaio di pisani che non avevano fatto in tempo a uscire
di casa per ripararsi nei rifugi.
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essuno credeva che gli americani sarebbero arrivati a bombardare la città della Torre Pendente. Il bombardamento di Roma del 19 luglio non aveva insegnato nulla. E in Italia nessuno conosceva una frase di Eisenhower pronunciata alla vigilia della campagna d’Italia, poi divenuta celebre: “Stiamo per invadere un paese ricco di storia, d’arte e di cultura”, disse il futuro presidente degli Stati Uniti. “Ma se la distruzione di un bellissimo monumento può significare la salvezza di un solo soldato americano, ebbene si distrugga quel monumento”. La “dottrina” di “Ike” Eisenhower i pisani l’avrebbero sperimentata sulla loro pelle a partire da quel tragico 31 agosto del ’43 e fino all’estate successiva, quando furono cannoneggiati anche i Lungarni e il Camposanto Vecchio.
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l 31 agosto di un’estate ormai matura e prossima al declino per Pisa fu la prima volta.
Così fu ridotta la Chiesa di San Vito dopo il bombardamento del 31 agosto 1943. La foto fu scattata l’indomani dai lungarni quando i pisani cominciarono l’opera di soccorso e di ricostruzione.
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Nella foto grande: case e palazzi distrutti nel Lungarno Pacinotti. Il bombardamento durò sette minuti e l’allarme - come tante altre volte- era suonato quaranta minuti prima. Pochi, però, avevano creduto che la città della Torre sarebbe stata realmente attaccata.
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u una vera tempesta di fuoco che colse la maggior parte dei pisani tranquillamente seduti in casa per il pranzo e durò sette minuti esatti. L’allarme era suonato una quarantina di minuti prima, come del resto molte altre volte nei giorni precedenti, ma a vuoto. Così anche quel giorno nessuno si curò del lugubre suono delle sirene che avvertiva degli aerei americani in volo di avvicinamento e i rifugi predisposti non furono utilizzati. Fu un vero massacro.
Sapremo dopo, da ricerche storiche compiute su documenti militari americani, che quel bombardamento era stato accuratamente preparato da mesi. Le prime ricognizione aeree sul territorio pisano risalgono al 25 marzo 1943 e riportano descrizioni esatte delle strade, delle infrastrutture, degli obiettivi strategici da colpire come l’aeroporto di San Giusto e la Stazione.
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indomani, in prima pagina, La Nazione titolò: «La cieca furia nemica ha straziato la città di Pisa». Si parlò di migliaia di morti e ancora oggi la memoria collettiva assegna a quel tragico evento un numero imprecisato, ma comunque imponente di vittime, quasi fosse stato impossibile da tante che erano farne un bilancio. Da pubblicazioni ufficiali del Comune di Pisa, retto in quei giorni difficili dal commissario prefettizio Carlo Zanetto Lami,
e da altre dell’Archivio Centrale di Statistica, si ricava però una cifra esatta, che stabilisce in 952 il numero dei pisani uccisi durante quei sette minuti d’inferno. Una cifra comunque elevatissima che con il passare dei giorni e l’intensificarsi dei bombardamenti crebbe ulteriormente, anche se non di molto, perchè dopo il 31 agosto i pisani abbandonarono in massa la città sfollando nelle campagne circostanti.
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ominciò così l’estenuante attesa, durata ben dodici lunghissimi mesi, della liberazione di Pisa avvenuta il mattino del 2 settembre ’44, quando una pattuglia della V Armata del generale Clark arrivò fin sui Lungarni facendosi largo fra cumuli di macerie.
Nei tondi: in alto le macerie di Porta a Mare e, in basso, il Ponte della Fortezza completamente distrutto. I morti sotto le bombe furono 952. Dopo quel giorno molti pisani abbandonarono la città sfollando nelle campagne.
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A poche ore dall’attentato a Togliatti
Il linciaggio del 14 luglio ‘48 L’uccisione di Vittorio Ferri, una pagina buia della storia pisana del dopoguerra e mai chiarita fino in fondo. Chi uccise il giovane pisano che fuggiva inseguito da un gruppo di scalmanati in quel “dies irae” che fu il 14 luglio del’48? di Giuseppe Meucci
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e quattro revolverate sparate al giovane pisano nel mezzo di una piazza dei Cavalieri in tumulto, stracolma di gente sovraeccitata, segnano ancora oggi i contorni incerti di una verità negata. Poche ore prima, a Roma, avevano sparato a Togliatti e mai come in quel giorno l’Italia fu sull’orlo della rivoluzione. Anche a Pisa si riempirono strade e piazze. Alcuni pensarono di regolare vecchi conti, altri che fosse giunto il momento tanto atteso per il ribaltone sociale e politico. Assaltarono la sede dell’Unione Industriale e quella attigua dell’Unione Agricoltori in Borgo Largo, mentre a Volterra ci fu chi stava per proclamare una “repubblica proletaria” innalzando in piazza dei Priori la bandiera rossa. Assediarono la caserma dei Carabinieri, devastarono la sede della Dc. Poi fu Togliatti, dall’ospedale dove si trovava dopo la revolverata sparatagli da Antonio Pallante, a dire “non fate sciocchezze”. Ma per molti non fu facile fare subito dietrofront.
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ittorio Ferri stava dall’altra parte, iscritto al Msi, nella campagna elettorale che il 18 aprile del ’48 portò alla vittoria della “diga” anticomunista, non era stato a guardare. Durante un comizio di Giorgio Almirante c’erano stati degli scontri e si dice che qualcuno gliel’avesse giurata. Anche perché indossava un fazzoletto nero.
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el primo pomeriggio del 14 luglio, mentre le piazze d’Italia si riempiono di bandiere con la falce e martello e molti nelle campagne dissotterrano le armi sepolte tre anni prima, troviamo Vittorio Ferri in via Risorgimento, appena uscito dalla sua casa di via Bonanno insieme a un amico. Deve ancora compiere i vent’anni. È ragioniere e iscritto all’università, figlio
unico di un commerciante molto noto in città. Appena in strada incontra altri ragazzi come lui, studenti o operai in qualche fabbrica pisana che però al collo hanno il fazzoletto rosso. Lo riconoscono e volano pugni, insulti, minacce.
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erri scappa dirigendosi verso Borgo Largo, perché è lì che ci sono il negozio del padre e la sede della questura. Due approdi sicuri, in quel frangente. Ma teme di non farcela e dopo aver percorso correndo via l’Arancio arriva in piazza Dante, dove trova un carrozza pubblica. «Vetturino, via di corsa in questura». E sale a cassetta, quasi volesse spronare il cavallo a far presto, con gli inseguitori sempre dietro decisi a prenderlo. Cerca scampo il giovane Ferri, ma dopo poche decine di metri gli si spalanca di fronte l’inferno. In piazza dei Cavalieri, dove la carrozza sbuca dopo aver percorso al galoppo via San Frediano, c’è un comizio con centinaia di persone coi nervi a fior di pelle. Nessuno sa davvero se è partito il segnale dell’insurrezione o se bisogna attendere. Quando d’improvviso nella piazza in subbuglio irrompe la carrozza è come far scoccare una scintilla in un deposito di gas. La vettura viene fermata e alcuni tentano di far scendere il giovane. Lui ha paura di essere sopraffatto, estrae una pistola e comincia a sparare. Un intero caricatore da sette colpi. I primi due in aria, gli altri ad altezza d’uomo. Uno ferirà al volto un bracciante, Ferdinando Cazzuola. Ma Vittorio Ferri non è il solo ad essere armato.
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ltri sparano e sono più precisi di lui. Gli inseguitori? Qualcuno che era già nella piazza? Non lo sapremo mai. Nella memoria della città si consoliderà poi un ricordo impreciso, distorto di quel tragico
pomeriggio. Con il Ferri ucciso a pugni e calci invece che dalle quattro revolverate che vengono inspiegabilmente dimenticate. Tutti quelli presenti nella piazza ricordano o dicono di ricordare solo quelle esplose dal Ferri. Le cose invece vanno diversamente e almeno uno dei quattro colpi, quello che lo raggiunge a un polmone, è mortale. Gli altri sono al fegato e alle braccia. Sembra una scena del Mucchio Selvaggio di Sam Peckinpack e quando tutto finisce Vittorio Ferri è disteso al suolo coperto di sangue all’inizio di via Consoli del Mare. D’intorno c’è una folla che non ha pietà, perché la folla inferocita non ha mai pietà.
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osì comincia la parte più atroce di questa storia pisana. Il linciaggio di un uomo ormai agonizzante. Sputi, calci e anche di peggio, come poi qualcuno dirà alimentando una versione distorta dell’episodio. Come la pompa di bicicletta introdotta nell’intestino del Ferri morente per aumentarne le sofferenze. Particolare terribile ma falso, escluso dall’autopsia. Ma ancora oggi chi ricorda l’uccisione del Ferri parla di quell’estremo oltraggio. Nessuno invece saprà mai chi ha sparato le quattro revolverate. Nelle mani della polizia alla fine rimangono due uomini. Li hanno visti accanirsi
sul corpo del giovane in mezzo alla strada, quando era già in agonia per i colpi di pistola. «Attorno al corpo del Ferri – scrive la storica Carla Forti nel suo bel libro “Dopoguerra in provincia” (Franco Angeli editore) – si trovano fianco a fianco agenti, carabinieri e comuni cittadini in una sorta di cordone umano che ondeggia e si spezza, premuto alle spalle dalla folla». Il processo non fornirà molte certezze e chi ha sparato al Ferri non sarà mai trovato e nessuno dirà mai delle revolverate che lo colpirono. Accusati di concorso in omicidio per avere infierito su un corpo ormai agonizzante furono l’operaio Nello Bensi, che però morì prima del processo e Ivo Senesi, un ex partigiano della “Nevilio Casarosa” iscritto al Pci. Agenti di polizia e carabinieri lo avevano visto sferrare un calcio alla testa al Ferri rantolante. Nel ’52 la Corte d’Assise lo condannerà a nove anni e quattro mesi di reclusione mentre sul nome di chi uccise davvero scendeva il silenzio.
Nel tondo in alto: le manifestazioni del 14 luglio alla notizia che un uomo aveva sparato al leader del Partito Comunista Palmiro Togliatti. Nel tondo in basso: Antonio Pallante l’attentatore di Togliatti poco dopo l’arresto.
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Nasceva La Nazione in via Cavour e sorgeva di nuovo il Ponte di Mezzo Era la primavera del 1947, e Pisa tornava a vivere dopo la guerra e i bombardamenti
di Giuseppe Meucci
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asceva un’altra Italia quando a Pisa, martoriata dalla guerra e ancora ingombra di cumuli di macerie, “La Nazione” riprese a pubblicare una pagina di cronaca cittadina. Era la primavera del 1947. Da pochi mesi i pisani erano tornati a votare dopo la lunga parentesi del ventennio per eleggere un sindaco e una giunta poi guidata da Italo Bargagna, un combattente partigiano presentato nelle liste del Pci. Gli argomenti all’ordine del giorno e più dibattuti erano il piano di ricostruzione della città, il caro-pane, la “borsa nera”, le bande di disertori che imperversavano ancora a Tombolo, prima che una grande operazione di polizia coordinata dalla Military Police eliminasse quell’ultima traccia del passaggio del fronte.
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i discuteva anche su come ripristinare i collegamenti fra le due parti di Pisa, affidati a passerelle provvisorie, dopo che i tedeschi in ritirata avevano fatto saltare tutti i ponti sull’Arno. E se il nuovo Ponte di Mezzo doveva essere a tre arcate, come quello distrutto, o a una sola arcata, come poi fu deciso proprio in quella primavera del ‘47. Ma ci vollero ancora tre anni per vederlo finito, così quando in città, anche sulla spinta degli appelli che comparivano sulla pagina di cronaca, fu deciso di riprendere il Gioco del Ponte, l’antica disfida fra Mezzogiorno e Tramontana si svolse all’Arena Garibaldi. A rileggere ora quei fogli ingialliti dove la città riscopriva la voglia di discutere, di confrontarsi, di decidere, rivivere una storia minore ma non per questo meno significativa, legata ai luoghi, ai gesti quotidiani, alle consuetudini di una comunità che respirava un’aria nuova. Quando le pagine de “La Nazione” tornarono ad ospitare un notiziario di cronaca quotidiana non c’era una vera e propria redazione, ma solo un ufficio di corrispondenza, affidato a Renzo
Passaponti, che provvedeva alla raccolta delle notizie e al loro invio a Firenze con il fuorisacco e, nei casi più urgenti, con il telefono. La sede era in una stanzetta di via Cavour, condivisa con i corrispondenti di altri giornali dove un solo apparecchio telefonico serviva per tutti. Poi un po’ più di spazio, ma sempre in coabitazione con altri giornali, fu trovato in piazza del Castelletto. La cronaca era scarna, fatta di poche notizie essenziali, ma pur sempre specchio fedele di Pisa e dei suoi problemi.
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l passaggio dal piccolo ufficio di corrispondenza a una vera e propria redazione avvenne nel 1957, quando “La Nazione” si trasferì in largo Ciro Menotti, dove si trova tuttora. A fondare la nuova cronaca di Pisa fu chiamato Elvio Bertuccelli, un giornalista professionista che aveva lavorato al “Nuovo Corriere” come inviato speciale. Da allora le pagine di cronaca si spalancarono alla città divenendone lo specchio fedele. Lo spazio fu più che raddoppiato. Comparvero le prime foto d’attualità di Luciano Frassi e si susseguirono servizi di approfondimento e inchieste.
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articolare attenzione fu dedicata allo sviluppo della città, all’ambiente, alla politica, alla scuola, ai giovani, al litorale, ai centri minori della provincia e ai grandi fatti di cronaca nera. Con un occhio di riguardo al mondo dello sport, seguendo passo dopo passo la rinascita del Pisa Sporting Club e le altre discipline che fino ad allora non avevano mai avuto una vetrina da cui mostrarsi: l’atletica leggera, il basket, il canottaggio, la pallavolo, l’hockey, il pugilato, l’ippica. A partire da quegli anni i pisani ebbero per la prima volta un vero giornale che ogni mattina raccontava loro la città, sollevando problemi e stimolando un dibattito non più solo riservato alle stanze del potere. Una voce viva e forte, che incontrava sempre più il favore dei lettori. Quella stessa di oggi, mai affievolita.
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olte le firme che hanno contribuito a darle forza in questi anni e alcune vale la pena citarle. Da quelle di Paolo e Vittorio Taviani in anni lontani, per proseguire con Bruno Brunori, Ettore Mencacci, poi corrispondente dell’Ansa a Parigi
e in Egitto, Giuliano Giangrande e Franco Pulidori, entrambi avvocati di successo, Franco Petruzzelli, latinista formatosi alla Normale e gran commentatore del calcio pisano dei tempi d’oro. Ed ancora lo storico Gino Benvenuti e giornalisti come Francesco Dragoni e Renzo Castelli.
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ell’ultimo mezzo secolo alla guida della redazione di Pisa si sono avvicendati Ernesto Bani, un giovane medico che poi lasciò il giornale optando con successo per la professione di pediatra e successivamente, per lunghi periodi fino alle soglie del terzo millennio, prima Giovanni Nardi e poi Giuseppe Meucci. Più recentemente sono stati alla guida della redazione, Luciano Salvatore, Fausto Cruschelli e Aldo Gaggini.
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ttualmente il compito di caposervizio della redazione di Pisa è affidato a Valeria Caldelli che guida un’équipe formata dal vicecaposervizio Guglielmo Vezzosi e da Federico Cortesi, Paola Zerboni, Marzio Pelù, Davide Bruschi, Francesca Bianchi.
La ricostruzione del Ponte di Mezzo rappresentò per l’opinione pubblica pisana il simbolo della ricostruzione cittadina e fu al centro di numerose discussioni che portarono alla necessità di indire un referendum popolare per la scelta del progetto nel 1946.
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Il 6 gennaio del 1990
La Carrà urlava:“Sindaco chiudi la Torre” (e tutto divenne uno show televisivo) Per la prima volta si era temuto davvero per la sicurezza del “colosso dai piedi d’argilla” “Il restauro del secolo” è durato 12 anni fra mille polemiche e difficoltà
Un operaio mette il “busto” alla Torre durante i lavori di consolidamento. A far prendere la decisione della chiusura della Torre fu il clamore suscitato dal crollo della Torre di Pavia avvenuto nella primavera del 1989.
di Valeria Caldelli
Nella foto a destra: I 45 “cavatappi” che estraevano terra sotto la Torre. Prima dell’intervento definitivo al capezzale della “Torre che pende” si erano succedute nei secoli sedici commissioni di esperti.
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Gli ultimi anni del secolo appena trascorso hanno avuto ancora una volta come protagonista la Torre pendente. La cella campanaria più famosa del mondo era solita salire alla ribalta delle cronache per i numerosi allarmi che derivavano dalla sua poca stabilità. Cinque metri e 21 centimetri di pendenza (calcolata dal centro dell’ottava cornice rispetto al centro delle fondazioni) ne facevano un’ammalata molto grave, da seguire giornalmente, anzi, minuto per minuto. Nonostante i numerosi progressi scientifici e tecnici, però, alla fine del XX secolo, i problemi della Torre erano ancora tutti da scoprire. E da risolvere.
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ino a quel momento erano state sedici le commissioni che si erano succedute nel corso dei secoli, di cui sette dal 1949 in poi. Complessivamente al capezzale del campanile si erano già alternati 147 dottori, tutti insigni studiosi ed esperti nei diversi campi professionali: strutturalisti, geotecnici, geologi architetti, storici dell’arte, esperti di topografia e di restauro. Ma nessuno aveva ancora trovato un rimedio valido, tanto che la Torre continuava a scendere alla velocità di un millimetro all’anno e, qualche volta, anche un po’ di più. Tutti sapevano che sarebbe caduta, anche se nessuno poteva dire con esattezza per quanto tempo avrebbe resistito. Quel colosso di 14.453 tonnellate aveva i pie-
di di argilla ed era fragile come un vaso di vetro: avrebbe potuto frantumarsi da un momento all’altro. Così, quando , nella primavera del 1989, la torre di Pavia finì in briciole nella piazza sottostante, uccidendo quattro persone, il mondo intero tornò ad interrogarsi sulla sorte del monumento pisano, che qualche mese dopo, come misura precauzionale, venne chiuso al pubblico. Fu il Consiglio superiore dei lavori pubblici a decretare la chiusura della Torre, che fino a quel momento aveva accolto all’incirca un milione di visitatori l’anno. Successe in una rigida giornata d’inverno, il 6 gennaio 1990, Epifania.
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evento fu trasformato in spettacolo e la chiusura del portoncino verde con quella sua chiave enorme avvenne davanti alle telecamere dello show di Raffaella Carrà. “Sindaco, chiudi la Torre”, ordinò la conduttrice che ospitava in studio l’allora ministro ai lavori pubblici Giovanni Prandini. E il sindaco Giacomino Granchi, che pure aveva cercato in tutti i modi di evitare che il provvedimento venisse preso, suo malgrado obbedì. Trascorsero alcuni mesi prima della nomina della XVII commissione, presieduta dal professor Michele Jamiolkowski, al cui interno si sono succeduti molti importanti
nomi e professionalità internazionali. L’avventura che avrebbe portato ad un parziale raddrizzamento del campanile pisano e alla sua conseguente stabilizzazione sarebbe durata 12 anni. È stata forse la fase più critica della sua storia secolare, e La Nazione ne è stata fin dal primo momento un testimone attento.
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lavori veri e propri iniziarono nel 1992, due in particolare, per mettere momentaneamente in sicurezza il monumento nei punti che destavano maggiore preoccupazione. Si tratta di quelli che nelle nostre cronache sono stati definiti come il “busto” e la “stampella”.
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Nell’immagine a destra e nel tondo: si lavora per la sistemazione e il montaggio della “stampella”. In pratica un castello di lingotti di piombo chiamato a sostenere la struttura.
Il primo consisteva in 18 cavi di acciaio che abbracciarono la Torre all’altezza del primo loggiato, dove la pendenza ha provocato un grande sforzo nella muratura, rendendola estremamente fragile e a rischio di cedimento. La “stampella” altro non era che il contrappeso di lingotti di piombo messi uno sopra l’altro dalla parte contropendenza, in modo da bilanciare il peso e impedire, o limitare, ulteriori cedimenti.
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i cominciò poi a cercare la soluzione definitiva e nella prima fase, tra le varie ipotesi, si pensò anche di isolare idraulicamente la piazza del
Duomo. Gli studi effettuati dalla commissione mostrarono infatti che la “malattia” del campanile veniva dalle fondamenta, troppo piccole per sostenere un colosso di quelle dimensioni, e nello stesso tempo situate su un terreno argilloso di diversa densità, quest’ ultima determinata sia dalle piogge che dalle falde acquifere profonde. Il progetto fu però velocemente abbandonato per lasciare il posto all’idea di ancorare la Torre a 45 metri di profondità con dieci pesi di acciaio cementati nel punto dove il sottosuolo diventa più stabile.
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a i lavori per la loro installazione, appena all’inizio, provocarono un tale allarme da far cambiare subito idea al comitato. È
quello che le nostre cronache chiamarono il “Settembre nero”, termine che poi ha fatto il giro del mondo, così come lo spavento della notte tra l’8 e il 9 settembre, quando, a distanza di appena tre giorni dall’inizio del congelamento del terreno sotto il monumento, la Torre, cedette in una notte 1,1 mm, vale a dire l’inclinazione che di solito accumulava in un anno. Paura, polemiche e immediata sospensione dell’intervento. Più tardi nuovi studi portarono all’applicazione del metodo della sottoescavazione, i famosi “cavatappi” che i pisani hanno visto a lungo allineati nella piazza, dai quali veniva estratta terra dal sottosuolo, ovviamente dalla parte sovrapendenza.
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estrazione fu graduale, fino ad arrivare ad una diminuzione dello strapiombo di circa 50 centimetri, riportando il campanile alla pendenza di 200 anni prima e restituendogli la necessaria stabilità. Oggi la Torre continua a mantenere intatto il suo aspetto e il suo fascino di “eterna ammalata”, ma non rischia più di cadere. Grazie a quello che viene giustamente definito “il restauro del secolo”, una sfida con la storia e con le leggi fisiche è stata incredibilmente vinta.
In alto a destra: Il professor Michele Jamiolkowski al termine dei lavori di consolidamento della Torre.
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L’alluvione del ‘66
Una domenica, poco dopo l’alba finisce in Arno il Ponte Solferino
Alle 7,30 del 13 novembre crolla il ponte Solferino, che già nei giorni precedenti aveva manifestato alcuni cedimenti.
di Giuseppe Meucci
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utto cominciò il 31 ottobre 1966, quando un anomalo anticlone delle Azzorre si spostò verso la Groenlandia richiamando sull’Italia centrale un’aria prima fredda, poi calda e umida dalle coste africane. Piovve come non s’era mai visto. E per quattro giorni la Toscana fu come il paese di Macondo, “dove i pesci – racconta Gabriel Garcia Marquez – sembrava nuotassero nell’aria”. A Pisa, nel pomeriggio del 4 novembre, l’Arno metteva paura. Trascinava alberi, carcasse di animali, anche un enorme barcone strappato agli ormeggi chissà dove che si infranse sulle spallette del Ponte di Mezzo frantumando la balaustra.
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e notizie di quello che era accaduto il mattino a Firenze arrivavano frammentate e incerte. Ma si capiva che stavolta non era la solita piena. La tragedia incombeva anche in città. In più si era alzato il libeccio che frenava l’uscita in mare di quell’enorme massa d’acqua fangosa che correva veloce fino all’orlo delle spallette, rialzate in fretta e furia dal Genio Civile con le paratie metalliche. Poi nemmeno quelle bastarono e l’Arno cominciò a
uscire in città. Invase corso Italia, Borgo Stretto, quasi tutti i quartieri del centro storico. Come nel ’44 e nel ’49, solo per ricordare gli eventi più vicini nel tempo.
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isa si apprestava a trascorrere una notte da incubo quando d’improvviso il livello del fiume cominciò a calare visibilmente, lasciandosi dietro fango e detriti. Il peggio sembrava passato, tutto sommato con pochi danni. Qualcuno disse che per la prima volta nella storia Firenze si era sacrificata per Pisa. Non fu così. Quel giorno a salvare Pisa – ma come vedremo i guai arrivarono dopo – non fu Firenze, devastata e messa in ginocchio dodici ore prima, ma caso mai Pontedera, invasa nel pomeriggio dalle acque dell’Era che dilagarono nel centro e sommersero la Piaggio invece di riversarsi in Arno. E a pagare un prezzo altissimo per la salvezza di Pisa furono anche Santa Croce e l’intera zona del cuoio. Alle otto di sera un gran lampo accompagnato da un boato ruppe il buio nella zona di Ponticelli, in aperta campagna, poco a valle di Santa Croce. Squarciato dall’esplosione, l’argine dell’Arno si aprì come una torta di pan di Spagna e in pochi minuti un torrente fangoso invase ettari e
ettari di campagna che funzionarono da cassa di espansione. Solo che l’acqua, invece di defluire nel padule di Bientina, come forse era stato previsto, tornò indietro verso Santa Croce invadendo la zona industriale del cuoio e delle pelli. Così Pisa fu salva. Almeno quel giorno.
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ullo scampato pericolo i pisani si sarebbero ricreduti di lì a pochi giorni, il 13 novembre, una domenica mattina. Pochi minuti dopo le sette, con un tonfo sordo che fece sobbalzare mezza città, crollò in acqua il ponte Solferino, minato dalla enorme e prolungata pressione delle acque di piena. Era il più bello, ma anche il più gracile, ricostruito in fretta e furia nel primo dopoguerra dagli americani dopo che lo avevano fatto saltare i tedeschi in ritirata. Poi era stato appesantito oltre misura con il ricco rivestimento che lo rendeva inconfondibile. Aveva i piedi d’argilla e la prolungata pressione della piena gli fu fatale. Come il Lungarno Pacinotti, che fino a non molti anni prima si chiamava Lungarno Regio, perché è quello dove si affaccia il palazzo Reale che fu dei Lorena e poi dei Savoia. Verso la fine di gennaio del ’67 i tecnici comunali notarono sull’asfalto del Lungarno alcune piccole crepe longitudinali. Le
ricoprirono con un po’ di bitume e aspettarono. Poche ore dopo c’erano di nuovo. Altro bitume e altra attesa. Ma bastavano poche ore che le crepe si riaprivano e fu presto chiaro che il Lungarno stava velocemente scivolando in Arno.
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a notte fra il 5 e il 6 febbraio il manto stradale sprofondò di oltre un metro e il 7 febbraio il muro di sponda crollò all’improvviso e nella parete di mattoni si aprì una caverna dalla quale cominciarono a uscire pietre e calcinacci che finirono nel fiume. Per rimediare ai danni c’è voluto del tempo, soprattutto per la ricostruzione del ponte, conclusa nel 1974, dopo la inevitabile polemica sul come rifarlo, se com’era e dov’era oppure di nuova forma. Mentre il Lungarno Pacinotti è stato ricostruito così com’era prima del 4 novembre ‘66, il ponte Solferino è stato invece rifatto diverso, più largo per far posto alle auto. Così è stata ricomposta solo in parte l’immagine di uno degli ambienti urbani più suggestivi del mondo. Verso il mare, a chiudere la prospettiva dei Lungarni, non c’è più il bel ponte di una volta e ai tramonti pisani manca qualcosa. È il prezzo pagato all’Arno e alle sue furie improvvise.
Nel tondo: cedimenti sul lungarno Pacinotti. La pressione di migliaia di tonnellate d’acqua durante i giorni della piena aveva minato le sue fondamenta.
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da La Nazione del 20 febbraio 1970
“La notte a scuola fanno le orge” denuncia il preside del liceo classico
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iunioni orgiastiche al liceo classico Galileo Galilei di via Curtatone e Montanara. Per molte notti nei corridoi, nelle aule e nella palestra dell’istituto ragazzi e ragazze hanno dato vita ad una “dolce vita” a base di balletti, festini e cene, al suono di chitarre e di canzoni. Hanno anche compiuto numerosi furti, arrecando danno alla scuola di oltre 300mila lire. Dal Galilei sono stati portati via una dozzina di antichi volumi dalla biblioteca, i registri di molte classi, un cronometro dalla palestra ginnica, un teschio appartenente ad uno scheletro dell’istituto di scienze del quale gli alunni si servono per le loro lezioni ed esercitazioni.
Nelle foto: il titolo in prima pagina col quale La Nazione da la notizia di una incredibile situazione. Di notte prostitute, ladri ed ogni genere di malfattori prendevano possesso delle aule del prestigioso liceo Galileo Galilei.
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utto è stato denunciato in questura. La polizia sta conducendo le indagini per far piena luce sull’incredibile episodio, che d’ora in poi sarà sulla bocca di tutti, nei commenti della gente e non solo dei genitori che al Galilei mandano i loro figli.
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e riunioni orgiastiche si sarebbero svolte nell’Istituto di via Curtatone e Kontanara anche nelle ultime sere. Numerosi giovani accompagnati da alcune ragazze sarebbero penetrati all’interno della scuola eretta a tempio “hippie” e per tutta la notte sarebbero rimasti padroni del campo… I resti dei banchetti e dei festini ritrovati la mattina dopo hanno insospettito i professori; e questi hanno avvertito il preside Porcelli che ha cominciato subito una indagine.
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arebbe accertato che al liceo classico nelle ore notturne non sarebbero intervenuti studenti e studentesse dell’istituto. I partecipanti alla riunioni sarebbero venuti da
fuori, avrebbero aperto con facilità le finestre al piano terra e della scuola si sarebbero serviti come loro covo. Ma nessuno può escludere al cento per cento che nessun liceale abbia partecipato alle orge.
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l preside dell’istituto, che vanta anche tradizioni, è partito all’attacco e non vuol tacere nulla di quello che è venuto a sapere. Il professor Pecorelli ha scritto una lunga lettera al prefetto, al sindaco ed al provveditore agli studi. Ha scritto così: “Ladri, barboni, baldracche, invertiti, coppiette e forse anche prostitute hanno fatto del liceo un baraccone per i loro comodi. L’istituto è alla mercè di ogni furfante della peggiore risma che può penetrare all’interno della scuola a suo comodo e senza eccessivi sforzi.”
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n redazione ci è giunta una lettera di un gruppo di studenti del Galilei. Si lamentavano della mancanza d’acqua ai piani superiori della scuola. “Non si possono fare gli esperi-
menti di fisica e di chimica, in quanto i due gabinetti scientifici sono tutti proprio ai piani superiori.” Nelle finestre degli studenti era scritto anche questo: “Dalle finestre dell’ultimo piano entra la pioggia e da quelle del piano terra entra… chi vuole: lo dimostra il fatto che più volte sono entrati nottetempo
alcuni ignoti (ma certo molto pratici del locale) per asportare libri, registri, ed ultimo anche il cranio dello scheletro, una delle poche cose che possediamo”. Giovanni Nardi
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Così nacque il “movimento” I fatti della Bussola e il ruolo che gli studenti pisani svolsero nei giorni della contestazione Quando D’Alema aveva i pantaloni corti
di Giuseppe Meucci
Q Siamo nei rpimi mesi della contestazione studentesca. Un gruppo di giovani sfila sul lungarno con manifesti contro i “baroni” e la mafia nel mondo universitario.
uando l’onda lunga della contestazione studentesca partita da Berkely in California arrivò in Europa dando il via al “maggio francese” del ‘68, a Pisa qualche fermento c’era già stato. Tutto o quasi era cominciato un anno prima, quando fu occupata l’università e furono scritte le famose “Tesi della Sapienza” che dettero poi vita a “Potere Operaio”. È quella la data d’inizio di una lunga stagione fatta di sogni e di speranze, che trasformò Pisa in un laboratorio politico d’avanguardia ma più tardi anche in una città tumultuosa e febbrile, percorsa da spinte di ribellione spesso finite in tragedia.
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arte anche da Pisa, in quegli anni, l’avventura del movimento che nei due decenni successivi sarebbe passato da un ideale quasi romantico (qualcuno lo definì, forse esagerando, l’ultimo sussulto del Risorgimento) alla lotta armata contro lo Stato, al terrorismo. Quella volta, nel gennaio del ’67, la polizia intervenne per reprimere una manifestazione di protesta e fece sgomberare con la forza l’austero palazzo della Sapienza occupato dagli studenti. La protesta dilagò poi in piazza interrompendo anche la Conferenza dei Rettori che si svolgeva nella Scuola Normale, con nuovo intervento degli uomini in divisa. Un intervento della polizia per una manifestazione universitaria non si era mai visto. Neppure un secolo prima, quando in una casa del centro morì dopo una breve agonia un signore magro e canuto che si faceva chiamare George Brown e aveva in tasca un passaporto inglese. Passeggiava lentamente sui Lungarni, sempre perso dietro il fumo del mezzo toscano che non abbandonava mai. Era Giuseppe Mazzini, ricercato per pesanti condanne mai revocate dalle polizie di mezza Europa. Quando si diffuse la notizia della sua morte sotto falso nome, nelle aule universitarie furono azzittiti i professori, s’improvvisarono comizi repubblicani e prese for-
ma un grande corteo che bloccò la città per rendere omaggio al vecchio rivoluzionario. E la polizia lasciò fare. Anche se l’Italia postunitaria e savoiarda continuava a tenerlo al bando, Mazzini era già un mito e un ideale.
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el ’67 a Pisa, a suggerire comuni obbiettivi di lotta fra studenti e operai e inaugurare la stagione che poi si è contraddistinta come quella della “immaginazione al potere”, circolavano personaggi come Adriano Sofri, Umberto Carpi, poi senatore e sottosegretario, Fabio Mussi, poi ministro dell’università, Massimo D’Alema, allora quasi in calzoni corti e appena entrato nella scuola Normale, che poi avrebbe lasciato di lì a qualche anno senza prendere la laurea. Le occupazioni delle facoltà erano all’ordine del giorno, come i sit-in, i blocchi stradali, i cortei colorati di bandiere rosse. Spesso la polizia interveniva anche pesantemente per garantire un minimo di vivibilità a una città che si sentiva sempre più estranea a quelle spericolate fughe in avanti e ne pagava il prezzo. A volte Pisa sembrava in stato d’assedio. E si contarono anche dei morti: Cesare Pardini, Franco Serantini. Due ragazzi, curiosamente uccisi più o meno nello stesso luogo a tre anni di distanza. Pardini nel ’69, Franco Serantini nel ’72. Tutti e due sul Lungarno Gambacorti, di fronte al palazzo municipale. Il primo ammazzato da un candelotto lacrimogeno sparato da un agente nel corso di disordini provocati da manifestazioni di piazza. Il secondo in circostanze uguali. Anche se a ucciderlo non fu un candelotto, ma una brutale carica di polizia. Era anarchico e figlio di nessuno. A Pisa era capitato per caso, perché in città c’era un istituto che ospitava quelli come lui, senza storia e senza famiglia. Dopo il Sessantotto quel movimento nato nelle aule universitarie e dilagato per le strade, colse di sorpresa un po’ tutti. Anche
lo stesso Pci pisano che non sapeva come comportarsi, temendo che il continuo ribollire delle piazze potesse minare la solidità del vecchio centralismo democratico. Così, con un colpo di spugna, fu cancellata da un giorno all’altro l’intera cellula universitaria pisana, accusata di essere in bilico fra la linea del partito e uno spontaneismo inaccettabile nel Pci di Togliatti e di Longo, ma non ancora di Berlinguer. D’Alema e Mussi tornarono indietro in tempo. Altri furono sospinti verso una contestazione che si faceva sempre più dura e cominciava ad individuare obbiettivi precisi.
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ià il trauma della notte di fine d’anno alla Bussola, con il ferimento di Soriano Ceccanti aveva lasciato il segno, facendo da spartiacque fra due modi di intendere e di vivere la protesta. Dopo accadde di tutto e di più e Pisa, già protagonista con il delitto Calabresi all’inizio degli “anni di piombo” sembrò uscire dal cono di luce diretto proiettato
da eventi tragici e non fu più teatro di eventi eversivi. Però si seppe che i caratteri della macchina da scrivere elettronica Ibm con la quale le Br scrissero i volantini durante il sequestro Moro erano stati rubati a Pisa, in un ufficio dell’università. E a Pisa si rifugiò a lungo, abitando nella Casa dello Studente in Lungarno Pacinotti, il brigatista Mario Moretti. Così come pisano era il brigatista che nel 1982 fu arrestato il giorno della liberazione del generale Dozier, mentre teneva un’arma puntata alla tempia dell’ufficiale americano sequestrato dalle Br.
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n lungo fil rouge sembra dunque legare quegli eventi lontani, ormai consegnati alla storia, e la rinascita delle nuove Brigate Rosse, quelle di Nadia Desdemona Lioce e di Cinzia Banelli e del loro gruppo di fuoco che uccise Marco Biagi. Sarà soltanto un caso se la Lioce ha studiato a Pisa e la Banelli lavorava come tecnico di radiologia nell’ospedale di Santa Chiara? Non sono in pochi a pensare che gli ultimi gruppi eversivi abbiano radici lontane.
Negli anni, più volte, gli scontri tra polizia e studenti provocarono feriti e morti. Cesare Pardini perse la vita nel 1969. Tre anni dopo, ancora sul lungarno Gambacorti la stessa sorte toccò al giovane anarchico Franco Serantini.
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da La Nazione del 21 marzo 1979
A Pisa sanno troppe cose sui delitti delle Brigate Rosse Le rivelazioni dell’americano Stark che in carcere ha stretti legami con Renato Curcio Si conosceva in anticipo la decisione dei terroristi di rapire Aldo Moro
Nel tondo a destra: Renato Curcio, fondatore delle Brigate Rosse nei giorni del suo arresto. Anche dal carcere il brigatista continuò a mantenere stretti rapporti con i suoi compagni in libertà.
Nel tondoin alto: una rara immagine dell’americano Stark e il titolo col quale La Nazione annunciava, in una corrispondenza da Pisa, le inquietanti rivelazioni. Su Ronald Stark ammesso che questo fosse il suo vero nome - e il ruolo che svolse negli anni dell’eversione si sono succedute le più suggestive ipotesi.
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l piano per rapire Aldo Moro ha avuto una gestazione lunghissima, almeno due anni. Le Brigate Rosse lo avevano programmato dall’inizio del ’76… magistratura e polizia avevano ricevuto un’informazione sommaria ma importantissima, perché proveniva proprio dall’entourage del capo storico delle BR Renato Curcio. Perché quel segnale – almeno così sembra – è stato messo da parte?...
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l segnale fu raccolto da un magistrato in una cella del carcere di Pisa. A parlare fu un personaggio enigmatico, un uomo dai tanti nomi e dai tanti mestieri finito in galera per una storia di droga, ma in affari con addetti d’ambasciata e con personaggi del terrorismo internazionale. Questo personaggio si chiama Ronald Stark, ha 41 anni, ed è il primo cittadino statunitense a essere stato incriminato da un magistrato italiano per partecipazione a banda arma-
ta… arrestato a Bologna nel febbraio ’75 e, sempre in attesa di giudizio, aveva girato per diversi carceri fino a capitare nella primavera del ’76, in quello pisano di “Don Bosco”.
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er una “strana” combinazione, Stark finisce nello stesso braccio dov’era detenuto Renato Curcio, catturato a gennaio dopo l’evasione di Casale Monferrato, in attesa d’essere giudicato a Torino. L’incontro fra lo straniero che parlava benissimo l’italiano (e altre dieci lingue fra cui l’arabo) e il capo delle BR fu propiziato dal “mestiere” che Stark svolgeva in carcere: l’insaponatore, ossia l’aiutante barbiere che gli consentiva di entrare in tutte le celle…. Ma presto il legame Stark Curcio diventa più stretto, tanto che durante “l’aria” i due sono inseparabili. Ed ecco il segnale. Stark fa sapere di avere qualcosa di importante da comunicare, e un magistrato
si reca in carcere. Due giorni di colloqui, perché l’interlocutore non si accontenta di confidenza: vuole prove e riscontri. Il succo di questi due giorni è comunque questo: Curcio ha rivelato all’americano che il procuratore generale Coco sarebbe stato ucciso di lì a poco, e che era in preparazione il rapimento di un importante uomo politico abitante a Roma. L’otto giugno Coco veniva assassinato a Genova e il giorno dopo Curcio, al processo di Torino, rivendicava la paternità dell’attentato…
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hi è veramente Ronald Stark? È certo uno spacciatore di droga di livello internazionale ma è anche una persona che riesce a stabilire contatti con il terrorismo italiano e quello palestinese: e contemporaneamente riceve posta e denaro da funzionari d’ambasciata. Che ruolo ha avuto nel contatto a Pisa con Curcio? Chi ha fatto incontrare, proprio a
Pisa, i due personaggi? È troppo facile parlare del caso, specie dopo la definizione del ruolo che Pisa sembra aver assunto, in questi ultimi tempi, nella mappa del terrorismo. A Pisa si è scoperta una base abbastanza importante di “Azione rivoluzionaria” (di cui faceva parte il quartetto italo–tedesco bloccato a Parma e condannato a nove anni di carcere): a Pisa le Brigate Rosse non hanno soltanto persone (la colonna Toscana arrestata a Firenze) centri d’ascolto (il covo del Sivieri di via delle Belle Donne) possibilità di sviluppare un certo volantinaggio o di attuare piccoli attentati; ma anche la capacità di attuae contatti precisi con l’inafferrabile Mario Moretti…
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Sono ormai “anni di piombo”
Un attentato a Marina di Pisa (ed una iniezione al curaro) troppo presto. Loro leggevano i fotoromanzi, la politica le annoiava e non se ne occupavano. Infine c’era un altro cameriere, un dongiovanni da strapazzo, avido di conquiste: Glauco Michelotti. Anche lui nulla a che vedere con la politica, ma piuttosto impegnato ad applicare alla lettera il vecchio detto popolare “… prima la madre e poi la figlia”. Elsa, tanto per cominciare e dopo la giovanissima Paola.
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di Giuseppe Meucci
Il geometra Alessandro Corbara al momento dell’arresto. L’attentato di Marina di Pisa sarebbe nato al ristorante l’Archetto, punto di ritrovo degli estremisti pisani.
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a via della rivoluzione è lunga e piena di sangue», disse Luciano Serragli, proprietario del ristorante “l’Archetto” in via la Nunziatina, quando il 14 febbraio 1971 seppe che la notte prima c’era stato un attentato a Marina di Pisa e un giovane aveva perso la vita. Si chiamava Giovanni Persoglio, figlio del titolare dell’impresa di costruzioni “Gambogi”. Aveva trent’anni ed era sposato e padre di una bambina. Si trovò a passare in auto sul lungomare verso le due di notte, proprio quando dalla saracinesca di una macelleria cominciava a sprigionarsi un filo di fumo. Si fermò per dare l’allarme e appena di fronte al negozio esplose un ordigno. Lo spostamento d’aria lo scaraventò a terra e uno spezzone di ferro gli recise di netto l’arteria femorale. Morì dissanguato sul marciapiede, mentre la moglie gli teneva sollevata la testa nell’inutile attesa di un’ambulanza. Dopo quelli della contestazione sessantottesca utopistica e velleitaria cominciavano gli “anni di piombo”. Il terrorismo stava
facendo i primi passi e Pisa era uno dei crocevia dell’eversione rossa. Un altro protagonista di questo giallo in cui si mescolarono sesso e fantapolitica, iniezioni al curaro e tritolo, fu il geometra Alessandro Corbara, poi accusato di essere stato la «mente» dell’attentato. Dopo tre mesi di indagini l’attentato era ancora un mistero. Sospetti tanti, certezze nessuna. Il ristorante “l’Archetto”, dove l’attentato di Marina fu progettato, era un punto di ritrovo degli estremisti pisani. Alle accese discussioni politiche in cui si fantasticava di rivoluzione e lotta armata, partecipavano lo stesso Serragli, il Corbara che era dipendente della Provincia, uno dei camerieri, Vincenzo Scarpellini, che lavorava anche come infermiere a Santa Chiara e altri avventori. Poi c’erano la moglie del Serragli, Elsa Maffei, e la figlia sedicenne Paola. La prima era una donna ormai sfiorita ma non arresa, l’altra forse sbocciata
oi in questo giallo pisano comparve nientemeno che un raro esemplare di “acherontia atropos”, una farfalla notturna che si sveglia ai primi tepori della primavera. Era quella che lo studente Stefano Talocchini, entomologo dilettante, cercava quando la notte fra il 18 e il 19 maggio 1971 si arrampicò in un luogo impervio, un crepaccio inesplorato sopra ad Asciano, vicino alla Buca delle Fate. Due uomini gli si pararono davanti all’improvviso e appena lo videro buttarono nei cespugli qualcosa di ingombrante che stavano trasportando e se la dettero a gambe. Lui continuò a cercare farfalle, ma quando due giorni dopo fu trovato un cadavere vicino alla Buca delle Fate ricordò i particolari dell’incontro e fornì alla polizia una descrizione così precisa dei due uomini che non fu difficile arrestare lo Scarpellini e il Michelotti.
I
l morto era Luciano Serragli, ucciso poco prima nel ristorante di via La Nunziatina con una iniezione di curaro e trasportato fin sui monti per essere buttato nella Buca delle Fate. Ma perché quell’oste un po’ ubriacone e un po’ rivoluzionario fu ucciso? Luciano Serragli sapeva tutto dell’attentato di Marina, organizzato dal Corbara e dallo Scarpellini per punire un commerciante che non aveva aderito a uno sciopero. E non aveva mai aperto bocca. Quello che lo fece uscire dai gangheri fu
la notizia che il Michelotti dopo la moglie si era preso anche la figlia, avviando un “ménage à trois” sotto i suoi occhi. Fuori di sé dalla gelosia e sconvolto dalla notizia che la ragazzina, rimasta incinta del cameriere, era stata fatta abortire per ben due volte grazie allo Scarpellini che aveva procurato le mammane, il Serragli minacciò di vendicarsi raccontando alla polizia tutto quello che sapeva sull’attentato di Marina di tre mesi prima. Fu allora che firmò la sua condanna a morte che ebbe un duplice movente.
L
a moglie e la figlia insieme al Michelotti non lo volevano più fra i piedi per continuare le loro tresche. Lo Scarpellini doveva invece garantirsi l’impunità dall’accusa di terrorismo. Il curaro lo procurò lui, rubandolo in una sala operatoria del Santa Chiara dove veniva usato in dosi terapeutiche come coadiuvante nelle anestesie. Quel giorno al Serragli gliene sparò in vena un intero flacone con la scusa di fargli un’iniezione ricostituente, mentre il Michelotti e le due donne attendevano nella stanza accanto. Poi il macabro trasporto del corpo verso la Buca delle Fate.
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il Corbara? Fu incriminato per la bomba di Marina e anche per il delitto Serragli, visto che se l’oste avesse parlato si sarebbe trovato nei guai. Ma alla fine è stato condannato solo per l’attentato. Nove anni per omicidio preterintenzionale. Sì, la bomba la mise lui insieme allo Scarpellini, ma a quell’ora e in pieno inverno non volevano uccidere. Dell’accusa di aver partecipato all’uccisione del Serragli il Corbara fu assolto per insufficienza di prove. Per tutti gli altri le condanne furono pesanti. Trentasette anni Vincenzo Scarpellini, ventotto anni ciascuno Glauco Michelotti e Elsa Maffei, quindici anni Paola Serragli.
Nel tondo: Elsa Maffei e Luciana Serragli, rispettivamente moglie e figlia di Luciano Serragli durante il processo. Elsa Maffei fu condannata a ventotto anni e la figlia Paola a quindici.
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da La Nazione del 20 gennaio 1981
Scontri con i paracadutisti: “pace fatta” dice il sindaco
I rapporti fra paracadutisti e pisani nei primi anni non fu facile. Scontri avvennero nel 1964. Ancora tensioni nel gennaio 1981 come riporta l’articolo qui presentato.
È
pace fatta almeno ai vertici. Ma il clima – mentre da ieri per ordine del ministro della difesa tutti i militari restano consegnati nelle caserme – permane ancora pesante. Non fosse altro perché i clamorosi incidenti di domenica sera fra paracadutisti e giovani civili sono scoppiti al termine di una lunga catena di piccoli episodi di violenza… la politica stavolta non sembra essere stata la causa, almeno la causa principale, della scorribanda che ha avuto per teatro il centro della città, anche se i soldati, dimesse le uniformi, hanno percorso per una buona mezz’ora le strade di Pisa salutando romanamente… “Credo che la cosa migliore sia quella di chiudere questo increscioso episodio” ha detto il sindaco comunista Luigi Bulleri...
I
magistrati… dovranno ricercare le responsabilità penali degli incidenti, ascoltare i feriti (sono tre, due parà ricoverati in ospedale
e un givane dimesso subito dopo le prime cure) e le forze dell’ordine in ritardo e in scarso numero. Secondo i testimoni, sono intervenute quando ormai i soldati stavano per rientrare nella caserma di Porta a Lucca… Ufficialmente le liti erano sempre scoppiate per la conquista di qualche ragazza… Gli incidenti però si erano sempre limitati a qualche cazzottata. insomma non erano trascesi al clamore e alla violenza degli scontri degli anni Sessanta, né il clima aveva toccato quelle punte registrate nel ’64 quando il colonnello Palombo, comandante della stessa scuola di paracadutismo, aveva schiaffeggiato un giornalista di Paese Sera il quale aveva condotto un’inchiesta sulla misteriosa morte di alcuni allievi della Gamerra. La molla che ha fatto scattare la sortita dei parà sarebbe costituita da un episodio accaduto sabato sera. Tre soldati, che corteggiavano una ragazza, sarebbero venuti alle mani con alcuni giovani (c’è chi
dice uno solo) che frequentano la zona di piazza Garibaldi. I paracadutisti avrebbero avuto la peggio e tornati così malconci avrebbero raccontato il fatto. Lo spirito di corpo avrebbe prevalso sul buon senso e qualcuno avrebbe lanciato la proposta, subito accolta dal resto del reparto, di compiere una manifestazione. Riunitosi poco distante dalla caserma i 400 parà, in fila, hanno attraversato per due volte il cuore della città gridando “Boia chi molla” e “Giù le mani dai parà”. Le strade erano semideserte. Erano più delle sette di sera. Faceva un gran freddo. In Corso Italia il primo episodio, il ferimento di un giovane, Giuseppe Dominelli, 24 anni, (4 giorni d prognosi) quindi davanti al bar La Borsa, l’aggressione di un altro ragazzo, infine il pestaggio di un terzo passante, anche lui dai capelli lunghi, in piazza Cairoli. È stato durante quest’ultima fase che alle spalle dei parà, che si allontanavano visto il sopraggiungere
della polizia, alcuni giovani civili hanno aggredito tre militari del battaglione logistico Folgore i quali, ignari, rientravano in caserma.
D
ue di loro picchiati violentemente, sono stati trasportati all’ospedale... La notizia di questo scontro si è sparsa in città e i compagni dei due feriti, i parà del battaglione logistico, si sono riuniti sul Ponte di mezzo, ma sono stati allontanati dai carabinieri e dalla polizia. Intanto i 400 parà si erano ritirati verso Porta a Lucca dove i loro ufficiali li hanno presi in consegna facendoli rientrare in caserma. Qui il comandante della scuola, il colonnello Mario Chiatrera, ha fatto suonare l’adunata e dinanzi alla truppa schierata nel cortile ha espresso il suo rammarico per qello che poco prima era accaduto…
Nella foto: È il 16 giugno 2007 e si svolge la cerimonia per il 50° anniversario dell’insediamento dei paracadutisti a Pisa. Il Centro Militare di Paracadutismo si stabilì nella nostra città nel 1957.
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Compie cento anni il calcio pisano
Quegli indimenticabili anni Ottanta sotto la guida di Romeo Anconetani di Renzo Castelli
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Nella foto grande: i giocatori del Pisa che a Torino hanno appena perduto la finale per il titolo italiano contro il Pro Vercelli (in dieci perché Gnerucci è uscito per infortunio dopo 13 minuti di gioco). Nel tondo in alto: Renzo Passaponti (giornalista sportivo de La Nazione e primo segretario del Pisa del dopoguerra) con l’attaccante Sandrino Duè.
l calcio pisano nasce nell’aprile del 1909, cent’anni fa, quando La Nazione festeggiava il suo primo mezzo secolo di pubblicazioni. La città che accoglie il nuovo sport ha importanti industrie manufatturiere e una solida università con un corso medico-chirurgico che in quell’anno laurea venti nuovi dottori, fra i quali una donna. A Pisa vi sono famiglie di alto lignaggio, con grandi palazzi e scuderie, ma il 10 per cento della popolazione (4.952 persone, secondo l’ultimo censimento compilato dalla giunta comunale) è iscritta nell’elenco dei poveri. Nel 1909 ricchi e poveri - ragazzi di via Lavagna e di Porta a Mare – si ritrovano però uniti nella passione per il calcio, questo nuovo sport giunto dall’Inghilterra e già famoso nelle grandi città (Genova, Torino, Milano). Il campo da gioco dapprima è l’interno del velodromo Stampace, poi la piazza d’Armi, sede del VII artiglieria e il XXII fanterie, infine il campo ‘Due Macelli’ chiamato anche ‘Abetone’. Nel 1909 la squadretta, che era nata due anni prima con il nome di ‘Etruria’ e aveva le maglie biancorosse, si organizza in una società polisportiva: il Pisa Sporting Club. Le maglie biancorosse, che erano state scelte in onore al gonfalone della città, si trasformano in nerazzurre sotto l’emozione del campionato 1909-1910 vinto dall’Internazionale di Milano.
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el 1914 il presidente del Pisa, il giovane avvocato Giacomo Picchiotti, che diventerà un famoso penalista, invita la Pro Vercelli a disputare un incontro amichevole. È il 12 aprile ed è un grande evento per la città. Il Pisa perde per 3 a 1 ma quella data rappresenta
Nel tondo in basso: Romeo Anconetani abbraccia il capitano del Pisa Sclosa che solleva in alto la Mitropa Cup conquistata per la seconda volta nel 1988.
l’ingresso ufficiale nel calcio che conta. Il 1914 significa anche lo scoppio della prima guerra mondiale. Mentre tanti calciatori nerazzurri saranno chiamati l’anno dopo in trincea, in città si formano nuove leve con le quali è allestita una compagine che riuscirà a vincere tre titoli regionali. Nel ’19 l’attività calcistica si sposta nel nuovo campo ‘Arena Garibaldi’ ricavato nell’area di un vecchio teatro all’aperto nella parte nord della città. Il ritorno della pace, la squadra rinnovata, il nuovo campo da gioco, spingono il Pisa Sporting Club in alto, fino a disputare la finale per il titolo nazionale contro i ‘bianchi’ della Pro Vercelli. Questo prestigioso traguardo è raggiunto anche grazie all’arrivo alla guida del Pisa – ingaggio: 1800 lire al mese - di un allenatore vero, l’ungherese (di origine irlandese) Joseph Ging, già centravanti del Torkwes e della nazionale magiara. Il confronto – anzi, lo scontro – contro la Pro Vercelli avviene il 24 luglio 1921, alle 17,30 sul campo di Torino, arbitro il torinese Olivari. Poiché fu quella l’unica occasione nella quale il Pisa sia giunto a un passo dal titolo italiano, vogliamo ricor-
dare la formazione che scese in campo: Gianni, Bartoletti, Giuntoli, Gnerucci, Tornabuoni, Viale, Sbrana, Merciai, Corsetti, Colombari, Pera. Al 12’ di gioco il vercellese Rampini stende il nerazzurro Gnerucci: frattura della tibia. Ridotta in dieci, la squadra di Ging perderà per 2 a 1 con reti di Ceria, Sbrana per il Pisa, Rampini.
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on gli anni Venti il calcio diventa lo sport nazionale. È definitivamente tramontato il tempo in cui il giocatore di foot ball <dovrà portare casacca con polsini e collo inamidato, per questione di dignità, e calzoni fin sotto il ginocchio>. Con il professionismo, le piccole società soffrono, e il Pisa Sporting Club soffre. Non per un solo campionato ma per decenni. Malgrado l’inaugurazione (1931) del nuovo stadio, sono anni di serie C prima del ritorno in B (1934). Passa un’altra guerra, e l’altalena continua: di nuovo la C e, giù, giù fino al mortificante campionato di Promozione (1956). E poi ancora su su fino alla serie B (1965) e addirittura fino al clamoroso
ritorno, dopo quarant’anni, in serie A (1968). È un grande momento di gloria per i nerazzurri e per l’intera città, ma durerà un anno soltanto. Fra alti e bassi bisognerà attendere un altro decennio, con l’arrivo di Romeo Anconetani, per ricominciare a salire, fino a raggiungere di nuovo la A (1982) e veleggiare per un decennio – il più importante nella storia del Pisa - fra serie B e serie A. Poi il fallimento (1994) e gli anni che stiamo vivendo. Con un presente giocato in serie B.
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