La Nazione 150 anni FIRENZE

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150 ANNI di STORIA ATTRAVERSO LE PAGINE DEL NOSTRO QUOTIDIANO

SUPPLEMENTO AL NUMERO ODIERNO A CURA DI

Firenze


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Perché La Nazione rimase a Firenze (e non si trasferì a Roma capitale) L’annessione della Lombardia? Ecco quanti fiorini costò ai piemontesi De Amicis: “Ma Roma ha capito cos’è l’Italia Unita?” Così nasce il viale dei Colli La città in mano ai rivoltosi Ferisce la moglie e si avvelena: dramma in via dei Malcontenti Gastone De Anna: “Così feci nascere le redazioni di provincia a La Nazione” Gastone De Anna si racconta: “Il mio primo articolo” Pegolotti, Goggioli, Marchi e Liverani: Così nacquero le cronache dello sport Giorgio Batini si racconta: “Facevo la cronaca e poi me la scrivevo” Giorgio Batini si racconta: Le grandi firme Compagni di viaggio Giorgio Batini si racconta: Gli indimenticabili Via Ricasoli by night Giorgio Batini si racconta: Giramondo e giraregione Cronache d’altri tempi Scesi sul fiume e la riconobbi: era la testa della “Primavera” Quella notte che Occhetto cambiò il futuro di Firenze La strage dei Georgofili Ventimila articoli, molte battaglie ma una sola indimenticabile notte Quando la Fiorentina conobbe la Champions Dalla parte delle donne “Perché finsi di voler abortire” Ma dietro il viaggio per gli anziani si nascondevano pentole e minacce

Supplemento al numero odierno de LA NAZIONE a cura della SPE Direttore responsabile: Giuseppe Mascambruno

FIRENZE

150 anni di storia attraverso le pagine del nostro quotidiano.

Non perdere in edicola gli altri 2 fascicoli regionali che ripercorreranno, attraverso le pagine de La Nazione, la storia fino ai nostri giorni e i 17 fascicoli locali con le cronache più significative delle città. In copertina: una caricatura di Collodi, l’indimenticabile Batistuta e una rara immagine di Santa Maria Novella nell’Ottocento.

Vicedirettori: Mauro Avellini Piero Gherardeschi Antonio Lovascio (iniziative speciali) Direzione redazione e amministrazione: Via Paolieri, 3, V.le Giovine Italia, 17 (FI) Hanno collaborato: Giorgio Batini Giampiero Masieri Gastone De Anna Umberto Chirici Marcello Mancini Sandro Bennucci

Alessandro Antico Duccio Moschella Letizia Cini Luigi Ceccherini Progetto grafico: Marco Innocenti Luca Parenti Kidstudio Communications (FI)

Stampa: Grafica Editoriale Printing (BO)

Pubblicità: Società Pubblicità Editoriale spa DIREZIONE GENERALE: V.le Milanofiori Strada, 3 Palazzo B10 - 20094 Assago (MI) Succursale di Firenze: V.le Giovine Italia, 17 - tel. 055-2499203


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Perché La Nazione rimase a Firenze (e non si trasferì a Roma capitale) Una scelta politica e ideale. Una visione moderna dello Stato I rapporti con la Chiesa per il religiosissimo Bettino Ricasoli La costante capacità di rinnovarsi

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essun altro giornale può vantarsi di essere nato con l’Italia e di averla accompagnata giorno dopo giorno, fino ad oggi. E infatti, se anche una testata, la Gazzetta di Parma, sicuramente è più antica di quasi 100 anni rispetto al giornale fiorentino, è anche vero che per lunghi periodi ebbe un altro nome, in altri sospese le pubblicazioni, e in ogni caso non svolse il ruolo fondamentale per l’Unità d’Italia che toccò al foglio di Bettino Ricasoli. Già, perché fu proprio lui, il “Savonarola del Risorgimento” come lo definiva Spadolini, a volere che il nostro giornale fosse in edicola, redatto e composto in una sola notte, alla notizia dell’armistizio di Villafranca.

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a storia è nota. L’11 luglio del 1859, nel pieno della seconda guerra di indipendenza, quando le truppe franco piemontesi avevano vinto battaglie di rilevanza enorme, come quella di Solferino, e già si pensava come invadere e liberare il Veneto, all’improvviso francesi ed austriaci firmarono un armistizio ed i Savoia non ebbero la forza per opporsi. Lo fecero perché la Francia cominciava a temere un attacco da parte della Prussia che stava ammassando le sue truppe ai confini. Lo fecero, perché un’Italia libera e indipendente poteva anche andar bene alla grandi potenze europee, ma non doveva essere eccessivamente forte. E dunque, ecco che al Piemonte veniva concessa quasi per intero la Lombardia, ma il Veneto il Trentino e la Dalmazia restavano agli austriaci, mentre in Toscana sarebbero tornati i Lorena, e in ogni caso si ipotizzava una federazione di stati del

Centro Sud sotto la guida del Papa. Alla notizia, Cavour, dopo uno scontro durissimo con Vittorio Emanuele si dimise. E l’unico a sostenere la causa dell’Italia da unire, restò in quelle ore il capo del governo toscano costituitosi dopo la partenza del granduca, Bettino Ricasoli appunto. La notizia dell’armistizio arrivò a Firenze nel pomeriggio del 13 luglio e i patrioti si riunirono in Palazzo Vecchio dove regnava la rabbia, il caos, la voglia di reagire ma anche un profondo senso di impotenza. E l’unico che dimostrò di avere le idee chiare, ben al di là della logica, delle possibilità offerte dalla diplomazia, si rivelò Ricasoli che non poteva a nessun costo accettare quanto stava accadendo.

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infatti, lui guidava un governo toscano provvisorio con l’unico scopo di arrivare al plebiscito per l’annessione al Piemonte, e se fossero tornati i Lorena tutto sarebbe crollato. Sotto il profilo politico ma anche sotto il profilo personale. Così, dimostrandosi in quelle ore il vero artefice del Risorgimento, ancor più dello stesso Cavour che in qualche modo aveva gettato la spugna, Ricasoli spedì due ambasciatori a Torino e a Parigi per tentare di modificare le cose. Ma nello stesso tempo mandò a chiamare tre patrioti fiorentini, il Puccioni, il Fenzi ed il Cempini, che a suo tempo avevano proposto di stampare un quotidiano in appoggio alle posizioni del governo toscano, e disse loro: “È arrivato il momento, per domattina voglio il giornale.” E a niente valsero le timide proteste dei tre che, comprensibilmente, facevano notare come fossero già le nove di sera e come non sarebbe stato facile mettere insieme i testi e farli comporre in poche ore. Ma Ricasoli insisteva “O domattina o mai più.” E dette anche il nome alla testata “La Nazione”, che era tutto un programma, anzi, era il programma. Puccioni, Fenzi e Cempini presero una carrozza


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e si fecero portare in via Faenza alla tipografia di Gaspare Barbera, un patriota piemontese arrivato a Firenze nei giorni in cui la città fu capitale, e quì cominciò un lavoro frenetico a redigere i testi ed a comporli. Come nelle migliori tradizioni del giornalismo, redattori e tipografi lavoravano gomito a gomito. Un articolo non era ancora concluso e già la prima parte passava ai compositori. Un articolo non era del tutto composto – all’epoca non estivano le linotype ed ogni parola era composta a mano – e già si facevano le bozze per le correzioni della prima parte. Alle cinque del mattino Ricasoli si presentò alla tipografia, lesse le bozze e dette il consenso. Alle dieci, tirate pare in tremila copie, due pagine in mezzo foglio, oggi diremmo formato tabloid, erano in vendita nel centro cittadino. Si trattava di un’edizione senza gerenza, senza il nome dello stampatore, senza il prezzo, senza pubblicità. Praticamente un numero zero.

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così si andò avanti fino al 19 luglio quando, finalmente, La Nazione uscì nel suo primo numero ufficiale, con formato a tutto foglio, le indicazioni di legge, i prezzi per l’abbonamento e per la pubblicità. Così, dunque, nacque il nostro giornale. Che conobbe i giorni fausti dell’Italia Unita, e poi quelli pieni di problemi, non solo economici, in cui Firenze fu provvisoriamente capitale. Quindi la questione romana, la breccia di Porta Pia, e insomma tutte le fasi che con alterne vicende portarono alla nascita dello Stato italiano. Ma fu proprio con Roma Capitale che La Nazione dovette modificare il proprio tipo di impegno. Che fare? Seguire il governo e il mondo politico fino a Roma, là dove si sarebbero svolte da allora in poi tutte le vicende, e prese le decisioni relative all’Italia? La domanda fu posta ed era più che legittima. Nessun altro quotidiano aveva il diritto di continuare le proprie pubblicazioni nella sede del regno e del governo italiano, più di quello che l’Italia aveva contribuito a farla nascere. Ma fu compiuta una scelta, che di certo non fu di tipo economico: restare. Restare a Firenze, accompagnare la vita della città dove era nata, e dedicare sempre di più le proprie attenzioni anche alla vita quotidiana, a quella che oggi diremmo la cronaca di ogni

giorno. Insomma, da grande foglio risorgimentale carico di tensioni ideali, a giornale come oggi lo intendiamo. Con rubriche dedicate alla moda, allo sport, con grandi spazi dedicati alla vita musicale e teatrale. Con la disponibilità a condurre grandi battaglie nel nome e per conto di Firenze, che già allora viveva con naturalezza la sua doppia natura, ancor oggi visibile: quella di una dimensione provinciale aperta al mondo. Città universale e allo stesso tempo città dove pochi personaggi, e fra loro in costante conflitto, dominavano la scena. Rese possibile questa scelta di obiettivi un grande direttore, Celestino Bianchi. Che seppe conquistare il pubblico femminile, interessare anche la media e piccola borghesia mercantile, ma soprattutto richiamare intorno al foglio di Ricasoli le migliori firme italiane del momento. Che, del resto, già erano presenti su La Nazione, fin dai primissimi anni. E allora ecco il D’Azelio e il Tommaseo, ecco il Manzoni e il Settembrini, e poi il Collodi, il De Amicis, Alessandro Dumas, Capuana, il Carducci e in seguito anche il Pascoli, ed infinti altri. Grandi firme che sarebbero continuate durante il fascismo e nell’Italia repubblicana fino ad oggi. Da Malaparte a Bilenchi, a Pratolini, ad Alberto Moravia, a Saviane, a Luzi. Dopo aver ospitato Papini, Prezzolini, Soffici, e gran parte dei letterati delle Giubbe Rosse nel periodo che precede e che segue la grande Guerra.

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ueste le scelte che permisero a La Nazione, pur dovendo affrontare momenti di crisi e di difficoltà, di battere ogni volta le testate concorrenti. Se esisteva una difficoltà di vendita o addirittura di immagine, sempre riuscì a trovare gli uomini e le energie per risollevarsi. Liberale infatti, fu sempre

il quotidiano fiorentino, ma di un liberalismo illuminato che sapeva aprirsi ogni volta ai temi di interesse sociale, e per farlo non esitava ad ospitare anche firme lontane dalle proprie posizioni. Così, quando si trattò di presentare ai fiorentini, e commentare, la nascita delle scuole serali, fu chiesto un articolo a un giovane e rivoluzionario poeta, il Carducci. E fu tra i primi giornali, La Nazione di Firenze, a porre sul tappeto il dramma del lavoro minorile, e a pubblicare le relazioni di Sidney Sonnino sulla condizione dei bambini, quelli del Nord Italia che a sette anni lavoravano anche 13 ore al giorno nell’industria della seta e quelli di Sicilia, costretti a starsene chini, senza luce né acqua, nelle solfatare di Sicilia. Ancora di più colpisce, per il giornale del Risorgimento, la moderazione con la quale fu seguita la questione romana e fu data notizia della breccia di Porta Pia. E infatti, mentre la retorica anticlericale si scatenava, creando con i suoi estremismi solo un effetto boomerang, La Nazione fu capace di analisi e di intuizioni che a distanza di 90 anni, con il Concilio Vaticano II, perfino il mondo cattolico avrebbe fatto proprie. Scriveva infatti il nostro giornale: “Il potere temporale ha trattenuto il cattolicesimo fermo sull’idea imperiale pagana.” Del resto non era il Ricasoli religiosissimo?

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dunque, è in omaggio ad una visione laica delle differenze fra Stato e Chiesa, una visione totalmente deducibile dai vangeli che si combatté quella battaglia, che non significava affatto compiacersi di un assoluto anticlericalismo ideologico, o ancor di più di una qualsiasi forma di ateismo conclamato. E ancora, quando si trattò di decidere se trasferirsi a Roma capitale, seguendo le sorti

del governo e del re, la spiegazione data ai lettori fu questa. “Noi non vogliamo che Roma attiri a sé tutta la forza intellettuale. Noi vogliamo che Napoli, Firenze, Bologna, Venezia, Milano, Torino, serbino la loro influenza legittima, portino il peso nella bilancia delle sorti politiche nazionali. Ogni regione ha elementi originali da custodire e nello stesso tempo è sentinella dell’Unità inattaccabile.” Una prosa intelligente, modernissima, attuale ancor oggi, 140 anni dopo.

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n atteggiamento che La Nazione conservò anche in epoche ben diverse. Così, durante il fascismo, pur costretta come tutte le testate a pubblicare le veline del minculpop, non per questo La Nazione si allineò mai totalmente al regime. Tanto da opporsi, allorché il Regime voleva imporre come direttori uomini di assoluta fede a Mussolini. E ospitare firme, come quella di Montale, il personaggio che per il suo antifascismo era pur stato “licenziato” dal Vieusseux. Uno stile, un modo di essere, che la premierà quando, pur con mille problemi tornerà alle pubblicazioni nel 1947. E ancora, quando nel ’68 la realtà italiana dette segni di grande malessere e tutto il nostro modo di essere società fu posto in forse, La Nazione non esitò ad assumere giovani della più varia estrazione politica ed ideologica, anche con provenienze ben diverse da quelle liberali, perché contribuissero ad aiutare la direzione a interpretare quanto stava accadendo. Erano i giorni del direttore Mattei ed ancor più del condirettore Marcello Taddei. La Nazione si poneva una volta di più il problema di come adeguarsi ai tempi. E se ciò le costò dei rischi, e dure minacce per alcuni dei suoi cronisti - quelli più esposti nei giorni del terrorismo - ciò non modificò la sua linea.

Un’illustrazione di fine Ottocento del Parco delle Cascine. Il parco divenne pubblico nel 1869 quando fu acquisito dal comune di Firenze che ne affidò il restauro all’architetto Felice Francolini. Tre poeti tra le tante firme illustri de La Nazione: Alessandro Manzoni (nel tondo), Giosuè Carducci e Giovanni Pascoli.


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L’annessione della Lombardia? Ecco quanti fiorini costò ai piemontesi Il primo supplemento nella storia de La Nazione pubblicò gli accordi di pace tra Francia e Austria

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cco il primo supplemento pubblicato a corredo de La Nazione. Fu diffuso il 22 ottobre 1859, ed andò a ruba fra i lettori. Si tratta di un dispaccio dell’Agenzia Stefani composto a tutta pagina arrivato da Parigi la sera del 21 ottobre, e contiene il trattato di pace tra Francia ed Austria. È dunque la conseguenza dell’armistizio di Villafranca, del quale riprende in gran parte le decisioni, e segna la fine della seconda guerra di Indipendenza.

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olpisce, leggendolo, l’aspetto economico che solitamente viene trascurato nei libri di storia. Eppure, a guardar bene è forse la parte più rilevante della pace. Al Piemonte infatti, per avere la Lombardia, in qualche modo conquistata sul campo di battaglia, occorre versare una cifra considerevole oltre a farsi carico dei tre quinti dei debiti della banca del Lombardo Veneto. Ora, se si pensa che il Veneto restava all’Austria, appare chiaro che la gran parte dei debiti dell’Istituto finanziario finisce

Il 22 ottobre del 1859 i lettori de La Nazione per la prima volta ricevono in omaggio un supplemento di particolare valore storico.

proprio a carico dei Savoia. E allora, il sangue versato a Solferino dalle armate vittoriose dei patrioti?

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’altro aspetto riguarda il timore che l’Italia Unita voglia in qualche modo rifarsi delle spese a scapito degli “stabilimenti religiosi” e in genere della Chiesa. Cosa che poi avvenne in qualche modo, ma che austriaci e francesi volevano evitare ad ogni costo. Così dettano una serie di regole per evitare che in Lombardia, il nuovo governo vada a far cassa confiscando le confraternite religiose. Altro aspetto, in qualche modo collegato, il ruolo che dovrà avere il Papa in una possibile confederazione di stati italiani.

IL TRATTATO DI PACE Parigi 21 ottobre sera – I fogli francesi ed Inglesi riproducono un dispaccio da Zurigo contenente i particolari del trattato Franco – Austriaco. L’Austria conserverà Peschiera e Mantova. Il Piemonte pagherà le pensioni accordate precedentemente dal Governo lombardo. Pagherà all’Austria 40 milioni di fiorini, assumerà tre quinti del debito del Monte Lombardo Veneto: totale del debito assunto dalla Sardegna 250 milioni di franchi. Desiderando la tranquillità della Chiesa e volendo assicurare il potere del Papa, convinte che questo oggetto potrà essere compiutamente ottenuto soltanto da un sistema che risponda ai bisogni delle popolazioni ed alle riforme di

cui il Papa già conobbe la necessità, le due parti contraenti riuniranno i loro sforzi per ottenere che il Papa faccia delle riforme nell’amministrazione dei suoi stati. I limiti dei territori degli stati indipendenti italiani che non parteciparono alla guerra non potranno essere mutati che dietro il consenso delle potenze che concorsero a formarli, garantendo la loro esistenza: i diritti dei sovrani di Toscana, Parma e Modena sono espressamente riservati alle potenze contraenti. I due imperatori daranno tutto il loro appoggio alla formazione di una Confederazione degli Stati Italiani, collo scopo di conservare all’Italia l’indipendenza e l’integrità, assicurare il benessere morale

e materiale del Paese, vegliare alla sua difesa col mezzo di un esercito federale. La Venezia resta sotto lo scettro dell’Imperatore d’Austria, farà parte della Confederazione, parteciperà ai diritti ed agli obblighi del trattato federale, quale sarà stabilito fra gli stati italiani. Un articolo apposito regola l’amnistia. Le ratifiche saranno scambiate entro 15 giorni. L’Austria restituirà i depositi in valore affidati alla Casse pubbliche ai privati. Gli stabilimenti religiosi di Lombardia potranno disporre liberamente dei loro beni di qualsiasi natura, se il possesso di questi beni fosse incompatibile colle le leggi del nuovo governo.


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Da La Nazione del 24 ottobre 1870

De Amicis: “Ma Roma, ha capito cos’è l’Italia Unita?”

Un articolo pieno di perplessità alla vigilia del trasferimento del governo nella nuova capitale

necessità sono molte e non è agevole provvedervi…

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Roma: un passaggio di carrozze a Ponte e Castel Sant’Angelo (a destra). In basso nel tondo: La vera immagine dell’ingresso dei bersaglieri da Porta Pia. La foto diffusa ufficialmente riprodurrà in un fotomontaggio la stessa scena con un numero ben maggiore di soldati.

Così Edmondo De Amicis un mese circa dopo la Breccia di Porta Pia da lui stesso descritta, raccontava di Roma, ormai pronta al suo ruolo di capitale del Regno d’Italia.

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omincio con una dichiarazione: chi viene in questi giorni per la prima volta a Roma, con le idee cercate solo nello studio della storia o acquistate nella lettura di molti giornali, è costretto a guardarsi dattorno meravigliato e confuso, e quasi a dubitare che un disguido ferroviario lo abbia condotto in una città qualunque che Roma non sia. È vero che quando si entra in San Pietro, l’impressione che se ne prova è di tale sgomento, di tale umiliazione, che si riconosce subito che solo Roma è capace di un miracolo simile: ma non di meno, io non vidi mai città che nelle mille ed una descrizione fosse più adulta, e più calunniata ad un tempo quali inaspettate e nuove meraviglie!... e quanti strani ed inattesi disinganni! La mente giovanile si forma ad esempio un immenso concetto del Campidoglio: io l’ho salito il Campidoglio: per rispetto alle grandi memorie storiche che racchiude taccio le impressioni… ed anco le sensazioni che ne provai. Fu una delusione… e

grande. Il cervello di molti uomini politici sognava e forse sogna tuttavia che a Roma si pensi e molto al Papa, al suo potere, alla sua influenza: in verità stando qui non solo si crede che il Papa sia partito, ma vi è da dubitare che la presenza del pontefice in Vaticano sia una leggenda antica, accettata, tanto per fare, dalla generazione presente. Che cosa fa Pio IX? Nessuno se ne occupa: le notizie che lo riguardano si ricevono da Firenze, ma quasi non si raccolgono. Ecco una prima meraviglia e non lieve. La vita politica della città si traduce in una sola parola: entusiasmo: cieco, veramente febbrile. Il solo aspetto continuo permanente di Roma è la dimostrazione. È una malattia: nel giorno mostra una fase cronica: nella sera tocca ai teatri il periodo flogistico. Ecco Roma. Ma debbo aggiungere che qua si sente molto, e si pensa poco. L’onorevole Sella che venne qua – come sapete – partì promettendo solennemente che il Re sarebbe venuto a Roma al più tardi fra 15 giorni, e che il trasferimento della capitale si sarebbe compiuto al presto. I romani si compiacquero di ambedue gli annunzi, specialmente (è giustizia il dirlo) del primo: ma non si occuparono né si occupano molto delle necessità che ambedue impongono. E queste

urtroppo, venendo qui, ci si accorge come il Governo sia assolutamente fuori di strada, non solo nelle idee, ma nei modi di attuarle per ciò che si riferisce al trasporto della capitale. Giudicando tale questione da Firenze, non si parlava che di difficoltà materiale, del bisogno di locali, di necessità di ingrandimenti: tutte osservazioni di cui non si nega la giustizia, né la opportunità. Vero è che diversi ministri trovarono un sistema nuovo, per risolvere questa prima parte del problema: ogni consigliere della corona, meno uno o due, mandò qui i suoi ingegneri per studiare quale località si sarebbe prestata al collocamento del proprio dicastero: ma ogni ministro agì indipendentemente dai propri colleghi… Ma sono le difficoltà morali (per così dire) quelle di cui non si preoccupano a Firenze né

a Roma: e sono le più dure, le più lunghe, le più aspre per chi esamina la questione con occhio freddo ed imparziale… Occorre che dopo l’annessione di Roma, facile a stabilirsi con un decreto, anco attivo, si determini la fusione dei romani negl’italiani. Qui non c’è il pensiero o il sentimento che all’uopo basti una imponente manifestazione all’Argentina. Occorre che dopo l’estensione delle leggi italiane, facile ad ordinarsi con un altro decreto, si applichino non solo materialmente colla percezione delle imposte, ma con lo spirito nuovo che animi tutte le istituzioni, tutte le consuetudini, ed accumuni la vita romana alla vita italiana. Questo è il più arduo problema che s’impone: il problema che non può risolversi dagl’ingegneri, ma che richiede perfetta conoscenza di Roma in chi sta a Firenze, conoscenza che, o io m’inganno a partito, o non si ha costì che sbagliata, o esagerata o imperfetta.


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da La Nazione dell’8 maggio 1874

Così nasce il viale dei Colli Yorik scende in campo per difendere l’architetto Poggi dopo le polemiche sulla costruzione della più importante “passeggiata” fiorentina

Nell’800, i mutamenti culturali, sociali ed economici influenzarono l’urbanizzazione. Il verde pubblico, oltre che funzione estetica, assunse una funzione di miglioramento delle condizioni igienico-sanitarie. La progettazione di parchi e giardini pubblici entrò a far parte dello sviluppo urbanistico.

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desso che il lavoro è finito, e il viale corre su per le vaghe pendici che si stendono in semicerchio attorno all’allegra vallata fiorentina, è naturale che i padri predicatori dell’ordine de’ malcontenti ci spargano sopra una fioritura di vituperli, e dal pulpito della stampa quotidiana gli lancino addosso i fulmini sgangherati delle rampogne rettoriche. L’opera immensa poteva esser compiuta con ventotto lire e undici centesimi di minore spesa, lì che avrebbe salvato dalla miseria questo povero popolo a cui non rimarrà presto altro che il Campanile del Duomo per precipitarsi giù a capo fitto; la salita è troppo agevole, e questo non è buono per chi ha bisogno di rafforzarsi i polmoni coll’esercizio di arrampicarsi sull’erta; la strada è troppo lunga, con gravissima iattura de’ gobbi che patiscono d’asma, l’aria è troppo fine per i tubercolotici al terzo

stadio; e la vista è troppo estesa, atroce scherno per quelli che scambiano un occhio e veggono da lontano il Duomo con due cupole e Palazzo Vecchio con due torri. Tirata la somma de’ vantaggi e degl’inconvenienti, la costarella di San Giorgio per chi voleva fare una passeggiata in collina, era di molto preferibile al Viale dei Colli!...

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enza dubbio anche la Costarella di San Giorgio ha i suoi magnifici edifizi che fanno onore alla città. Ci ho veduto delle case di cinque piani con cinque finestre, compresa la porta, e con una facciata d’ordine composito, ma composito bene, rigonfia nel mezzo, che era un miracolo d’idropisia architettonica. Ma a me, lo confesso col rossore sulla fronte, mi piacciono più le nuove abitazioni, i villini, le palazzetto, sorte come per incanto su tutti i poggi rivestiti di fiori che alzano le spalle verdeggianti

ai lati dell’amena passeggiata. Quelle case dall’aspetto ridente, dalle finestre spalancate ai raggi del sole di primavera, tutte linde, tutte eleganti, tutte popolate di ricchi abitatori, piantate là in mezzo a un giardino dove il lillà moltiplica le sue pendule ciocche, il rododendro s’invermiglia tra il cupo fogliame, il pitosporo semina le aiuole delle sue bianche corolle, e la rosa si arrampica sui pilastri e sui cornicioni; quelle case circondate da una leggera cancellata scintillante di dorature, mi mettono addosso un brio, una galezza, una voglia di finire allegramente la giornata che non si può ridir con parole! Sarà forse perché i miei mezzi non mi permettono il lusso dell’invidia, ma è un fatto che quelle palazzine civettuole, qué villini eleganti m’inspirano un vivo sentimento di benevolenza universale, e abbiamo fatto amicizia, e mi conoscono quando

arrivo fra loro dondolandomi in un beato ozio senza riposo, e mi fanno l’occhiolino colle persiane socchiuse, e hanno un’aria così furbacchiotta, così maliziosa, che mi pare di sentirmele sussurrare all’orecchio: Ah! Se tu sapessi quante storielle piacevoli ti potremmo raccontare, quanti aneddoti graziosi, quanti romanzetti pieni di pazze vicende e ridevoli episodi… se tu sapessi quante lune di miele arrivarono qui al primo quarto e andarono via lune piene… e quante lune nuove sorsero falcate dalla collina e tramontarono con un par di corna fiammeggianti dietro le cime di Bellosguardo, e di San Vito!... Io so per adesso una cosa sola, che qui si respira un’aria balsamica, che la salita è lieve e che ho un appuntamento con la Notte di Michelangiolo, sdraiata su, in cima al Piazzale, per aspettarmi. (…)

Pier Coccoluto Ferrigni fu giornalista e scrittore umorista, noto con lo pseudonimo di Yorik. Nato a Livorno nel 1836, studiò legge e divenne avvocato, ma si sentiva sopratutto un giornalista. Le collaborazioni più intense le ebbe con La Nazione dove nel 1868 entrò come critico drammatico.


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da La Nazione del 10 e 11 giugno 1914

LA CITTÀ IN MANO AI RIVOLTOSI Durante la manifestazion qualcuno spara e c’è il primo morto in via Guelfa Una “edizione straordinaria”

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È l’insurrezione che passerà alla storia sotto il nome di “Settimana Rossa”. Firenze per due giorni è in mano ai rivoluzionari.

arebbe passata alla storia come la settimana rossa, ovvero, un tentativo di rivoluzione che lasciò morti e feriti. Tutto cominciò ad Ancona il 7 del 1914, si estese alla Romagna, poi alla Toscana e ad altre parti d’Italia. In più occasioni i poliziotti aprirono il fuoco contro i manifestanti. La vicenda aveva avuto inizio con una adunata antimilitarista convoca il 7 giugno per protestare contro la guerra e sostenere la causa di Augusto Masetti e Antonio Moroni, due militari di leva. Il primo, rinchiuso come pazzo nel manicomio criminale con l’accusa di aver sparato al suo colonnello prima di partire per la guerra di Libia. L’altro perché accusato di essere un sindacalista-rivoluzionario. Il comizio si svolse alla presenza di circa 600 persone, in gran parte repubblicani, anarchici e socialisti. Presero la parola il segretario della Camera del Lavoro, Pietro Nenni, Pelizza, Errico Malatesta per gli anarchici e Marinelli per i giovani repubblicani. Dopo il comizio i manifestati si mossero verso una piazza vicina dove si svolgeva un concerto della banda militare.

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a forza pubblica, per impedire che i manifestanti entrassero a contatto coi militari iniziò a picchiare indiscriminatamente anche donne e bambini, mentre dai tetti e dalle finestre delle case furono lanciati pietre e mattoni. Alcuni colpi di pistola vennero esplosi, probabilmente da una guardia di pubblica sicurezza, i carabinieri, credendoli partiti dalla folla, aprirono il fuoco: spararono circa 70 colpi. Tre dimostranti

furono uccisi. Un’ondata di indignazione si sparse subito per tutta la città, mentre le forze di polizia si tenevano cautamente distanti. Il Comitato Centrale del Sindacato dei Ferrovieri era riunito ad Ancona e su proposta di Errico Malatesta dichiarò lo sciopero di categoria. I moti dalle Marche e dalla Romagna, si propagarono in Toscana. Lo sciopero generale durò un paio di giorni, la successiva mobilitazione dell’esercito convinse il sindacato ad abbandonare la lotta. A Firenze gli scontri si ebbero il 9 e il 10 giugno, ci furono tre morti una cinquantina di feriti e centinaia di arresti. Così La Nazione, uscita per la prima volta in edizione straordinaria, ne dava notizia.


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I primi segni dello sciopero La chiusura dei caffè notturni

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i pochi caffè notturni (Le due rose e L’Elvetico in piazza Duomo e il caffè Cinese in piazza della stazione) si presentarono poco dopo la mezzanotte i plenipotenziari della Camera del Lavoro, i quali imposero la immediata chiusura… gli inviati della Camera del Lavoro incominciarono poi, mentre si faceva l’alba, a perlustrare in ogni senso la città per recare agli esercenti l’ordine di non iniziare i loro commerci. Ortolani e lattai, fornai e macellari e tutti insomma i venditori di generi di assoluta necessità quotidiana, furono i primi a subire tale ordine al quale non seppero ribellarsi. Durante la notte numerosi giovani socialisti, repubblicani ed anarchici, erano andati attaccando per la città agli sporti di quasi tutti i negozi un cartello listato a lutto recante la dicitura “chiuso per grave lutto nazionale”… Dalle campagne circonvicine calarono alla città, all’alba come ogni mattina fiorai ed ortolani. Ma i primi trovando chiuso il caffè Elvetico, loro attuale mercato ed apprendendo che in Firenze sarebbe stata giornata di sciopero se ne tornarono quasi tutti per la via donde erano venuti… per tutta la notte precedente l’inizio dello sciopero noi vegliammo e andammo per la città e ci fu possibile conoscere il programma dello sciopero: il sicuro rovesciamento della monarchia… Dalle nove lo sciopero ebbe inizio nella sua totalità. Non una bottega socchiusa, non un fiacre, non un veicolo in circolazione…

Il comizio in piazza Indipendenza Ed i primi sanguinosi tumulti

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lle 10,45 il comizio ha principio. La piazza dell’Indipendenza è letteralmente gremita. Si calcola che accolga diecimila persone. Moltissimi scioperanti di oggi: molti di tutti i giorni… per tribuna oratoria serve la base del monumento a Ubaldino Peruzzi… inutile riportare ad una ad una le sparate degli oratori. In due parole è detto tutto: invettive contro le istituzioni, vaticinio di imminente caduta della monarchia, eccitamento a una rivolta contro la forza pubblica… il comizio si scioglie fra gridi di Viva la Rivoluzione sociale! Viva l’anarchia! Viva la Repubblica! Terminato il comizio quel mare di folla che vi aveva assistito dilagò, tumultuando, in maniera paurosa, per tutte le vie adiacenti travolgendo la forza pubblica che cercò di custodire gli sbocchi delle vie stesse per impedire che i dimostranti potessero pervenire in massa nel centro della città. In via 27 Aprile venne incontro alla folla… un nerbo assai numeroso di agenti di P.S…. l’urto fra questa nuova forza accorsa dalla questura e la folla fu davvero impressionante. I funzionari e gli agenti furono aggrediti con furia selvaggia e si lanciarono contro di essi ogni sorta di proiettili: sassi, sporcizie dei più porci generi, frammenti di bicchieri e stoviglie e perfino bottiglie piene di vino… in alcuni momenti la forza pubblica fu sopraffatta e dovette retrocedere. Molti agenti percossi da pugni e bastoni riportarono contusioni in più parti del corpo. Poi la folla passò oltre mirando al centro della città. Ma una notizia gravissima fermò la fiumana nell’angolo di via San Gallo e la fece riversare per questa strada verso via Guelfa. La notizia che di bocca in bocca venne in un baleno in possesso della folla fu questa: “in via Guelfa le guardie hanno fatto fuoco. C’è un morto e ci sono molti feriti.” La rivolta partì dalle Marche e si estese in Emilia Romagna e Toscana.

L’esercito, in una rara foto dell’epoca, fu chiamato a presidiare i luoghi “sensibili” delle città.

Le barricate

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erso le 18 la situazione si andò aggravando. La vera teppa, la sola teppa, teppa anche se inscritta regolarmente a qualche partito politico rimase padrona del movimento. E incominciarono gli atti di vandalismo. Già in vari punti erano stati seriamente danneggiati gli sporti e le insegne delle botteghe ma dalle 17 in poi il vandalismo divenne sistema. Nelle principali arterie specialmente. In via Tornabuoni e in via Strozzi non restò salva una sola bottega… non un globo della luce fu risparmiato non un fanale a gas. Una devastazione impressionante. In vari punti si innalzarono barricate... Presso la Camera del Lavoro la folla usò il legname di una impalcatura che riparava alcuni lavori in miniatura... a viva forza quell’impalcato fu divelto e disposto attraverso l’imbocco di Corso dei Tintori. Un altro simile ostacolo alla imboccatura di via dei Neri. E pure con legname di impalcati e con grosse travi tolte dalla gradinata della chiesa di San Gaetano dove pure si compiono de lavori, furono costruite altre barricate in via Strozzi e in via Tornabuoni. Cossicché guardie, carabinieri e uomini di truppa dovettero precedere, per abbattere quegli ostacoli, gli squadroni de cavalleggeri. Si verificarono nuovi, innumerevoli tafferugli, durane i quali vennero sparati molti colpi di rivoltella… ad intervalli di pochi minuti si susseguirono, per più di tre ore, le detonazioni secche delle rivoltelle… Questa era la situazione nel centro della città mentre sopraggiungeva la sera…


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da La Nazione del 3 maggio 1913

Ferisce la moglie e si avvelena dramma in via dei Malcontenti Ecco quella che i giornali dell’epoca definirono “una storia pietosa”. È la vicenda di un cuoco e delle sue disillusioni amorose. È soprattutto uno spaccato della società fiorentina di quasi un secolo fa. Di seguito riportiamo la cronaca di allora in ampi stralci

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uesta mattina, circa le 8, le persone che si trovavano a passare per via Malcontenti sono state colpite dalle grida di una donna che invocava disperatamente al soccorso. In men che non si dica alcuni valorosi cittadini si sono lanciati verso il portone segnato con n. 22 di detta strada, di dove le grida provenivano… hanno trovato una donna di ancor giovane età che versava sangue dalla bocca. In piedi poco discosto dalla donna era un uomo dell’apparente età di 50 anni che pallido e barcollante cercava di sorreggersi alla parete del muro. Dalla bocca di costui usciva un liquido giallastro e sulla mano destra teneva stretta una piccola bottiglia… La donna era ferita, si vedeva bene alla bocca e alla testa con un’arma contundente, una chiave, che dopo è stata rinvenuta sul pavimento del pianerottolo e l’uomo si era avvelenato ingerendo una certa quantità di tintura di iodio dopo aver colpito la donna…

Il disgraziato è il cuoco Federigo Innocenti fu Basilio, di anni 50, da Greve e qui domiciliato in via del Porcellana 17 p.p.: la donna è la legittima consorte di lui dalla quale viveva separato non legalmente da oltre un anno, a nome Livia Puliti fu Antonio di anni 22, abitante in via de Macci 75. L’Innocenti si ritrova ora sei figli… Tutti nati in casa… Infatti la Puliti è sempre stata – così ha raccontato lo sventurato marito al vice brigadiere De Marco – una donnetta frivola, leggera ed alquanto civetta. Essa non ha mai avuto alcun ritegno a farsi corteggiare da questo o da quello e a concedere facilmente i suoi favori. Il marito che troppo tardi si è accorto dello sbaglio madornale fatto nell’impalmare una donna a lui molto più giovane ha sempre cercato di tollerare le leggerezze della moglie... ultimamente però erano giunte a lui voci poco piacevoli: sua moglie non era più la donna dedita troppo ai troppo facili amori, ma aveva abbandonato ogni ritegno, ritirandosi in una casa di malaffare.

L’Innocenti amava sempre sua moglie e forse sarebbe stato disposto a perdonarla se costei avesse consentito a riabilitarsi, lasciando quella casa infamata… e saputo che la donna si recava in certe ore della mattina a prestare dei servizi domestici presso una famiglia che abita appunto in un quartiere dove stamani si è svolto il dramma, l’ha attesa ed appena l’ha scorta le si è avvicinato.

La sposina aveva già sei figli e di quattro differenti mariti In una lettera il cuoco, spiegava le cause del suo gesto contro la moglie. E così La Nazione ne faceva sintesi Nel 1909 l’uomo prese alloggio in una camera dell’abitazione della Puliti, essa si mostrò con lui assai cortese e piena di cure tanto che egli se ne invaghì. Seppe che la donna era vedova ed aveva una figlia ma questo non turbò affatto i suoi sentimenti. Nel novembre del 1909 il cuoco sposò la Puliti. Ma quale atroce disinganno e quale sorpresa il giorno dopo. L’uomo si vide piombare in casa ben sei figli, tutti ragazzini vispi e garruli. Erano sei figli di quattro differenti mariti. L’uomo chiese spiegazioni e la donna rispose che erano suoi e non si permettesse di fare osservazioni che altrimenti se ne sarebbe andata… da quel triste giorno per il cuoco cominciò una serie lunga di infelicità. La moglie e la madre di essa si dettero a perseguitarlo tanto che egli era in breve tempo diventato il soggetto d tutte le lingue maligne. In una parola la moglie lo tradiva, non lo curava affatto e spesso lo copriva d’ingiurie…

Immagini della Firenze dei primi del Novecento. Qui accanto un contadino arrivato dalla campagna invita i clienti ad acquistare le sue mercanzie. Nel tondo: un gruppo di bambini che gioca in Piazza Sant’Andrea.


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Nascono le edizioni locali

Gastone De Anna: “Così feci nascere le redazioni di provincia a La Nazione” Il “fuori sacco” e i megafoni che annunciavano il ritorno in edicola del nostro giornale I “pionieri” di una grande avventura nel racconto di colui che seppe trovarli e organizzarli

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n principio c’erano dei corrispondenti, uno per ogni capoluogo di provincia. Erano personaggi di rilievo nelle proprie realtà, ma non per questo avevano molto a che fare con il giornalismo. Un nobiluomo legato alla causa risorgimentale, un professore di liceo, un sacerdote. A Perugia, ad esempio, quando ancora era sotto il papato, e dunque fra il 1860 e il 1870, un anonimo estensore inviava notizie, per lo più di politica, rischiando le persecuzioni e l’arresto. Fu tra gli anni Trenta e Quaranta del secolo scorso, che ogni capoluogo toscano ebbe il suo corrispondente. Le notizie, battute a macchina e spedite con un fuori sacco (si trattava di un plico che viaggiava “fuori dal sacco postale” perché ad attenderlo e a ritirarlo alla stazione, dei treni o degli autobus, per abbreviare i tempi di consegna era un usciere de La Nazione) impiegavano per lo più una notte ad arrivare a Firenze. L’indomani venivano vagliate, qualche volta riscritte, titolate e impaginate nella redazione di via Ricasoli. E per lo più ogni provincia aveva almeno un titolo al giorno, qualche volta mezza pagina. Non di più.

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egli anni Quaranta la redazione delle province era formata da quattro redattori sotto la guida Giuseppe Cartoni il cui figlio, Mario, sarebbe poi diventato un noto cronista giudiziario. Fra questi era Nicola Della Santa, almeno finché non fu richiamato sotto le armi. Fu allora che entrò in scena un personaggio destinato a organizzare le redazioni provinciali così come sono ancor oggi, sia pure con

ben altra consistenza di pagine e di giornalisti. Si trattava di Gastone De Anna, figura mitica del giornale, al quale si deve – assieme a Giordano Goggioli, ad Alberto Marcolin, e ai grandi direttori Russo e Mattei – il rilancio del dopoguerra che permise a La Nazione di raggiungere negli anni Cinquanta le centomila copie. De Anna ha oggi novant’anni, non uno di meno. Ma anche una memoria di ferro e una lucidità invidiabile. È capace, perfino, di divertirsi a raccontare quegli anni. Ha conservato l’ironia, la capacità di narrare e fare sintesi, che ne fece un grande giornalista. Assieme a Giorgio Batini è l’ultimo di una grande generazione di colleghi, che insegnarono a tutti noi il mestiere. Ci riceve a casa sua, splendida vista su una delle più prestigiose piazze di Firenze. E dopo pochi minuti si ricrea l’atmosfera di un tempo.

Come si diventava giornalisti ai suoi tempi? “Per quanto mi riguarda fu davvero un caso. Sono nato nel 1919, mio padre comandante di marina era morto nel ’20 a Trieste, con D’Annunzio, quindi ero orfano di guerra. Nel ’40 trovai un mio amico di scuola che voleva offrirmi da bere perché era entrato come correttore di bozze a La Nazione. Era felice, volevo diventarlo anch’io. Così, ci provai. Avevo buoni studi e come orfano di guerra anche qualche vantaggio. Mi chiamarono in prova perché Nicola Della Santa, che dopo una lunga prigionia sarebbe tornato a collaborare nel mio stesso ufficio, era stato richiamato in guerra”. Con chi ebbe il primo colloquio? “Con Micheli, un capo redattore leggendario che faceva tutto, conosceva tutto, anche il lavoro dei tipografi, e lo svolgeva a una velocità impressionante. Aveva un occhio di vetro, e noi dicevamo che l’unico lampo di

umanità gli veniva proprio da quell’occhio”.

Com’era il clima in redazione? “Scansonato, ironico, divertente. Ma lavoravamo tutta la notte senza pause. L’editore era Favi, l’amministratore Gazzo, era tutto un gioco di parole.” Quanto rimase a La Nazione prima della guerra? “Pochissimo. Nel ’42 fui richiamato sotto le armi, poi fui fatto prigioniero. Fuggii, fui catturato e portato in Polonia, ci stetti due anni e infine mi liberarono gli americani mentre scappavo perché stavano arrivando i russi. Tornai a casa nel ’45, la feci tutta a piedi, o quasi, e trovai Firenze distrutta. Al posto de La Nazione c’erano tre giornali, La Nazione del popolo, il Nuovo Corriere e la Patria. Presi a collaborare col Nuovo Corriere, che era inizialmente il giornale degli alleati. Ma finalmente, nel ’47, a marzo, riprendemmo le pubblicazioni.”

La formazione tipo dei giornalisti de La Nazione per il torneo di calcio aziendale degli anni Settanta. Dall’alto a sinistra: Franco Ignesti, Leopoldo Paciscopi, Sandro Picchi, Giuseppe Peruzzi, Maurizio Naldini, Claudio Carabba, Piero Chirichigno. In basso: Enrico Maria Pini, Marco Morelli, Mauro Mancini, Raffaello Paloscia (cap), Umberto Chirici, Giancarlo Domenichini e Raffaele Giberti.


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E lei? “Favi mi considerava come un figlio. Mi disse: “Devi ricostruire la rete dei corrispondenti.” Mi dette un auto e un autista. Andavamo nelle varie province, e quando io ero sceso - prima no perché mi vergognavo - lui cominciava ad urlare in un megafono “La Nazione! Torna La Nazione!” Come organizzò il lavoro? “Dove era possibile contattavo i vecchi corrispondenti e riaprivo i vecchi locali. Altrimenti cercavo edifici e uomini nuovi. Nel ’48, quando Favi morì, tutte le redazioni dei capoluoghi di provincia erano riorganizzate.”

Qualche nome di allora, qualche collega? “Passaponti a Pisa, Chiantini a Siena, Coppini ad Arezzo e poi Dragoni e Piero Magi. A Spezia Reggio che poi passò il testimone al figlio, il conte Vitelleschi e poi Bassi a Perugia. E ancora Ciullini a Pistoia, Del Beccaro a Lucca, Valleroni e Pighini e Massa, Rossi a Grosseto. Mauro Mancini diresse la prima redazione di Prato. Poi divenne inviato speciale assieme a Piero Magi, e più tardi a Piero Paoli e Raffaele Giberti che ricordo con immenso affetto, veniva da Spezia. Intanto cresceva anche la redazione province a Firenze. Era tornato Della Santa, poi arrivarono Gianfranco Cicci, Nereo Liverani, Romolo De Martino, Enrico Mazzuoli, Aldo Satta, Giancarlo Domenichini, Tiberio Ottini, Giuseppe Mannelli, Luigi Scortegagna, Rossi, l’indimenticabile Piero Chirichigno, Franco Ignesti e una splendida segretaria, la signorina Giorni, che divenne un po’ l’anima di quell’ufficio. Si andò avanti così sino alla fine degli anni Sessanta quando arrivarono giovani come Enrico Maria Pini, Riccardo Berti e Maurizio Naldini. Spero di non aver dimenticato nessuno.” Come lavoravate? “Al contrario di oggi. Tutto il materiale viaggiava col fuori sacco, e in base alle ore in cui arrivava era controllato e titolato in redazione. Fu solo con il

Gastone De Anna al telefono con il corrispondente di Siena Chiantini in una delle primissime vignette di Giannelli.

computer che le redazioni presero a organizzare le loro pagine direttamente. L’impaginazione poi partiva dalle nove di sera con la prima edizione che veniva chiamata “Nazionale”. Poi si passava alle province più lontane come Spezia, Perugia, Grosseto, e un po’ alla volta si arrivava a impaginare Prato. Quindi, alle tre di notte veniva preparata l’ultima edizione, quella che i fiorentini trovavano in edicola al mattino. Intanto i primi corrispondenti erano diventati giornalisti professionisti, accanto a loro erano vari collaboratori, poi assunti come giornalisti anche loro, mentre la rete si infittiva fino a raggiungere anche i paesi più piccoli e sperduti.”

Quando fu concluso il lavoro di organizzazione? “Praticamente mai, continuava giorno dopo giorno. Però, alla fine degli anni sessanta La Nazione dominava totalmente il suo territorio di diffusione, e cominciavano anche le edizioni di Sarzana con Osvaldo Ruggeri e di Pontedera con Orazio Pettinelli. Era poi arrivato dal Nuovo Corriere un ottimo amministratore, Ivo Formigli, che già aveva collaborato con Favi negli anni Quaranta.”

Rimpianti? Lo rifarebbe quel lungo lavoro? “Subito. Credo di essere nato per svolgere quell’attività. Eravamo una grande squadra, un gruppo

di amici che riuscivano a lavorar bene divertendosi. La redazione era sempre affollata di personaggi famosi che venivano a trovarci. Per segnalare notizie, per commentarle, semplicemente per scambiare due idee. Potevano essere attori o personaggi della televisione, atleti, uomini politici. Ci sentivamo forti, i lettori del resto, ci davano ragione.”


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Gastone De Anna si racconta

Il mio primo articolo Un racconto, o piuttosto un esempio per i giovani che oggi si avvicinano al mestiere. Così Gastone De Anna, un giornalista che appartiene al mito ci racconta, con autoironia, il suo primo servizio

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ra l’inverno del 1940, pioveva come Dio la mandava e l’Arno faceva le bizze. L’editore Favi, che aveva una villa nei pressi di Signa, telefonò dicendo che forse un uomo era annegato nel fiume. Micheli, il capo redattore aveva tutti i cronisti sparsi per la città. In redazione ero rimasto solo io che passavo le notizie arrivate dalla provincia. Micheli entrò nella mia stanza e disse senza preamboli: “Lascia tutto e vai a Signa, c’è un annegato. Fatti portare dalla macchina che consegna i giornali a Pisa.” Io scesi di corsa nel garage, ma l’auto per Pisa era già partita. Così tornai da Micheli e titubante azzardai: “Se crede vado in bicicletta”. “Bravo!” Rispose. “Fatti dare un impermeabile dagli operai e pedala alla svelta”. Erano le due di notte. Partii. Ma dopo un chilometro, con quell’impermeabile di gomma, ero in un bagno di sudore. Arrivai non so come nei dintorni di Signa e mi dissi: “Bravo, e adesso? Dove vado a quest’ora?”. Pedalavo lungo l’Arno e per fortuna vidi delle luci sul greto. Scesi, scivolai sul fango, persi una scarpa. Era impossibile continuare. Ma vidi un barcaiolo e gli dissi. “Per favore, la pago bene, mi porti fino a quelle luci”. “Ma sei bischero” rispose. “Il fiume ci porta via!”. Allora lo supplicai, gli promisi tutti i soldi che avevo in tasca. Lui forse si impietosì, chiamò un altro uomo e non so come arrivammo fino alle luci.

E allora capii che avevo fatto un viaggio inutile. Affogati non ce n’erano. C’era una donna che si era sentita male, non ricordo, forse era incinta, e l’avevano portata in ospedale. Così tornai in redazione pedalando come una furia. Era l’alba e Micheli mi aspettava per strada. “Corri a scrivere” disse con aria di rimprovero. Io corsi e gli consegnai mezza cartella nella quale raccontavo la vicenda. Lui prese il foglio, e senza neppure leggerla corse in tipografia.” Credevo fosse finita. E invece, passarono due minuti e Micheli rientrò nella stanza. Mi incenerì con il suo occhio di vetro e disse: “Ma se non è successo nulla!”. Allargai le braccia: “È colpa mia?” Ripresi il lavoro per le province, lo finii. Lasciai la nota spese nell’apposito cassetto dell’ amministrazione. Poi, finalmente, andai a casa, a dormire. Mi svegliò poco dopo le nove mia madre, “Ti vogliono al giornale”. Corsi, ed era Favi, l’editore in persona, che voleva parlarmi. Non l’avevo mai incontrato prima. Era un uomo enorme, e la sua scrivania era su una pedana che lo rendeva ancora più imponente. Mi dice: “Lei ha fatto un servizio stanotte?” “Sì” gli rispondo. “E dov’è, che non lo trovo nel giornale?” Ci mettiamo a cercare tutti e due. E in fondo all’articolo sull’Arno c’era scritto. Allagamenti anche a Signa, danni alle colture, illese le persone. “È questo?” mi fa. “Penso di sì.” Risposi. E avrei voluto scappare. Allora il Favi prese la mia nota spese, me la sventolò sotto il viso, e disse alzando la voce: “E per un rigo e mezzo mi ha comprato una barca?”

“E per un rigo e mezzo mi ha comprato una barca?”

«L’Arno che faceva le bizze

e l’annegato che non c’era

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Pegolotti, Goggioli, Marchi e Liverani Così nacquero le cronache dello sport Da via Ricasoli a piazza Beccaria, dalla macchina da scrivere al computer Un inserto di quaranta pagine tutti i lunedì di Giampiero Masieri

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ueste sono le vicende, sconnesse come molte strade fiorentine- e a dire sconnesse si sta certamente sul leggero - della redazione sportiva di questo giornale, di che cosa c’era prima e di che cosa c’è ora, che tra l’altro vuol dire dalle macchine per scrivere, in alcuni casi solenni come cattedrali, fino ai computer, che se in alcuni casi non sembrano da tasca ci manca poco. Insomma, dalla sede storica di Via Ricasoli, a due passi da Piazza del Duomo, a quella che sfiora Piazza Beccaria e che l’alluvione del ’66 si guardò bene da sfiorare, la invase di brutto e basta. Giornalisti famosi da ricordare subito ce ne sarebbero tanti. Ci fermiamo a due, di due generi diversi, Beppe Pegolotti e Giordano Goggioli. Piacevole, ironico e dissacrante raccontatore il primo, anche sulle decennali vicende della Fiorentina. Indimenticabile Pegolotti, per le sue battute sui viola, e anche per le sue cronache dal Giro di Francia e dal Giro d’Italia. Ferreo organizzatore era Goggioli nell’era moderna. Con loro, anni prima e tanti anni dopo, miriadi di colleghi e di collaboratori esterni. Ne dimenticheremo certamente alcuni. Tanto, il biglietto per l’inferno lo abbiamo già: posto in piedi.

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ominciamo da molto lontano, il 1925, con l’aiuto indispensabile delle collezioni del giornale. Le corse al galoppo all’ippodromo di San Siro erano tra le notizie di maggiore lunghezza, dieci righe. Più o meno come le prove all’autodromo di Spa. Sempre dall’estero, notizia di un “pugilatore” impegnato a Parigi. Bisogna tener conto che non esisteva ancora una redazione prettamente sportiva e non esisteva nemmeno la Fiorentina, che è sempre stata un veicolo da corsa, diciamo così, de “La Nazione”

I campionati di calcio? “Dura sconfitta della Cremonese a Vercelli”. Niente formazioni, testi sempre sul breve, rare le fotografie. Il testa al campionato, tra parentesi, c’era sempre il Bologna. Nel ciclismo Tano Belloni, l’eterno secondo, smentiva tutti e vinceva la Milano-Modena. Le pagine di quel tempo abbondavano invece di notizie sul teatro e di recensioni, si parlava della bellissima Pola Negri e di Adolph Menjou, “adorato dal pubblico femminile fiorentino”. Da parte sua, Ferdinando Paolieri, al quale è dedicata una strada proprio di fianco alla sede de “La Nazione”, dedicava un lungo articolo a Giovanni Fattori nel centenario della nascita. Con un salto di dieci anni trovia-

mo una intera pagina giornaliera dedicata allo sport, non più piccole notizie e via. Troviamo anche le prime firme importanti, e diciamo pure storiche. Il sommo Giuseppe Ambrosini scriveva di ciclismo, Giro d’Italia compreso, Vittorio Pozzo era naturalmente sul calcio, partite della nazionale comprese. Il famoso Nedo Nadi, livornese, scriveva, altrettanto naturalmente, di scherma. Giuseppe Centauro era sulla cresta dell’onda come resocontista. A lui si deve la famosa frase, da tanti di noi ripresa, su un gol dell’uruguayano Pedro Petrone. Diceva: “I cipressi di Fiesole si inchinarono al tiro dell’artillero”. Nelle cronache sull’ippica troviamo un nome molto caro a

questo giornale, il nome di Italo Marchi. Con un termine forse in disuso, ma che a tutti i costi deve rendere l’idea, lo definiamo un gentiluomo, preciso, puntuale e nello stesso tempo pieno di rispetto per tutti. Rimase in mezzo a noi per molti anni, fino alle Olimpiadi del ’60 Roma e anche oltre. Sul Gran Premio di Merano, la famosa Lotteria, riferiva puntualmente con lunghi con articoli. In mezzo a noi gli dette il cambio il figlio Paolo quale redattore in pianta stabile, nel settore dedicato alle notizie dall’interno. Due tipi completamente differenti, Italo riservato, Paolo esuberante. Li ricordiamo con affetto. La Fiorentina di quell’anno? Non riuscì a battere la Sampierdare>

Giordano Goggioli tra due suoi allievi di giornalismo: Giorgio Moretti (a sinistra) e Raffaello Paloscia. La foto è tratta dal volume “Giordano Goggioli” di Massimo Sandrelli e Raffaello Paloscia.


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La Rari Nantes disputava le sue prime gare in Arno davanti a un pubblico sempre numeroso. Nella foto si riconoscono ( in primo piano) il campione di stile libero Pucci e il barcaiolo Omero proprietario dell’omonimo stabilimento balneare sul fiume. Dietro di loro un giovanissimo Giordano Goggioli.

nese. Aveva Amoretti, Gazzari, Renzo Magli, Pizziolo, Bigogno, Neri, fino a Perazzolo e Scagliotti. Il ciclismo? Ecco un titolo tra i più interessanti: “Bini e Bartali si battono oggi per la successone di Learco Guerra”. La boxe? “Joe Louis incontrerà il basco Paolino”.

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a osservare che sui titoli si andava sempre sul sicuro, ossia sulla cronaca. A provarci oggi, e soprattutto a perseguitare, si rischierebbero partacce a scena aperta. D’altra parte in quell’epoca occorreva soprattutto, e prima di tutto, informare. Ora che è la televisione a informare con ore e ore di anticipo, è stato necessario cambiare. A questo punto incontriamo un personaggio che segnò, o per lo meno accompagnò il passaggio dalle poche notizie di sport e un solo articolo, a pagine e pagine intere. Si chiamava Mario Liverani, e anche lui, come Italo Marchi, ebbe come erede il figlio: Nereo. Mario entrò al giornale in punta di piedi con il desiderio di imparare. Era un periodo nel quale una vera e propria redazione sportiva non esisteva ancora. C’era da riparare dappertutto, e Liverani non si sottrasse mai. Era nato nel 1903 a Modigliana, allora in provincia di Firenze, poi di Forlì. Arrivato da quel posto di frontiera, frequentò subito circoli di sportivi. “La Nazione”

Goggioli a organizzare il lavoro in senso moderno. Goggioli, ex campione di pallanuoto con la Rari Nantes Florentia, era un uomo pieno di idee e di iniziative, e siccome aveva un voce potente e imperiosa, contraddirlo restava difficile. Mise su una bellissima redazione, con Mario Liverani redattore di notte, Raffaello Paloscia di giorno, Beppe Pegolotti inviato, Giorgio Moretti nell’edizione della sera, Romolo De Martino a fare, diciamo, da coscienza a tutti. Lavoravano benissimo. Pegolotti, nato a Cecina, veniva dal “Tirreno” di Livorno, aveva esordito nel ’34 nientemeno che con le due partite in due giorni tra Italia e Spagna, la Spagna di Zamora. I collaboratori erano tanti, da Antonio Ghirelli a Roberto L. Quercetani per l’atletica leggera internazionale, Saverio Ciattini per i motori, Paolo Lucchesini per l’ippica, Manlio Gazzo per il pugilato, Giuliano Mazzoni per il ciclismo e poi come preziosissimo segretario, Mara Novelli per il tennis, Paolo Pepino per nuoto e pallanuoto, e ancora Franco Ignesti, Pier Giovanni Canepele, Roberto Checcucci, Vincenzo Tessandori. Sandro Bennucci e cercava persone che si dessero da fare. Mario era l’uomo giusto. Pier Lugi Brunori che del calcio conosceva tutto, ma proprio Stenografava, in un’epoca nella quale gli articoli da fuori Firenze tutto, specie se si trattava di numeri e statistiche. Piero Fovenivano telefonati e perciò stenografati, e aiutava a portare cardi scriveva di basket, era così preciso che in coda alla notizia i giornali la notte alla stazione. su qualsiasi partita al Palazzetto Personaggio amatissimo per la Iti di Via Benedetto Dei indicava grande disponibilità, collaborò anche alla organizzazione del primo grande veglione di Carnevale alla Pergola, che fece epoca. Era innamorato del ciclismo, lo seguiva, lo conosceva a fondo. Tanti anni dopo, l’ex commissario tecnico del ciclismo, Alfredo Martini, disse: “Voleva così bene al ciclismo che per lui una corsa di allievi intorno al Campo di Marte equivaleva a una preolimpica”. “La Nazione”, piano piano dette sempre più spazio allo sport, al punto da destinare un inviato al calciomercato, che allora si svolgeva al famoso Hotel Gallia di Milano. L’inviato si chiamava Nuto Innocenti. Al ritorno da Milano rimise naturalmente la nota delle spese. L’amministratore gli chiese, quasi scandalizzato: “Ma come, ha dormito al Gallia?”. Innocenti rispose: “Sì, al Gallia. Non avevo trovato di meglio”.

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ario Liverani era amico e cantore di Bartali. Seguì le sue corse, magari da lontano causa gli impegni al giornale, fino dal ’31. Dopo la guerra, alla ripresa delle pubblicazioni, quando in caporedattore era Micheli, aiutò Giordano

sempre: tram numero 23. E poi c’erano anche Pieraccini, Naldoni e Roberto Parigi per il calcio minore e Marzuchini per la neve. Sempre per il calcio, quello viola, Maurizio Naldini ed Enrico M. Pini. Altra garanzia. Accanto a Paloscia, il quieto Paloscia che poi prese il posto di Goggioli, si susseguirono come redattori Sandro Picchi, Luca Frati, Enzo Bucchioni, Andrea Galli, Alessandro Fiesoli e il sottoscritto, che in quanto tale conferma. Sempre con molto affetto e rimpianto ricordiamo inoltre Athos Di Clemente, che si divideva dalla mattina alla sera tra articoli, titoli, diciture e sigarette.

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capo della redazione si susseguirono, citiamo senza l’ordine cronologico, Sandro Picchi, poi inviato, Enrico Maria Pini, Stefano Cecchi, Franco Caniato, Angiolo Giorgetti, Piero Campani, Bucchioni, Massimo Pandolfi, Angelo Costa, Francesco Matteini e di nuovo il sottoscritto, poi inviato. Oggi alla guida c’è Paolo Chirichigno. Alla guida e addetto anche alle grane, con Giorgetti, Riccardo Galli, Simone Boldi e Maurizio La Ferla. Quaranta le pagine di sport ogni lunedì nelle varie edizioni. Resoconti, o comunque notizie con le formazioni, sulle partite dalla serie A fino alla terza categoria. E via andare, come dicevano un tempo i cronisti.

Siamo nel 1911 e la Canottieri Firenze si è appena unita alla Libertas. Atleti e dirigenti posano per la foto ricordo.

Archivio storico Canottieri Firenze

Archivio storico Canottieri Firenze

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Giorgio Batini si racconta

“FACEVO LA CRONACA E POI ME LA SCRIVEVO”

dal volume “la mia vita” di Giorgio Batini

Ho sempre voluto partecipare agli eventi, anziché limitarmi a raccontarli. L’alluvione, la misteriosa “Bambagia” degli Ufo, il ritorno dei Pollaiolo agli Uffizi, il Piccolo Zoo delle Cascine, la Mostra dei Tesori segreti della Case Fiorentine. Così feci per il Vajont Un grande giornale dalla centenaria tradizione d’indipendenza Le lettere di Prezzolini, l’ironia di La Pira

Giorgio Batini (a destra nella foto) alla stazione di Santa Maria Novella di Firenze con il professor Ugo Procaci (che tiene, felice la valigetta con i due Pollaiolo recuperati da Siviero) e il vicesindaco Enzo Enriques Agnoletti.

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on sono stato un gran giornalista (pochi, del resto, sono quelli che riescono a vivere con l’autoelogio incorporato), però me la sento di dichiarare che sono stato un giornalista particolare, forse un esemplare in estinzione nell’odierna “fauna” della carta stampata, cioè un personaggio che viveva la vita piuttosto che limitarsi a raccontarla. Stiamo parlando, grosso modo, dei lontani anni CinquantaSessanta, quando io mi sentivo appassionatamente cronista fiorentino, non sognavo di andare alle Galapagos, ma correvo le mie avventure in via dell’Agnolo o in via del Drago d’Oro, non mi imbarcavo sulla bananiera diretta verso porti esotici, ma inforcavo la bicicletta, una scarcassata bicicletta che aveva ancora avvolto alla canna nera del telaio un argenteo bollo da dieci lire. E come fanno i grandi inviati di ritorno dall’Orinoco, anch’io scrissi un libro di ritorno dal viuzzo di Monteripaldi, uno dei miei libri ormai introvabili – “Uomini per Madama” – e se Beppe Pegolotti parlava inglese e il vecchio Renzo Martinelli anche il bantù, io parlavo correttamente in gergo e invece di pistola dicevo la “ribattina”, la “rabbiosa”, la “baiaffa”, invece di polizia la “giusta”, la “madama”, e invece di prigione la “buiosa”. Sapevo meglio dello Smilzo come si fa lo “sfilo”, magari il “tappeto” sotto il letto della Maresca per prendere il portafogli al cliente indaffarato, quelli della banda del buco erano come di famiglia, sapevo dei furti di Veleno quasi in tempo reale, andavo

e venivo in casa di Palle Secche (una porta d’entrata, tre possibili vie d’uscita), a volte arrivavo nel vicolo dove c’era il morto prima del brigadiere, e un giorno trovai nei boschi e caricai in macchina un pezzo d’uomo che aveva fatto a fette la moglie con la scure, lo tranquillizzai (“sono cose che succedono in tutte le famiglie”) e lo portai fino alla prima stazione dei Carabinieri; in altra occasione – per avere la foto di una vittima che la “giusta” aveva già portato via – mi feci fotografare sdraiato in terra con sopra un lenzuolo, dal quale però spuntavano le mie scarpe, mentre nelle foto dei giornali concorrenti la vittima era scalza. Indagavo come uno della “mobile” (proprio come in certi libri di detectives americani che però non leggevo), riferivo ai lettori della Nazione anche i risultati delle mie personali indagini, e poteva succedere che – domandando in questura cosa avesse confessato l’autore di un delitto – mi si rispondesse “quello che lei ha scritto ieri sul giornale...”. “Invece di scrivere la cronaca di Firenze – mi diceva un direttore (Alfio Russo), tra il corrucciato e il compiaciuto – tu fai la cronaca, insomma partecipi…”. Era vero, stavo più in giro che in ufficio, e questo accadde ancora di più quando il proprietario del giornale mi comprò la prima “Vespa”, e poi una moto Gilera, il che fece scalpore tra i colleghi, tutti ciclisti.


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Giorgio Batini si racconta

Le grandi firme

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ro molto amico dei “grandi” come Indro e Curzio, e “amico di penna” di Prezzolini, che non ho mai visto. Lui, al tempo della “Voce”, frequentava a Firenze, alla Consuma e alla Verna, mia madre che era amica della prima moglie Dolores. Come si sa se ne andò in America per poi stabilirsi in vecchiaia a Lugano, senza più tornare a Firenze. Non voglio esagerare, ma in certi momenti mi sembrava di stare a Firenze per conto di Prezzolini che mi scriveva per sapere questo e quello, per verificare cose del lontano passato. Ricordo lettere di una scrittura minuta, tutta gettata di traverso, in diagonale sulla carta da lettere. Lusingato, consideravo ogni lettera un onore, un premio. Ero a Londra quando lessi sul Corriere della scomparsa di Enzo Grazzini, nota firma del quotidiano milanese, che conosciutomi da ragazzo aveva previsto il

mio futuro professionale. In età avanzata amava molto le storie di cani, gatti, animali, e quando veniva a Firenze mi chiedeva se per caso ne avessi una, e così gli raccontavo di quel cane lupo del cantiere comunale delle Cascine che era stato incaricato di catturare una volpe fuggita dal piccolo Zoo e che invece ci giocava tutte le notti, o di una scimmia che girava libera per San Frediano, che rubava il cibo dalle cucine, che scandalizzava le suore di un convento, che finita allo zoo muoveva una zampa con estrema rapidità tra le sbarre della gabbia e rubava gli occhiali ai visitatori. Rubò anche quelli di un prefetto. La storia che più piacque a Grazzini fu quella di un cane che tutti i giorni saliva su un treno che fermava a Campiglia Marittima, mangiava al vagone ristorante, scendeva a Livorno, prendeva un altro treno e tornava a Campiglia.

Nelle foto a sinistra: Indro Montanelli con la sua inseparabile “lettera 22” sulle ginocchia e Curzio Malaparte che fu inviato speciale de La Nazione negli anni Cinquanta.

Un momento della festa per il centenario de La Nazione. Da sinistra: Silvano Galli, Laura Griffo, Giorgio Batini, il direttore Alfio Russo, Omero Zaccherini direttore di tipografia e Paolo Bugialli.

Ringrazio il destino di avermi fatto appartenere alla Nazione, un grande giornale di centenaria tradizione di libertà e d’indipendenza, che non mi ha mai imposto alcunché, permettendomi di essere, e di restare sempre, quello che intendevo essere. E probabilmente, non avrei avuto altrove l’onore di lavorare con compagni di viaggio come Micheli, Mattei, Yambo, Taddei, Vitali, Pegolotti, Martinelli, Gigli, Poesio, De Anna, Goggioli, Paloscia, Passetti, Magi, Pizzinelli, Frosali, Mazzuoli, Della Santa, Ragionieri, Forti, Marcolin, Scelba, Silvano Galli, Bertuccelli, Apollonio, Basevi, De Carli, Chirici, Gozzini, Bucciolini, Cartoni e tanti altri, tutti laureati in coerenza ed equilibrio, in fermezza, dignità, prestigio, tutti modelli del vivere, del partecipare, dello scrivere. Tra i miei più commossi ricordi c’è quello di un giovane, intraprendente guardiacaccia maremmano che sul comodino della sua camera di Capalbio teneva a portata di mano i racconti venatori di Aldighiero, mio padre, gran cacciatore al cospetto di Dio, e poi si guadagnò i galloni di giornalista, divenne mio fraterno amico, dalle frequenti confidenze, quasi un figlioccio; e una volta mi invitò a pranzo a Macchiascandona, e vuotò tutto il sacco dicendo che lui non era andato più lontano, con la barca, delle isole dell’Arcipelago, ma questa volta doveva affrontare l’Atlantico per vedere con i propri occhi se quello che raccontava il coraggioso navigatore solitario Fogar e che lui aveva riferito, rispondesse alla verità. Una verifica che lui doveva ai lettori, a se stesso. E voler conoscere quella verità gli costò - povero Mauro Mancini - la vita, gli affetti più cari, quel suo sconfinato amore per il mare.

Archivio Giorgio Batini

Compagni di viaggio


Archivio Rosario Poma

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Gli indimenticabili Indimenticabili i grandi personaggi italiani e stranieri che ho conosciuto e intervistato per il giornale, e anche quelli modesti di cui nessuno sa più il nome. Come quell’arabo che faceva il guardiano del cimitero militare italiano in Egitto, che conobbi quando decisi di passare una notte in un periodo natalizio tra i nostri dimenticati caduti di El Alamein: e l’arabo mi raccontava che certe notti vedeva passare i fantasmi dei carristi della Littorio, e altre volte sentiva passare la fanfara dei bersaglieri che proveniva dalle parti di Marsa Matruh e correva in direzione di Giarabub. Indimenticabili i giorni di novembre del 1966 quando fui inseguito nel Lungarno della Zecca dalla piena straripata dell’Arno, quando vidi raccogliere con un colino da thè la pelle del Cristo di Cimabue, quando andando in musei, chiese, archivi, biblioteche alluvionate come cronista detti anche una mano ai salvatori dell’arte, e liberai dal fango quadri, ceramiche, nobili memorie fiorentine. Allora il giornale veniva stampato a Bologna, perché le rotative erano finite sott’acqua, e noi cronisti, inviati, con un po’ di amici tipografi, facevamo i pendolari.

Via Ricasoli by night Sono stato grande amico di due sindaci: Bargellini e La Pira. Spesso, nel tardo pomeriggio, uscivo dalla redazione di via Ricasoli e aspettavo che passasse La Pira, che lasciato l’ufficio di sindaco in Palazzo Vecchio, se ne tornava a piedi, senza scorta, al convento di San Marco. L’avevo conosciuto da ragazzo alla Consuma, era stato mio professore (però mi aveva fatto esaminare dai suoi assistenti), aveva fatto da testimone al mio matrimonio, credo di poter dire che mi voleva bene, che chiacchierava volentieri con me, magari lamentandosi che il giornale ce l’aveva sempre con lui. Su di lui sono state dette e si possono dire migliaia di cose, ma pochi hanno osservato come quel piccolo, grande siciliano avesse fatto propria l’ironia fiorentina. Quando tolsero dal calendario San Giorgio, gli dissi scherzando che avevo sperato di riempire quel vuoto in un giorno lontano, ma avevo perso ogni speranza da quando c’era un Giorgio importante come lui: “Chiaramente – dissi – il posto è suo!”. “Non disperare – rispose – a volte si sbagliano...!”

Da sempre, quel che è fatto è reso. E siccome la cronaca prendeva viva e diretta parte nella vita cittadina, la città considerava il giornale un luogo cittadino, di visite e d’incontri, e via Ricasoli, specialmente di notte, era frequentatissima: arrivava l’ambasciatore, il ministro, l’onorevole, il prefetto, il generale, che volevano parlare con il direttore, qualche pittore che andava da Paloscia a dirgli di una nuova mostra, giovanottoni della palla a nuoto in visita da Goggioli, campioni delle due ruote da Liverani, magari un capocomico da Bucciolini, spesso Mike Bongiorno che andava a chiacchierare con Paolo Bugialli e Laura Griffo. Il proprietario di una riserva di caccia che veniva ad offrirmi un gatto selvatico per lo Zoo delle Cascine (era finito in una trappola, mangiava due piccioni al giorno: poi morì e fu imbalsamato alla Specola) incontrava per le scale Cinquino che veniva a trovarmi appena uscito dal Mastio di Volterra, un consigliere comunale che voleva una campagna contro i rumori, un politologo che andava a discutere da Taddei, un vignettista di “Brivido” da Cartoni. Era un via vai. Molti i nobili, perché una parte dell’aristocrazia fiorentina aveva il sonno difficile, ed uno dei passatempi notturni era quello di andare al giornale per suggerimenti e proteste. Una marchesa veniva spesso a ripetere che in piazza Indipendenza c’erano due prostitute, e un gran giro di macchine e se lei scendeva di sera nella piazza per la passeggiata diuretica del pechinese subito le offrivano quaranta lire. A tarda notte un punto di ritrovo dell’aristocrazia era anche la stazione dove al bar ristorante facevano i tortellini più buoni della città, e a quell’ora tarda (quando c’era la Mostra Antiquaria) arrivavano con il treno i mercanti d’arte del nord che dovevano allestire gli stand a Palazzo Strozzi, e anch’essi - sapendo dei tortellini - si fermavano alla Stazione per uno spuntino: io presentavo loro quella o quell’altra contessa, che a volte divenivano loro clienti per un fiammingo o una specchiera (fu così che nel mondo degli antiquari - anche a Delft, anche a Bruxelles - mi chiamavano “Giorgio delle contesse”). Un continuo via vai di amici, i più disparati: Gino Bechi, Roberto Guicciardini, Carla Fracci, Beppe Menegatti, Enzo Tortora, Amerigo Gomez, Pier Carlo Ruffilli, Giovanni Germani... Un mondo non facilmente immaginabile, al quale mancò un Fellini.

Firenze, 31 maggio 1971. Una foto di gruppo della redazione in occasione della festa per il pensionamento della segretaria di redazione Elena Becattini. In prima fila da sinistra: Luciano Satta, Giuseppe Peruzzi, Fabiani, Rosario Poma, Marcello Taddei, Elena Becattini, Paolo Emilio Poesio, Wanda Lattes. Gli ultimi due a destra sono Saverio Ciattini e Renzo Vatti. Si intravede al centro in ultima fila Alberto Marcolin.


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Giorgio Batini si racconta

Giramondo e giraregione

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Un disco volante in volo. Per giorni a Firenze fu vissuta la psicosi degli UFO dopo che una strana ragnatela era caduta sullo stadio durante una partita. In basso alcune drammatiche immagini del disastro del Vajont.

o scritto centinaia di articoli per difendere la natura, le tradizioni, le memorie storiche, l’arte. Poteva accadere che nello stesso giorno ci fossero nel giornale tre o quattro articoli miei, uno firmato Giorgio Batini, un altro Giobat, un altro ancora Bat, oppure Carlo Lienzi ch’era di tutti e di nessuno. A quei tempi il salotto buono del giornale era “la terza”, la famosa terza pagina, la quale ospitava pezzi letterari, grandi servizi, inchieste, finestre aperte sul mondo, ma consentiva anche di nobilitare piccole realtà locali. In quella pagina - dove in quegli anni Sessanta apparivano illustri firme di scrittori italiani - ho fatto per anni sia il “giramondo” che il “giraregione”, sempre inguaribilmente cronista, e sempre affamato di spazio, perché secondo me le cose da raccontare sono come le ciliegie che una tira l’altra, cosicché a volte – per dire proprio tutto – bisogna scrivere un libro invece di un articolo. Dicono che ne ho scritti troppi,

ma sono di più quelli che avrei voluto scrivere. Le notizie non mancano mai. Sono nell’aria come le farfalle di Papillon, importante è nascere con una reticella sempre pronta, mai stanchi di vedere, di ascoltare, di sapere. Quando raccolsi una voce che l’amico Rodolfo Siviero era riuscito a recuperare in America due celebri tavole del Pollaiolo rubate dai tedeschi, feci una corsa fino a Le Havre, riuscii a salire sul transatlantico di Siviero, lo intervistai, detti per primo la notizia del recupero, e tornai a Firenze con l’amico Rodolfo il quale mi concesse di portare la valigetta nera che custodiva i Pollaiolo. Indimenticabile. Quando in Russia un georgiano mi raccontò che nel Caucaso c’erano (come nel caso dei mustang delle praterie americane) dei branchi di cavalli selvaggi, feci di tutto per riuscire a ottenere dalle autorità sovietiche (erano i tempi di Kruscev) il permesso di raggiungere quelle regioni lontane, dove giunsi dopo

essere stato in Georgia e a Tiblisi. Girai a lungo per monti e foreste, e infine un giorno potei scoprire - e fotografare – un branco di cavalli selvaggi che si era riunito sulle sponde di un piccolo lago salato, una piccola gemma azzurra al fondo di una verde forra boscosa. Uno spettacolo straordinario, un momento della mia vita che di tanto in tanto la memoria mi regala. Un momento, voluto, cercato, in mezzo a tanti altri fortuiti, occasionali, dei quali spero di essere riuscito a comunicare l’emozione ai lettori della Nazione. E così mi tornano alla mente le grandi manovre degli UFO su Firenze nel 1954 (diecimila tifosi allo Stadio naso in su), con la caduta della famosa e misteriosa “bambagia” o “ragnatela” – caduta anche in America e in Spagna – che io riuscii a raccogliere e a far analizzare chimicamente, il che ebbe un’eco mondiale.

Come aveva capito Alfio Russo, a me piaceva “fare” la cronaca, e come giornalista intendevo partecipare alla vita cittadina, intervenire nella vita cittadina. Lungo è l’elenco di questi interventi. Un giorno, per dimostrare che Firenze, musei a parte, era piena di capolavori d’arte distribuiti nei palazzi, nelle residenze private, organizzai al Circolo Borghese e della Stampa, insieme alle signore della Croce Rossa, la “Mostra dei Tesori Segreti delle Case Fiorentine”. Avevo ragione, e a Palazzo Borghese furono esposti capolavori di tutti i generi, anche un Botti-

celli, anche un Filippino Lippi, un Ghirlandaio, un Beccafumi, un Bronzino, un Vasari, preziose collezioni di argenti, di porcellane, di bronzi e mobili. In quanto a me, finii sul “Time” (“36 years old…”). Collaborai alla Mostra Internazionale Antiquaria con i fratelli Bellini, alla Mostra della Caccia, organizzai l’Asta della Bontà, e per l’inaugurazione dell’Autostrada Firenze-Bologna la Festa delle Tre Torri. Una festa grandiosa, con centinaia d’invitati bolognesi accolti al Circolo Borghese e della Stampa in modo principesco. Accolti così bene da dirci che non

avrebbero saputo come “restituire” e infatti non lo fecero. Fu in quegli anni che pensai che i ragazzi avrebbero rispettato di più gli animali se li avessero conosciuti, e creai - chiedendo il contributo dei lettori - il Piccolo Zoo delle Cascine col cammello Canapone, cinghiali, cervi, caprioli, daini, castori, centinaia di uccelli, liberando anche coppie di fagiani alle Cascine. Una fagiana covò nel deposito delle Ferrovie di Porta a Prato, i castorini si diffusero lungo l’Arno, e ognuno di questi curiosi eventi ebbe l’onore della cronaca.

Cronache d’altri tempi

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erte storie andrebbero riferite in ordine cronologico, ma io le racconto come vengono vengono. Ricordo per esempio, che quando ci fu la sciagura del Vajont, tutte le strade per Longarone erano bloccate dall’esercito mandato in soccorso. Ebbi l’idea di andarci “col treno”, mi feci cioè a piedi quattordici chilometri di binari e questo mi permise non solo di arrivare tra i primi dei trecento-quattrocento inviati, ma anche di vedere un particolare forse sfuggito ad altri: infatti un ponte ferroviario (l’ultimo

prima del paese distrutto dallo tsunami della diga) scavalcava un torrente che aveva ricevuto l’ondata e dove ormai l’acqua si era ritirata. Orrendamente indimenticabile ciò che vidi: nel letto del torrente c’era uno “sformato” di melma, mani, braccia, teste umane. Restai a lungo nel Vajont, anche perché il giornale ebbe l’idea (e forse fu la prima volta che accadde una cosa del genere) di distribuire i soldi raccolti dai lettori del giornale direttamente ai superstiti, con tanto di libretto bancario, tenendo conto dei danni personalmente subiti.


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Vita da capocronista

Scesi sul fiume e la riconobbi era la testa della “Primavera” Da Nando Vitali a Giorgio Batini, da Elvio Bertuccelli a Piero Paoli “La cronaca ti assorbe ogni pensiero”

di Umberto Chirici

La Nazione ha sempre potuto disporre di attrezzature tecniche e industriali di altissimo livello.

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ono figlio d’arte. Infatti mio padre era Fernando Chirici, diventato giornalista seguendo le gesta di un giovane ciclista di nome Gino Bartali con il quale condividerà natali e molte avventure in quel di Ponte a Ema. Siamo state famiglie unite nella vita e poi anche nella morte. Oggi mio padre e Gino riposano uno di fronte all’altro nel cimitero di quello che allora era un paese, Ponte a Ema, e che oggi è diventata la periferia di Firenze. Sono stato capocronista del capoluogo toscano per cinque anni fra il Settanta e l’Ottanta. Ricordo ancora come una ferita la dimessa da un incarico che ho amato, che ho sentito più di ogni altro ruolo nel giornale. E ricordo con la stessa forza al negativo il cambio, la promozione a capo redattore che non volevo e non avevo chiesto. Molti di quelli che lavoravano con me in cronaca oggi sono diventati giornalisti di varie testate, nazionali e televisive, direttori e parlamentari. Capocronista non ci si improvvisa chi ha avuto anche poca esperienza in cronaca ed è stato incaricato di fare il capo per caso o opportunità, ha resistito ben poco. Perché la cronaca è martellante continua e ti assorbe ogni pensiero, anche quando esci dall’ufficio. E giri per la città intravedendo una possibilità, un’altra ancora per scrivere e riportare sul giornale perchè “sai” che i lettori la leggeranno.

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o avuto grandi maestri, oltre mio padre, un privilegio che oggi non esiste quasi più. Ricordo il piombo, le linotype, il rumore della tipografia. Tutto questo oggi non esiste più e la tipografia ha perso il suo romanticismo con l’avvento dell’ “asettico” computer. Cominciai a fare il giornalista, o almeno ci provai, che ero un

ragazzino. Mio padre Fernando, lo stesso nome che ha mio figlio tredicenne, mi portava con sé prima al Nuovo Corriere (quello diretto da Romano Bilenchi) poi al Giornale del Mattino, infine all’Agenzia Giornalistica Italia. La cronaca, erano gli anni Cinquanta, era abbastanza scarna. La politica? Poca anche quella e in gran parte trattata dai direttori o dai “pastonisti” delle redazioni romane. Il primo capocronista che ho conosciuto è stato quello della Nazione, Nando Vitali, un tipo straordinario, romantico, bohemienne. Era già anziano quando lo conobbi, ma sempre in gamba. La sera, fatto il suo dovere andava alla, Buca dell’Orafo al Ponte Vecchio, a suonare la chitarra e cantare motivi fiorentini col suo grande amico Odoardo Spadaro e altri chansonnier dell’epoca. Scriveva canzoni e anche pièce per il teatro in vernacolo, ancor oggi sulle scene.

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Nando Vitali subentrò Giorgio Batini, scrupoloso all’eccesso scrittore prolifico e sapiente. Quando c’erano fatti importanti scriveva personalmente i servizi facendosi dare le informazioni dai cronisti. Uomo di grande cultura, innamorato di Firenze, ha “scandagliato” la città alla ricerca dei suoi tesori nascosti creando libri di grande interesse: toponomastica, tabernacoli, storie curiose di campane e campanili, le radici delle piante (miti e leggende). Ultima sua “fatica”, ha ottantotto anni, “La Toscana delle balene”, alla

ricerca della cronaca di milioni d’anni fa. Arrivò poi Elvio Bertuccelli, viareggino, da anni trapiantato a Firenze, già valido autore di importanti cronache giudiziarie, prima al Nuovo Corriere, poi a La Nazione. Le nostre strade s’incrociarono nel 1965, già padre di Massimo (che da anni lavora all’Agenzia Giornalistica Italia) rimasi disoccupato. Ero benvoluto e tutti mi aiutarono, anche i colleghi dell’Unità e dell’Avanti. L’aiuto maggiore lo ottenni da Nazione Sera, capocronista Aurelio Ragionieri il quale avendo soltanto la mattina a disposizione, aveva sempre fame di notizie. Ed io gliene fornivo volentieri. A mille lire l’una.

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ntanto un anziano cronista andò in pensione. Mi fecero un contrattino per l’impaginazione. La Nazione lasciò la vecchia sede di via Ricasoli 8 e si trasferì nel nuovo stabilimento nel viale della Giovine Italia.

Un mese dopo Firenze venne invasa dall’Arno. Il giornale fu travolto e subì gravissimi danni. Ebbi l’occasione per dimostrare le mie capacità non dovendo impaginare – il giornale si faceva a Bologna in casa del fratello Resto del Carlino – potevo scrivere. E il materiale non mancava! Fui premiato ed elogiato dal direttore Enrico Mattei.

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i arrivò il secondo figlio, Leonardo. Le cose ormai andavano per il meglio. Potei comprare anche un appartamento. Lavoravo notte e giorno ma ero felice. Era destino che non dovessi stare tranquillo. Ci pensarono le Brigate Rosse, dando fuoco alla mia auto (a Coverciano anche quella del collega Giuseppe Peruzzi) tacciandoci in un comunicato di “pennivendoli del regime”: io seguivo il consiglio regionale, lui il tribunale. E ci andò ancora bene che ambedue eravamo in casa quando il timer fece esplodere le taniche legate sotto le


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È il 17 marzo 1958, La Nazione pubblica in prima pagina la foto dell’inaugurazione del Ponte Santa Trinita.

auto. L’azienda ci aiutò a ricomprare le auto. E venne l’epoca del “mostro”. Bertuccelli divenne caporedattore e a dirigere la cronaca fu chiamato Piero Paoli. Politico per vocazione, pratese, ridanciano, amicone, divertente, intelligente quanto furbo. Tra me e Piero c’era un rapporto di massima fiducia e di compensazione. Io diventato ormai uomo-macchina, lui scrittore politicizzato. Sapevo che ogni giorno potevo contare su una colonna corrosiva di politica. La mattina si impostavano le pagine, cresciute di numero, allargando l’informazione – una mia idea che l’allora direttore Sensini apprezzò molto – alla provincia, nel pomeriggio si passava il notiziario in tipografia. A quel punto Piero se ne andava.

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lla direzione venne chiamato Gianfranco Piazzesi, fiorentino di San Frediano il quale affidò a me la cronaca. Il sogno della mia vita realizzato. Testimone da cronista prima e da capo dopo di quasi tutti gli omicidi del mostro: non si dormiva più. Erano giornate conciate, di spasmodica attesa. Le giornate erano concitate e piene di sgomento. Ricordo la paura, la voglia di approfondire, di dare notizie più dettagliate ai nostri lettori. Ma, francamente, la notizia che mi ha dato più soddisfazione è stata il ritrovamento della testa della Primavera, una delle quattro statue ai lati del ponte di Santa Trinita, fatto saltare dai tedeschi. Una mattina seppi che un operaio in Arno con la benna aveva estratto una testa marmorea dal greto. Ricordo che di corsa andai sul posto. Ero ancora un giovane cronista e lavoravo all’Agenzia Italia in Por Santa Maria. Mi calai sul letto del fiume e subito la riconobbi. Non avevo dubbio alcuno. Era lei, la testa più ricercata dell’epoca.

Tornai in agenzia e feci un flash per telescrivente. Dopo pochi minuti il mondo sapeva. Diversi giornali addirittura uscirono in straordinaria. Quello della “testa” era un cruccio per la città. Tutto o quasi dei guai prodotti dai bombardamenti degli alleati dalle mine tedesche era stato risanato. Mancava solo la testa.

La conoscevo bene per averla vista tante volte e perché l’industria americana della Parker, la famosa penna, aveva fatto stampare migliaia di manifestini con la foto della testa, promettendo una taglia, tipo Far West a chi l’avesse trovata. Premio che andò ad un operaio di Bergamo che era alla guida di quella benna.

Ho molto amato il mio lavoro, tutto, e gli ho dato quaranta anni della mia vita. Ho sempre creduto che un buon giornalista dovesse avere una dote particolare, l’umiltà, ed è quello che sempre ho predicato ai miei giovani colleghi.

Il Ponte fu ricostruito “dov’era e com’era”, mancava però la testa della Primavera.


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Quella notte che Occhetto cambiò il futuro di Firenze La telefonata che impedì la variante Fiat-Fondiaria, raccolta da un giovanissimo cronista che oggi dirige la cronaca cittadina Le perplessità, i rischi e i retroscena di un episodio che mise in ginocchio i dirigenti locali del PCI

di Marcello Mancini

C Con una sola telefonata da Roma saltò un’intera generazione di dirigenti fiorentini del PCI.

’era una volta una trattoria nella vecchia piazza Ghiberti, dietro lo stabilimento de La Nazione. Ce n’è sempre stata una prima che le ruspe la trasformassero in piazza Annigoni: si chiamava «Clara», la mitica «Clara» conosciuta attraverso i racconti dei colleghi più anziani che vi ambientavano avventure notturne vere o verosimili con belle signore e celebri direttori consegnati alla storia d’Italia. Negli anni nostri era «La redazione», e qui andavamo a cena dopo la chiusura del giornale. Una sera di fine giugno, mentre mangio una pizza con i colleghi, mi cercano al telefono del locale (i cellulari ancora non c’erano). Un autorevole esponente del Pci racconta che Achille Occhetto, nel pomeriggio, ha bloccato l’operazione Fiat Fondiaria con un colpo di telefono. Non so se crederci, ma perdio, è il capogruppo in Palazzo Vecchio Giovanni Bellini - non me ne vorrà se dopo tanti anni rivelo la fonte - che con la voce gonfia di delusione (così almeno mi sembra) racconta che tutto è finito. È una notizia clamorosa e assolutamente inaspettata. Per mesi la «variante a nord ovest» aveva riempito i giornali, la testa dei lettori, la città: non s’è parlato d’altro, è la scommessa di una generazione di politici, il progetto che può rivoluzionare Firenze, insediamenti a Novoli nell’area Fiat e a Castello nello spazio di proprietà della Fondiaria. Una svolta epocale. Improvvisamente inghiottita nel nulla.

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he faccio? Lascio la pizza a metà, salgo di corsa al giornale e avverto il capocronista Umberto Cecchi. Mi guarda: prima perplesso («Ma sei sicuro?») e poi ammirato («Se un comunista chiama La Nazione per una notizia così, vuol dire che hai saputo costru-

ire buoni rapporti, bravo»). Si ricomincia a lavorare per cambiare tutte le pagine. Io scrivo l’articolo di cronaca, lui il fondo. È passata mezzanotte, troppo tardi per i giornali concorrenti e la notizia uscirà solo su La Nazione. A lavoro fatto, intorno alle 2,30 del mattino, mi prende uno drammatico scrupolo: non ho cercato conferme. Sarebbe impossibile tornare indietro, ma per dormire tranquillo faccio una telefonata di controllo all’assessore all’urbanistica, Stefano Bassi. Una voce - non so bene se assonnata o distrutta dagli eventi - mi manda a letto sereno: è tutto vero.

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l mattino, mentre gli altri giornali scrivono che la variante sarà approvata il giorno successivo, il sommario de La Nazione strilla che non si farà più. Mi godo il trionfo nella sede del Pci, in via Alamanni, sotto il naso degli altri colleghi esterrefatti e della classe dirigente del partito cancellata da Occhetto che mi sfila davanti con gli occhi bassi. Fra questi il vicesindaco dell’epoca, Michele Ventura, oggi candidato del Pd alle primarie. E anche Riccardo Conti, allora funzionario del partito e ora assessore all’urbanistica in Regione. La telefonata di Occhetto sarà devastante e segnerà il futuro della città ma anche il destino politico di alcuni personaggi di punta. Il segretario del Pci Paolo Cantelli lascerà la politica

insieme a Bassi; Ventura sarà costretto a ricominciare quasi da zero.

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l sindaco socialista, Massimo Bogianckino, due mesi dopo rischierà di morire per un infarto che lo colpisce mentre è in vacanza a Saint Moritz e che lo costringerà a dimettersi. È stato dimenticato troppo presto, Bogianckino. Portava idee nuove, troppo trasgressive per Firenze, lui che aveva vissuto

a Parigi nella stagione della grandeur francese, da direttore dell’Opera. Quando nell’agosto di quello stesso 1989 mi concesse un’intervista esclusiva ancora ricoverato nell’ospedale svizzero, mi confidò - lui che sembrava impassibile e distaccato - un suo lacerante rimpianto: «Siamo in Engadina, qui fuori c’è un aeroporto costruito a duemila metri di quota, le sembra possibile che Firenze non riesca a realizzarne uno a Peretola? Tutto questo è stato un dolore per me». Aveva così ragione che siamo ancora allo stesso punto di venti anni fa.


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La strage dei Georgofili

“Ma l’esplosivo era lì proprio sotto gli Uffizi” Era il 27 maggio del 1993. Così fu vissuta quella drammatica notte Il boato fu udito in tutta Firenze di Alessandro Antico

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n Fiorino. Un maledetto Fiorino bianco. Un furgoncino rubato poche ore prima in via della Scala e parcheggiato sotto la Torre del Pulci. Imbottito di esplosivo collegato a un congegno a tempo. Chi poteva sapere, se non le menti e le mani che lo avevano armato? La città si era addormentata dopo una giornata qualsiasi di primavera inoltrata. La cronaca aveva serbato poco o nulla, fatta eccezione per un grosso titolo di apertura sull’ennesima puntata della “guerra dei rifiuti” tra Firenze e Pisa.

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ì, ma la guerra era un’altra. E noi non lo sapevamo. La trincea era sotto il loggiato degli Uffizi, nel ventricolo più Così si presentava profondo del cuore della città. dietro la Torre dei L’aveva scavata la mafia, ma si Georgofili (foto grande tratta dalla seppe soltanto dopo. L’Italia, prima pagina de il mondo, lo seppero quando La Nazione del 29 dalle macerie ancora fumanmaggio 1993) il ti provocate dalla bomba dei luogo dove era stata Georgofili prese corpo lo spettro piazzata la bomba. di Cosa Nostra. Tutta una storia e tutta una tragedia immensa sono dietro quell’esplosione che scandisce e segna la notte del 27 maggio 1993, ore 1,04. Rievocarne sedici anni dopo i momenti in presa diretta suscita un’emozione che ha la stessa intensità. Ero arrivato a casa abbastanza presto, quella sera, compatibilmente con gli orari della cronaca. Ricordo che Andrea, mio figlio, aveva 4 anni, era ancora sveglio e giocava con la mamma, Patrizia. Abitavamo in via Michele Mercati, al Poggetto, Rifredi.

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l boato si sente fin laggiù. «Cos’è stato?», ci chiediamo. Primo pensiero, una bombola di gas da qualche parte, una caldaia, qualcosa di simile. O il “bang” di un aereo militare.

Qualsiasi cosa. Ma non “quella” cosa. Cinque minuti, non di più. La luce e il televisore in cucina sono accesi, il telefono squilla. Un amico dalla questura mi avverte: «Fai un salto in piazza della Signoria, Uffizi - quasi sottovoce -. È una bomba... Una bomba».

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na frazione di secondo per capire ciò che non avrei voluto sapere. Troppo vero per essere vero. Chiamo il collega rimasto di chiusura al giornale, Nicola Coccia, ma non lo trovo al suo posto. Qualcuno dalla tipografia - non ricordo chi - mi dice che era andato agli Uffizi. «C’è stata un’esplosione». Con lui, a ruota, si precipita anche l’altro collega che, insieme a me, seguiva la “nera”, Amadore Agostini. Non ci teniamo in contatto con i telefonini cellulari, non mi rammento il motivo. Non c’è neanche il tempo di pensare. L’unica cosa da fare è correre, mentre in testa tuona una parola sola: «Bomba, una bomba».

R

aggiungere il luogo dell’esplosione è molto complicato. Mi appello a tutta l’esperienza e le conoscenze possibili, fra forze dell’ordine e soccorritori che incontro via via, per guadagnare un briciolo di steccato su quel tragico scenario. Il caos è totale. Sirene, lampeggianti, gente in divisa che corre da una parte all’altra. Non so come faccio ad arrivare in piazza della Signoria, ma ci riesco. E riesco a intrufolarmi nell’ultimo spicchio ancora disponibile per prendere immediata visione delle fiamme che ancora divorano la Torre. Avevano già straziato i corpi di cinque persone: la famiglia Nencioni (Fabrizio, vigile urbano; la moglie Angela; le figlie Nadia di

8 anni e Caterina, più piccola del mio Andrea) e lo studente universitario Dario Capolicchio, morto sotto gli occhi della fidanzata, Francesca Chelli, gravemente ferita. Via Lambertesca è un girone infernale, la Torre del Pulci polverizzata, l’Accademia dei Georgofili sventrata, molte opere degli Uffizi danneggiate, alcune andate perdute per sempre. Tutto è permeato dall’odore della pentrite, del T4, nomi chimici che si traducono con morte. La Morte.


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I titoli con i quali La Nazione dette la notizia della stage ai fiorentini.

L

a notte non finisce mai. La macchina-giornale va avanti più che è possibile. Si dilata al massimo l’orario di tolleranza dei tempi tecnici per effettuare la “ribattuta”: prima pagina nazionale e prima pagina di cronaca. Fogli grandi. «Angoscia e paura tra le macerie», fotografie in bianco e nero che documentano un disastro di cui però soltanto con la luce del mattino si ha l’esatta proporzione, davanti al cratere su cui si riversano impotenza e cordoglio.

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icordo che all’ora di pranzo usciamo con un’edizione straordinaria. Era la seconda cui partecipavo. La prima fu per il primo attacco della guerra del Golfo del 1991. Ma quella era lontana nel tempo e nello spazio. Questa qui invece no. Ho l’onore e al tempo stesso la tristezza di firmare l’articolo in prima pagina con il collega Mario Del Gamba: «È un’autobomba», titolo grande a nove colonne. È la ferita più grande inferta a Firenze dalla Seconda Guerra mondiale. Ventisette anni prima era stato l’Arno a devastare la città. La natura. Non gli uomini.

Il Presidente della Repubblica Luigi Scalfaro in visita ai luoghi della strage accompagnato dal sindaco Giorgio Morales.


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Ventimila articoli, molte battaglie ma una sola indimenticabile notte Dai servizi sul “mostro” alla strage dei Georgofili e alle costanti denunce per i rischi dell’Arno. Finchè una volta, lo stadio si riempì per la Coppa Italia. E Firenze fu unica, ineguagliabile

di Sandro Bennucci

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ensiero stupendo: su 150 anni di storia de La Nazione, ho contribuito finora a scriverne, molto umilmente, una quarantina. Mi passano davanti, come impressi su una pellicola sempre nitida, fin da quando, poco più che sedicenne, mi presentai all’indimenticabile Giordano Goggioli, grande capo della redazione sportiva, per chiedere di collaborare. Da cronista quasi sempre in prima linea ho visto e raccontato tanto. Ventimila articoli? Forse più. Cerchiarne uno in rosso e riproporlo significa fare una selezione interiore, a eliminazione diretta. Proviamo? Ricordo il sangue e lo strazio della «strage di Natale» del 1984: il rapido Napoli-Milano fatto saltare vicino alla galleria di San Benedetto Val di Sambro: 17 morti e 267 feriti. Era domenica 23 dicembre, si pensava alla festa. Invece lavorammo fino alla mattina e, il 24 dicembre, restammo in redazione per

l’edizione straordinaria. Oppure l’emozione, quasi un anno dopo, provata sulla piazzola degli Scopeti, settembre 1985, per l’ultimo delitto del «mostro». Il Naldini, capocronista dell’epoca, mi mandò all’ultimo momento: da dietro un albero sentii i magistrati parlare di un’impronta da gigante, tipo scarpa 45-46. La descrissi. E nel 2006 un giudice di Perugia mi chiamò, sembra incredibile a distanza di oltre vent’anni, per avere «altri dettagli...». Potrei aggiungere l’inchiesta che feci sulla diga di Bilancino, alla quale seguì l’intervento della magistratura: con arresti, processi, condanne, assoluzioni. Oppure rievocare la voce strozzata del prefetto Elveno Pastorelli, il 26 maggio ’93, quando, davanti all’Accademia dei Georgofili, mi disse: «Guarda, non è una fuga di gas è una bomba: hanno fatto esplodere un Fiorino...». Poi le battaglie (che continuano) per la sicurezza di Firenze e due terzi della Toscana dall’Arno e per il taglio dei seggi in Consiglio regionale. E quelle più direttamente in difesa della gente: nel 2002, feci otto mesi di pellegrinaggio sull’autostrada per far mettere le reti e impedire le morti dai viadotti, in compagnia di Sergio Cianti, babbo di uno di quei ragazzi che ci avevano rimesso la vita. Un caso più recente? Le bollette dell’acqua, roba di questi giorni: dopo vari articoli-denuncia, la Regione ha deciso che fiorentini e toscani riavranno circa 20 milioni di euro pagati ingiustamente. Ma detto tutto questo, e domandando scusa per essermi dilungato, ecco l’evento che ho scelto: la festa allo stadio, nella notte fra sabato 18 e domenica 19 maggio 1996. Una festa per la Fiorentina di ritorno da Bergamo, dopo aver vinto la Coppa Italia. Un fatto sportivo? No, di costume. Un momento capace di coinvolgere tutta Firenze dalle cinque della sera alle cinque del-

la mattina. Senza divisioni, senza polemiche, senza bisticci. Una rarità a Firenze. Perché, spesso, se discutiamo in tre scopriamo di avere almeno otto idee diverse. Nelle istituzioni, nei posti di lavoro, nei partiti... Invece quella fu una festa nell’unità. Con famiglie intere allo stadio a non far nulla, se non a manifestare la presenza, in attesa della squadra con la Coppa.

L

a partita si giocava a Bergamo, alle sette di sera. Ma dalle cinque, come accennato, lo stadio Franchi cominciò a riempirsi di tifosi che volevano vedere Rui Costa, Batistuta e compagni sul maxischermo. Peraltro poco guardabile per colpa di una striscia blu e rossa capace di nascondere tiri, parate e colpi di testa. Così c’erano tribune piene e campo vuoto. La Coppa segnava il riscatto, anche per la serie B patita nel ’93. La Fiorentina giocò bene, a tratti addirittura benissimo. I gol di Gabriel Batistuta e Lorenzo Amoruso furono il sigillo di una vittoria indiscutibile.

P

oi l’esplosione di gioia collettiva. Sembrava Capodanno. Solo che eravamo a un veglione particolare: allo stadio, sudati, come in una domenica di campionato. Ma sembrava Capodanno non solo perché scoppiavano i petardi. Sembrava Capodanno anche per l’attesa: meno quattro ore, meno tre ore, meno due... Il conto alla rovescia per ricevere la squadra con la Coppa. Un conto cominciato a mezzanotte, quando arrivò la notizia che l’allenatore, Claudio Ranieri, e la squadra si erano imbarcati sull’aereo che, da Bergamo, li avrebbe portati a Pisa. Dove li aspettava un pullman della Sita, rosso, a due piani. Un conto alla rovescia, bisogna aggiungere, preceduto da un

crescendo. Perché la festa nacque senza regìa, senza organizzazione, con poca forza pubblica. Ma fu una festa realmente popolare, spontanea, improvvisa, con quarantamila fiorentini, più di uno su dieci.

I

ntorno alle cinque della sera, fra lo scetticismo dei dirigenti viola («Vedrete, non verrà nessuno...»), venne aperta la tribuna coperta: riempita in pochi minuti. Allora vennero schiusi i cancelli della Fiesole: piena in un quarto d’ora. Quindi apertura della Maratona. E, a notte fonda, quando c’erano ancora migliaia di tifosi fuori, venne aperta la curva Ferrovia. Conto alla rovescia, abbiamo detto. Con cena improvvisata, dopo la vittoria, per aspettare la squadra. Una cena «da campo» sulle poltroncine e sui gradoni: a base di pizza, panini, birra. Ma perché tanto entusiasmo se la Coppa Italia è sempre stata considerata una coppetta? Fu un pretesto per gioire? Sì, una parentesi. Ma gioiosa. Completamente, e strettamente, fiorentina. Anche perché nessuna delle televisioni nazionali ne parlò.

È una notte di maggio del 1996. Lo stadio Franchi si riempie di una folla in festa che attende i suoi campioni vittoriosi da Bergamo.


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Quando la Fiorentina conobbe la Champions

Un campionato fantastico, le prodezze di Batigol e le follie di Edmundo Poi la grande avventura, gli elogi e le sconfitte di Duccio Moschella

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el bene e nel male ha fatto tutto Trapattoni. Prima che venisse smascherato il bluff della coppia da commedia all’italiana formata da Vittorio Cecchi Gori e Luciano Luna (“Semo ‘na forza, ci avemo du’ palle”) con il fallimento della Fiorentina e l’avvento dei Della Valle, felicemente regnanti, è stato grazie a “Giuanin” che è stato possibile sfiorare uno scudetto e partecipare alla Champions League. Sono passati dieci anni, ma con tutto quello che è successo dopo sembra un secolo. La Fiorentina, alla fine degli anni ‘90, pare ormai una delle sette sorelle del calcio italiano grazie ai gol di Batistuta, ai virtuosismi di Rui Costa e alla sicurezza di Toldo. Per la stagione ‘98-’99 i viola hanno fatto una campagna acquisti faraonica, riuscendo a pagare il terzino tedesco Heinrich qualcosa come 23 miliardi di lire, e fanno sognare. Anche i giornalisti. La Nazione, sempre attenta a non lasciare nulla al caso, mette in campo una squadra di inviati speciali, alla quale affianca me dalla cronaca. Sono mesi vissuti sull’ottovolante, con “le discese ardite e le risalite”, canticchiando Battisti. Fin dall’inizio del primo campionato sotto la guida di Trap si sente nell’aria che può

essere l’anno buono se non per lo scudetto almeno per conquistare un posto nell’Europa che conta, dopo la brutta esperienza in Coppa Uefa, finita a novembre con l’eliminazione a tavolino nei sedicesimi, per l’esplosione di un petardo sul campo di Salerno durante la partita con il Grasshopper di Zurigo. La Fiorentina è finita a giocare in Campania per colpa di un’altra Coppa da dimenticare, stavolta quella delle Coppe ‘97, quando Bati zittisce il Camp Nou di Barcellona nella semifinale di andata (1-1), ma che non può impedire ai catalani di prendersi la rivincita nella partita di ritorno al Franchi (0-2) quando si sfiora l’invasione di campo contro una serie di decisioni arbitrali e lo stadio viene squalificato. I viola in campionato sembrano una solida realtà e alla fine del girone d’andata sono addirittura campioni d’inverno. Poi succede l’inimmaginabile: Batistuta si fa male contro il Milan a Firenze e la stessa sera l’attaccante brasiliano Edmundo, detto non a caso O’ Animal, prende l’aereo con destinazione carnevale di Rio, “come da contratto” sostiene lui. Aspetto negato dalla società, che ammetterà l’esistenza della clausola soltanto parecchio tempo dopo. Intanto la Fiorentina

fa solo due punti in tre partite, troppo pochi per pensare di competere con il Diavolo, che alla fine vincerà il titolo. Il sogno scudetto sfuma, e si sente il primo scricchiolio del rapporto fra Cecchi Gori e i fiorentini, ma la conquista del terzo posto che vale la Champions League fa superare i dissapori. La stagione successiva tutti pensano solo all’Europa o quasi. In campionato va così e così, alla fine sarà settimo posto, con l’addio di Bati ceduto alla Roma appena realizzato il suo gol numero 151 in maglia viola, uno in più di “Uccellino” Hamrin, e di Trapattoni, mai perdonato dagli ultras per essere stato una bandiera juventina. Da allora sarà una continua discesa all’inferno fino al fallimento del 2002, ma alcune immagini della stagione ‘99-2000 restano indelebili. Chi può dimenticare, per esempio, il gol di Batistuta a Wembley, che vale l’eliminazione dell’Arsenal nel primo turno a gironi della Champions League? I tabloid britannici fanno titoli da gentlemen riconoscendo la superiorità viola, ma la sconfitta è dolorosa. La gioia viola incontenibile. Chi c’era ricorda bene anche la rete di Bressan nella successiva quanto inutile partita con il Barcellona al Franchi (3-3).

Una rovesciata incredibile quasi dalla trequarti campo, un’invenzione da campione vero come Rivaldo o Figo, che erano in campo in quella stessa partita, e che invece riesce a un gregario qualunque, tanto da far sorridere Trap: “Non penserai mica che volesse segnare davvero?”. Il secondo turno si chiude con l’eliminazione anche se si apre bene con un 2-0 al Manchester United di Beckham e di Giggs, continua con un pari a Bordeaux e la vittoria sul Valencia con un rigore dell’ex Mijatovic. Emozionanti sono le gare di ritorno, anche se si tratta di due sconfitte e di un inutile pareggio. Mai ho visto esultare tanto per un gol di un avversario come hanno fatto i tifosi del Manchester nella cattedrale dell’Old Trafford. È la sera del 15 marzo 2000: si gioca da sedici minuti, risultato 0-0. Bati lascia partire la sua cannonata dal limite dell’area. Il portiere Bosnich prova a prenderla, ma resta a terra. È il parziale 1-0 di una partita che finirà comunque 3-1 per i Reds. Eppure in molti festeggiano, non soltanto i tifosi viola. Il motivo? Semplice. I bookmakers inglesi hanno quotato quella rete più di venti volte la posta.

Il protagonista, una volta di più, fu l’ineguagliabile Batistuta.


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Dalla parte delle donne

PERCHÉ FINSI DI VOLER ABORTIRE Un clamoroso esempio di giornalismo verità che permise di superare i problemi psicologici e di accoglienza collegati alla legge 194

Fu con una “cronaca-verità” de La Nazione che cambiarono le procedure di accoglienza per le interruzioni di gravidanza.

di Letizia Cini

U

na piccola sala d’attesa nel reparto di Ostetricia e Ginecologia dell’ospedale di Careggi, a Firenze. Nove donne aspettano di essere sottoposte a un intervento che hanno scelto volontariamente, i motivi chiusi nei loro cuori. Fra loro ce n’è una che “finge”, non si trova lì per abortire. Deve fare un articolo per la Cronaca di Firenze del quotidiano per il quale lavora, La Nazione, su come viene applicata la legge 194 negli ospedali fiorentini. Per portare a termine il compito, la giovane cronista si è dovuta sottoporre a visite, analisi e controlli. Un iter che l’ha condotta fino alla porta della sala parto. Una trafila uguale, in tutto e per tutto, a quella delle altre donne. L’unica differenza: la ragazza che stava per varcare quella soglia per abortire, non era incinta. Era il 14 febbraio 1989. Alla cronista in questione - la sottoscritta, dopo vent’anni ancora orgogliosa di lavorare nella “sua” redazione - era stato assegnato dall’allora capocronista Umberto Cecchi, dal direttore Roberto Gelmini e dal vice direttore Gabriele Canè, l’incarico di condurre un viaggio nel complesso “universo aborto”.

I

l primo passo per riferire fedelmente l’iter predisposto dalla sanità pubblica per le donne decise a interrompere una gravidanza - pensai - è andare a verificare di persona. Ed è ciò che feci, partendo dall’inizio l’appuntamento al consultorio - e concludendo l’inchiesta nella piccola sala d’aspetto del reparto

maternità di Careggi, raccontando poi l’accaduto, senza omettere né aggiungere. Questo era e resta, a mio avviso, il primo compito di un cronista: vivere le notizie in prima persona, quando possibile, controllare, verificare, non fidarsi né affidarsi esclusivamente alle “fonti”, per quanto autorevoli queste possano essere.

C

osì partì quel reportage che ancora oggi molti ricordano, un’inchiesta difficile su un tema tutt’ora attuale e di difficile gestione, che mi ha portato alla ribalta televisiva (come dimenticare la prima apparizione al Maurizio Costanzo Show?), apprezzamenti professionali e la solidarietà di tante, tantissime donne che quella realtà eccessivamente “asettica”, senza un minimo di sostegno psicologico, come invece previsto dalla legge 194, l’avevano vissuta sulla propria pelle, rimanendone scottatte. Ma anche un esposto della magistratura, archiviato dopo pochi mesi, e tante critiche. Il polverone creato da quegli articoli servì però a qualcosa. Il pretore decise di soffermarsi invece sull’operato dei medici,

approfittando dell’inchiesta per mettere in chiaro il meccanismo delle procedure d’urgenza adottate in tanti casi di interruzione di gravidanza non terapeutica a Careggi.

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a quel momento in poi la strada che conduce all’applicazione della legge 194, almeno in quell’ospedale fiorentino, è stata resa un po’ meno dolorosa. Le donne in attesa di abortire non sono state più “parcheggiate” nella camerata con le neo mamme in allattamento, né con le puerpere costrette a letto per poter condurre a termine una gravidanza difficile. Di lì a poco prese il via anche il servizio di sostegno psicologico, indispensabile e previsto dalla legge, viste le innegabili implicazioni che una simile scelta comporta. Ecco. Questa è stata la soddisfazione più grande: raccontare la verità riuscendo a essere utile esercitando il diritto di cronaca, nel pieno rispetto delle regole. All’epoca si usava la parola “scoop”, oggi inflazionata, svuotata di significato, ed è così che lettori e colleghi ancora lo ricordano.

R

ileggendo le pagine de La Nazione che porta la data 14 febbraio 1989, provo oggi la stessa emozione, l’orgoglio di aver potuto raccontare un’esperienza che poteva solo essere vissuta in prima persona senza l’intenzione di scrivere un articolo sensazionale, ma con la volontà di spiegare il meccanismo burocratico della legge 194, dalla parte delle donne. Quello “scoop” resterà per sempre il mio fiore all’occhiello. La prima di una lunga serie di inchieste su temi scottanti dalla pedofilia al bullismo, dalla droga alla prostituzione minorile - realizzate per questo grande quotidiano, che oggi festeggia i suoi 150 anni pieni di gloria.


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Ma dietro il viaggio per gli anziani si nascondevano pentole e minacce Ancora un esempio di “giornalismo verità” concluso con le minacce al cronista e l’intervento dei carabinieri di Luigi Ceccherini

«V

igliacco, ti vengo a prendere e ti spacco il fegato, con una scarica di cazzotti, che ti faccio uscire le budella dalla gola come uno Sputnik». Come sveglia, alle otto di mattina, non è male, neanche per un cronista de La Nazione, che ha già visto le macchine dei colleghi bruciare per le vendette delle Brigate Rosse. Ma, forse, quella voce si poteva sbagliare. «Come»? Ho chiesto con un filo roco di voce, quella che si ha quando ci si è appena svegliati. «Chi è, che vuole»?

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all’altra parte della cornetta l’uomo, non si è certo negato. Vociava a ruota libera e come l’Etna in eruzione mi lanciava lapilli e una sciara di fuoco di improperi. Riesco a capire all’incirca chi è e che ha appena letto il giornale. Non minaccia querele, che sono il vero spettro che si nasconde sotto il tavolo di ogni giornalista, ma vuole solo menarmi, perché sono «un falso e un ipocrita, che si è travestito da agnello ma che era invece solo un lupo pidocchioso». È il 19 maggio del ’94. In cronaca di Firenze è appena uscita un’intera pagina che racconta come gli anziani di allora venivano truffati con dei viaggi beffa presso santuari o località turistiche, fatti solo per poi appicicargli pentole, materassi, oli balsamici, coperte, tappeti. Si era al culmine di quei «viaggi col bidone» come titolò il giornale e da quell’articolo che raccontava per filo e per segno le angherie a cui venivano sottoposti gli anziani, seguirono una serie analoga di servizi su settimanali, giornali, tv con microfoni e telecamere nascoste, che ridussero al lumicino quel tipo di attività. Ancora una volta l’opinione pubblica era andata più avanti delle forze dell’ordine che, fino allora, non avevano preso in considerazione questi fenomeni, veri e propri atti di violenza privata e sciacallaggio,

se non per la parte fiscale, se cioè venivano o meno rilasciate le ricevute: un vero assurdo. Con il personaggio, che aveva chiamato quella mattina, le cose si sistemarono con un paio di telefonate ai carabinieri che «ghiacciarono» le bellicose idee. Al giornale mi arrivarono altre telefonate che mi invitavano fuori dall’edificio «da cui prima o poi sarei dovuto uscire». La cosa finì lì, bastarono, per fortuna, solo alcune piccole accortezze.

C

he quei tipi non fossero proprio degli «agnellucci» era emerso anche da quel viaggio a Boccadirio, sull’Appennino bolognese, su un pullman con 50 anziani, per il giorno dell’Ascensione di 15 anni fa. Partita da via Marconi, a Firenze, alle 6.45, la gita si trasformò, per quasi 5 ore, in una sala di un locale della Futa, in una dimostrazione-incubo di prodotti. Per mascherare la mia presenza, non proprio in linea con l’età media, ero in compagnia. Una coppia, insomma, attirata dai volantini della gita «garantita», come recitava la proposta, con colazione, pranzo, visita al santuario, pomeriggio danzante, regalo di ricordo, il tutto a due lire: per la precisione 18.900, poi arrivate

a 22mila per il supplemento di acqua, vino e caffè. Finì come cominciava l’articolo d’allora, rivolto all’intera comitiva. «Perché siete venuti, siete gente senza cuore, aridi e tirchi come tutti i fiorentini» accompagnato da un bel pugno rabbioso su una porta del locale della Futa.

A

gli anziani piaceva stare insieme ed essere portati a spasso, ma non sapevano più cosa comprare e che non costasse un occhio della testa, per «accontentare» i «poveri» piazzisti. In un curioso passa parola, dopo le prime presentazioni, erano sicuri: «Facciano quello che vogliono, tanto io questa volta non compro niente». Ma poi col passare delle ore tante certezze, proclamate all’inizio fra i tavoli, si affievoliscono. Alla fine, qualcuno tentenna, si fa corrodere dai veleni verbali, dalle lusinghe, dagli appelli al cuore, al «teniamo famiglia» e alla fine cede e firma le proposte d’acquisto. Si esce dall’incubo e se ne entra, forse, in un altro. Quando poi i prodotti arriveranno a casa. Infatti, come giustificare con i

figli la spesa: 2.100.000 lire per una coperta di lana merinos, 1.800.000 per il materassino che fa la diagnosi degli acciacchi e poi vibromassaggia, 1.200.000 per la macchina tipo vaporella a 160 gradi, 850mila lire per tre pentole al titanio: «ma quanto gas e quanto tempo risparmierete». Cercavano di ammaliare con la molla del risparmio (il punto debole dei pensionati), quegli stessi anziani che, di tempo ne avevano da vendere e che per recuperare il gas in meno consumato avrebbero dovuto campare quanto Matusalemme.

A

nnullato, come ritorsione degli acquisti limitati, l’appuntamento danzante, dopo le ultime «torture» subito dopo pranzo, dopo non aver ceduto ai pietismi dell’acquisto invocato con le foto dei figli portate in giro, finalmente partiamo per Boccadirio. Era l’ora, vista l’alzataccia mattutina. Sosta di mezz’ora, contrattata in cambio di una mancia di mille lire l’uno, con fuga finale per non perdere il bus che materialmente, gli altri gitanti che non si erano mossi dal mezzo, bloccavano in attesa del mio «tardivo» rientro. Poi tutti a casa con la riflessione d’allora: «Ma solo quando siamo a Firenze tiriamo un sospiro di sollievo. L’avventura è finita. L’Ascensione… ce la siamo guadagnata sul campo».

Prezzi da capogiro per le pentole vendute agli anziani nei viaggi a “costi ridottissimi”.


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