La Nazione 150 anni PRATO

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150 ANNI di STORIA ATTRAVERSO LE PAGINE DEL NOSTRO QUOTIDIANO

SUPPLEMENTO AL NUMERO ODIERNO A CURA DI

Prato


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sommario Perché La Nazione rimase a Firenze Ma questi romani lo sanno cosa significa essere italiani? Ma quanto ci costa questa Lombardia Giorgio Batini si racconta: “Facevo la cronaca e poi me la scrivevo” Giorgio Batini: Le grandi firme Compagni di viaggio Giorgio Batini: Gli indimenticabili Via Ricasoli by night Giorgio Batini: Giramondo e giraregione Cronache di altri tempi Cosi nacquero le cronache dello sport Gastone De Anna: “Così feci nascere le redazioni di provincia” Gastone De Anna: Il mio primo articolo Quando la storia d’Italia finiva tutta a Prato negli stracci Il giornale a braccetto con la città Una redazione, una storia L’avventura di Mauro Mancini L’anarchico pratese Bresci uccide il re Tra Prato e Fiordelli fu amore a prima vista I concubini dello scandalo L’ultimo saluto di Prato alla salma del suo Malaparte Una diocesi nel cuore di Prato Giovannini il simpatico brontolone Prato è provincia! Un museo d’arte contemporanea per sfidare il futuro Christian Vieri, pane fatto in casa Supplemento al numero odierno de LA NAZIONE a cura della SPE Direttore responsabile: Giuseppe Mascambruno

Vicedirettori: Mauro Avellini Piero Gherardeschi Antonio Lovascio (iniziative speciali)

PRATO

150 anni di storia attraverso le pagine del nostro quotidiano.

Non perdere in edicola gli altri 2 fascicoli regionali che ripercorreranno, attraverso le pagine de La Nazione, la storia fino ai nostri giorni e i 17 fascicoli locali con le cronache più significative delle città.

Direzione redazione e amministrazione: Via Paolieri, 3, V.le Giovine Italia, 17 (FI) Hanno collaborato: Giorgio Batini Giampiero Masieri Gastone De Anna Franco Riccomini Roberto Baldi

Progetto grafico: Marco Innocenti Luca Parenti Kidstudio Communications (FI)

Stampa: Grafica Editoriale Printing (BO)

Pubblicità: Società Pubblicità Editoriale spa DIREZIONE GENERALE: V.le Milanofiori Strada, 3 Palazzo B10 - 20094 Assago (MI)

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UN GIORNALE LAICO CON GRANDE RISPETTO DELLA CHIESA Furono queste le volontà, mai tradite, del fondatore Bettino Ricasoli Perché il giornale non volle lasciare Firenze per trasferirsi a Roma capitale

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ascere con l’Italia e accompagnarla, giorno dopo giorno, fino ad oggi. Nessun altro giornale vanta questo primato. E infatti, se anche una testata, la Gazzetta di Parma, sicuramente è più antica di quasi 100 anni rispetto al giornale fiorentino, è anche vero che per lunghi periodi ebbe un altro nome, in altri sospese le pubblicazioni, e in ogni caso non svolse il ruolo fondamentale per l’Unità d’Italia che toccò al foglio di Bettino Ricasoli. Già, perché fu proprio lui, il “Savonarola del Risorgimento” come lo definiva Spadolini, a volere che il nostro giornale fosse in edicola, redatto e composto in una sola notte, alla notizia dell’armistizio di Villafranca.

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a storia è nota. L’11 luglio del 1859, nel pieno della seconda guerra di indipendenza, quando le truppe franco piemontesi avevano vinto battaglie di rilevanza enorme, come quella di Solferino, e già si pensava come invadere e liberare il Veneto, all’improvviso francesi ed austriaci firmarono un armistizio ed i Savoia non ebbero la forza per opporsi. Lo fecero perché la Francia cominciava a temere un attacco da parte della Prussia che stava ammassando le sue truppe ai confini. Lo fecero, perché un’ Italia libera e indipendente poteva anche andar bene alla grandi potenze europee, ma non doveva essere eccessivamente forte. E dunque, ecco che al Piemonte veniva concessa quasi per intero la Lombardia, ma il Veneto il Trentino e la Dalmazia restavano agli austriaci, mentre in Toscana sarebbero tornati i Lorena, e in ogni caso si ipotizzava una federazione di stati del Centro Sud sotto la guida del Papa. Alla notizia, Cavour, dopo uno scontro durissimo con Vittorio Emanuele si dimise. E l’unico a sostenere la causa dell’Italia da unire, restò in quelle ore il capo del governo toscano costituitosi dopo la partenza del granduca, Bettino Ricasoli appunto.

La notizia dell’armistizio arrivò a Firenze nel pomeriggio del 13 luglio e i patrioti si riunirono in Palazzo Vecchio dove regnava la rabbia, il caos, la voglia di reagire ma anche un profondo senso di impotenza. E l’unico che dimostrò di avere le idee chiare, ben al di là della logica, delle possibilità offerte dalla diplomazia, si rivelò Ricasoli che non poteva a nessun costo accettare quanto stava accadendo. E infatti, lui guidava un governo toscano provvisorio con l’unico scopo di arrivare al plebiscito per l’annessione al Piemonte, e se fossero tornati i Lorena tutto sarebbe crollato. Sotto il profilo politico ma anche sotto il profilo personale. Così, dimostrandosi in quelle ore il vero artefice del Risorgimento, ancor più dello stesso Cavour che in qualche modo aveva gettato la spugna, Ricasoli spedì due ambasciatori a Torino e a Parigi per tentare di modificare le cose. Ma nello stesso tempo mandò a chiamare tre patrioti fiorentini, il Puccioni, il Fenzi ed il Cempini, che a suo tempo avevano proposto di stampare un quotidiano in appoggio alle posizioni del governo toscano, e disse loro: “È arrivato il momento, per domattina voglio il giornale.” E a niente valsero le timide proteste dei tre che, comprensibilmente, facevano notare come fossero già le nove di sera e come non sarebbe stato facile mettere insieme i testi e farli comporre in poche ore. Ma Ricasoli insisteva “O domattina o mai più.” E dette anche il nome alla testata “La Nazione”, che era tutto un programma, anzi, era il programma.


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uccioni, Fenzi e Cempini presero una carrozza e si fecero portare in via Faenza alla tipografia di Gaspare Barbera, un patriota piemontese arrivato a Firenze nei giorni in cui la città fu capitale, e qui cominciò un lavoro frenetico a redigere i testi ed a comporli. Come nelle migliori tradizioni del giornalismo, redattori e tipografi lavoravano gomito a gomito. Un articolo non era ancora concluso e già la prima parte passava ai compositori. Un articolo non era del tutto composto – all’epoca non estivano le linotype ed ogni parola era composta a mano – e già si facevano le bozze per le correzioni della prima parte. Alle cinque del mattino Ricasoli si presentò alla tipografia, lesse le bozze e dette il consenso. Alle dieci, tirate pare in tremila copie, due pagine in mezzo foglio, oggi diremmo formato tabloid, erano in vendita nel centro cittadino. Si trattava di un’edizione senza gerenza, senza il nome dello stampatore, senza il prezzo, senza pubblicità. Praticamente un numero zero. E così si andò avanti fino al 19 luglio quando, finalmente, La Nazione uscì nel suo primo numero ufficiale, con formato a tutto foglio, le indicazioni di legge, i prezzi per l’abbonamento e per la pubblicità. Così, dunque, nacque il nostro giornale. Che conobbe i giorni fausti dell’Italia Unita, e poi quelli pieni di problemi, non solo economici, in cui Firenze fu provvisoriamente capitale. Quindi la questione romana, la breccia di Porta Pia, e insomma tutte le fasi che con alterne vicende portarono alla nascita dello Stato italiano. Ma fu proprio con Roma Capitale che La Nazione dovette modificare il proprio tipo di impegno. Che fare? seguire il governo e il mondo politico fino a Roma, là dove si sarebbero svolte da allora in poi tutte le vicende, e prese le decisioni relative all’Italia? La domanda fu posta ed era più che legittima. Nessun altro quotidiano aveva il diritto di continuare le proprie pubblicazioni nella sede del regno e del governo italiano, più di quello che l’Italia aveva contribuito a farla nascere. Ma fu compiuta una scelta, che di certo non fu di tipo economico: restare. Restare a Firenze, accompagnare la vita della città dove era nata, e dedicare sempre di più le proprie attenzioni anche alla

vita quotidiana, a quella che oggi diremmo la cronaca di ogni giorno. Insomma, da grande foglio risorgimentale carico di tensioni ideali, a giornale come oggi lo intendiamo. Con rubriche dedicate alla moda, allo sport, con grandi spazi dedicati alla vita musicale e teatrale. Con la disponibilità a condurre grandi battaglie nel nome e per conto di Firenze, che già allora viveva con naturalezza la sua doppia natura, ancor oggi visibile: quella di una dimensione provinciale aperta al mondo. Città universale e allo stesso tempo città dove pochi personaggi, e fra loro in costante conflitto, dominavano la scena. Rese possibile questa scelta di obiettivi un grande direttore, Celestino Bianchi. Che seppe conquistare il pubblico femminile, interessare anche la media e piccola borghesia mercantile, ma soprattutto richiamare intorno al foglio di Ricasoli le migliori firme italiane del momento. Che, del resto, già erano presenti su La Nazione, fin dai primissimi anni. E allora ecco il D’Azelio e il Tommaseo, ecco il Manzoni e il Settembrini, e poi il Collodi, il De Amicis, Alessandro Dumas, Capuana, il Carducci e in seguito anche il Pascoli, ed infinti altri. Grandi firme che sarebbero continuate durante il fascismo e nell’Italia repubblicana fino ad oggi. Da Malaparte a Bilenchi, a Pratolini, ad Alberto Moravia, a Saviane, a Luzi. Dopo aver ospitato Papini, Prezzolini, Soffici, e gran parte dei letterati delle Giubbe Rosse nel periodo che precede e che segue la grande Guerra.

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ueste le scelte che permisero a La Nazione, pur dovendo affrontare momenti di crisi e di difficoltà, di battere ogni volta le testate concorrenti. Se esisteva una difficoltà di vendita o addirittura di immagine, sempre riuscì a trovare gli uomini e le energie per risollevarsi. Liberale infatti, fu sempre il quotidiano fiorentino, ma di un liberalismo illuminato che sapeva aprirsi ogni volta ai temi di interesse sociale, e per farlo non esitava ad ospitare anche firme lontane dalle proprie posizioni. Così, quando si trattò di presentare ai fiorentini, e commentare, la nascita delle scuole serali, fu chiesto un articolo a un giovane e rivoluzionario poeta, il Carducci. E fu tra i primi giornali, La Nazio-

ne di Firenze, a porre sul tappeto il dramma del lavoro minorile, e a pubblicare le relazioni di Sidney Sonnino sulla condizione dei bambini, quelli del Nord Italia che a sette anni lavoravano anche 13 ore al giorno nell’industria della seta e quelli di Sicilia, costretti a starsene chini, senza luce né acqua, nelle solfatare di Sicilia. Ancora di più colpisce, per il giornale del Risorgimento, la moderazione con la quale fu seguita la questione romana e fu data notizia della breccia di Porta Pia. E infatti, mentre la retorica anticlericale si scatenava, creando con i suoi estremismi solo un effetto boomerang, La Nazione fu capace di analisi e di intuizioni che a distanza di 90 anni, con il Concilio Vaticano II, perfino il mondo cattolico avrebbe fatto proprie. Scriveva infatti il nostro giornale: “Il potere temporale ha trattenuto il cattolicesimo fermo sull’idea imperiale pagana.” Del resto non era il Ricasoli religiosissimo?

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dunque, è in omaggio ad una visione laica delle differenze fra Stato e Chiesa, una visione totalmente deducibile dai vangeli che si combatté quella battaglia, che non significava affatto compiacersi di un assoluto anticlericalismo ideologico, o ancor di più di una qualsiasi forma di ateismo conclamato. E ancora, quando si trattò di decidere se trasferirsi a Roma capitale, seguendo le sorti del governo e del re, la spiegazione data ai lettori fu questa. “Noi non vogliamo che Roma attiri a sé tutta la forza intellettuale. Noi vogliamo che Napoli, Firenze, Bologna, Venezia, Milano, Torino, serbino la loro influenza legittima, portino il peso nella bilancia delle sorti politiche nazionali. Ogni regione ha elementi originali da custodire e nello stesso tempo è sentinella dell’Unità inattaccabile.” Una prosa intelligente, modernissima, attuale ancor oggi, 140 anni dopo.

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n atteggiamento che La Nazione conservò anche in epoche ben diverse. Così, durante il fascismo, pur costretta come tutte le testate a pubblicare le veline del minculpop, non per questo La Nazione si allineò mai

totalmente al regime. Tanto da opporsi, allorché il Regime voleva imporre come direttori uomini di assoluta fede a Mussolini. E ospitare firme, come quella di Montale, il personaggio che per il suo antifascismo era pur stato “licenziato” dal Vieusseux. Uno stile, un modo di essere, che la premierà quando, pur con mille problemi tornerà alle pubblicazioni nel 1947. E ancora, quando nel ’68 la realtà italiana dette segni di grande malessere e tutto il nostro modo di essere società fu posto in forse, La Nazione non esitò ad assumere giovani della più varia estrazione politica ed ideologica, anche con provenienze ben diverse da quelle liberali, perché contribuissero ad aiutare la direzione a interpretare quanto stava accadendo. Erano i giorni del direttore Mattei ed ancor più del condirettore Marcello Taddei. La Nazione si poneva una volta di più il problema di come adeguarsi ai tempi. E se ciò le costò dei rischi, e dure minacce per alcuni dei suoi cronisti - quelli più esposti nei giorni del terrorismo - ciò non modificò la sua linea.

Alessandro Dumas (nella foto in alto) fu inviato speciale de La Nazione al seguito dell’impresa dei Mille. Tre poeti tra le tante firme illustri de La Nazione: Alessandro Manzoni, Giosuè Carducci e Giovanni Pascoli (nel tondo).


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Da La Nazione del 24 ottobre 1870

Ma questi romani lo sanno cosa significa essere italiani? Se lo chiede Edmondo De Amicis in una corrispondenza alla vigilia di Roma capitale

Così Edmondo De Amicis un mese circa dopo la Breccia di Porta Pia da lui stesso descritta, raccontava di Roma, ormai pronta al suo ruolo di capitale del regno d’Italia.

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omincio con una dichiarazione: chi viene in questi giorni per la prima volta a Roma, con le idee cercate solo nello studio della storia o acquistate nella lettura di molti giornali, è costretto a guardarsi dattorno meravigliato e confuso, e quasi a dubitare che un disguido ferroviario lo abbia condotto in una città qualunque che Roma non sia. È vero che quando si entra in San Pietro, l’impressione che se ne prova è di tale sgomento, di tale umiliazione, che si riconosce subito che solo Roma è capace di un miracolo simile: ma non di meno, io non vidi mai città che nelle mille ed una descrizione fosse più adulta, e più calunniata ad un tempo quali inaspettate e nuove meraviglie!... e quanti strani ed inattesi disinganni!

La mente giovanile si forma ad esempio un immenso concetto del Campidoglio: io l’ho salito il Campidoglio: per rispetto alle grandi memorie storiche che racchiude taccio le impressioni… ed anco le sensazioni che ne provai. Fu una delusione… e grande. Il cervello di molti uomini politici sognava e forse sogna tuttavia che a Roma si pensi e molto al Papa, al suo potere, alla sua influenza: in verità stando qui non solo si crede che il Papa sia partito, ma vì è da dubitare che la presenza del pontefice in Vaticano sia una leggenda antica, accettata, tanto per fare, dalla generazione presente. Che cosa fa Pio IX? Nessuno se ne occupa: le notizie che lo riguardano si ricevono da Firenze , ma quasi non si raccolgono. Ecco una prima meraviglia e non lieve. La vita politica della città si traduce in una sola parola: entusiasmo: cieco, veramente febbrile. Il solo aspetto continuo permanente di Roma è la dimostrazione. È una malattia: nel giorno mostra una fase cronica: nella sera tocca ai teatri il periodo flogistico. Ecco Roma. Ma debbo aggiungere che qua si sente molto, e si pensa poco. L’onorevole Sella che venne qua – come sapete – partì

promettendo solennemente che il Re sarebbe venuto a Roma al più tardi fra 15 giorni, e che il trasferimento della capitale si sarebbe compiuto al presto. I romani si compiacquero di ambedue gli annunzi, specialmente (è giustizia il dirlo) del primo: ma non si occuparono né si occupano molto delle necessità che ambedue impongono. E queste necessità sono molte e non è agevole provvedervi… Purtroppo, venendo qui, ci si accorge come il Governo sia assolutamente fuori di strada, non solo nelle idee, ma nei modi di attuarle per ciò che si riferisce al trasporto della capitale. Giudicando tale questione da Firenze, non si parlava che di difficoltà materiale, del bisogno di locali, di necessità di ingrandimenti: tutte osservazioni di cui non si nega la giustizia, né la opportunità. Vero è che diversi ministri trovarono un sistema nuovo, per risolvere questa prima parte del problema: ogni consigliere della corona, meno uno o due, mandò qui i suoi ingegneri per studiare quale località si sarebbe prestata al collocamento del proprio dicastero: ma ogni ministro agì indipendentemente dai propri colleghi…

Ma sono le difficoltà morali (per così dire) quelle di cui non si preoccupano a Firenze né a Roma: e sono le più dure, le più lunghe, le più aspre per chi esamina la questione con occhio freddo ed imparziale… Occorre che dopo l’annessione di Roma, facile a stabilirsi con un decreto, anco attivo, si determini la fusione dei romani negl’italiani. Qui non c’è il pensiero o il sentimento che all’uopo basti una imponente manifestazione all’Argentina.Occorre che dopo l’estensione delle leggi italiane, facile ad ordinarsi con un altro decreto, si applichino non solo materialmente colla percezione delle imposte, ma con lo spirito nuovo che animi tutte le istituzioni, tutte le consuetudini, ed accumuni la vita romana alla vita italiana. Questo è il più arduo problema che s’impone: il problema che non può risolversi dagl’ingegneri, ma che richiede perfetta conoscenza di Roma in chi sta a Firenze, conoscenza che, o io m’inganno a partito, o non si ha costì che sbagliata, o esagerata o imperfetta.

La vera immagine dell’ingresso (foto grande) dei bersaglieri da Porta Pia. La foto diffusa ufficialmente riprodurrà in un fotomontaggio la stessa scena con un numero ben maggiore di soldati. Roma: un passaggio di carrozze a Ponte e Castel Sant’Angelo (foto piccola).


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MA QUANTO CI COSTA QUESTA LOMBARDIA Gli aspetti economici della pace che seguì a Villafranca Il primo supplemento nella storia de La Nazione

Il 22 ottobre del 1859 i lettori de La Nazione per la prima volta ricevono in omaggio un supplemento di particolare valore storico.

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cco il primo supplemento pubblicato a corredo de La Nazione. Fu diffuso il 22 ottobre 1859, ed andò a ruba fra i lettori. Si tratta di un dispaccio dell’Agenzia Stefani composto a tutta pagina arrivato da Parigi la sera del 21 ottobre, e contiene il trattato di pace tra Francia ed Austria. È dunque la conseguenza dell’armistizio di Villafranca, del quale riprende in gran parte le decisioni, e segna la fine della seconda guerra di Indipendenza. Colpisce, leggendolo, l’aspetto economico che solitamente viene trascurato nei libri di storia. Eppure, a guardar bene è forse la parte più rilevante della pace. Al Piemonte infatti, per avere la Lombardia, in qualche modo conquistata sul campo di battaglia, occorre versare una cifra considerevole oltre a farsi carico dei tre quinti dei debiti della banca del Lombardo Veneto. Ora, se si pensa che il Veneto restava all’Austria, appare chiaro che la gran parte dei debiti dell’Istituto finanziario

finisce proprio a carico dei Savoia. E allora, il sangue versato a Solferino dalle armate vittoriose dei patrioti? L’altro aspetto riguarda il timore che l’Italia Unita voglia in qualche modo rifarsi delle spese a scapito degli “stabilimenti religiosi” e in genere della Chiesa. Cosa che poi avvenne in qualche modo, ma che austriaci e francesi volevano evitare ad ogni costo. Così dettano una serie di regole per evitare che in Lombardia, il nuovo governo vada a far cassa confiscando le confraternite religiose. Altro aspetto, in qualche modo collegato, il ruolo che dovrà avere il Papa in una possibile confederazione di stati italiani.

IL TRATTATO DI PACE Parigi 21 ottobre sera – I fogli francesi ed Inglesi riproducono un dispaccio da Zurigo contenente i particolari del trattato Franco – Austriaco. L’Austria conserverà Peschiera e Mantova. Il Piemonte pagherà le pensioni accordate precedentemente dal Governo lombardo. Pagherà all’Austria 40 milioni di fiorini, assumerà tre quinti del debito del Monte Lombardo veneto: totale del debito assunto dalla Sardegna 250 milioni di franchi. Desiderando la tranquillità della Chiesa e volendo assicurare il potere del Papa, convinte che questo oggetto potrà essere compiutamente ottenuto soltanto da un sistema che risponda ai bisogni delle popolazioni ed alle riforme di

cui il Papa già conobbe la necessità, le due parti contraenti riuniranno i loro sforzi per ottenere che il Papa faccia delle riforme nell’amministrazione dei suoi stati. I limiti dei territori degli stati indipendenti italiani che non parteciparono alla guerra non potranno essere mutati che dietro il consenso delle potenze che concorsero a formarli, garantendo la loro esistenza: i diritti dei sovrani di Toscana, Parma e Modena sono espressamente riservati alle potenze contraenti. I due imperatori daranno tutto il loro appoggio alla formazione di una Confederazione degli Stati Italiani, collo scopo di conservare all’Italia l’indipendenza e l’integrità, assicurare il benessere morale

e materiale del Paese, vegliare alla sua difesa col mezzo di un esercito federale. La Venezia resta sotto lo scettro dell’Imperatore d’Austria, farà parte della Confederazione, parteciperà ai diritti ed agli obblighi del trattato federale, quale sarà stabilito fra gli stati italiani. Un articolo apposito regola l’amnistia. Le ratifiche saranno scambiate entro 15 giorni. L’Austria restituirà i depositi in valore affidati alla Casse pubbliche ai privati. Gli stabilimenti religiosi di Lombardia potranno disporre liberamente dei loro beni di qualsiasi natura, se il possesso di questi beni fosse incompatibile colle le leggi del nuovo governo.


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Giorgio Batini si racconta

“FACEVO LA CRONACA E POI ME LA SCRIVEVO”

dal volume “la mia vita” di Giorgio Batini

Ho sempre voluto partecipare agli eventi, anziché limitarmi a raccontarli. L’alluvione, la misteriosa “Bambagia” degli Ufo, il ritorno dei Pollaiolo agli Uffizi, il Piccolo Zoo delle Cascine, la Mostra dei Tesori segreti della Case Fiorentine. Così feci per il Vajont Un grande giornale dalla centenaria tradizione d’indipendenza Le lettere di Prezzolini, l’ironia di La Pira

Giorgio Batini (a destra nella foto) alla stazione di Santa Maria Novella di Firenze con il professor Ugo Procaci (che tiene, felice la valigetta con i due Pollaiolo recuperati da Siviero) e il vicesindaco Enzo Enriques Agnoletti.

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on sono stato un gran giornalista (pochi, del resto, sono quelli che riescono a vivere con l’autoelogio incorporato), però me la sento di dichiarare che sono stato un giornalista particolare, forse un esemplare in estinzione nell’odierna “fauna” della carta stampata, cioè un personaggio che viveva la vita piuttosto che limitarsi a raccontarla. Stiamo parlando, grosso modo, dei lontani anni CinquantaSessanta, quando io mi sentivo appassionatamente cronista fiorentino, non sognavo di andare alle Galapagos, ma correvo le mie avventure in via dell’Agnolo o in via del Drago d’Oro, non mi imbarcavo sulla bananiera diretta verso porti esotici, ma inforcavo la bicicletta, una scarcassata bicicletta che aveva ancora avvolto alla canna nera del telaio un argenteo bollo da dieci lire. E come fanno i grandi inviati di ritorno dall’Orinoco, anch’io scrissi un libro di ritorno dal viuzzo di Monteripaldi, uno dei miei libri ormai introvabili – “Uomini per Madama” – e se Beppe Pegolotti parlava inglese e il vecchio Renzo Martinelli anche il bantù, io parlavo correttamente in gergo e invece di pistola dicevo la “ribattina”, la “rabbiosa”, la “baiaffa”, invece di polizia la “giusta”, la “madama”, e invece di prigione la “buiosa”. Sapevo meglio dello Smilzo come si fa lo “sfilo”, magari il “tappeto” sotto il letto della Maresca per prendere il portafogli al cliente indaffarato, quelli della banda del buco erano come di famiglia, sapevo dei furti di Veleno quasi in tempo reale, andavo

e venivo in casa di Palle Secche (una porta d’entrata, tre possibili vie d’uscita), a volte arrivavo nel vicolo dove c’era il morto prima del brigadiere, e un giorno trovai nei boschi e caricai in macchina un pezzo d’uomo che aveva fatto a fette la moglie con la scure, lo tranquillizzai (“sono cose che succedono in tutte le famiglie”) e lo portai fino alla prima stazione dei Carabinieri; in altra occasione – per avere la foto di una vittima che la “giusta” aveva già portato via – mi feci fotografare sdraiato in terra con sopra un lenzuolo, dal quale però spuntavano le mie scarpe, mentre nelle foto dei giornali concorrenti la vittima era scalza. Indagavo come uno della “mobile” (proprio come in certi libri di detectives americani che però non leggevo), riferivo ai lettori della Nazione anche i risultati delle mie personali indagini, e poteva succedere che – domandando in questura cosa avesse confessato l’autore di un delitto – mi si rispondesse “quello che lei ha scritto ieri sul giornale...”. “Invece di scrivere la cronaca di Firenze – mi diceva un direttore (Alfio Russo), tra il corrucciato e il compiaciuto – tu fai la cronaca, insomma partecipi…”. Era vero, stavo più in giro che in ufficio, e questo accadde ancora di più quando il proprietario del giornale mi comprò la prima “Vespa”, e poi una moto Gilera, il che fece scalpore tra i colleghi, tutti ciclisti.


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Giorgio Batini si racconta

Le grandi firme

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ro molto amico dei “grandi” come Indro e Curzio, e “amico di penna” di Prezzolini, che non ho mai visto. Lui, al tempo della “Voce”, frequentava a Firenze, alla Consuma e alla Verna, mia madre che era amica della prima moglie Dolores. Come si sa se ne andò in America per poi stabilirsi in vecchiaia a Lugano, senza più tornare a Firenze. Non voglio esagerare, ma in certi momenti mi sembrava di stare a Firenze per conto di Prezzolini che mi scriveva per sapere questo e quello, per verificare cose del lontano passato. Ricordo lettere di una scrittura minuta, tutta gettata di traverso, in diagonale sulla carta da lettere. Lusingato, consideravo ogni lettera un onore, un premio. Ero a Londra quando lessi sul Corriere della scomparsa di Enzo Grazzini, nota firma del quotidiano milanese, che conosciutomi da ragazzo aveva previsto il

mio futuro professionale. In età avanzata amava molto le storie di cani, gatti, animali, e quando veniva a Firenze mi chiedeva se per caso ne avessi una, e così gli raccontavo di quel cane lupo del cantiere comunale delle Cascine che era stato incaricato di catturare una volpe fuggita dal piccolo Zoo e che invece ci giocava tutte le notti, o di una scimmia che girava libera per San Frediano, che rubava il cibo dalle cucine, che scandalizzava le suore di un convento, che finita allo zoo muoveva una zampa con estrema rapidità tra le sbarre della gabbia e rubava gli occhiali ai visitatori. Rubò anche quelli di un prefetto. La storia che più piacque a Grazzini fu quella di un cane che tutti i giorni saliva su un treno che fermava a Campiglia Marittima, mangiava al vagone ristorante, scendeva a Livorno, prendeva un altro treno e tornava a Campiglia.

Nelle foto a sinistra: Indro Montanelli con la sua inseparabile “lettera 22” sulle ginocchia e Curzio Malaparte che fu inviato speciale de La Nazione negli anni Cinquanta.

Un momento della festa per il centenario de La Nazione. Da sinistra: Silvano Galli, Laura Griffo, Giorgio Batini, il direttore Alfio Russo, Omero Zaccherini direttore di tipografia e Paolo Bugialli.

Ringrazio il destino di avermi fatto appartenere alla Nazione, un grande giornale di centenaria tradizione di libertà e d’indipendenza, che non mi ha mai imposto alcunché, permettendomi di essere, e di restare sempre, quello che intendevo essere. E probabilmente, non avrei avuto altrove l’onore di lavorare con compagni di viaggio come Micheli, Mattei, Yambo, Taddei, Vitali, Pegolotti, Martinelli, Gigli, Poesio, De Anna, Goggioli, Paloscia, Passetti, Magi, Pizzinelli, Frosali, Mazzuoli, Della Santa, Ragionieri, Forti, Marcolin, Scelba, Silvano Galli, Bertuccelli, Apollonio, Basevi, De Carli, Chirici, Gozzini, Bucciolini, Cartoni e tanti altri, tutti laureati in coerenza ed equilibrio, in fermezza, dignità, prestigio, tutti modelli del vivere, del partecipare, dello scrivere. Tra i miei più commossi ricordi c’è quello di un giovane, intraprendente guardiacaccia maremmano che sul comodino della sua camera di Capalbio teneva a portata di mano i racconti venatori di Aldighiero, mio padre, gran cacciatore al cospetto di Dio, e poi si guadagnò i galloni di giornalista, divenne mio fraterno amico, dalle frequenti confidenze, quasi un figlioccio; e una volta mi invitò a pranzo a Macchiascandona, e vuotò tutto il sacco dicendo che lui non era andato più lontano, con la barca, delle isole dell’Arcipelago, ma questa volta doveva affrontare l’Atlantico per vedere con i propri occhi se quello che raccontava il coraggioso navigatore solitario Fogar e che lui aveva riferito, rispondesse alla verità. Una verifica che lui doveva ai lettori, a se stesso. E voler conoscere quella verità gli costò - povero Mauro Mancini - la vita, gli affetti più cari, quel suo sconfinato amore per il mare.

Archivio Giorgio Batini

Compagni di viaggio


Archivio Rosario Poma

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Gli indimenticabili Indimenticabili i grandi personaggi italiani e stranieri che ho conosciuto e intervistato per il giornale, e anche quelli modesti di cui nessuno sa più il nome. Come quell’arabo che faceva il guardiano del cimitero militare italiano in Egitto, che conobbi quando decisi di passare una notte in un periodo natalizio tra i nostri dimenticati caduti di El Alamein: e l’arabo mi raccontava che certe notti vedeva passare i fantasmi dei carristi della Littorio, e altre volte sentiva passare la fanfara dei bersaglieri che proveniva dalle parti di Marsa Matruh e correva in direzione di Giarabub. Indimenticabili i giorni di novembre del 1966 quando fui inseguito nel Lungarno della Zecca dalla piena straripata dell’Arno, quando vidi raccogliere con un colino da thè la pelle del Cristo di Cimabue, quando andando in musei, chiese, archivi, biblioteche alluvionate come cronista detti anche una mano ai salvatori dell’arte, e liberai dal fango quadri, ceramiche, nobili memorie fiorentine. Allora il giornale veniva stampato a Bologna, perché le rotative erano finite sott’acqua, e noi cronisti, inviati, con un po’ di amici tipografi, facevamo i pendolari.

Via Ricasoli by night Sono stato grande amico di due sindaci: Bargellini e La Pira. Spesso, nel tardo pomeriggio, uscivo dalla redazione di via Ricasoli e aspettavo che passasse La Pira, che lasciato l’ufficio di sindaco in Palazzo Vecchio, se ne tornava a piedi, senza scorta, al convento di San Marco. L’avevo conosciuto da ragazzo alla Consuma, era stato mio professore (però mi aveva fatto esaminare dai suoi assistenti), aveva fatto da testimone al mio matrimonio, credo di poter dire che mi voleva bene, che chiacchierava volentieri con me, magari lamentandosi che il giornale ce l’aveva sempre con lui. Su di lui sono state dette e si possono dire migliaia di cose, ma pochi hanno osservato come quel piccolo, grande siciliano avesse fatto propria l’ironia fiorentina. Quando tolsero dal calendario San Giorgio, gli dissi scherzando che avevo sperato di riempire quel vuoto in un giorno lontano, ma avevo perso ogni speranza da quando c’era un Giorgio importante come lui: “Chiaramente – dissi – il posto è suo!”. “Non disperare – rispose – a volte si sbagliano...!”

Da sempre, quel che è fatto è reso. E siccome la cronaca prendeva viva e diretta parte nella vita cittadina, la città considerava il giornale un luogo cittadino, di visite e d’incontri, e via Ricasoli, specialmente di notte, era frequentatissima: arrivava l’ambasciatore, il ministro, l’onorevole, il prefetto, il generale, che volevano parlare con il direttore, qualche pittore che andava da Paloscia a dirgli di una nuova mostra, giovanottoni della palla a nuoto in visita da Goggioli, campioni delle due ruote da Liverani, magari un capocomico da Bucciolini, spesso Mike Bongiorno che andava a chiacchierare con Paolo Bugialli e Laura Griffo. Il proprietario di una riserva di caccia che veniva ad offrirmi un gatto selvatico per lo Zoo delle Cascine (era finito in una trappola, mangiava due piccioni al giorno: poi morì e fu imbalsamato alla Specola) incontrava per le scale Cinquino che veniva a trovarmi appena uscito dal Mastio di Volterra, un consigliere comunale che voleva una campagna contro i rumori, un politologo che andava a discutere da Taddei, un vignettista di “Brivido” da Cartoni. Era un via vai. Molti i nobili, perché una parte dell’aristocrazia fiorentina aveva il sonno difficile, ed uno dei passatempi notturni era quello di andare al giornale per suggerimenti e proteste. Una marchesa veniva spesso a ripetere che in piazza Indipendenza c’erano due prostitute, e un gran giro di macchine e se lei scendeva di sera nella piazza per la passeggiata diuretica del pechinese subito le offrivano quaranta lire. A tarda notte un punto di ritrovo dell’aristocrazia era anche la stazione dove al bar ristorante facevano i tortellini più buoni della città, e a quell’ora tarda (quando c’era la Mostra Antiquaria) arrivavano con il treno i mercanti d’arte del nord che dovevano allestire gli stand a Palazzo Strozzi, e anch’essi - sapendo dei tortellini - si fermavano alla Stazione per uno spuntino: io presentavo loro quella o quell’altra contessa, che a volte divenivano loro clienti per un fiammingo o una specchiera (fu così che nel mondo degli antiquari - anche a Delft, anche a Bruxelles - mi chiamavano “Giorgio delle contesse”). Un continuo via vai di amici, i più disparati: Gino Bechi, Roberto Guicciardini, Carla Fracci, Beppe Menegatti, Enzo Tortora, Amerigo Gomez, Pier Carlo Ruffilli, Giovanni Germani... Un mondo non facilmente immaginabile, al quale mancò un Fellini.

Firenze, 31 maggio 1971. Una foto di gruppo della redazione in occasione della festa per il pensionamento della segretaria di redazione Elena Becattini. In prima fila da sinistra: Luciano Satta, Giuseppe Peruzzi, Fabiani, Rosario Poma, Marcello Taddei, Elena Becattini, Paolo Emilio Poesio, Wanda Lattes. Gli ultimi due a destra sono Saverio Ciattini e Renzo Vatti. Si intravede al centro in ultima fila Alberto Marcolin.


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Giorgio Batini si racconta

Giramondo e giraregione

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Un disco volante in volo. Per giorni a Firenze fu vissuta la psicosi degli UFO dopo che una strana ragnatela era caduta sullo stadio durante una partita. In basso alcune drammatiche immagini del disastro del Vajont.

o scritto centinaia di articoli per difendere la natura, le tradizioni, le memorie storiche, l’arte. Poteva accadere che nello stesso giorno ci fossero nel giornale tre o quattro articoli miei, uno firmato Giorgio Batini, un altro Giobat, un altro ancora Bat, oppure Carlo Lienzi ch’era di tutti e di nessuno. A quei tempi il salotto buono del giornale era “la terza”, la famosa terza pagina, la quale ospitava pezzi letterari, grandi servizi, inchieste, finestre aperte sul mondo, ma consentiva anche di nobilitare piccole realtà locali. In quella pagina - dove in quegli anni Sessanta apparivano illustri firme di scrittori italiani - ho fatto per anni sia il “giramondo” che il “giraregione”, sempre inguaribilmente cronista, e sempre affamato di spazio, perché secondo me le cose da raccontare sono come le ciliegie che una tira l’altra, cosicché a volte – per dire proprio tutto – bisogna scrivere un libro invece di un articolo. Dicono che ne ho scritti troppi,

ma sono di più quelli che avrei voluto scrivere. Le notizie non mancano mai. Sono nell’aria come le farfalle di Papillon, importante è nascere con una reticella sempre pronta, mai stanchi di vedere, di ascoltare, di sapere. Quando raccolsi una voce che l’amico Rodolfo Siviero era riuscito a recuperare in America due celebri tavole del Pollaiolo rubate dai tedeschi, feci una corsa fino a Le Havre, riuscii a salire sul transatlantico di Siviero, lo intervistai, detti per primo la notizia del recupero, e tornai a Firenze con l’amico Rodolfo il quale mi concesse di portare la valigetta nera che custodiva i Pollaiolo. Indimenticabile. Quando in Russia un georgiano mi raccontò che nel Caucaso c’erano (come nel caso dei mustang delle praterie americane) dei branchi di cavalli selvaggi, feci di tutto per riuscire a ottenere dalle autorità sovietiche (erano i tempi di Kruscev) il permesso di raggiungere quelle regioni lontane, dove giunsi dopo

essere stato in Georgia e a Tiblisi. Girai a lungo per monti e foreste, e infine un giorno potei scoprire - e fotografare – un branco di cavalli selvaggi che si era riunito sulle sponde di un piccolo lago salato, una piccola gemma azzurra al fondo di una verde forra boscosa. Uno spettacolo straordinario, un momento della mia vita che di tanto in tanto la memoria mi regala. Un momento, voluto, cercato, in mezzo a tanti altri fortuiti, occasionali, dei quali spero di essere riuscito a comunicare l’emozione ai lettori della Nazione. E così mi tornano alla mente le grandi manovre degli UFO su Firenze nel 1954 (diecimila tifosi allo Stadio naso in su), con la caduta della famosa e misteriosa “bambagia” o “ragnatela” – caduta anche in America e in Spagna – che io riuscii a raccogliere e a far analizzare chimicamente, il che ebbe un’eco mondiale.

Come aveva capito Alfio Russo, a me piaceva “fare” la cronaca, e come giornalista intendevo partecipare alla vita cittadina, intervenire nella vita cittadina. Lungo è l’elenco di questi interventi. Un giorno, per dimostrare che Firenze, musei a parte, era piena di capolavori d’arte distribuiti nei palazzi, nelle residenze private, organizzai al Circolo Borghese e della Stampa, insieme alle signore della Croce Rossa, la “Mostra dei Tesori Segreti delle Case Fiorentine”. Avevo ragione, e a Palazzo Borghese furono esposti capolavori di tutti i generi, anche un Botti-

celli, anche un Filippino Lippi, un Ghirlandaio, un Beccafumi, un Bronzino, un Vasari, preziose collezioni di argenti, di porcellane, di bronzi e mobili. In quanto a me, finii sul “Time” (“36 years old…”). Collaborai alla Mostra Internazionale Antiquaria con i fratelli Bellini, alla Mostra della Caccia, organizzai l’Asta della Bontà, e per l’inaugurazione dell’Autostrada Firenze-Bologna la Festa delle Tre Torri. Una festa grandiosa, con centinaia d’invitati bolognesi accolti al Circolo Borghese e della Stampa in modo principesco. Accolti così bene da dirci che non

avrebbero saputo come “restituire” e infatti non lo fecero. Fu in quegli anni che pensai che i ragazzi avrebbero rispettato di più gli animali se li avessero conosciuti, e creai - chiedendo il contributo dei lettori - il Piccolo Zoo delle Cascine col cammello Canapone, cinghiali, cervi, caprioli, daini, castori, centinaia di uccelli, liberando anche coppie di fagiani alle Cascine. Una fagiana covò nel deposito delle Ferrovie di Porta a Prato, i castorini si diffusero lungo l’Arno, e ognuno di questi curiosi eventi ebbe l’onore della cronaca.

Cronache d’altri tempi

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erte storie andrebbero riferite in ordine cronologico, ma io le racconto come vengono vengono. Ricordo per esempio, che quando ci fu la sciagura del Vajont, tutte le strade per Longarone erano bloccate dall’esercito mandato in soccorso. Ebbi l’idea di andarci “col treno”, mi feci cioè a piedi quattordici chilometri di binari e questo mi permise non solo di arrivare tra i primi dei trecento-quattrocento inviati, ma anche di vedere un particolare forse sfuggito ad altri: infatti un ponte ferroviario (l’ultimo

prima del paese distrutto dallo tsunami della diga) scavalcava un torrente che aveva ricevuto l’ondata e dove ormai l’acqua si era ritirata. Orrendamente indimenticabile ciò che vidi: nel letto del torrente c’era uno “sformato” di melma, mani, braccia, teste umane. Restai a lungo nel Vajont, anche perché il giornale ebbe l’idea (e forse fu la prima volta che accadde una cosa del genere) di distribuire i soldi raccolti dai lettori del giornale direttamente ai superstiti, con tanto di libretto bancario, tenendo conto dei danni personalmente subiti.


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Pegolotti, Goggioli, Marchi e Liverani Così nacquero le cronache dello sport Da via Ricasoli a piazza Beccaria, dalla macchina da scrivere al computer Un inserto di quaranta pagine tutti i lunedì di Giampiero Masieri

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ueste sono le vicende, sconnesse come molte strade fiorentine - e a dire sconnesse si sta certamente sul leggero - della redazione sportiva di questo giornale, di che cosa c’era prima e di che cosa c’è ora, che tra l’altro vuol dire dalle macchine per scrivere, in alcuni casi solenni come cattedrali, fino ai computer, che se in alcuni casi non sembrano da tasca ci manca poco. Insomma, dalla sede storica di Via Ricasoli, a due passi da Piazza del Duomo, a quella che sfiora Piazza Beccaria e che l’alluvione del ’66 si guardò bene da sfiorare, la invase di brutto e basta. Giornalisti famosi da ricordare subito ce ne sarebbero tanti. Ci fermiamo a due, di due generi diversi, Beppe Pegolotti e Giordano Goggioli. Piacevole, ironico e dissacrante raccontatore il primo, anche sulle decennali vicende della Fiorentina. Indimenticabile Pegolotti, per le sue battute sui viola, e anche per le sue cronache dal Giro di Francia e dal Giro d’Italia. Ferreo organizzatore era Goggioli nell’era moderna. Con loro, anni prima e tanti anni dopo, miriadi di colleghi e di collaboratori esterni. Ne dimenticheremo certamente alcuni. Tanto, il biglietto per l’inferno lo abbiamo già: posto in piedi.

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ominciamo da molto lontano, il 1925, con l’aiuto indispensabile delle collezioni del giornale. Le corse al galoppo all’ippodromo di San Siro erano tra le notizie di maggiore lunghezza, dieci righe. Più o meno come le prove all’autodromo di Spa. Sempre dall’estero, notizia di un “pugilatore” impegnato a Parigi. Bisogna tener conto che non esisteva ancora una redazione prettamente sportiva e non esisteva nemmeno la Fiorentina, che è sempre stata un veicolo da corsa, diciamo così, de “La Nazione”.

I campionati di calcio? “Dura sconfitta della Cremonese a Vercelli”. Niente formazioni, testi sempre sul breve, rare le fotografie. In testa al campionato, tra parentesi, c’era sempre il Bologna. Nel ciclismo Tano Belloni, l’eterno secondo, smentiva tutti e vinceva la Milano-Modena. Le pagine di quel tempo abbondavano invece di notizie sul teatro e di recensioni, si parlava della bellissima Pola Negri e di Adolph Menjou, “adorato dal pubblico femminile fiorentino”. Da parte sua, Ferdinando Paolieri, al quale è dedicata una strada proprio di fianco alla sede de “La Nazione”, dedicava un lungo articolo a Giovanni Fattori nel centenario della nascita. Con un salto di dieci anni trovia-

mo una intera pagina giornaliera dedicata allo sport, non più piccole notizie e via. Troviamo anche le prime firme importanti, e diciamo pure storiche. Il sommo Giuseppe Ambrosini scriveva di ciclismo, Giro d’Italia compreso, Vittorio Pozzo era naturalmente sul calcio, partite della nazionale comprese. Il famoso Nedo Nadi, livornese, scriveva, altrettanto naturalmente, di scherma. Giuseppe Centauro era sulla cresta dell’onda come resocontista. A lui si deve la famosa frase, da tanti di noi ripresa, su un gol dell’uruguayano Pedro Petrone. Diceva: “I cipressi di Fiesole si inchinarono al tiro dell’artillero”. Nelle cronache sull’ippica troviamo un nome molto caro a

questo giornale, il nome di Italo Marchi. Con un termine forse in disuso, ma che a tutti i costi deve rendere l’idea, lo definiamo un gentiluomo, preciso, puntuale e nello stesso tempo pieno di rispetto per tutti. Rimase in mezzo a noi per molti anni, fino alle Olimpiadi del ’60 a Roma e anche oltre. Sul Gran Premio di Merano, la famosa Lotteria, riferiva puntualmente con lunghi articoli. In mezzo a noi gli dette il cambio il figlio Paolo quale redattore in pianta stabile, nel settore dedicato alle notizie dall’interno. Due tipi completamente differenti, Italo riservato, Paolo esuberante. Li ricordiamo con affetto. La Fiorentina di quell’anno? Non riuscì a battere la Sampierdare-

Giordano Goggioli tra due suoi allievi di giornalismo: Giorgio Moretti (a sinistra) e Raffaello Paloscia. La foto è tratta dal volume “Giordano Goggioli” di Massimo Sandrelli e Raffaello Paloscia.


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La Rari Nantes disputava le sue prime gare in Arno davanti a un pubblico sempre numeroso. Nella foto si riconoscono ( in primo piano) il campione di stile libero Pucci e il barcaiolo Omero proprietario dell’omonimo stabilimento balneare sul fiume. Dietro di loro un giovanissimo Giordano Goggioli.

nese. Aveva Amoretti, Gazzari, Renzo Magli, Pizziolo, Bigogno, Neri, fino a Perazzolo e Scagliotti. Il ciclismo? Ecco un titolo tra i più interessanti: “Bini e Bartali si battono oggi per la successone di Learco Guerra”. La boxe? “Joe Louis incontrerà il basco Paolino”.

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a osservare che sui titoli si andava sempre sul sicuro, ossia sulla cronaca. A provarci oggi, e soprattutto a perseguitare, si rischierebbero partacce a scena aperta. D’altra parte in quell’epoca occorreva soprattutto, e prima di tutto, informare. Ora che è la televisione a informare con ore e ore di anticipo, è stato necessario cambiare. A questo punto incontriamo un personaggio che segnò, o per lo meno accompagnò il passaggio dalle poche notizie di sport e un solo articolo, a pagine e pagine intere. Si chiamava Mario Liverani, e anche lui, come Italo Marchi, ebbe come erede il figlio: Nereo. Mario entrò al giornale in punta dei piedi ma con il desiderio di imparare. Era un periodo nel quale una vera e propria redazione sportiva non esisteva ancora. C’era da riparare dappertutto, e Liverani non si sottrasse mai. Era nato nel 1903 a Modigliana, allora in provincia di Firenze, poi di Forlì. Arrivato da quel posto di frontiera, frequentò subito circoli di sportivi. “La Nazione”

Goggioli a organizzare il lavoro in senso moderno. Goggioli, ex campione di pallanuoto con la Rari Nantes Florentia, era un uomo pieno di idee e di iniziative, e siccome aveva un voce potente e imperiosa, contraddirlo restava difficile. Mise su una bellissima redazione, con Mario Liverani redattore di notte, Raffaello Paloscia di giorno, Beppe Pegolotti inviato, Giorgio Moretti nell’edizione della sera, Romolo De Martino a fare, diciamo, da coscienza a tutti. Lavoravano benissimo. Pegolotti, nato a Cecina, veniva dal “Tirreno” di Livorno, aveva esordito nel ’34 nientemeno che con le due partite in due giorni tra Italia e Spagna, la Spagna di Zamora. I collaboratori erano tanti, da Antonio Ghirelli a Roberto L. Quercetani per l’atletica leggera internazionale, Saverio Ciattini per i motori, Paolo Lucchesini per l’ippica, Manlio Gazzo per il pugilato, Giuliano Mazzoni per il ciclismo e poi come preziosissimo segretario, Mara Novelli per il tennis, Paolo Pepino per nuoto e pallanuoto, e ancora Franco Ignesti, Pier Giovanni Canepele, Roberto Checcucci, Vincenzo Tessandori. Sandro Bennucci e cercava persone che si dessero da fare. Mario era l’uomo giusto. Pier Lugi Brunori che del calcio conosceva tutto, ma proprio Stenografava, in un’epoca nella quale gli articoli da fuori Firenze tutto, specie se si trattava di numeri e statistiche. Piero Fovenivano telefonati e perciò stenografati, e aiutava a portare cardi scriveva di basket, era così preciso che in coda alla notizia i giornali la notte alla stazione. su qualsiasi partita al Palazzetto Personaggio amatissimo per la Iti di Via Benedetto Dei indicava grande disponibilità, collaborò anche all’organizzazione del primo grande veglione di Carnevale alla Pergola, che fece epoca. Era innamorato del ciclismo, lo seguiva, lo conosceva a fondo. Tanti anni dopo, l’ex commissario tecnico del ciclismo, Alfredo Martini, disse: “Voleva così bene al ciclismo che per lui una corsa di allievi intorno al Campo di Marte equivaleva a una preolimpica”. “La Nazione”, piano piano dette sempre più spazio allo sport, al punto da destinare un inviato al calciomercato, che allora si svolgeva al famoso Hotel Gallia di Milano. L’inviato si chiamava Nuto Innocenti. Al ritorno da Milano rimise naturalmente la nota delle spese. L’amministratore gli chiese, quasi scandalizzato: “Ma come, ha dormito al Gallia?”. Innocenti rispose: “Sì, al Gallia. Non avevo trovato di meglio”.

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ario Liverani era amico e cantore di Bartali. Seguì le sue corse, magari da lontano causa gli impegni al giornale, fino dal ’31. Dopo la guerra, alla ripresa delle pubblicazioni, quando il caporedattore era Micheli, aiutò Giordano

sempre: tram numero 23. E poi c’erano anche Pieraccini, Naldoni e Roberto Parigi per il calcio minore e Marzuchini per la neve. Sempre per il calcio, quello viola, Maurizio Naldini ed Enrico M. Pini. Altra garanzia. Accanto a Paloscia, il quieto Paloscia che poi prese il posto di Goggioli, si susseguirono come redattori Sandro Picchi, Luca Frati, Enzo Bucchioni, Andrea Galli, Alessandro Fiesoli e il sottoscritto, che in quanto tale conferma. Sempre con molto affetto e rimpianto ricordiamo inoltre Athos Di Clemente, che si divideva dalla mattina alla sera tra articoli, titoli, diciture e sigarette.

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capo della redazione si susseguirono, citiamo senza l’ordine cronologico, Sandro Picchi, poi inviato, Enrico Maria Pini, Stefano Cecchi, Franco Caniato, Angiolo Giorgetti, Piero Campani, Bucchioni, Massimo Pandolfi, Angelo Costa, Francesco Matteini e di nuovo il sottoscritto, poi inviato. Oggi alla guida c’è Paolo Chirichigno. Alla guida e addetto anche alle grane, con Giorgetti, Riccardo Galli, Simone Boldi e Maurizio La Ferla. Quaranta le pagine di sport ogni lunedì nelle varie edizioni. Resoconti, o comunque notizie con le formazioni, sulle partite dalla serie A fino alla terza categoria. E via andare, come dicevano un tempo i cronisti.

Siamo nel 1911 e la Canottieri Firenze si è appena unita alla Libertas. Atleti e dirigenti posano per la foto ricordo.

Archivio storico Canottieri Firenze

Archivio storico Canottieri Firenze

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Nascono le edizioni locali

Gastone De Anna: “Così feci nascere le redazioni di provincia a La Nazione” Il “fuori sacco” e i megafoni che annunciavano il ritorno in edicola del nostro giornale I “pionieri” di una grande avventura nel racconto di colui che seppe trovarli e organizzarli

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n principio c’erano dei corrispondenti, uno per ogni capoluogo di provincia. Erano personaggi di rilievo nelle proprie realtà, ma non per questo avevano molto a che fare con il giornalismo. Un nobiluomo legato alla causa risorgimentale, un professore di liceo, un sacerdote. A Perugia, ad esempio, quando ancora era sotto il papato, e dunque fra il 1860 e il 1870, un anonimo estensore inviava notizie, per lo più di politica, rischiando le persecuzioni e l’arresto. Fu tra gli anni Trenta e Quaranta del secolo scorso, che ogni capoluogo toscano ebbe il suo corrispondente. Le notizie, battute a macchina e spedite con un fuori sacco (si trattava di un plico che viaggiava “fuori dal sacco postale” perché ad attenderlo e a ritirarlo alla stazione, dei treni o degli autobus, per abbreviare i tempi di consegna era un usciere de La Nazione) impiegavano per lo più una notte ad arrivare a Firenze. L’indomani venivano vagliate, qualche volta riscritte, titolate e impaginate nella redazione di via Ricasoli. E per lo più ogni provincia aveva almeno un titolo al giorno, qualche volta mezza pagina. Non di più. Negli anni Quaranta la redazione delle province era formata da quattro redattori sotto la guida Giuseppe Cartoni il cui figlio, Mario, sarebbe poi diventato un noto cronista giudiziario. Fra questi era Nicola Della Santa, almeno finché non fu richiamato sotto le armi. Fu allora che entrò in scena un personaggio destinato a organizzare le redazioni provinciali così come sono ancor oggi, sia pure con ben altra consistenza di pagine e di giornalisti. Si trattava di Gastone De Anna, figura mitica del giornale, al quale si deve – assieme a Giordano Goggioli, ad Alberto Marcolin, e ai grandi direttori Russo e Mattei – il rilancio del dopoguerra che permise a La Nazione di raggiungere negli anni Cinquanta

Ma lavoravamo tutta la notte senza pause. L’editore era Favi, l’amministratore Gazzo, era tutto un gioco di parole.”

Quanto rimase a La Nazione prima della guerra? “Pochissimo. Nel ’42 fui richiamato sotto le armi, poi fui fatto prigioniero. Fuggii, fui catturato e portato in Polonia, ci stetti due anni e infine mi liberarono gli americani mentre scappavo perché stavano arrivando i russi. Tornai a casa nel ’45, la feci tutta a piedi, o quasi, e trovai Firenze distrutta. Al posto de La Nazione c’erano tre giornali, La Nazione del popolo, il Nuovo Corriere e la Patria. Presi a collaborare col Nuovo Corriere, che era inizialmente il giornale degli alleati. Ma finalmente, nel ’47, a marzo, riprendemmo le pubblicazioni.”

Gastone De Anna al telefono con il corrispondente di Siena Chiantini in una delle primissime vignette di Giannelli.

le centomila copie. De Anna ha oggi novant’anni, non uno di meno. Ma anche una memoria di ferro e una lucidità invidiabile. È capace, perfino, di divertirsi a raccontare quegli anni. Ha conservato l’ironia, la capacità di narrare e fare sintesi, che ne fece un grande giornalista. Assieme a Giorgio Batini è l’ultimo di una grande generazione di colleghi, che insegnarono a tutti noi il mestiere. Ci riceve a casa sua, splendida vista su una delle più prestigiose piazze di Firenze. E dopo pochi minuti si ricrea l’atmosfera di un tempo.

Come si diventava giornalisti ai suoi tempi? “Per quanto mi riguarda fu davvero un caso. Sono nato nel 1919, mio padre comandante di marina era morto nel ’20 a Trieste, con D’Annunzio, quindi ero orfano di guerra. Nel ’40 trovai un mio amico di scuola che voleva offrirmi da bere perché era entrato come correttore di bozze a La Nazione. Era felice, volevo diventarlo anch’io. Così, ci provai. Avevo buoni studi e come orfano di guerra anche qualche vantaggio. Mi chiamarono in prova perché Nicola Della Santa, che dopo una

lunga prigionia sarebbe tornato a collaborare nel mio stesso ufficio, era stato richiamato in guerra”.

Con chi ebbe il primo colloquio? “Con Micheli, un capo redattore leggendario che faceva tutto, conosceva tutto, anche il lavoro dei tipografi, e lo svolgeva a una velocità impressionante. Aveva un occhio di vetro, e noi dicevamo che l’unico lampo di umanità gli veniva proprio da quell’occhio”. Com’era il clima in redazione? “Scansonato, ironico, divertente.

E lei? Favi mi considerava come un figlio. Mi disse: “Devi ricostruire la rete dei corrispondenti.” Mi dette un auto e un autista. Andavamo nelle varie province, e quando io ero sceso - prima no perché mi vergognavo - lui cominciava ad urlare in un megafono “La Nazione! Torna La Nazione!” Come organizzò il lavoro? “Dove era possibile contattavo i vecchi corrispondenti e riaprivo i vecchi locali. Altrimenti cercavo edifici e uomini nuovi. Nel ’48, quando Favi morì, tutte le redazioni dei capoluoghi di provincia erano riorganizzate.”

Qualche nome di allora, qualche collega? “Passaponti a Pisa, Chiantini a Siena, Coppini ad Arezzo e poi Dragoni e Piero Magi. A Spezia Reggio che poi passò il testimone al figlio, il conte Vitelleschi e poi Bassi a Perugia. E ancora Ciullini a Pistoia, Del Beccaro a Lucca, Valleroni e Pighini e Massa, Rossi a Grosseto. Mauro Mancini diresse


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La formazione tipo dei giornalisti de La Nazione per il torneo di calcio aziendale degli anni Settanta. Dall’alto a sinistra: Franco Ignesti, Leopoldo Paciscopi, Sandro Picchi, Giuseppe Peruzzi, Maurizio Naldini, Claudio Carabba, Piero Chirichigno. In basso: Enrico Maria Pini, Marco Morelli, Mauro Mancini, Raffaello Paloscia (cap), Umberto Chirici, Giancarlo Domenichini e Raffaele Giberti.

la prima redazione di Prato. Poi divenne inviato speciale assieme a Piero Magi, e più tardi a Piero Paoli e Raffaele Giberti che ricordo con immenso affetto, veniva da Spezia. Intanto cresceva anche la redazione province a Firenze. Era tornato Della Santa, poi arrivarono Gianfranco Cicci, Nereo Liverani, Romolo De Martino, Enrico Mazzuoli, Aldo Satta, Giancarlo Domenichini, Tiberio Ottini, Giuseppe Mannelli, Luigi Scortegagna, Rossi, l’indimenticabile Piero Chirichigno, Franco Ignesti e una splendida segretaria, la signorina Giorni, che divenne un po’ l’anima di quell’ufficio. Si andò avanti così sino alla fine degli anni Sessanta quando arrivarono giovani come Enrico Maria Pini, Riccardo Berti e Maurizio Naldini. Spero di non aver dimenticato nessuno.” Come lavoravate? “Al contrario di oggi. Tutto il materiale viaggiava col fuori sacco, e in base alle ore in cui arrivava era controllato e titolato in redazione. Fu solo con il computer che le redazioni presero a organizzare le loro pagine direttamente. L’impaginazione poi partiva dalle nove di sera con la prima edizione che veniva chiamata “Nazionale”. Poi si passava alle province più lontane come Spezia, Perugia, Grosseto, e un po’ alla volta si arrivava a impaginare Prato. Quindi, alle tre di notte veniva preparata l’ultima edizione, quella che i fiorentini trovavano in edicola al mattino. Intanto i primi corrispondenti erano diventati giornalisti professionisti, accanto a loro erano vari collaboratori, poi assunti come giornalisti anche loro, mentre la rete si infittiva fino a raggiungere anche i paesi più piccoli e sperduti.” Quando fu concluso il lavoro di organizzazione? “Praticamente mai, continua-

va giorno dopo giorno. Però, alla fine degli anni sessanta La Nazione dominava totalmente il suo territorio di diffusione, e cominciavano anche le edizioni di Sarzana con Osvaldo Ruggeri e di Pontedera con Orazio Pettinelli. Era poi arrivato dal Nuovo Corriere un ottimo amministratore, Ivo Formigli, che già aveva collaborato con Favi negli anni Quaranta.”

Rimpianti? Lo rifarebbe quel lungo lavoro? “Subito. Credo di essere nato per svolgere quell’attività. Eravamo una grande squadra, un gruppo di amici che riuscivano a lavorar bene divertendosi. La redazione era sempre affollata di personaggi famosi che venivano a trovarci. Per segnalare notizie, per commentarle, semplicemente per scambiare due idee. Potevano essere attori o personaggi della televisione, atleti, uomini politici. Ci sentivamo forti, i lettori del resto, ci davano ragione.”

Il mio primo articolo

L’ ARNO CHE FACEVA LE BIZZE E L’ANNEGATO CHE NON C’ERA

Un racconto, o piuttosto un esempio per i giovani che oggi si avvicinano al mestiere. Così Gastone De Anna, un giornalista che appartiene al mito, ci racconta, con autoironia, il suo primo servizio Era l’inverno del 1940, pioveva come Dio la mandava e l’Arno faceva le bizze. L’editore Favi, che aveva una villa nei pressi di Signa, telefonò dicendo che forse un uomo era annegato nel fiume. Micheli, il capo redattore aveva tutti i cronisti sparsi per la città. In redazione ero rimasto solo io che passavo le notizie arrivate dalla provincia. Micheli entrò nella mia stanza e disse senza preamboli: “Lascia tutto e vai a Signa, c’è un annegato. Fatti portare dalla macchina che consegna i giornali a Pisa.” Io scesi di corsa nel garage, ma l’auto per Pisa era già partita. Così tornai da Micheli e titubante azzardai: ”Se crede vado in bicicletta”. “Bravo!” Rispose. “Fatti dare un impermeabile dagli operai e pedala alla svelta”. Erano le due di notte. Partii. Ma dopo un chilometro, con quell’impermeabile di gomma, ero in un bagno di sudore. Arrivai non so come nei dintorni di Signa e mi dissi: “Bravo, e adesso? Dove vado a quest’ora?” Pedalavo lungo l’Arno e per fortuna vidi delle luci sul greto. Scesi, scivolai sul fango, persi una scarpa. Era impossibile continuare. Ma vidi un barcaiolo e gli dissi. “Per favore, la pago bene, mi porti fino a quelle luci”. “Ma sei bischero” rispose. “Il fiume ci porta via!”. Allora lo supplicai, gli promisi tutti i soldi che avevo in tasca. Lui forse si impietosì, chiamò un altro uomo e non so come arrivammo fino alle luci. E allora capii che avevo fatto un viaggio inutile. Affogati non ce n’erano. C’era una donna che si era sentita male, non ricordo, forse era incinta, e l’avevano portata in ospedale. Così tornai in redazione pedalando come una furia. Era l’alba e Micheli mi aspettava per strada. “Corri a scrivere” disse con aria di rimprovero. Io corsi e gli consegnai mezza cartella nella quale raccontavo la vicenda. Lui prese il foglio, e senza neppure leggerla corse in tipografia.” Credevo fosse finita. E invece, passarono due minuti e Micheli rientrò nella stanza. Mi incenerì con il suo occhio di vetro e disse: “Ma se non è successo nulla!”. Allargai le braccia: “È colpa mia?” Ripresi il lavoro per le province, lo finii. Lasciai la nota spese nell’apposito cassetto dell’ amministrazione. Poi, finalmente, andai a casa, a dormire. Mi svegliò poco dopo le nove mia madre, “Ti vogliono al giornale”. Corsi, ed era Favi, l’editore in persona, che voleva parlarmi. Non l’avevo mai incontrato prima. Era un uomo enorme, e la sua scrivania era su una pedana che lo rendeva ancora più imponente. Mi dice: “Lei ha fatto un servizio stanotte?” “Sì” gli rispondo. “E dov’è, che non lo trovo nel giornale?” Ci mettiamo a cercare tutti e due. E in fondo all’articolo sull’Arno c’era scritto. Allagamenti anche a Signa, danni alle colture, illese le persone. “È questo?” mi fa. “Penso di sì.” Risposi. E avrei voluto scappare. Allora il Favi prese la mia nota spese, me la sventolò sotto il viso, e disse alzando la voce: “E per un rigo e mezzo mi ha comprato una barca?”


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Quando la storia d’Italia finiva tutta a Prato negli stracci Dal borgo di un tempo alla città multietnica di Roberto Baldi

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ol plebiscito del 1860 Prato, insieme all’ex granducato toscano, entrava a far parte della monarchia sabauda di Vittorio Emanuele II e, l’anno successivo, del proclamato regno d’Italia. L’obiettivo lavorativo principale fu da sempre l’industria tessile. Fra gli appellativi di Prato ci fu anche quello di Manchester della Toscana e città dalle cento ciminiere. Nel 1888 il gruppo austro-tedesco Kössler, Klinger e Mayer fondò il celebre “Fabbricone” con un migliaio di operai e con produzione di stoffe pregiate del tipo “pettinato”. Nell’aprile 1891 si ebbe al Fabbricone il primo sciopero del Pratese, con scontri fra lavoratori e militari. Si andava così precisando un nuovo orizzonte politico, che ebbe caratterizzazioni acute con gli scontri popolari del 1898 e il regicidio di Umberto I (Monza, 29 luglio 1900) compiuto dall’anarchico pratese Gaetano Bresci. Dopo le due guerre mondiali (Prato fu raggiunta il 5-6 settembre 1944 da forze armate anglo-americane), che avevano messo in ginocchio l’industria locale, si ebbe un ulteriore decollo sempre più orientato al tessuto. “Tutta a Prato, tutta in stracci - scriveva allora Malaparte - finisce la storia d’Italia”. La città, culla dell’iniziativa privata più individualistica, punterà tuttavia politicamente a sinistra, dandosi amministrazioni social-comuniste. Una prima tappa storica per Giovannini, succeduto a Targetti e Menichetti, fu il 9 maggio 1955, allorché a Prato convennero in contemporanea due presidenti della Repubblica in occasione dell’inaugurazione dell’archivio Datini: Luigi Einaudi, che stava per terminare il mandato presidenziale e Giovanni Gronchi già eletto come successore. Da poco si era raggiunto un altro traguardo importante: l’autonomia

della Diocesi pratese da quella pistoiese con il primo vescovo residente, il giovane monsignor Pietro Fiordelli, che il 17 ottobre 1954 aveva fatto il suo ingresso in Duomo col plauso della giunta comunista, il cui rapportò si allentò nel noto processo intentato a Fiordelli per aver dichiarato “pubblici concubini”

il comunista Mario Bellandi e la cattolica Loriana Nunziati, sposatisi civilmente alla fine dell’estate 1956. La condanna del presule avvenne nel marzo ’58, dopodiché ci fu riabilitazione completa. Il primo censimento post-bellico della popolazione (4 novembre 1951) dava per Prato queste cifre: città (centro storico e quartieri esterni) 26.208 abitanti; sobborghi 17.596; frazioni e case sparse 33.827; totale del comune 77.631 (nel ‘49 si era costituito il Comune di Vaiano, con 6281 abitanti). Il 25 maggio 1959 nacque Enrica Umiltà Risaliti, la festeggiatissima “signorina Centomila”; al 31 dicembre 1999 gli abitanti saranno 172.473,

facendo di Prato il terzo centro urbano dell’Italia centrale dopo Roma e Firenze). Poi su su fino ai nostri giorni. Nel frattempo Prato nel 1992 aveva ottenuto la provincia. Nello stesso anno, con decreto ministeriale del 13 agosto 1992 nasceva anche la Fondazione Cassa di Risparmio di Prato, il cui forte legame con il territorio consentì di assumere un ruolo attivo nei principali momenti della vita della città. Con l’avvicinarsi degli anni ’60, cominciò a proporsi l’idea di un cambio alla guida dell’Amministrazione Comunale (Giovannini era stato eletto sindaco nel 1948). Toccò a Mauro Giovannini, nipote del sindaco Roberto e segretario della Federazione PCI, proporre l’affidamento dell’incarico a Giorgio Vestri, che nel ’58 era uscito dalla guida dell’assessorato all’urbanistica per essere eletto a soli 29 anni deputato alla Camera. Il 15 settembre 1965 Giovannini si dimise da sindaco. Dopo Vestri, toccò a Landini, finché la rivolta dei giovani PCI a Coiano favorì la nouvelle vague dei Lucarini, Martini, Mattei fino a Romagnoli. Le realizzazioni più significative di tutto il dopoguerra: il ponte sul Bisenzio, la provincia, la tangenziale, il Palazzo di giustizia, il Museo Pecci, il nuovo Metastasio, la copertura di 70 chilometri di gore, l’impianto di depurazione, la vicenda dei Celestini, l’interporto, la Camera di Commercio, il recupero del Politeama Pratese, il Museo del tessuto. Poi l’imponente fenomeno immigratorio a prevalenza cinese e la crisi di questi ultimi anni. Siamo nella metropoli delle razze ormai con complicati scenari della globalizzazione, della società plurietnica e multiculturale, in cui confusamente si mescolano sedani ripieni e anatra laccata, cantuccini e Wantum, tradizioni pratesi e disordine multietnico.

I classificatori di stracci nei primi anni del ‘900 (a sinistra). Sotto: la statua, opera di Antonio Garella, eretta nel 1896 nella piazza del Comune.

Sapessi i lucciconi e quanta tosse se Prato la un ci fosse Sì, la crisi economica, il decadimento urbanistico e civico, l’immigrazione incontrollata, l’insicurezza. Ma ancora a Prato si recita l’elegia di Roberta Betti, rievocata recentemente al Politeama da quello scanzonato nostalgico che è Marasco (nella foto), “..sapessi i lucciconi e quanta tosse, se Prato la un ci fosse”, che riecheggia il malapartiano “il solo difetto dei toscani è quello di non esser pratesi”. Sono finite, ahinoi, le testimonianze di una Prato casereccia dove ogni strada e ogni bar potevano essere occasione di mescolarsi per raccontarsi un po’ di noi. La provincia ci ha regalato le mezzemaniche, gli uffici nuovi, le piste ciclabili, togliendoci quel che restava di piacevolmente anarchico in questa terra d’improvvisatori. Ma si è affermato anche un nuovo modo di essere: meno pionieristico, più consapevole, sempre sperando che l’anda e rianda pratese ci facciano uscire dalla crisi e ci restituiscano quella supremazia che sempre avemmo in campo imprenditoriale. Chissà che il tempo non abbia a restituirci anche gli spiriti liberi di una volta; il gusto di tirar tardi per vedere l’alba; la confidenza delle reciproche delusioni che nessun alkaseltzer riusciva a dissolvere; il plaid adagiato in un campo di papaveri e di erba fresca con lei che ti illuminava d’immenso. Si sta cambiando pelle, ma sempre con la felicità di essere pratesi, nella consapevolezza che è pur sempre beato, chi ha un tetto in Prato.


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Il giornale a braccetto con la città Si chiedeva il quotidiano e ti davano “La Nazione”

di Roberto Baldi

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’è tanta “Nazione” nella crescita di Prato, accompagnata per 150 anni, giorno giorno, attraverso la cronaca locale, prima con una pagina, poi con un potenziamento costante di pagine e di collaboratori. Il pratese andava all’edicola chiedendo “il giornale” e si sapeva che bisognava dargli “La Nazione”, protagonista di tutte le battaglie cittadine, talvolta condivise dalla maggioranza locale tal’altra no, come quando il consigliere comunale Torricini si scagliò contro l’allora responsabile della cronaca Mauro Mancini (i cronisti avevano allora un apposito banco riservato per seguire le vicende del consiglio comunale) e il sindaco Giovannini fu costretto a sospendere la seduta perché la rissa non avesse a riguardare il consesso pubblico. C’è una parte importante della Nazione nell’ottenimento di ogni traguardo nuovo: dalla Diocesi autonoma, il vescovo, il ponte sul Bisenzio, la provincia (prima per conseguirla, poi per darle le strutture necessarie da scalza e ignuda com’era all’atto della consegna), la tangenziale, il Palazzo di giustizia, il Museo Pecci, il nuovo Metastasio, la copertura di 70 chilometri di gore, l’impianto di depurazione, la vicenda dei Celestini, l’interporto, la Camera di Commercio, il recupero del Politeama Pra-

tese con attestato speciale alla nostra Olga Mugnaini che aveva promosso una lunga battaglia attraverso la cronaca locale per la raccolta di fondi e la realizzazione dell’importante struttura. Fino alle “battaglie” di oggi portate avanti dalla Cronaca di Prato per contrastare il distretto illegale e la straripante presenza della comunità cinese senza alcuna gestione amministrativa locale. Alcune di queste battaglie combattute e vinte dalla Nazione (il Museo Pecci, il nuovo Metastasio, il Polieama Pratese, il Museo del tessuto) mirarono a un respiro culturale nuovo. Sembrò velleitario in un primo tempo anche l’arrivo di una prima libreria in pieno centro, che fu per un po’ la boutique del sapere. Ma poi vi si affacciò anche l’industriale, che all’inizio comprava libri adattabili all’arredo di casa “firmava per esteso” allungandosi, disteso sul divano, continuando a badare soprattutto ai soldi che si finivano e rimettevano come le unghie e a tastare la flanella dei desideri con la passione con cui si accarezzava una bella donna, mandando il figlio a imparare la cultura della fabbrica, togliendolo presto dal “tempo perso” della scuola. Sono nate altre librerie, sono fiorite le iniziative al punto che giornalisti autorevoli della Nazione (Piero Magi, Pier Francesco Listri, Paolo Emilio Poesio) scrissero che era ormai Prato il centro culturale della Toscana. Dietro anche alla nostra spinta, con illustrazione e diretta partecipazione alle presentazioni più significative, fiorirono i primi autori, si esportarono registi, attori e scrittori (Benigni, Veronesi, Nuti, Nesi, Pamela Villoresi, Magelli, Bartoli per citare gli epigoni), esorcizzando il lavoro boia di tempi cupi come questo. Attingeva alla nostra redazione anche il bisogno con sottoscrizioni che illustravano il cuore grande di Prato, grazie anche alla presenza della Cassa di risparmi di Prato, la “mamma” come si chiamava allora e della quale il nostro Giuseppe Ma-

scambruno, attuale direttore de “La Nazione” ed allora responsabile della cronaca locale, annotava in un articolo di apertura del 15 settembre 1985 la riduzione dei tassi, la liquidità disponibile e l’ampliamento dei servizi. Grazie alla nostra sottoscrizione e alla generosità dei pratesi tutti, riuscimmo a far effettuare uno dei primi interventi a cuore aperto alle Molinette di Torino ad una piccola affetta da morbo blu, dandone resoconto nella cronaca locale, descrivendo il professor Dogliotti mentre prendeva in mano il cuore della bimba e attivava la circolazione extracorporea con un meccanismo allora complesso e straordinario. In molte altre occasioni riuscimmo a ottenere, grazie alle nostre sottoscrizioni, trattamenti curativi all’estero che allora erano impossibili in Italia. Anche le trasferte del Prato attingevano alla nostra organizzazione, che riuscì ad allestire ben otto pullman in memorabili trasferte a Colleferro e Arezzo e in tante altre occasioni diventate storiche. Avevamo le redazioni proprio nel cuore di Prato. Tanto vicini alla gente, che diventava problematico svolgere il lavoro quotidiano perché ogni passante vi trovava un punto di approdo e veniva sul far della sera a chiedere notizie che il giorno dopo avrebbe letto sul giornale. Ci trasferimmo all’attuale redazione di via Mazzoni 13 un po’ più decentrati, ma vicinissimi comunque alla gente che nel “giornale” ha sempre visto un amico fidato.

Una pubblicazione del 2004 che conferma lo stretto rapporto tra la città e il suo giornale.

Lohengrin Landini grinta e cuore forgiato fra la gente Era nato nella Prato popolana ed era cresciuto fra la gente, trascorrendo gli anni del fulgore politico in piazza S. Agostino dove il pratese era più pratese che mai; dove il comunista leggeva l’Unità nella bacheca all’angolo della piazza; dove si guardava dritti negli occhi e si dava a tutti del tu. Gli vollero bene nel declino politico gli stessi che lo avevano avversato “E in effetti - ammetteva - mi telefonano e mi ricercano in tanti anche in questi giorni in cui ho avuto qualche acciacco per testimoniarmi stima e affetto”. Lo avevamo intervistato l’ultima volta nel 1983 nella casa sua principale, il Comune, mentre dalle finestre socchiuse filtrava l’ultimo raggio di sole di un morbido tramonto estivo e giù da via del Pesce salivano le voci di saluto dei negozianti che abbassavano le serrande con l’ululare delle sirene di fabbrica. “Ho sempre ritenuto il mio lavoro un compito delegatomi dalla comunità - spiegava il sindaco Landini - ho ritenuto i concittadini amici e non sudditi”. Ecco l’intervista pubblicata su La Nazione. Dovesse dare un voto alla sua attività di sindaco... “Sinceramente positivo. Ho contribuito alla crescita della mia città, l’ho fatto onestamente senza che nulla mi sia rimasto attaccato alle mani”. Come trova la Prato attuale? “Con qualche acciacco in più, con qualche progettualità in meno” Alle prossime elezioni è ipotizzabile un ricambio storico di maggioranza a Prato? “È possibile, ma non lo auspico.” La signora Marite, che aveva saputo resistergli a fianco non pretendendo mai la ribalta, sembrava coccolarselo con lo sguardo. Era la prima volta che non comandava. Il tempo è un grande autore: trova sempre il perfetto finale. Roberto Baldi


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Una redazione, una storia

Dall’avventuroso giornalismo del dopoguerra fino ad oggi Un punto di riferimento, una vera e propria istituzione nel cuore della città, sempre radicata nel territorio

giornalista, novelliere, autore di numerosi libri che si rifacevano al Fucini e al Paolieri: oltre ai collaboratori, era Capecchi a svolgere la “nera” (e per un lungo periodo lo ha fatto anche contemporaneamente per Il Mattino e il Nuovo Corriere) e tutti noi giovani abbiano goduto del suo insegnamento. E intanto il 27 marzo del 1947 torna la vecchia testata La Nazione e a Prato la redazione (ancora unica per tutti) si sposta nel “Mezzanino” di via Ricasoli sopra al caffè Bacchino. Ed anche in questa nuova fase di rinascita La Nazione mantiene il suo primato nella diffusione, grazie anche alla sua moderata posizione politica ed alla sua organizzazione, anche periferica.

Un’ elegante signora in piazza Duomo all’inizio del secolo.

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Anni Cinquanta, si riparte: una ragazza che trasporta delle merci sulla sua bicicletta.

di Franco Riccomini

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a Nazione, negli anni fra le due guerre, manteneva il suo predominio sulle altre testate. A Prato a dirigere la pagina del giornale si avvicendavano Ivanhoe Franchi, Gabriele Centauro e Giuseppe Giagnoni che facevano la spola tra Calenzano e Prato con la qualifica di corrispondenti e che avevano un altro lavoro, ma il cronista “vero” era Alfredo Capecchi che faceva soltanto il giornalista ma che non è mai stato iscritto all’albo. Il lavoro cominciava praticamente dopo le 17, ora in cui si cominciavano a mandare le notizie a Firenze o per telefono o per “fuori sacco”,

per autobus o treno, un mezzo che durerà fino all’arrivo del fax. Una piccola stanza in Piazza del Duomo con due scrivanie e altrettante macchine da scrivere. Dopo il primo conflitto mondiale la prima pagina pratese de “La Nazione del Popolo” (organo del CTLN) esce il 4 giugno del 1945: l’ufficio di corrispondenza così come gli altri giornali, è il negozio del distributore Santini in Piazza del Comune. A dirigere il giornale era l’inossidabile Giuseppe Giagnoni che già nel 1920 era corrispondente da Calenzano, impiegato delle Ferrovie, più letterato che

ll’inevitabile distacco delle redazioni, Giagnoni e collaboratori passano negli uffici di Via Iacopo Modesti e per lunghi anni continueranno a dividersi tra due lavori, a spedire i fuori-sacco che spesso vengono perduti e che di notte costringono i redattori a correre a Firenze con gli appunti per riscrivere tutto, e alle lunghe telefonate per inviare i servizi in piena notte fino a tardissimo, visto che le ormai tre pagine di Prato andavano in macchina per ultime. La prima vera redazione è del 1956, in via Garibaldi: ora le stanze sono due, una anche per il “capo” mentre a cambiare il volto alle pagine arriva da Livorno Mauro Mancini con il quale comincia l’avventura professionistica: sarà lui a dare la nuova impostazione alle pagine. Mancini rimarrà uno dei punti fermi della redazione e il suo ricordo andrà oltre il limite per la tragica scomparsa. Quando Mancini diventa inviato nel 1962 a Prato arriva un altro livornese, Massimo Bavastro nato alla scuola di Mancini ma sarà un’esperienza breve, segnata dalla tragedia. Dopo appena un mese Bavastro nei pressi di

Padova cade con l’auto in un canale. Per un breve periodo la responsabilità viene affidata a chi scrive fino all’arrivo di Piero Paoli. Inizia l’era dei pratesi “puri”. Paoli terrà le redini fino al 1970 mentre la redazione si sposta in via San Giorgio 19, un grande box di vetro con spazi assai più razionali. A Paoli subentra Umberto Cecchi che vi rimarrà fino al 1985. Dall’85 all’86 breve intermezzo di Giuseppe Mascambruno, oggi neo direttore, e nel febbraio di quell’anno è Piero Gherardeschi, che era entrato al giornale “con i pantaloni corti”, a prendere la direzione delle pagine, figlio della grande tradizione giornalistica familiare, erede del sapere fare informazione del padre Luciano che aveva contribuito fortemente a dare lustro e importanza alle cronache della Nazione. La redazione, intanto, si è spostata negli attuali uffici di via Giovan


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Una rara immagine di Mauro Mancini, qui ritratto senza la sua amatissima barba. Qui è in acqua accanto al sua barca a vela con un cappello da capitano. Mancini, grossetano di nascita, fu il primo capo della redazione sorta a Prato.

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L’AVVENTURA DI MAURO MANCINI

Battista Mazzoni 13, le pagine ora sono cinque. E arriva anche, a mutare sostanzialmente il modo di lavorare, la computerizzazione: è il 1984, la vecchia macchina da scrivere va… in pensione. Altre due brevi esperienze: dal ‘92 al ‘94 Guido Parigi Bini e dal ‘94 al ‘95 Roberto Baldini.

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ell’ottobre del ’95 la redazione è affidata a Piero Ceccatelli che la dirigerà sino al 2001, mentre arriva il tabloid e la cronaca si arricchisce fino alle 20 pagine (con uno standard di 14) con maggior razionalizzazione dei servizi. Fino al 2004 è la volta di Daniele Magrini e infine, nel 2004 arriva Luigi Caroppo, attuale capocronista, che ha rilanciato l’impronta tradizionale del giornale in cui si abbina la voglia di stare in mezzo alla gente dandogli voce e forza all’autorevolezza della testata.

E intanto, nel dipanarsi di una storia redazionale segnata anche da tanti momenti importanti, da Prato arrivano ai vertici del nostro giornale Umberto Cecchi e Riccardo Berti, Piero Gherardeschi, Riccardo Mazzoni. I tempi del “Mezzanino” sono lontani: oggi il corpo redazionale guidato da Luigi Caroppo ha due vice, Anna Beltrame e Laura Gianni e altri quattro professionisti, Leonardo Biagiotti, Elena Duranti, Roberto Davide Papini e Maurizio Sessa. E un gruppo di collaboratori (anche storici) e corrispondenti dalla Provincia. Una redazione al tempo stesso giovane ed esperta che è sempre più punto di riferimento del territorio pratese. E la storia continua col forte connubio La NazionePrato.

Col dopoguerra riprendono anche le tensioni sociali: 1951 scontri tra polizia e manifestanti (foto grande).

Mauro Mancini è rimasto uno dei simboli della redazione di Prato che aveva avuto in lui il primo professionista della sua storia. Aveva dato un volto nuovo alla pagina mentre nella sua stanza nasceva giorno per giorno il progetto della sua prima barca, la “Eccociquì”, frutto del suo sviscerato amore per il mare, quel mare che lo avrebbe tradito durante l’avventurosa traversata del Surprise insieme ad Ambrogio Fogar insieme al quale voleva circumnavigare l’Antartide, quando già l’esperienza pratese era alle spalle. Il naufragio nell’aprile del ‘78 dopo 74 giorni al largo di Ushaia, i servizi di Riccardo Berti prima del naufragio, la corsa di Piero Paoli a Città del Capo per accogliere la salma di Mauro e poi, il 6 aprile, la cronaca dedica un’intera pagina al “capo” e amico scomparso, scritta da coloro che per anni hanno vissuto al suo fianco: Umberto Cecchi lo ricordava affettuosamente come “papà Hemingway” uomo ricco di avventura e con il gusto di raccontare, e le avventurose gite di tutti noi, in barca, lungo la costa tirrenica (una costa che aveva descritto, disegnato e codificato in una serie di libri “Navigare lungo costa” che ancora oggi sono il vademecum di ogni navigatore); chi scrive ricordava il suo arrivo a Prato con la valigia piena di panciotti colorati, i servizi fatti insieme per “Nazione Sera” in giro per la Toscana; Luciano Gherardeschi, uno dei “pilastri” della redazione, aveva fatto una serie di interviste a personaggi della città dalle quali uscivano sentimenti di amicizia e di stima; in consiglio comunale il sindaco Lohengrin Landini e il collega Roberto Baldi rappresentante del Psdi, lo ricordavano con commosse parole. Testimonianze che continuavano nei giorni successivi: Mancini, con la sua carica emotiva, le sue qualità professionali era riuscito a conquistare la città che anche oggi ne serba il ricordo. Franco Riccomini


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Monza 1900

L’ANARCHICO PRATESE BRESCI UCCIDE IL RE Voleva cambiare il volto della storia di Franco Riccomini

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re colpi di pistola a un re, per cambiare il volto della storia. Era il 29 luglio del 1900 quando a Monza il tessitore anarchico pratese Gaetano Bresci (nel tondo grande), venuto dall’America dove si era auto esiliato, uccide il Re Umberto I responsabile, durante i moti rivoluzionari del ’98, di aver dato l’ordine al generale Bava Beccaris di sparare sulla folla. E la storia avrà davvero una significativa svolta anche se con questo atto estremo l’immagine della città laniera verrà indicata come la patria del regicida. Lo sdegno iniziale è tanto che la rappresentativa pratese inviata al funerale del re viene fischiata. E a Prato, addirittura, molti, sulle ali dell’emozione del momento cambiano il loro nome da Bresci a Breschi. Rivoluzione e attentato: sono due eventi che “La Nazione” registrò e analizzò con grande evidenza : “Un anarchico pratese uccide il re a Monza” titolava, condannando un delitto che comunque passerà alla storia. Anche per la motivazione che l’autore diede subito dopo l’evento: “Non ho ucciso un re, ma un’idea”, tenendo anche a sottolineare – per non coinvolgere il movimento anarchico nell’insieme – che prima di partire da Paterson, dove era andato a fare l’operaio tessile, aveva strappato la tessera dell’associazione. Ma nel tempo la sua figura, se non riabilitata per l’atto compiuto comunque esecrabile, troverà nuova collocazione nella storia delle rivendicazioni di un movimento che all’epoca, specialmente a Prato, annoverava un nutrito gruppo di seguaci.

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la cronaca pratese de La Nazione registrerà nel tempo gli avvenimenti dedicati al personaggio, depura-

ti dall’odio e quanto meno giudicati sullo stato di fatti che affondano le radici nei desideri di libertà: con una sorta di riscatto finale quando “fu suicidato” per ordine del re nella cella del carcere dell’isola di Santo Stefano. Fu l’eliminazione di un personaggio scomodo che poteva ancora rappresentare un simbolo. Una notizia dibattuta nel tempo ma poi codificata abbastanza recentemente in un libro-fiume scritto dall’editore Giuseppe Galzerano che fornisce prove sull’identità del vero assassino (il sardo Sanna a cui subito dopo il re concesse la grazia nonostante fosse un pluriomicida) e i nomi dei testimoni, classificandolo come un vero e proprio delitto di Stato. Motivazioni, la figura del Bresci, ne ha date per riesumare dalle ceneri le diverse valutazioni sul tessitore snob amante delle donne, della fotografia e delle pistole. A Prato (così come era avvenuto nella vicina e anarchica Carrara che gli aveva eretto un monumento) nel 1976 la giunta di sinistra guidata dal sindaco Lohengrin Landini, gli dedicava una strada sollevando un polverone in consiglio comunale e fuori. Ma era il primo segnale che la città dei nuovi “Breschi” lanciava per una specie di riabilitazione del personaggio come emblema di libertà ma anche come simbolo di provocazione.

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entre nel febbraio del 2002 la cronaca deve ancora interessarsi del Bresci quando si doveva votare per il rientro in Italia degli eredi Savoia: il senatore di Rifondazione Comunista Luigi Malabarba, irruppe nell’aula del Parlamento con un grande cartello con su scritto “Viva Bresci”, un atto provocatorio, certo, ma che non passò sotto silenzio e diede ulteriore testimonianza di come

Bresci e il suo gesto siano ormai diventati un simbolo. Insieme a quella sua frase passata alla storia che recita: “Quando la vita è impropria meglio la morte”. Anche lo studioso Galzerano intervenne in questo ultimo atto con questa dichiarazione: L’attentato fu una vera svolta politica. L’aver costretto il re ad inchinarsi a raccattare la corona nel sangue paterno, rappresentò una svolta nella politica italiana perché Vittorio Emanuele III fu più cauto e capì che non poteva regnare con la maniera forte e fu più liberale e attento ai bisogni delle classi popolari. Ma non si può dimenticare che l’esilio dei Savoia dovrebbe essere eterno.

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entre il nome di Bresci continua la sua avventura nel ricordo, persino nel mondo del fumetto visto che recentemente è stato edito un libro a fumetti eseguiti dal disegnatore Fabio Santin di Venezia con testo e sceneggiatura di Marco Riccomini, dove è Malaparte, dalla sua tomba sullo Spazzavento a parlare attraverso una radio d’epoca ad un gruppo di studenti per dire chi sia stato il Bresci, il suo ideale, in un mixer di personaggi che spaziano dalla storia al fumetto, tutti rigorosamente libertari, da Filippo Mazzei a Corto Maltese, da Armando Meoni a Ken Parker.

IL FASCISMO A PRATO E IL DELITTO FLORIO Durante il regime fascista la stampa ha le mani legate e i fatti vengono rigorosamente pilotati. E nell’andare alla ricerca dei titoli segnati dal ricordo ci imbattiamo indubbiamente in quello che riguarda il cosiddetto assassinio del tenente fascista Federico Guglielmo Florio, rappresentante più in vista di quel movimento politico, che aveva preso le prime mosse il 3 dicembre del 1920: trentanove tra studenti ed ex combattenti, per costituire poco più tardi il primo fascio di combattimento proprio nel momento in cui doveva “scattare” il caso Florio. “Il tenente Florio assassinato da un anarchico” era il titolo de “La Nazione”, in questo servizio maturato la mattina dell’11 gennaio 1922 nella centralissima via del Serraglio. Ma fu un delitto o un duello in piena regola, da scena western? Cafiero Lucchesi, questo il nome del comunista anarcoide, aveva ricevuto diverse aggressioni fisiche e verbali dall’arrogante ufficiale fascista. Stanco di subire aspettò Florio e lo sfidò: la pistola di Lucchesi colpì il fascista al basso ventre uccidendolo, mentre il Lucchesi era costretto a darsi alla fuga aiutato dal partito comunista e riuscì ad espatriare, prima attraverso dalla Val Bisenzio a Trieste fino alla Russia. I fascisti eseguirono per una feroce rappresaglia devastando le sedi dei sindacati, arresti degli esponenti di sinistra e fecero fuori persino l’intera amministrazione comunale. Cafiero Lucchesi non tornerà mai più in Italia. Ma nella storia è rimasto il suo nome e nel tempo la cronaca ha dovuto interessarsi di lui: la sua rubrica in italiano per Radio Mosca, la sua carriera in Russia nell’Armata Rossa dove fu generale, la sua uccisione da parte di Stalin durante l’epurazione e il ritrovamento, nel 1993, del suo cadavere nella fossa comune di Butowo vicino a Mosca. Franco Riccomini


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Tra Prato e Fiordelli fu amore a prima vista I ricordi più belli? Pasqua nelle fabbriche e la visita del Papa

di Roberto Baldi

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i arrivammo attraverso monsignor Nedo Mannucci, rettore del Seminario (perché quell’ibernazione fra cinque seminaristi e il fumo degli incensi del Duomo, lui che è splendido comunicatore e che ha dato misura eccellente di sé nelle parrocchie dov’è stato), il quale ci incoraggiò sulla disponibilità di Fiordelli. “Venga pure. Secondo piano a sinistra” rispose dal citofono il vescovo in pensione. Era in movimento proprio come lo descriveva monsignor Simone Scatizzi “con quel suo impeto, quell’essere uomo e prete d’azione, quel suo salire le scale di corsa, quella mancanza di orari per i pasti e per il riposo”. Semplice e schietto, in quella casa disadorna dove una ceramica della Madonna venerante Gesù Bambino richiamava alla spiritualità dell’ambiente. Ecco riproposta quella significativa intervista. Com’è la giornata di un vescovo in pensione? “Ci aiuta a riscoprire qualche angolo inesplorato di noi stessi” Le creò imbarazzo essere il più giovane vescovo d’Italia? “No, nonostante mi avesse-

ro salutato alla mia partenza dall’Umbria, sapendo che Prato era rossa come il fuoco, con un benedicente: “Però dove ti hanno mandato…” I rapporti con la città? “Buonissimi. Mai vista tanta folla come quel 17 ottobre 1954, quando tenni il mio primo discorso dal pulpito di Donatello. Fu amore a prima vista. Fra i ricordi più belli: la venuta del Papa, le Pasque nelle fabbriche, i rotoli degli stracci, i sacchi, le macchine, un fiore per l’altare eretto fra le casse” Il sindaco che ricorda con affetto maggiore? “Roberto Giovannini con cui iniziai la mia esperienza pastorale e con cui combattemmo battaglie civili comuni” Gli eventi successivi al Concilio vaticano II°, che hanno significato ammorbidimento e una più tenera paternità, lo indurrebbero oggi a maggiore comprensione verso il matrimonio civile di due battezzati, allora chiamati concubini? “La fede è tanto dolce, ma anche esigente” Un suo giudizio sui Celestini “Padre Leonardo fu uomo di grande fede, ma non seppe sce-

gliere alcuni collaboratori” Di Curzio Malaparte si dice lei abbia raccolto le ultime testimonianze di fede... “Vero. Appena ritornò dalla Cina, malato terminale, mi volle in clinica a Roma. Tre ore e più di confessione. Lo lasciai per non affaticarlo oltre il dovuto, mentre i familiari si erano ritirati discretamente in disparte. Mi salutò supplicando: “Preghi per me la Madonna del Sacro Cingolo” Mai passate notti insonni? “Si, quelle derivanti dai debiti per la costruzione di ventisei nuove chiese e quelle antecedenti la venuta del papa Giovanni Paolo II a Prato il 19 marzo 1986. Per un capriccio di un’organizzazione il giorno non poté essere dichiarato festivo, quindi tutte le fabbriche, le scuole, le banche, gli uffici, i negozi restarono aperti. Ero preoccupato e sofferente. Nonostante questi contrattempi, tutta Prato si mosse. Il Santo Padre ebbe otto riunioni, non si concesse una sosta. All’incontro con gli operai c’era-

no almeno 22.000 lavoratori. Rispose a tutti quelli che lo interrogavano e tenne un discorso, che ritengo magistrale, sull’etica del lavoro. Affettuoso l’incontro con la folla degli studenti in piazza Duomo. Infine la Messa in piazza Mercatale, sferzata dalla tramontana. La piazza era stracolma, circa 70.000 persone, ma nessuno si mosse per oltre due ore. Fu una giornata storica: un abbraccio della Chiesa al popolo di Prato e del popolo di Prato alla Chiesa” Continuava accalorandosi nel ricordo, dimenticandosi per un momento dei suoi affanni fisici. Ci salutammo e ci accompagnò in piazza Duomo in mezzo a uno svolazzare festoso di piccioni, che si posavano sulla testa dell’ “anticlericale” Mazzoni. “A qualcosa serve anche la statua del triumviro” osservò con garbata ironia. La ieraticità del marmo del Mazzoni mi sembrò attenuata e il palmo destro allungato il tentativo di una stretta di mano col vescovo emerito”.

È il 1954 monsignor Pietro Fiordelli arriva in città accolto dalla folla in piazza delle Carceri.

Giorgio Vestri, il pontefice rosso Lo chiamavano il pontefice rosso a significarne la ieraticità e il carisma applicati alla dottrina di Marx, accettato allora totalmente senza le intime crisi che hanno caratterizzato il revisionismo post comunista. La stazza atletica, le pause dell’eloquio, gli occhiali spessi con occhi penetranti te lo facevano sentire il “primo”. La concezione un po’ ascetica e un po’ calvinista del comunismo di un tempo l’aveva portato a spazzar via le ultime sembianze di una società pratese gaudente: via il trotto dall’ippodromo perché si sperperavano i soldi; via il bar Bacchino che era roba da perdigiorno; via le manifestazioni della cosiddetta buona società dove la forma prevarica la sostanza. Poi l’abitudine al ruolo come primo cittadino super partes; i contraccolpi di un partito che a Coiano riscopre una sua giovanilità burbanzosa facendogli diventare boomerang i dogmi un tempo difesi; l’esilio volontario nella villetta di Schignano a fare il Cincinnato e a rivisitarsi dentro; la maturata consapevolezza che il buon governo ha bisogno di tutti. Ne uscì fuori, come è accaduto a tanti ex epigoni del veterocomunismo, un personaggio nuovo, attento come pochi alla società che conta oltre che all’espressione partitica; tenacemente impegnato nell’educare i più giovani a una dialettica politica a trecentossesanta gradi. Negli ultimi anni Vestri lo rivedevi occasionalmente a qualche appuntamento politico o nell’andirivieni del Corso, cittadino fra i cittadini con quei suoi tempi lenti e compassati, connotati da una nobiltà, distante mille miglia dal cinismo di coloro che conoscono il prezzo di ogni cosa e il valore di nessuna. Roberto Baldi


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QUEI POVERI “CELESTINI”! Siamo nel 1963, Prato è ancora alla ribalta per un altro clamoroso caso. Il 23 agosto una breve notizia, non ufficiale, apparsa in anteprima su La Nazione annunciava la fuga di tre ragazzi dall’Istituto Maria Assunta in Cielo, meglio conosciuto come “I celestini” dove vivevano centinaia di ragazzi, orfani e non, provenienti da tutta Italia. L’istituto è retto da un religioso, il frate Padre Leonardo, al secolo Giovacchino Pelagatti. Da questa fuga parte un’inchiesta de La Nazione e di altri giornali, in parallelo alle indagini dei carabinieri e all’amministrazione comunale. Perché fuggivano i ragazzi? Tanto più che non era la prima volta. Già molti in città, professoresse ed educatori avevano rilevato e fatto rilevare lo stato in cui si trovavano i piccoli ricoverati, malnutriti tanto da andare alla ricerca dei rifiuti nei bidoni della spazzatura. L’inchiesta mette in evidenza situazioni a dir poco tragiche: i bambini sono umiliati, picchiati, seviziati. Chi scrive riuscì ad entrare clandestinamente nell’istituto e si rese conto della situazione di disagio dei ragazzi, prima di essere preso a sassate e costretto alla fuga. Mentre all’istituto giungevano ingenti somme di beneficenza gestite da una società, La Mave (Maria Vergine) in ossequio al culto della Madonna. Anche questa notizia farà il giro del mondo dando una stretta per la chiusura sul territorio degli istituti del genere. Ci fu un clamoroso processo al Tribunale di Firenze: padre Leonardo fu assolto per insufficienza di prove, alcuni sorveglianti condannati e condannata anche una dottoressa (era morto un bambino nell’istituto). Ma il fatto, ripreso oggi pure in uno spettacolo teatrale dalla coraggiosa Maila Ermini, continua a muovere le coscienze per questa infanzia negata ai bambini dal grembiulino celeste.

I CONCUBINI DELLO SCANDALO Il primo vero scontro fra Stato e Chiesa fa il giro del mondo di Franco Riccomini

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l 12 agosto del 1956 Mauro Bellandi, ex deportato a Dachau e comunista, e Loriana Nunziati, cattolica (nelle foto a sinistra), si sposano con il solo rito civile rifiutando quello religioso. Il battagliero vescovo Pietro Fiordelli, da poco presule della neo diocesi di Prato, non ha incertezze e li addita come pubblici concubini e peccatori facendo leggere nelle chiese ai fedeli che “ai Bellandi e ai familiari saranno negati i sacramenti, non sarà benedetta la loro casa e sarà loro negato il funerale religioso…”. Siamo in tempi difficili (Fausto Coppi e la Dama Bianca saranno denunciati per adulterio) e intanto i Bellandi querelano il vescovo. La notizia piomba sui giornali e si estende all’estero: dopo la firma dei Patti Lateranensi è la prima volta che Chiesa e Stato si scontrano e sullo “scandalo dei concubini” (così passerà alla storia il clamoroso caso) in città e altrove le opinioni si dividono tra colpevolisti e innocentisti. Il vescovo aveva agito nell’ambito delle sue competenze ecclesiastiche o aveva “invaso” la legge dello Stato? Ci vollero due udienze del Tribunale di Firenze (l’aula era piena e la gente era anche nella strada) per decidere, con la partecipazione di principi del Foro sui banchi dell’accusa e della difesa. Il vescovo viene

condannato in prima istanza a pagare una multa ma in appello viene assolto perché il fatto non costituisce reato.

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ntanto il legame dei Bellandi – che nel frattempo hanno avuto un figlio – si spezza, i Nunziati ritirano la querela mentre il Bellandi colpito da un ictus (si parlò di giustizia divina!), tramite il partito comunista viene portato in uno Stato dell’Est dove sarà curato. Disabile si sposerà nuovamente ed avrà un altro figlio. La Nunziati con il bambino avuto dal Bellandi rimane a Prato e apre un negozio di alimentari: muore il 12 agosto scorso, proprio il giorno dello sposalizio. Anche il Bellandi intanto era morto alcuni anni prima. Sipario dunque sulla vicenda che aveva fatto vibrare le coscienze ed aperto un caso che non è stato certo risolto. Dopo il clamore, un lungo silenzio. Una vicenda che oggi è tornata alla ribalta con uno spettacolo teatrale di Maila Ermini che ha riesumato, sia pure tra le pieghe di una storia sapientemente romanzata, pur non distorcendo la realtà, lo scontro tra Stato e Chiesa, fra tradizione e libertà. La passione su questo dubbio (colpevolezza o meno) in città è ancora intatta.


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Parte dalla cna di prato la battaglia per il manifatturiero Pieno sostegno alla mobilitazione del 28 febbraio

per il rilancio dell’economia locale, dal canto suo la Cna di Prato si conferma come un interlocutore privilegiato verso il sistema delle piccole imprese del territorio. Proprio per questo motivo, per il suo forte radicamento nella realtà pratese, l’associazione riconosce al giornale La Nazione un ruolo chiave nell’informazione locale, capace di fare cronaca con un occhio di riguardo per il mondo delle

L’ora X scatterà sabato 28 febbraio. E la Cna di Prato si farà trovare in prima fila nel sostenere le ragioni della mobilitazione che chiamerà a raccolta il mondo delle piccole imprese artigiane e tutta la città. L’obiettivo? Richiamare l’attenzione sulle difficoltà del più importante distretto tessile italiano, facendo sentire la voce di una realtà, quella dell’artigianato, che forse più di altri sta scontando sulla propria pelle gli effetti di questa crisi senza precedenti. Un’altra dimostrazione dell’attenzione verso la particolare situazione di Prato è arrivata dall’incontro che nei giorni scorsi ha visto il presidente di Cna pratese Anselmo Potenza a colloquio con i vertici nazionali dell’associazione di categoria. Un momento significativo non solo per sensibilizzare l’interesse verso il “caso Prato”, ma anche per mettere sul piatto delle proposte da consegnare al Governo una serie di priorità, così sintetizzate dal presidente Potenza. “Consapevoli della drammaticità di questa crisi – ribadisce il presidente - chiediamo misure eccezionali per riuscire ad affrontare un momento eccezionale, come ammortizzatori sociali non solo per i dipendenti delle imprese artigiane ma anche per gli artigiani stessi. Occorre sostenere quelle imprese che hanno ancora la possibilità di vincere”. Tra le varie proposte, l’istituzione di un fondo di controgaranzia a sostegno del credito alla microimpresa. “Si tratta di provvedimenti che devono essere inquadrati nell’ottica di un progetto complessivo e di lungo respiro per la salvaguardia del comparto manifatturiero. Dalla dirigenza nazionale è arrivata in questo senso una disponibilità a caldeggiare su questi temi un confronto con il Governo”. Da sempre laboratorio di nuove idee e proposte

piccole imprese. “A nome di tutta la Cna – conclude Potenza - faccio i miei complimenti a questo storico quotidiano per il traguardo dei 150 anni che ha tagliato da poco. Non tutti i giornali raggiungono simili risultati ed esprimono valore aggiunto nel modo di comunicare come fa questa testata, che ringrazio anche per l’attenzione che ha sempre dedicato alla realtà delle imprese artigiane”.

nella foto: il Presidente della CNA di Prato Anselmo Potenza


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Commovente testimonianza popolare

L’ULTIMO SALUTO DI PRATO ALLA SALMA DEL SUO MALAPARTE di Franco Riccomini Curzio Malaparte al fronte durante l’ultima Guerra MOndiale.

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’ultimo saluto di Prato alla salma del suo Malaparte annunciava “Nazione Sera” nella prima pagina dell’edizione del 22 luglio del 1957. Il giorno dopo sulla cronaca ampi servizi sull’avvenimento per raccontare come la città fosse legata al suo concittadino più prestigioso del Novecento e per rendergli, anche, l’affetto che lui aveva dato alla città durante la sua vita di scrittore, di giornalista, di uomo scomodo e di mille altre cose. La salma dello scrittore, immortalato nella storia della letteratura con libri come “La pelle” e “Kaputt” ma amato dai suoi concittadini anche per quel “Maledetti toscani” dove ne evidenziava pregi e difetti, era giunta in città proveniente da Roma dove, nella clinica Sanatrix, lo scrittore era morto dopo un viaggio in Cina.

C’era stata una interminabile colonna di auto ad accompagnare dalla Capitale alla città toscana le spoglie del “maledetto toscano” e ad attenderli in Piazza del Comune c’erano parlamentari, i maggiorenti della città ma soprattutto il popolo, quel popolo che non aveva mai dimenticato che Malaparte, cittadino del mondo e spesso presente nei più sperduti angoli della terra, non dimenticava mai a sua volta di ricordare Prato, la città della sua infanzia. “Sono fiero di essere di Prato - diceva - e se non lo fossi non vorrei essere venuto al mondo”. Un amore quasi maniacale che poi nel tempo si dimostrò estremamente sincero. Tanto che lasciò scritto in “Maledetti toscani” di essere sepolto sulla cima dello Spazzavento, sperone di roccia a guardia della Val Bisenzio da dove avrebbe potuto ogni tanto “alzare il capo e sputare nella gora fredda del tramontano”.

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na commovente testimonianza popolare, numerose corone, telegrammi da tutta Italia e la veglia nel salone comunale. Quindi le parole di saluto del sindaco Roberto Giovannini: “Il nome di Prato – disse - va per il mondo con le merci che esportiamo. Ma con le tue opere Prato ha esportato anche idee nel mondo”. Poi il funerale chilometrico per la città, le soste al Collegio Cicognini dove aveva studiato, all’abitazione di via Magnolfi e la sua prima collocazione al cimitero di Prato in una cappella privata in attesa del mausoleo sulla collina.

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la cronaca si riappropria nella stessa misura del personaggio, proprio per quel mausoleo la cui storia diventa un vero e proprio caso…


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alla Malaparte. Ci sono momenti in cui sembra che la realizzazione non possa essere possibile per i mille intoppi burocratici e soltanto l’intervento dei familiari che minacciano di portare la salma a Firenze, è capace di sbloccare la situazione. E dopo quattro anni esatti, il 25 luglio del 1961 Malaparte torna sulle colline della sua giovinezza, in un monumento in pietra sul quale sono scritte le sue frasi più celebri legate alla città. Gli inviati vengono da ogni parte, dall’America arriva anche Carlo Coccioli, lo “scrittore esiliato” a dare l’ultimo saluto all’amico di percorso. Una arrampicata tremenda su una mulattiera di montagna: e qualcuno scrisse che forse in quel momento Malaparte sorrideva nel vedere i suoi concittadini arrancare con fatica, in ossequio al suo spirito irriverente.

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ell’orgoglio di Malaparte, comunque, non c’era (lo diceva lui stesso) la solita gretta superbia di campanile, ma il senso vivo della storia. E così, memore della sua prima carica di segretario del Pri pratese a soli quindici anni, vi era tornato l’anno prima di morire presentandosi come candidato alle elezioni amministrative per il vecchio partito. Un ritorno romantico ai “vecchi amori” dopo essere passato da vero camaleonte e con estrema disinvoltura dal partito fascista a quello comunista fino ad aderire al maoismo: ma sempre da uomo libero che bruciava

ogni fede nell’intelligenza e con la non tanto recondita idea di mandare ad un certo momento tutti al diavolo.

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agando sempre per il suo coraggio nel combattere il potere, anche quello a cui momentaneamente aderiva. Rapporto privilegiato quello di Malaparte con la cronaca de La Nazione, specialmente dopo la sua morte quando il giornale ha registrato, passo dopo passo, tutte le vicende legate alla sua persona: il mausoleo delle polemiche, i mancati ricordi delle ricorrenze ma anche i tributi alla sua memoria, talvolta con manifestazioni di rilievo. E Malaparte continua a “colpire” ancora: sia che si debba ricordare la sua inguaribile figura di dandy, le sue velleità di regista, il suo immergersi nel dramma, nella commedia e persino nella musica, ai suoi amori o ai suoi inimitabili servizi giornalistici nelle guerre del mondo.

Malaparte durante un comizio (nella foto in alto a sinistra) . In alto a destra e nel tondo due immagini del ritorno della salma dello scrittore nella sua Prato nel luglio del 1957.

PRIMO SENO NUDO DELLO SCHERMO Clara Calamai nella storia

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inquemila lire per interpretare la “Cena delle beffe” è il compenso offerto all’attrice Clara Calamai che nel 1941 interpretò al cinema per la regia di Blasetti la parte di Ginevra nella tragedia del conterraneo Sem Benelli. Lo ricorda la stessa Calamai affrettandosi ad aggiungere che un’altra diva non le avrebbe prese. Tant’è: il film andò in onda, ebbe critiche e consensi, ma passò alla storia per quel primo seno nudo sullo schermo esibito dalla Calamai che fece gridare allo scandalo la stampa cattolica. E alla prima del film anche la cronaca di Prato de La Nazione registrò l’avvenimento ma il corsivista impegnò la sua penna per lodare la Calamai, stella del momento e che nell’arco della sua carriera interpreterà 47 film tra gli ampi spazi della sua tormentata vita pubblica e privata, attraversata in gioventù anche da un tentativo di suicidio per amore. E la sua ossessione di essere diva, come recita il titolo di un libro di Italo Moscati che ne traccia un profilo anche umano e mette in risalto questa sua obsoleta caratteristica. Un nome quello della Calamai non legato solo alla “cena” ma piuttosto a quei film in cui più si identifica, come “Ossessione” guidata da Luchino Visconti (che poi la dirigerà anche in “Notti bianche”) dove la mostra sotto una nuova luce, intensa nella recitazione, anti-diva, lontana dalle piacevolezze superficiali di “Boccaccio” e “Manovre d’amore”, in una pellicola divenuta uno degli emblemi del cinema neo-realista. E il nome della Calamai torna spesso, insieme a quello di Francesca Bertini, la diva pratese del muto, nelle cronache fino al settembre del ’98 quando sparisce definitivamente dalle scene lasciando una marcata traccia della sua presenza nella storia della città e del cinema. Franco Riccomini


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Una diocesi nel cuore di Prato Lo sforzo di dialogo e di proposta del vescovo Gastone Simoni

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ella cronaca dei nostri giorni c’è una costante, data dalla presenza del vescovo Gastone Simoni nella vita della città, mettendo in primo piano i valori spirituali, attraverso la missione diocesana in un contatto diretto, che dice un modo particolare di assolvere la missione evangelica, stando vicini alla gente, a tutta la gente, in un confronto libero. Un ruolo attivo quello di Simoni, teso a illustrare la radice e la fonte della vita di ogni uomo, manifestare i segnali della presenza di Dio, disporsi a un dialogo che è arricchimento comune in una continuità ideale con i predecessori, che elenchiamo sinteticamente: GERINI Giovanni, fiorentino 1653 – 1656

Sopra: Gastone Simoni, vescovo di Prato ostende la Sacra Cintola dal pulpito del Duomo cittadino.

RINUCCINI Francesco, fiorentino 1656 – 1679 GHERARDI Gherardo, fiorentino 1679 – 1690

A sinistra: Papa Giovanni Paolo II rende omaggio alla Sacra Cintola durante la sua visita del 19 marzo 1986.

STROZZI Leone, monaco vallombrosano 1690 – 1700

FROSINI Francesco, pistoiese 1700 – 1702

VISDOMINI CORTIGIANI Carlo, fiorentino 1703 – 1713 BASSI Colombino, monaco vallombrosano 1715 – 1732 ALAMANNI Federico, 1732 – 1775

IPPOLITI Giuseppe, pistoiese 1776 – 1780 DE’ RICCI Scipione, fiorentino 1780 – 1791

FALCHI PICCHINESI Francesco, volterrano 1791 – 1803 TOLI Francesco, livornese 1803 – 1833

GILARDONI Angelo Mafia, fiorentino 1834 – 1835

ROSSI Giovan Battista, fiorentino di Signa 1837 – 1849

NICCOLI Leone, monaco certosino 1849 – 1857

PIERALLINI Giovanni, pratese, vicario capitolare 1857 – 1867 BINDI Enrico, pistoiese 1867 – 1871

SOZZIFANTI Niccolò, pistoiese 1871 – 1883 VELLUTI ZATI Donato, fiorentino 1883 – 1885

MAZZANTI Marcello, di Altopascio (Diocesi di Pescia) 1885 – 1908 SARTI Andrea, di Rontano (Diocesi di Massa Carrara) 1909 – 1916

VETTORI Gabriele, fiorentino 1916 – 1930 DEBERNARDI Giuseppe, di Corio Canavese (Diocesi di Torino) 1933 – 1953

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l 25 Gennaio 1954 il Papa Pio XII separò la Diocesi di Prato da quella di Pistoia. Così iniziò la nuova serie dei Vescovi di Prato: FIORDELLI Pietro, tifernate, di Città di Castello (Perugia) 1954 – 1991 SIMONI Gastone, fiesolano, di Castelfranco di Sopra (Arezzo) dal 1991

Svolta a sinistra anche nella toponomastica Si cominciò a camminare a sinistra fin dal primo sindaco del dopoguerra, in nome della svolta obbligata che contagiò anche la toponomastica. Si chiamò via Ernesto Guevara (e non via Rolando Caciolli come avrebbe voluto qualcuno), ad esempio, la quarta diramazione di via Bologna, accanto alle targhe nuove di Berlinguer, Kuliscioff, Terracini, Moro, Neruda, Morante. Anche le recenti realizzazioni Asl portano a sinistra: si chiama Roberto Giovannini il centro dove si effettuano prelievi e poliambulatorio; si chiama Giorgio Vestri il dipartimento di prevenzione. Tutti personaggi, sia chiaro, che hanno lasciato un segno forte nella storia del dopoguerra e che le amministrazioni di sinistra, succedutesi incessantemente in Prato, hanno inteso illustrare per conservare anche attraverso la toponomastica il “pensiero stupendo”, che fa la fine di tutte le ideologie: un delicato frutto che dopo un po’ di tempo appassisce.


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Concreto, incisivo e onesto

GIOVANNINI IL SIMPATICO BRONTOLONE di Roberto Baldi

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In un momento di sconforto Giovannini si uccise nel 1995 gettandosi dalla finestra del sua appartamento al quarto piano.

ue lunghe bretelle appese ad un paio di pantaloni sgualciti; lo sguardo di chi si accende nel colloquio e ti scruta dentro; il gesticolare continuo come a voler mimare i sentimenti, conscio dell’inadeguatezza della parola; la vivacità e la causticità di eloquio, venata da un sottofondo malinconico di resa. Me lo ricordo così l’ultimo Roberto Giovannini, il sindaco “onesto” fino alla meticolosità. Toccò a me raccoglierne il testamento spirituale in una casa asciuttamente disadorna, zeppa di libri posti in un mobile sobrio intorno a una scrivania ampia prospiciente una scala a chiocciola per il piano superiore, dove ti sommergevano ritagli di giornale, corrispondenza privata, dattiloscritti e fotocopie in un simpatico disordine organizzato. Il tavolo da lavoro era diventato la cucina dove intelletto e funzione nutritiva si mescolavano spartanamente. Fu uno degli ultimi aneliti a dichiararsi, dopodiché rientrò nella sua solitudine.

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empre concreto e incisivo, secondo lo stile giovanniniano che aveva in uggia l’horror vacui, al punto di apparire diffidente brontolone, scontento dei più. Anche politicamente si era collocato in una

sfera di “marxista pirandelliano”, come lui amava definirsi in un ardito connubio letteralpolitico, che stava a indicare il modo di intendere la vita e la politica come “gioco delle parti”. Resta l’immagine del sindaco di tutti, grazie allo spirito di servizio, al libero pensiero di scomodo polemista pieno di arcigna scontentezza, insofferente ai servilismi, contrario anche al centralismo democratico del partito “molto centralismo e poca democrazia”, come egli amava chiosare.

Roberto Giovannini (nella foto) per lunghi anni amatissimo sindaco della città. Si muoveva in bicicletta rifiutando le costose “macchine blu”. Non fu mai uomo di parte e agì per il bene di tutti i cittadini.

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i lasciò in una cupa giornata di novembre con un tuffo contro la solitudine, tramandandoci la lezione della vita attraverso il desiderio della morte; ammonendoci che si nasce re (la giovinezza ha un suo regno ad attenderla), ma che si muore in esilio. Da quel gesto provocatorio, urlato in faccia a chi lo aveva dimenticato, capimmo che ogni giorno aveva portato via una parte di lui stesso inducendolo ad esplorare l’ignoto.

Il salotto di noialtri Il caffè Bacchino fu per anni l’ombelico di Prato, il salotto buono della città, dove si riscattava il lavoro boia della giornata, dove si dava convegno all’ululare delle sirene di fabbrica l’industriale che indossava un maglione di stra-cachemire con un buco intarsiato alla perfezione, perché aveva bisogno di mandare in cortocircuito gli astanti; il perdigiorno, che bestemmiava contro il mondo e non voleva adattarvisi e pretendeva che il mondo si adattasse a lui; l’operaio con ancora la tuta da lavoro e le mani bisunte perché in Prato non ci fu mai distinzione di censo. Il caffè Bacchino agonizzò nell’era dei contestatori sessantottini, precursori del morettismo e girotondismo odierno, ritenendolo un emblema di certa borghesia parassita. Se n’andò così un pezzo di vita di Prato: dallo struscio del dopomessa delle 11 in S. Francesco, alla nuova fiammante Porsche del Nencini che veniva a parcheggiarla lì davanti; al cigolio dei carretti pieni di subbi; al Pugi che da lì arringava le folle in deliranti messaggi. Roberto Baldi


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L’autonomia dopo 600 anni

PRATO È PROVINCIA! Campane, caroselli d’auto e sirene

rappresentativi dei vari partiti politici (vi aveva aderito anche Curzio Malaparte). Poi nel tempo il testimone di guida era stato raccolto da Rolando Caciolli (che vi aveva scritto anche due libri) e da Amerigo Giuseppucci. Prima di lasciarsi andare all’euforia, alcuni giorni di suspence puntualmente registrati dalla cronaca: fra i tanti impegni a Palazzo Chigi il presidente del Consiglio Giulio Andreotti non riesce a firmare il decreto istitutivo. Dopo di lui il visto del Ministro Guardiasigilli Claudio Martelli.

di Franco Riccomini

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7 Marzo del 1992: la Gazzetta Ufficiale pubblica la delibera della nascita della Provincia di Prato. La città non aveva l’autonomia dal 1351! Una riappropriazione, dunque, della propria identità dopo sei secoli e mezzo, quando il presidente della Repubblica Francesco Cossiga firma il decreto e ne dà annuncio al Quirinale. A Prato la notizia arriva alle 12,45 e c’è chi afferma

che, ora, fatta la Provincia si devono fare…i pratesi. Un’affermazione troppo dura se si pensa che i pratesi sono sempre stati artefici delle proprie fortune. Lo saranno anche per la Provincia? Il tempo dirà di sì. Prato era una sorta di “vaso di coccio” fra due provincie, Firenze e Pistoia, e già nel marzo del 1920 il professor Alighiero Ceri aveva istituito un comitato promotore per conseguire l’autonomia provinciale, forte di uomini importanti e

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l 3 aprile si intervistano i personaggi della città: “Più sussurri che grida” scrive il giornale e la festa è rimandata al 16, anche per la concomitanza del periodo delle elezioni in un momento in cui l’Italia sembra quasi ingovernabile. E il 16 tutti in piazza, a mezzogiorno, mentre le campane suonano il doppio, le fabbriche danno il via alle sirene, gli automobilisti suonano il clacson così come era avvenuto nel 1925 con l’istituzione del Circondario pratese e nel 1969 con l’istituzione del Tribunale. Brindisi in piazza per il primo nato della neo Provincia che si chiama Matteo.

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elle more dell’iter di questo progetto, un affare da 3500/4000 addetti si cercano i nuovi uffici per i servizi ed avere pari dignità con il Comune: inizia la “mappa” dei palazzi che passano di gestione. E il gruppo consiliare della Dc propone al sindaco Claudio Martini il conferimento della cittadinanza onoraria al ministro dell’Interno Scotti che qualche mese prima aveva “battezzato” quella che sarebbe stata la futura Provincia.

DUE PRESIDENTI DELLA REPUBBLICA PER L’ARCHIVIO DATINI Il 17 maggio del 1955 è una delle date che la città non può dimenticare: a Prato arrivano due presidenti della Repubblica, l’uscente Luigi Einaudi e il subentrante Giovanni Gronchi (nella foto), una eccezionalità che acquista ancor più valore per il motivo che li ha portati a Prato: l’inaugurazione di una grande mostra dei documenti del mercante Francesco di Marco Datini che portò i suoi commerci in tutto il mondo nel Medioevo gettando le basi di quella che oggi è l’economia moderna, ancor più rimasto nella storia come colui che, morendo, lasciò tutto ai poveri fondando la Casa Pia de’Ceppi esistente anche oggi. Una mostra che precedeva quello che sarebbe stato, nel 1968, il Centro Internazionale di Storia Economica Datini costituito da un fondo documentativo tra libri contabili, carteggi, lettere di un quarantennio dell’attività del mercante. Una struttura culturale arrivata dopo oltre 500 anni, con l’istituzione di settimana annuale di studi di storia economica accoglie docenti e studenti da tutto il mondo. I due presidenti, accompagnati dal sindaco Giovannini e dal vescovi Fiordelli e dai maggiorenti della città visitano la mostra ma anche le bellezze del Duomo, compresa la Sacra Cintola della Madonna. Lunghi anni di lavoro da parte di una equipe di esperti guidati dal professor Federico Melis, per costituire il Centro che poi doveva allargare la sua attenzione fuori del periodo del Medioevo inglobando anche i successivi secoli fino al XVIII. Un archivio delle meraviglie che è uno dei vanti della città e che diverrà un vero e proprio areopago di competenze con la presenza dei maggiori studiosi in campo mondiale. Con quella statua del Datini di Piazza del Comune che stringe nella mano un documento in cui i pratesi hanno creduto – secondo la leggenda – di riconoscere la famosa cambiale (usata dai pratesi con disinvoltura) ma che altro non è che l’apertura di credito nelle banche. Franco Riccomini

Claudio Martini, all’epoca sindaco di Prato, esibisce con orgoglio la prima targa della nuova provincia.


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UN MUSEO D’ARTE CONTEMPORANEA PER SFIDARE IL FUTURO

La realizzazione del sogno di un industriale

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l 26 giugno del 1988, dopo le lunghe “ansie” della vigilia, apre i battenti il Centro per l’Arte contemporanea Luigi Pecci voluto dall’industriale Enrico Pecci in ricordo del figlio scomparso nelle acque della Grecia. “È la realizzazione di un grande sogno” dirà Amnon Barzel il primo dei prestigiosi direttori, nel tempo, del museo, una struttura avveniristica realizzata dall’architetto Italo Gamberini per raccogliere i “fremiti” dell’arte contemporanea in una città che ha dimostrato più di ogni altra di prediligere le proiezioni verso il futuro per cogliere la contemporaneità. Fra i tanti il presidente del Consiglio Giovanni Spadolini che ne sottolinea l’importanza in una città che non si appaga del passato. Un museo che per la sua complessità e i coraggiosi indirizzi farà anche discutere ma costituirà comunque un grande punto di riferimento e verrà elevato (è notizia recente) a museo regionale di arte contemporanea. La sua “Colonna spezzata” dei fratelli Anne e Patrik Poirier a guardia del museo e la grande “falce” di Staccioli che dall’autostrada indica la via del museo diverranno simboli della città che ha ricevuto questo dono dopo quel lontano giorno del marzo 1982 quando il consiglio comunale approvava il progetto di Gamberini, avallato e sorretto da Comune, Unione Industriale e Cassa di Risparmio.

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in sei anni, tempo relativamente breve per un’opera di questo tipo, ecco che la struttura si impone come palcoscenico della contemporaneità ricordando che Prato non è soltanto città del tessile. Un bagno di folla all’inaugurazione con la presenza anche della Firenze che conta e con un pizzico di malcelata invidia. Cose in grande per l’inaugurazione: la grande mostra “Europa oggi”, una selezione dei più grandi artisti contemporanei che occupano tutte le sale del museo e nell’anfiteatro un concerto di Luciano Berio, la prima assoluta di “Ofanim I”, definita una musica “per spazi celesti”. Un viaggio quello del museo lungo venti anni con un percorso espositivo di grande rilievo (anche tra provocazioni, talvolta polemiche e grandi problemi di bilancio che sono stati solamente negli ultimi anni risolti) ma che oggi motiva addirittura il raddoppio della struttura con un progetto forse più avveniristico di quello di Gamberini, che porta la firma di Maurice Nio e che consentirà, fra l’altro, di poter dare visione delle opere della collezione che in venti anni si è sostanziata con i nomi più celebri dell’arte contemporanea nazionale e internazionale.

La Galleria degli Alberti di Cariprato e la sua collezione QUANDO UNA BANCA DIVENTA MECENATE C’è un’altra faccia importante della cultura artistica pratese. Cinque anni prima che nascesse il Museo Pecci, nel dicembre del 1983, si apriva ufficialmente per ferma volontà di Cariprato nell’antico Palazzo degli Alberti dove l’istituto ha sede fin dal lontano 1830, la collezione d’arte antica. Basterebbe ricordare la grande “Coronazione di spine” del Caravaggio, la “Crocifissione” del Bellini, la “Madonna” del Lippi oltre al nucleo delle sculture di Lorenzo Bartolini per stabilire l’eccellenza di questa collezione che si distingue non solo per la qualità ma anche per la felice scelta e l’originalità abbracciando nel suo insieme la pittura e la scultura del ‘600, con un salto temporale nei secoli successivi per codificare opere d’arte moderna e contemporanea. Una realizzazione a cui hanno lavorato storici come Giuseppe Marchini, uno degli artefici della “quadreria” oggi tra le più importanti d’Italia nel collezionismo bancario e non solo,

che ha lavorato anche scientificamente in un’operazione che abbina economia, cultura e mecenatismo ed è tra gli itinerari più importanti del circuito artistico pratese. E nel 2005, in occasione del 175esimo anniversario della fondazione della banca, c’è stata la reinaugurazione con la definitiva sistemazione delle opere nei vasti saloni dove respirano anche importanti opere sacre che la banca ha recuperato in Toscana, restaurandole e restituendole alla fruizione dei visitatori. Una collezione che è arricchita da uno splendido catalogo che riporta tutte le opere della collezione spiegate e commentate da storici come Antonio Paulucci, Mina Gregori ed Ettore Spalletti con un excursus critico sulle origini del Rinascimento pittorico fiorentino, i metodi e i percorsi degli studi caravaggeschi. Franco Riccomini

L’industriale Enrico Pecci (foto in alto) volle il museo d’arte contemporanea, inaugurato nel giugno del 1988, in memoria del figlio Luigi. Nel tondo: i lavori per la costruzione dell’anfiteatro antistante l’edificio.


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Christian Vieri pane fatto in casa Un successo maturato attraverso la tenacia

di Roberto Baldi

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e lo ricordo, stralunato come un felino capitato per caso nella città, apprestarsi a un primo test di idoneità sportiva per cominciare un’esperienza, che nessuno prevedeva così carica di prospettive e di gloria calcistica. Me lo portarono nonno Vieri e il presidente del Santa Luciano Becheri, raccomandandomi di espletare in tempi brevi le formalità di visita, perché il giovane appena arrivato dall’Australia aveva bisogno di essere inserito in qualche attività sportiva, in maniera da favorire anche l’aspetto socializzante. E la società del Santa Lucia, ottimamente guidata dal presidente Becheri, si prestava allo scopo più di altre. Lo rividi per tutta la stagione sportiva nel Santa Lucia. Un energumeno disarticolato. Lo stesso giovane Christian, del resto, non sembrò del

LE ULTIME CIMINIERE Abbattuta una delle ciminiere tipiche di Prato, titolava anni fa il nostro giornale. Ne è rimasta in piedi solo qualcuna per “belluria” come si usa dire a Prato. Tramontava con quell’abbattimento un pezzo di storia cittadina, la Prato di Bacchino, del bar Haiti, di Bailloni, del Canto alle Tre Gore; della politica declamata al popolo con un salone consiliare gremito e con il gusto di mangiarsi il fegato fra maggioranza e opposizione per andare poi tutti insieme a consumare la pizza alle “Tre lanterne” dopo il teatrino del contraddittorio pubblico. Era cessato da pochi anni anche il cigolare dei barrocci con le pezze e il suono delle sirene di fine lavoro; si cominciavano a pensare il Macrolotto 1 e il Macrolotto 2, nella convinzione che il tessuto fosse imperituro. Ai Silvio Pugi e ai di lui figli subentravano altre “intelligenze di persona” che parlavano a bocca larga e a mele strinte. Ci si rigovernava anche nel lessico: il conigliolo e il granocchio diventavano coniglio e ranocchio. E non venite a dirmi che fra un conigliolo e un coniglio non c’è differenza di sapori, anche se il consumismo ha reso il pecorino uguale al caciocavallo. Diventammo e siamo una Prato diversa. Spidocchiati e imbellettati, come dice l’amico Silvano Bambagioni nel suo “Sessant’anni a Prato”. Ma ingrigiti e omologati anche, con la nostalgia dei tempi in cui dal Logli si mangiava il conigliolo, invece del coniglio. Roberto Baldi

tutto appagato dall’esperienza calcistica iniziale. Ritornò in Australia da dov’era venuto. Alla lunga il lavoro pagò: tecnica ancora elementare, ma tanta potenza di gioco, vigoria fisica, abilità nel proteggere il pallone, decisione nel calciare da tutte le posizioni. A fine campionato risultò goleador della categoria. Si decise di mandarlo a fare le ossa nelle giovanili del Prato. Spopolò anche lì e papà Bob, osservatore del Torino e allenatore delle giovanili del Prato, decise di affidarlo all’amico Rampanti che con lui aveva fatto l’esperienza di Australia. Prime partite eccellenti e poi la segnalazione alla prima squadra, da dove spiccò il volo per Pisa, Ravenna, Venezia, Atalanta, trovando la definitiva consacrazione nella Juventus. Il resto è storia arcinota.

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l Christian che conosciamo noi non è parso scalfito dalla gloria: ha ancora semplicità e immediatezza di modi alla maniera pratese. Un pane fatto in casa, anche se i natali furono fra i canguri d’Australia. Ha fatto una stagione alla Fiorentina prendendo il treno al mattino da qua, comune mortale fra i comuni mortali. La celebrità lo costringe talvolta a fare slalom, apparendo a taluno distante, ma quando è a Prato rinasce nella sua dimensione più semplice e umana.

Le esperienze ed anche la sofferenza dei primi anni (la lontananza dalla famiglia, gli infortuni, il pellegrinaggio in ambienti nuovi col pericolo del naufragio calcistico) gli hanno insegnato a far tesoro dei successi, consapevole com’è della provvisorietà degli altari calcistici. È per questo che nel suo peregrinare ha lasciato un’impronta di amicizia e sincerità ovunque.

Bobo Vieri, pratese d’hoc, campione ineguagliabile ancor oggi continua ad esprimersi ai massimi livelli della serie A. Ha vestito le maglie più prestigiose del nostro campionato.


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