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150 ANNI di STORIA ATTRAVERSO LE PAGINE DEL NOSTRO QUOTIDIANO
SUPPLEMENTO AL NUMERO ODIERNO A CURA DI
Lucca
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La città che per ultima era diventata lorenese Lucca si fa bella in onore del giurista Francesco Carrara Sessanta anni di progetti e di lotte per la ferrovia della Garfagnana 29 novembre 1924 Giacomo Puccini ci ha lasciati il mondo piange il maestro È il mattino del 7 settembre 1920 Un forte terremoto in Garfagnana distrutti interi paesi, morti e terrore Un paese sepolto dalle acque per far posto all’invaso di Vagli Era il 16 ottobre del 1983 Elena aveva 17 mesi, la strapparono dalle braccia dei nonni e della mamma Tragedia a Gallicano esplode il polverificio Costa venti miliardi la “bretella” che ci porta al mare in 15 minuti Settembre 1989 Una gran folla acclama l’arrivo di Papa Wojtyla Lucca, città dei santi Nacque centro anni fa la più famosa “mistica” del ‘900 Un vertice di cinque ore tra l’Italia e la Francia Dal Littorio al Porta Elisa Ecco la storia del nostro stadio La Lucchese è vissuta oltre 103 anni (ma già è pronta una giovane erede) Supplemento al numero odierno de LA NAZIONE a cura della SPE Direttore responsabile: Giuseppe Mascambruno
Vicedirettori: Mauro Avellini Piero Gherardeschi Antonio Lovascio (iniziative speciali)
LUCCA
150 anni di storia attraverso le pagine del nostro quotidiano.
Non perdere in edicola il terzo fascicolo regionale che ripercorre, attraverso le pagine de La Nazione, la storia fino ai nostri giorni e i 17 fascicoli locali con le cronache più significative delle città.
Direzione redazione e amministrazione: Via Paolieri, 3, V.le Giovine Italia, 17 (FI) Hanno collaborato: Remo Santini Diego Casali Cristiano Consorti Oriano de Ranieri Fabio Lenzi Paolo Mandoli Paolo Pacini
Vincenzo Pardini Giulio Simonini Progetto grafico: Marco Innocenti Luca Parenti Kidstudio Communications (FI) Foto: Foto Alcide Foto Borghesi Foto Umicini
Stampa: Grafica Editoriale Printing (BO)
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LA CITTÀ CHE PER ULTIMA ERA DIVENTATA LORENESE Lucca era entrata a far parte del Granducato di Toscana nel 1847, in piena epopea risorgimentale L’appoggio all’Italia Unita e il diffondersi de La Nazione
E Un’immagine de La Nazione del 1860. Si nota sulla testata lo stemma sabaudo. Nel tondo: Massimo d’Azeglio fra i primi collaboratori politici de La Nazione.
ra entrata a far parte del Granducato di Toscana da soli 12 anni, Lucca e la sua provincia, quando a Firenze nacque La Nazione. Aveva conservato per secoli la sua indipendenza, la sua specificità, la sua arte e la sua cultura. E dunque Lucca era la più lontana da Firenze, politicamente e non solo, rispetto alla vicende che nel 1859 e nel 1860 animarono i risorgimentali della Toscana tutta. Avrebbe compiuto un suo percorso. Mai avrebbe rinunciato del tutto alla propria indiscussa personalità che ancor oggi, senza difficoltà, risulta ad un visitatore non superficiale. Eppure, La Nazione seppe diffondersi fin dai primissimi anni anche in questa realtà, dove le idee risorgimentali avevano trovato modo di diffondersi con forti motivazioni. E intorno al grande ideale dell’Italia Unita, fiorentini, lucchesi, così come aretini o senesi, tutti si ritrovarono. E La Nazione, fu ugualmente, per tutti, il foglio al quale fare riferimento, nella speranza di un futuro migliore. Nascere con l’Italia e accompagnarla, giorno dopo giorno, fino ad oggi. Nessun altro giornale vanta questo primato. E infatti, se anche una testata, la Gazzetta di Parma, sicuramente è più antica di quasi 100 anni rispetto al giornale fiorentino, è anche vero che
per lunghi periodi ebbe un altro nome e in ogni caso non svolse il ruolo fondamentale per l’Unità d’Italia che toccò al foglio di Bettino Ricasoli. Già, perché fu proprio lui, il “Savonarola del Risorgimento” come lo definirà Spadolini, a volere che il nostro giornale fosse in edicola alla notizia dell’armistizio di Villafranca. La storia è nota. L’11 luglio del 1859, nel pieno della seconda guerra di indipendenza all’improvviso francesi ed austriaci firmarono un armistizio ed i Savoia non ebbero la forza per opporsi. E dunque, ecco che al Piemonte veniva concessa quasi per intero la Lombardia, ma il Veneto, il Trentino e la Dalmazia restavano agli austriaci, mentre in Toscana sarebbero tornati i Lorena, e si ipotizzava una federazione di stati del Centro Sud sotto la guida del Papa.
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lla notizia, Cavour, dopo uno scontro durissimo con Vittorio Emanuele si dimise. E l’unico a sostenere la causa dell’Italia da unire, restò in quelle ore il capo del governo
toscano, Bettino Ricasoli appunto. Era la sera del 13 luglio e Ricasoli chiamò Puccioni, Fenzi e Cempini in Palazzo Vecchio. Chiese loro di redigere e stampare il primo numero de La Nazione per l’indomani. I tre presero una carrozza e si fecero portare in via Faenza alla tipografia di Gaspero Barbera, e qui cominciò un lavoro frenetico a redigere i testi ed a comporli. Alle cinque del mattino Ricasoli si presentò alla tipografia, lesse le bozze e dette il consenso. Alle dieci, tirate pare in tremila copie, due pagine in mezzo foglio, erano in vendita nel centro cittadino. Si trattava di un’edizione senza gerenza, senza il nome dello stampatore, senza il prezzo, senza pubblicità. Praticamente un numero zero. E così si andò avanti fino al 19 luglio quando, finalmente, La Nazione uscì nel suo primo numero ufficiale, con formato a tutto foglio, le indicazioni di legge, i prezzi per l’abbonamento e per la pubblicità.
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osì, dunque, nacque il nostro giornale. Che conobbe i giorni fausti dell’Italia Unita, e poi quelli pieni di problemi, non solo economici, in cui Firenze fu provvisoriamente capitale. Quindi la questione romana, la breccia di Porta Pia. Ma fu proprio con Roma Capitale che La Nazione dovette modificare il proprio tipo di impegno. Che fare? Seguire il governo e il mondo politico fino a Roma, là dove si sarebbero svolte da allora in poi tutte le vicende, e prese le decisioni relative all’Italia? Fu compiuta una scelta, che di certo non fu di tipo economico: restare. Restare a Firenze, accompagnare la vita della città e della regione dove era nata, e dedicare sempre più attenzioni a quella che oggi diremmo la cronaca . Insomma, da grande foglio risorgimentale carico di tensioni ideali, a giorna-
le come oggi lo intendiamo. Con rubriche dedicate alla moda, allo sport, alla vita musicale e teatrale. Rese possibile questa scelta un grande direttore, Celestino Bianchi che seppe conquistare il pubblico femminile, interessare anche la media e piccola borghesia mercantile, ma soprattutto richiamare intorno al foglio di Ricasoli le migliori firme italiane del momento. Che, del resto, già erano presenti su La Nazione, fin dai primissimi anni. E allora ecco il D’Azeglio e il Tommaseo, ecco il Manzoni e il Settembrini, e poi il Collodi, il De Amicis, Alessandro Dumas, Capuana, il Carducci e in seguito anche il Pascoli, ed infinti altri. Grandi firme che sarebbero continuate durante il fascismo e nell’Italia repubblicana fino ad oggi.
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a Malaparte a Bilenchi, a Pratolini, ad Alberto Moravia, a Saviane, a Luzi. Dopo aver ospitato Papini, Prezzolini, Soffici, e gran parte dei letterati delle Giubbe Rosse nel periodo che precede e che segue la grande Guerra. Queste le scelte che permisero a La Nazione, pur dovendo affrontare momenti di crisi e di difficoltà, di battere ogni volta le testate concorrenti. Ma non sarebbe stato sufficiente, senza una grande carica ideale. E infatti, quando si trattò di decidere se trasferirsi a Roma capitale, seguendo le sorti del governo e del re, la spiegazione data ai lettori fu questa. “Noi non vogliamo che Roma attiri a sé tutta la forza intellettuale. Noi vogliamo che Napoli, Firenze, Bologna, Venezia, Milano, Torino, serbino la loro influenza legittima, portino il peso nella bilancia delle sorti politiche nazionali. Ogni regione ha elementi originali da custodire e nello stesso tempo è sentinella dell’Unità inattaccabile.”
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na prosa intelligente, modernissima, attuale ancor oggi, 140 anni dopo. Un atteggiamento che La Nazione conservò anche in epoche ben diverse.
Il “Barone di Ferro” si rivolse a Puccioni, Fenzi e Cempini dicendo: “Voglio La Nazione per domani mattina”. Era la sera del 13 luglio del 1859 e l’indomani, alle dieci del mattino, il nostro giornale fu distribuito in tremila copie.
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da La Nazione del 2 maggio 1891
Lucca si fa bella in onore del giurista Francesco Carrara Il programma delle feste. La Grande Accademia al Giglio e gli invitati all’inaugurazione del monumento. L’appello del sindaco. Per più giorni gare di tiro a segno nazionale
Francesco Carrara è stato uno fra i primi studiosi di Diritto Criminale a voler abolire la pena di morte in Europa. Dopo gli studi ed il dottorato presso l’Università di Pisa, Carrara fu Professore di Diritto a Firenze e a Lucca.
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iorno 3, ad ora una pomeridiana inaugurazione del monumento statua in bronzo del professore Augusto Passaglia nel cortile del palazzo provinciale, alla presenza dei rappresentanti il governo di sua Maestà il Re e con l’intervento delle autorità civili e militari, della magistratura, della curia, dei corpi universitari, della scolaresca e delle amministrazioni. Ad ore cinque e mezzo estrazione di una tombola sul piazzale Vittorio Emanale II a profitto degli asili infantili Regina Margherita e della sezione operaia di Mutuo Soccorso. Ad ore nove pomeridiane spettacolo di gala al teatro Comunale del Giglio con l’opera i Due Foscari del maestro Verdi; illuminazione pubblica della Piazza Napoleone e dei cortili del palazzo provinciale eseguita dai signori Fantappiè di Firenze; concerti di bande musicali nella piazza Napoleone e di San Michele e sul piazzale Vittorio Emanuele.
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iorno 4, ore dodici meridiane, solenne distribuzione dei premi agli alunni delle scuole tecniche musicali ed elementari nel salone dell’Istituto musicale Pacini, concerti di bande musicali nella suddetta località. Ad ore nove pomeridiane grande concerto vocale e strumenta-
nella Cattedrale ad ore dieci e mezzo, eseguendo la messa in fa dei celebrati e compianti maestri lucchesi Michele Puccini e Fortunato Magi. Dal giorno 3 al 17 maggio saranno tenute le gare provinciali e comunali del Tiro a segno nazionale
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le al teatro Comunale del Giglio, a beneficio del monumento all’immortale scultore lucchese Matteo Civitali. Dirigeranno il concerto i signori maestri cav. Carlo Angeloni, prof. Augusto Michelangeli, e vi prenderanno parte la Società orchestrale Lucherini e distinti artisti e dilettanti di canto coadiuvati da alcune signore lucchesi e dalle alunne della Scuola Normale, che eseguiranno un coro composto di ottanta voci, espressamente scritto dal maestro Angeloni.
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aranno erette delle tribune nel cortile del palazzo provinciale e vi troveranno posto gli invitati avendo l’ingresso dal cortile detto degli Svizzeri. Gli studenti delle Università, la scolaresca, i gruppi musicali e le associazioni si schiereranno ad ore dodici meridiane nel
e rappresentazioni al Tearo Comunale dell’opera in musica “I due Foscari” del maestro Verdi avranno termine non prima del 10 maggio. Presidente onorario della commissione ordinatrice della festa è l’avvocato commendatore Carlo Petri senatore del regno; presidente effettivo è l’avvocato cavaliere Enrico del Carlo, sindaco di Lucca. Assisterà alla cerimonia della inaugurazione del monumento a Francesco Carrara sua eccellenza il ministro di Grazia e Giustizia che giungerà a Lucca con la sua Signora sabato 2 ad piazzale Vittorio Emanuele e ad ore 6,35. Appena arrivata sua eccellenza ore dodici e mezzo, muovendo per la via Nazionale entreranno si recherà al palazzo prefettizio dove, ad ore sette e mezzo vi nel cortile del palazzo provinsarà pranzo di famiglia offerto ciale ed ivi si disporranno in dal signor prefetto. più ordini su tre lati, lasciando Domenica 3, ad ore undici e libero quelle sulle tribune. mezzo, il ministro riceverà uffiIl Sindaco prega i cittadini di adornare con tappeti e bandiere cialmente le autorità. Dopo la cerimonia della inaugugli stabili prospicienti sulla via Nazionale e piazza Napoleone e razione prederà parte ad un thè offerto agli invitati nel palazzo di illuminare le finestre la sera della prefettura… del tre maggio.
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i sono diramati molti inviti anche per il palazzo della Corte d’Appello che ha i balconi nel cortile, riservando agli invitati l’ingresso del portone che prospetta sulla via Vittorio Emanuele. Ricorrendo il tre maggio la festa della lavenzione della Santa Croce, la cappella comunale diretta dal maestro Calo Giorni, farà un servizio straordinario
Da giovane politico il Carrara seguì inizialmente Giuseppe Mazzini, ma successivamente, negli anni Quaranta, si avvicinò a gruppi liberali più moderati. Si adoperò inoltre per l’annessione di Lucca alla Toscana, e, dopo l’Unità d’Italia, fu eletto al Parlamento nel 1863, 1865 e 1867.
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Sessanta anni di progetti e di lotte per la ferrovia della Garfagnana Si cominciò a parlarne a metà dell’Ottocento ma ancora nel 1892 il treno si fermava a Ponte a Moriano
addirittura Fornoli di Bagni di Lucca. Ma per arrivare a quel 21 marzo 1959, esattamente 50 anni fa, per collegare Lucca ad Aulla, di strada, quel treno, ne doveva percorrere ancora tanta.
di Cristiano Consorti
Nella foto in alto: l’arrivo del treno inaugurale a Castelnuovo Garfagnana il 17 luglio 1911. Nella foto a destra: la stazione ferroviaria di Lucca in una fotografia scattata agli inizi del Novecento.
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uarantasei chilometri. Una distanza esigua nel 2009, enorme se trasportata idealmente a 159 anni fa. Nel 1850 infatti lo spazio geografico posto tra Lucca e Castelnuovo Garfagnana era privo di un qualsivoglia collegamento ferroviario. Altri tempi, ma necessità più o meno identiche a quelle dei giorni nostri. Non poche infatti furono le proteste e, addirittura, come ricorda il sindaco di Barga professor Umberto Sereni su «Le Ferrovie di Lucca tra passato e futuro», anche le manifestazioni sfociate nelle dimissioni delle amministrazioni comunali della Valle del Serchio, della Lunigiana e della Garfagnana. Ma facciamo alcuni doverosi passi indietro nei secoli. La necessità di avere un collegamento tra Lucca e «la capitale» della Garfagnana, ovvero Castelnuovo, emerse intorno alla metà dell’800, anche se trovò sulla sua strada, è proprio il caso di dirlo, due ordini di problemi. La costruzione della linea Porrettana da un lato, inaugurata nel 1864 e che collegava Bologna con Pistoia, e l’annessione della Garfagnana alla provincia di Massa Carrara con l’unificazione nazionale dall’altro, fecero passare in secondo piano la realizzazione
della linea ferroviaria lucchese. E così nel 1892 l’unico tratto completato, il primo in assoluto, che sarebbe stato destinato poi nei decenni a raggiungere Castelnuovo, era solo quello che metteva in contatto Lucca con il paese di Ponte a Moriano. È proprio in questi frangenti però che qualcosa si muove.
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i muovono soprattutto i cittadini che protestano a gran voce, mettono in piazza vere e proprie manifestazioni. Tra queste vale ricordare quelle messe in luce dal professor Sereni. La prima, il 14 ottobre 1894, quando al Teatro Vittorio Emanuele di Castelnuovo i rappresentanti della Valle del Serchio spingevano, tra le altre cose, per l’annesione della Garfagnana alla provincia di Lucca e la realizzazione della ferrovia Lucca-Aulla. La seconda manifestazione, sicuramente di maggior impatto, fu quella del 9 dicembre del 1896, quando bande musicali, istituzioni, associazioni, politici, amministratori, giunsero a Lucca con i propri labari, stendardi e bandiere. Al Teatro del Giglio si annunciò come la «questione della Garfagnana» fosse prioritaria per la Lucchesìa. Manco a dirlo, nell’arco di pochi anni i lavori ripresero raggiungendo, come prima tappa, Borgo a Mozzano e, nel 1900,
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a scintilla che fece scattare l’ennesima protesta, e questa volta direttamente in Parlamento, fu quando nell’estate del 1905 il tema delle priorità infrastrutturali approdò alla Camera dei Deputati. E, guarda caso, proprio in questa sede, nella trattazione del nuovo elenco delle «complementari», mancava proprio la Lucca-Aulla. Da qui lo sciopero amministrativo, come accennato all’inizio, degli amministratori locali della Valle del Serchio, della Lunigiana e della Garfagnana, che rassegnarono in blocco le dimissioni. Un’agitazione che non passò assolutamente inosservata. Tutt’altro. Fu negata dal Prefetto di Lucca l’autorizzazione per una manifestazione a Camporgiano, mentre la folla scesa comunque in piazza fu dispersa dalle cariche contro i manifestanti. Dichiarata illegale, l’agitazione continuò fino a che i finanziamenti non furono sbloccati per la realizzazione di due nuovi tratti della ferrovia: da una parte cioè da Aulla a Monzone nella Lunigiana, e dall’altra da Fornoli a Castelnuovo per la Valle del Serchio.
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l 25 luglio 1911 la linea Lucca-Castelnuovo Garfagnana fu ufficialmente inaugurata. Dai primi studi del 1850 fino al definitivo taglio del nastro, quel tratto di 46 chilometri dovette attendere ben 61 anni prima di vedere la luce.
1846: A LUCCA NASCE LA STAZIONE Il 1846 segna una data storica per la città di Lucca, per due buoni motivi. Da un lato infatti il capoluogo di provincia si dota di una moderna stazione ferroviaria. Dall’altro invece proprio quella linea da cui passeranno carrozze e carri dividerà in due la città. La stazione, con annessi binari di collegamento, è una delle prime vere e proprie opere infrastrutturali viarie della città. Il treno però non era ben visto da tutti. C’era chi infatti avanzava critiche perché erano state espropriate delle terre, mentre altri dicevano che il fumo «faceva andare a male il latte delle mucche», come ricorda Carlo Farulli in “Le Ferrovie di Lucca tra passato e futuro”. Una stazione moderna, però, il cui impianto è pressoché quello che vediamo ancora oggi, tranne alcuni piccoli ritocchi e modifiche. Un edificio merito del lavoro degli architetti Bianchi, Pardini e Pohlmeyer, anche se si scorge l’opera del Nottolini che aveva compiti di commissario, ma che dette un impulso importante, come ribadisce Farulli. Ebbene, una stazione moderna e ricca di comfort e servizi. Esistevano fabbricati per il personale, per il ricovero dei mezzi di trazione, per le riparazioni, gli uffici, le soffitte, le docce, la biglietteria, l’ufficio postale, gli uffici amministrativi, una locanda e un caffé, sale di intrattenimento per i viaggiatori, sale di attesa 1ª e 2ª classe accoglienti con tende, consolle e mobili in noce, e di 3ª classe con panche e sedie. Anche le carrozze erano eleganti (naturalmente differenziate per rango), imbottite e illuminate.
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29 novembre 1924
Giacomo Puccini ci ha lasciati il mondo piange il maestro Era ricoverato in una clinica di Bruxelles. Le sue ultime parole e la penosa agonia. Aveva con sé gli appunti della Turandot di Oriano de Ranieri
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lle 11.30 di sabato 29 novembre 1924 Giacomo Puccini cessò di vivere. La notizia colse tutti di sorpresa perché l’operazione alla gola nella clinica del dottor Ledoux a Bruxelles andò bene, anche se alla partenza per il Belgio dalla stazione di Pisa accompagnato pure dal figlio Tonio, il Maestro
Giacomo Puccini posa davanti al pianoforte nella sua villa di Torre del Lago. Qui l’artista trascorreva lunghi periodi alternando il suo impegno di compositore a lunghe partite di caccia.
si era rivolto al fedele Marotti e gli aveva detto: «Caro Guido, questo è un malaccio che neppure in Belgio sapranno vincere. Sono condannato».
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ll’entrata in clinica il Maestro doveva affrontare un trattamento prima dell’operazione per applicare il radio direttamente intorno al tumore. In quel periodo poteva lasciare la clinica e infatti volle assistere in incognito ad una rappresentazione di Madama Butterfly al Théatre-de-laMonnaie. Aveva portato con sé anche degli appunti di Turandot, l’opera incompiuta, col desiderio di tirare avanti il difficile lavoro. Poco dopo il ricovero
arrivò anche la sua grande amica Sybil Seligman, che gli regalò un morbido cuscino sul quale poi fu posta la maschera mortuaria, a Torre del lago. Ma il maestro era inquieto e all’amico Angelo Magrini rivela tutto il suo sconforto: «Sono in Croce come Gesù! Ho un collare che è una specie di tortura. Radio esterno per ora, poi spilli di cristallo nel collo e buco per respirare anch’esso nel collo». Allo stesso Magrini chiede notizie con rimpianto della caccia in Maremma.
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l 23 novembre Giacomo andò ad un ristorante e al cinema a vedere un film americano con Fosca, Tonio, Carlo Clausetti. La mattina, un lunedì era prevista l’operazione. Inizia la settimana di passione. Al Maestro non si poteva fare l’anestesia totale perché soffriva di diabete e si temevano complicazioni cardiache. L’operazione ebbe inizio e durò tre ore e mezzo. Ledoux e
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sette assistenti gli aprirono un taglio alla gola di dieci centimetri e gli applicarono sette aghi di radio intorno al tumore. Il Maestro cominciò a comunicare con bigliettini: «Mi par di avere delle baionette in gola», «Fosca me la cavo», e Ledoux era molto ottimista: «Puccini en sortira». Il giovedì il Maestro si alzò e cominciò a fare piccole passeggiate nella stanza e leggeva i giornali. Stava bene anche il venerdì e i parenti e gli amici intorno a Puccini inviarono dappertutto notizie confortanti. Ma alle diciotto di venerdì il malato ebbe un collasso. Era seduto in poltrona e improvvisamente si accosciò su un lato. Tonio si spaventò. Ledoux intervenne e tolse gli aghi mormorando: «Il cuore non regge». Assistette tutta la notte il Maestro che cominciò l’agonia durata dieci ore, ma era un’agonia vigile, continuava a scrivere in modo telegrafico, con fatica, come poteva, sui foglietti: «Sto peggio di ieri, l’inferno in gola, mi sento svanire, acqua fresca».
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l sabato mattina fu fatto chiamare il nunzio apostolico Clemente Micara che divenne poi cardinale, per confortarlo prima della fine. Per non impressionare il moribondo il nunzio si presentò con l’ambasciatore italiano Orsini-Baroni che era un amico del Maestro. «Il nunzio - scrive Arnaldo Fraccaroli - mescolando le parole sacre, a frasi di augurio per non impressionare il morente, diede la benedizione estrema». Puccini, come ha poi riferito il figlio Antonio, è sempre stato lucido, ebbe solo brevissimi momenti di incoscienza, spirò alle 11.30 del mattino di sabato. Poco prima fece un tragico segno di addio agli astanti commossi e morì a sessantasei anni in un giorno triste di pioggia.
Qui di lato: La Prima pagina de La Nazione listata a lutto per la morte del compositore. Nel tondo: Puccini assieme a suoi amici e colleghi Mascagni e Franchetti. Nella foto in basso: Giacomo Puccini alla guida della sua prima auto.
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icino al suo letto di morte rimasero le ultime trentasei pagine di appunti della partitura di «Turandot». E Ledoux, sconvolto, nell’uscire con l’auto dalla clinica provocò un incidente mortale.
Su La Nazione un titolo a tutta pagina Il mondo restò attonito alla notizia della morte del Maestro. In Italia i giornali del 30 novembre del 1924 la riportarono con grande evidenza. Anche «La Nazione» fece un titolo a tutta pagina e fornì ampie notizie. In precedenza, a metà novembre, il quotidiano parigino «Le Soir» parlò per primo del ricovero a Bruxelles del Maestro e delle sue preoccupanti condizioni di salute. Nella nostra città la notizia colpì tutti anche perché il musicista era stato visto passeggiare per le strade e le piazze recentemente, e sembrava in una forma smagliante. Non si era spenta ancora l’emozione dei festeggiamenti tributati da Pescaglia al suo figlio illustre a fine ottobre prima della partenza senza ritorno per Bruxelles. Comunque a Lucca gli amici, pietosamente, sparsero la notizia che Puccini si era recato a Bruxelles per controlli medici e in definitiva le sue condizioni non erano così gravi. Anche «L’Intrepido», un giornale locale, diffuse queste notizie ottimistiche. Ma arrivò l’annuncio della morte anche nella nostra città il pomeriggio dello stesso 29 novembre, poche ore dopo il tragico evento. La commozione prese tutti, la gente, dal più umile al più importante, pianse anche per strada. Come racconta in un suo articolo su «La Nazione» di qualche tempo fa Umberto Sereni, un dispaccio di agenzia pervenne alla redazione de «L’Intrepido» che ne fece un comunicato e l’affisse alla sua sede dove si radunò una folla in lutto. Dagli uffici pubblici furono esposte bandiere a mezz’asta. I negozi chiusero le saracinesche. Si fermarono tutte le attività. Manifesti a lutto anche dell’amministrazione comunale. Come hanno raccontato dei testimoni dell’epoca i lucchesi amavano il Maestro Puccini perché sapeva parlare con tutti, con l’intellettuale e il popolano e interpretava i sentimenti di tutti.
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È il mattino del 7 settembre 1920
Un forte terremoto in Garfagnana distrutti interi paesi, morti e terrore di Paolo Mandoli
L Nella foto: Il campanile, la sacrestia, la chiesa e la canonica di Villa Collemandina distrutti dal terremoto.
a tragica mattina di martedì 7 settembre 1920 ha cambiato il destino di migliaia di abitanti della Garfagnana e della Lunigiana, cancellando interi paesi. Quel giorno alle 7,55 (ma c’era l’ora legale dunque erano le 6,55 al sole) la terra tremò con una violenza incredibile. Una scossa di terremoto del nono-decimo grado della scala Mercalli che è stata poi definita come «uno degli eventi di più elevata magnitudo che si siano verificati nell’Appennino settentrionale». I morti ufficialmente furono 171, i feriti 650. Molte migliaia di persone rimasero senza casa.
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l nostro giornale seguì, giorno per giorno, quel tragico terremoto con articoli e corrispondenze dai vari paesi. Ed è stato proprio grazie alle cronache de La Nazione che è stato poi possibile ricostruire un quadro esatto degli effetti e dare una più precisa spiegazione al disastroso evento, grazie all’ampia documentazione delle pagine di cronaca. I territori più colpiti furono quelli di Fivizzano con 45 morti
e 300 feriti, di Villa Collemandina con 27 morti e 100 feriti, di Casola con 19 morti e 60 feriti, di Minucciano con 16 morti e 30 feriti, di Camporgiano con 12 morti e 30 feriti, di Castiglione Garfagnana con 9 morti e 20 feriti. La violenta onda sismica colpì anche molto lontano, nelle città. A Lucca, come scriveva La Nazione nell’edizione dell’8 settembre 1920, ci furono cinque feriti, vari edifici lesionati, il crollo di molti comignoli e del tetto del palazzo comunale. All’ospedale Galli Tassi caddero alcune pareti. A Massa, come scriveva La Nazione nell’edizione dell’11 settembre 1920, ci furono 5 morti e 9 feriti e cento case inabitabili. A Pisa caddero comignoli e tegoli dai tetti e sei persone si gettarono dalle finestre per terrore (La Nazione del 7 e 8 settembre 1920). A Livorno caddero comignoli, terrazze e alcune pareti nei quartieri più antichi e nella chiesa di San Giovanni cadde un pezzo di cornicione (La Nazione dell’8 settembre 1920).
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a zona di massima distruzione si estese su un’area di circa 160 chilometri quadrati con due centri particolarmente colpiti: Fivizzano in Lunigiana e Villa Collemandina in Garfagnana. A Fivizzano, come scriveva La Nazione l’8
settembre 1920, su circa 17 mila case non una poteva essere considerata abitabile dopo la scossa. La cronaca di quel giorno è molto ampia e riporta numeri e testimonianze della tragedia. Altrettanto si trova per Villa Collemandina, dove le nostre cronache dell’8 settembre 1920 e dei giorni successivi riportano i numeri (27 i morti, 100 i feriti gravi, 30 i feriti leggeri) e le testimonianze con il capoluogo e le frazioni diroccate e la chiesa fortemente lesionata.
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limitare ma, in alcuni casi, anche ad amplificare gli effetti del terremoto sul numero dei morti e dei feriti ci furono vari elementi. Anzitutto una scossa di sesto grado Mercalli alle ore 16,05 del 6 settembre, seguita da una replica del quarto grado alle ore 22,30. In alcuni paesi della Garfagnana e della Lunigiana, abituati a convivere con frequenti scosse di terremoto, quelle due vibrazioni che pure avevano causato qualche leggero danno, non provocarono un grande spavento. Così la sera del 6 settembre la popolazione andò a letto alla solita ora e al mattino del 7 settembre uscì di casa molto presto, prima della tragica scossa. Così si salvò da morte certa. D’altra parte buona parte dei residenti erano
contadini, abituati ad alzarsi presto, mentre nelle case restavano soprattutto le donne e i bambini, che furono le principali vittime.
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n altri paesi, a cominciare da Villa Collemandina, invece la gente reagì con paura, forse a causa di un maggiore risentimento locale delle due scosse del 6 settembre, così rimase all’aperto praticamente fino all’alba. Quando i residenti di questi paesi decisero di andare a dormire mancava ormai pochissimo tempo alla tragedia. Inevitabilmente rimasero schiacciati sotto le loro case che crollarono.
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ncora oggi in alcuni paesi della Garfagnana e della Lunigiana sono rimaste le ultime casette di legno che vennero costruite all’indomani del terremoto per ospitare le migliaia di persone rimaste senza un tetto. Le ferite di quella tragedia sono ancora visibili a distanza di oltre 88 anni. Ci sono paesi la cui storia venne interrotta proprio quel giorno. Soltanto alcuni di essi, il caso più emblematico è stato Bergiola nel comune di Minucciano, hanno provato a risorgere, ma soltanto per farne un possibile polo di attrazione culturale e turistica.
I morti furono 171 e i feriti 650. Migliaia di persone rimasero senza casa. Si intensificò, dopo la tragedia, l’esodo dei garfagnini verso l’America e il resto d’Europa. Ancora oggi si trovano in Garfagnana rifugi di legno costruiti dopo il sisma di 89 anni fa.
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Un paese sepolto dalle acque per far posto all’invaso di Vagli Il sacrificio di un’intera valle per ottenere energia elettrica. I lavori cominciarono nel 1941 ma furono ultimati solo dopo la guerra di Paolo Pacini
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orreva l’anno 1941 quando in Garfagnana presero il via i primi lavori per realizzare il mastodontico invaso artificiale tra le pareti dei monti del Sumbra e del Roccandagia, che si ingoiò un’intera vallata nei pressi di Vagli. Il bisogno di energia, la particolare conformazione del territorio e l’abbondanza di acque nella zona spinse la società idroelettrica Selt Valdarno a costruire qui la grande diga elettrica che sbarrò il corso del torrente Edron, affluente di destra del Serchio.
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lavori furono poi sospesi a causa della guerra, ma nel 1946 ripresero e, l’anno dopo, lo sbarramento raggiungeva già un’altezza di 65.50 metri. In quel 1947 iniziò il lento e inesorabile processo di sommersione del paese di Fabbriche di Careggine, che ancora oggi giace sul fondo del lago artificiale, sacrificato al grande progetto energetico. Nella valle non c’era posto per tutti e due. E vinse la diga. Fabbriche fu evacuato e «affondato», dunque, con le sue case, le sue strade, le tante storie dei suoi abitanti. Un processo che non fu indolore. Fu necessario far intervenire la forza pubblica per sgomberare le
Viene svuotato l’invaso e riappare il paese fantasma di Fabbriche. I turisti partecipano all’evento che si è ripetuto quattro volte nell’ultimo mezzo secolo.
146 persone rimaste e trasferirle nel vicino paese di Vagli.
P
er dare vita al mega progetto moderno, si dovette assistere alla lenta e triste agonia del vecchio paese risucchiato dalle acque, che risalivano inarrestabili, ricoprendo e cancellando tutto nel silenzio di una dimensione spettrale. Fabbriche di Careggine moriva,
ma in quel momento nasceva la leggenda del borgo sommerso, di quel fantasma di pietra con la sua chiesa di San Teodoro e il campanile che, si racconta, nelle notti di plenilunio farebbe ancora suonare la sua campana. Negli anni successivi la diga venne innalzata fino ad arrivare all’attuale quota di 92 metri con gli interventi ultimati nel 1952 e furono sommersi anche altri
tre piccoli borghi. Ma non per sempre. Nel 1958, nel 1974, nel 1983 e nel 1994 il bacino è stato infatti svuotato in estate per la manutenzione straordinaria e come per magia l’antico paese medievale è riemerso dalle acque e dal fango. Una piccola Atlantide, subito invasa da un oceano di fortunati turisti, accorsi ad ammirare le sue bellezze cariche di mistero.
Un lago artificiale che contiene 35 milioni di metri cubi d’acqua La diga di Vagli, del tipo a gravità massiccia in calcestruzzo, è un invaso di 35 milioni di metri cubi d’acqua, utilizzati principalmente per produrre energia elettrica, ma anche per regolare la portata stagionale del Serchio. All’interno della sua spessa muraglia, corrono gallerie, cunicoli e camminamenti che conducono ai vari stadi e livelli: ogni tanto, Enel organizza visite guidate nella pancia del gigante di cemento. Le acque del lago artificiale alimentano la centrale idroelettrica di Torrite nei pressi di Castelnuovo Garfagnana
con una produzione annua di oltre 150 milioni di KWH. Ma è anche una notevole risorsa turistica, mèta di escursionisti e appassionati di barca a vela, canoa e trekking nella natura. Certo il polo d’attrazione magnetico resta sempre il paesino sommerso di Fabbriche, che giace silenzioso sul fondo, fondato nel 1200 da fabbri originari della Lombardia che utilizzavano, per la loro ferriera, la forza motrice delle acque del torrente Edron. Proprio la stessa imbrigliata poi in tempi moderni per creare il gigantesco invaso artificiale.
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Era il 16 ottobre del 1983
Elena aveva 17 mesi, la strapparono dalle braccia dei nonni e della mamma I tre rapitori chiesero un riscatto di 5 miliardi Gli appelli del Papa e la liberazione in un paese della Sicilia Dure condanne per i malviventi di Oriano de Ranieri
L
Il rapimento di una bambina di appena 17 mesi, Elena Luisi destò una enorme impressione in tutto il mondo. Nella notte tra domenica 16 e lunedì 17 ottobre 1983, poco dopo la mezzanotte, nel corso di un temporale, tre uomini entrarono in casa della piccola Elena a Lugliano, un paesino nel comune di Bagni di Lucca, dopo avere scardinato la porta. Picchiarono Niccolò Citti e la moglie Norma, i nonni materni della bambina, picchiarono anche la mamma Isabella (il babbo Rino era assente per lavoro). Poi i tre portarono via Elena che indossava un pigiamino azzurro e piangeva e gridava. Prima
Nella foto sotto: I nonni e i genitori intorno alla piccola Elena poco dopo il suo ritorno a casa.
di partire uno del malviventi ha gridato al nonno di Elena, imprenditore e assessore comunale. «Prepara i soldi, vogliamo cinque miliardi». E fissarono per il «pagamento» il termine di cinque giorni. La notizia del rapimento fa il giro del mondo e desta soprattutto nella provincia di Lucca una enorme impressione. Si tratta del bambino più piccolo che sia stato mai rapito e poi siamo in una isola felice dove la delinquenza è molto ridotta. Il paesino di Lugliano fu assediato dai giornalisti di tutto il mondo. Il dramma ebbe fortunatamente un lieto fine. Oltre quaranta giorni dopo ci fu la frenetica liberazione in Sicilia. Ma durante il rapimento della bambina trascorsero settimane
angosciose per tutti. Scattano le ricerche a tutto campo. La gente pensa che i rapitori siano venuti da lontano. Per poco si pensa anche alla «banda dei Sardi». Gli inquirenti affermano che stanno seguendo tutte le piste possibili. Ma poco dopo il procuratore della Repubblica Angelo Antuofermo parla di «rapimento anomalo». In campo scendono anche i servizi segreti. I rapitori devono essere presi ad ogni costo anche perché siamo in piena emergenza sequestri e il governo è per la linea dura. Il Papa Giovanni Paolo II rivolge «un pressante appello perché non chiudano il cuore a quel senso di umanità che qualche residua eco deve pur avere anche nelle loro coscienze». Il presidente Pertini in una dichiarazione a «La Nazione» aveva implorato i rapitori di restituire Elena alla
mamma. Un sacerdote siciliano don Giorgio Spidalieri è pronto ad offrirsi in ostaggio per la liberazione della piccola Elena. Il parroco di Lugliano don Mario Tolomei a nome della famiglia chiede il silenzio stampa.
A
Lucca i quarantadue giorni prima della liberazione di Elena diventano una pesante cappa di piombo. Un altro episodio drammatico contribuì a turbare ancor di più l’opinione pubblica. Il 21 novembre un uomo col volto coperto da un passamontagna entrò nella redazione de «La Nazione» nella centralissima piazza del Giglio e sparò con una pistola al volto al giornalista Roberto Baldini che
Nella foto a destra: Egidio Piccolo e Franco Chilè dietro le sbarre durante una fase del processo. Mai era avvenuto in Italia, prima di allora, il rapimento di una bambina di 17 mesi.
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La gente li chiamò “I nuovi barbari”
Nel tondo: la piccola Elena. AL momento della liberazione la madre si disse convinta che la bambina aveva sofferto. Risultava in effetti più magra e impaurita.
poi perse un occhio. Si pensò ad un collegamento con il rapimento della bambina. Invece l’autore, rintracciato e arrestato poi, era un delinquente esaltato, feritore anche di alcune commesse.
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ntanto furono stabiliti dei contatti con i rapitori tramite la chiesa di Lucca. L’arcivescovo Giuliano Agresti, anche se ha sempre smentito, probabilmente si è adoperato personalmente per il buon esito della triste vicenda. A casa Citti arrivano tre polaroid con le foto della bambina. Il 24 novembre a Ferrara viene arrestato un uomo: aveva in tasca una foto della piccola. E infine la liberazione nella notte fra il venerdì 25 e sabato 26 novembre. I banditi sentendosi accerchiati abbandonarono la bambina riparata solo da un cartone, sul ciglio di una strada a cinquanta chilometri da Messina. Ai genitori in ansia a Lugliano arriva la notizia della liberazione. A bordo di un Hercules vanno
in Sicilia a riprendersi la piccola che finalmente con lo stesso aereo da Catania vola fino a Pisa e raggiunge la sua casa a Lugliano. È finito un incubo. Ci saranno poi grandi festeggiamenti. Il sindaco di Bagni di Lucca Enzo Tintori dirà che tutta la Valle si ricorderà per sempre di quei giorni terribili finiti nella gioia. Franco Chillè, l’ideatore del sequestro e il capo della banda, amico della famiglia Citti, viene arrestato e con lui Egidio Piccolo, Salvatore Alacqua, Gaetano Fugazzotto, Carmela Italiano, la baby sitter, Luigina Mazzeo la vivandiera. Rimangono latitanti, ma per poco, Mazzeo e Iarrera. Poco dopo si apre il processo per direttissima nella corte d’Assise di Lucca. Vengono inflitte dure condanne esemplari. Ora Elena, una bella ragazza di ventisei anni, sa solo vagamente di quello che le è capitato in quel lontano autunno del 1983. La mamma Isabella e il padre Rino in questi anni si sono impegnati per fare dimenticare alla figlia quel rapimento e forse ci sono riusciti.
Allora si parlò di nuovi barbari, gente che di fronte alla ricerca del denaro facile non esitava a servirsi come arma di ricatto di una bambina di diciassette mesi. Il rapimento di Elena Luisi divenne un caso a livello nazionale e mondiale anche se purtroppo il periodo era quello triste dei rapimenti, basti ricordare il caso Bulgari. E l’industria del sequestro approdò anche nelle oasi tranquille, nel paesino di Lugliano, vicino a Bagni di Lucca, come rilevò sulla nostra cronaca lo scomparso collega Paolo Galli, e approdò con il sequestro di una bambina nel nostro territorio, un fatto clamoroso che non era mai successo. Si aprirono dibattiti sul ricatto più infame degli affetti sotto sequestro. Ci furono immediate e nobili reazioni. L’allora vescovo di Acerra monsignor Riboldi affermò che c’è una dimensione della vita delle coscienze che non può essere dominata dal ricatto dei malviventi. L’allora caposervizio della redazione di Lucca de «La Nazione», attuale direttore Giuseppe Mascambruno, rilevò lo choc nella comunità lucchese: «È la prima volta, la prima volta per tutti noi e l’emozione, l’angoscia, la rabbia non sono sentimenti che si nascondono. Il rapimento della bambina ha segnato una novità per Lucca e la sua provincia: è il primo sequestro di persona a scopo di estorsione, perché i precedenti episodi avvenuti in Versilia non avevano niente a che vedere con riscatti in danaro. Questo drammatico esordio della criminalità organizzata e operante al massimo livello del crimine ha colpito una creatura di neanche un anno e mezzo». Molti si preoccuparono alla fine del rapimento anche dei danni morali soprattutto per la piccola che al ritorno a casa ebbe dei problemi. Del resto la mamma Isabella disse subito che non era stata trattata bene in quei quaranta giorni di prigionia. Tutto finì bene, ma non era scontato che finisse così. Ricordiamo la fine tragica del piccolo Tommaso, anche lui vittima innocente del ricatto degli affetti e della mercificazione dei sentimenti più profondi, in un’epoca che ha il danaro come valore supremo.
Per la liberazione di Elena si mobilitarono anche i servizi segreti e il Papa, durante l’Angelus in piazza San Pietro, rivolse un appello ai rapitori.
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Tragedia a Gallicano esplode il polverificio Dieci le vittime, panico fra la gente. Lo scoppio si è udito nel raggio di 20 chilometri Le condoglianze del presidente Einaudi
La “Sipe Nobel” produceva fra l’altro esplosivi da utilizzare nelle cave di marmo di Carrara. Nelle foto alcuni prodotti dell’azienda e operai di Gallicano al lavoro.
di Giulio Simonini
È
venerdì 27 febbraio 1953, una tremenda deflagrazione seguita da altre minori scuote Gallicano. È scoppiato il polverificio «Sipe Nobel» provocando la morte di ben dieci persone, tra operai e impiegati. Erano le 10.23 (l’orologio della torre campanaria rimase a lungo fermo su quell’ora) di un mattino terso e luminoso, quasi primaverile, che doveva di lì a poco trasformarsi nel venerdì più nero della storia gallicanese. Fu il caos. Vetri delle finestre e vetrine in frantumi, saracinesche contorte, la gente terrorizzata che fuggiva dalle case e dai negozi, presa dal panico, inconsapevole di quello che stava succedendo.
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a deflagrazione fu udita in tutto il territorio nel raggio di 20 chilometri. Gli abitanti dei paesi collinari come Barga, Coreglia, Monteperpoli furono i primi a capire il dramma, vedendo gigantesche colonne di fumo e di fuoco levarsi laggiù nella valle, nell’area del polverificio, dove nei tre turni vi lavoravano complessivamente circa 120
operai. Terribile il terrore e l’angoscia sul volto dei familiari che correvano col cuore in tumulto lungo quei mille metri che separano il paese dallo stabilimento. Nei loro occhi leggevo il turbinio dei propri sentimenti, misto tra disperazione e speranza. Se per alcuni fu la fine di un incubo, per altri invece ci fu l’agghiacciante conferma della fine dei loro cari, che si tramutò in uno straziante dolore.
L’
esplosione di un «casotto granitore», dove si produceva polvere nera da utilizzare nelle cave di marmo e per munizioni, ne aveva fatti esplodere, «per simpatia», altri vicini, proprio mentre era in corso una visita di alti dirigenti, provocando l’apocalisse. Difficile fu il riconoscimento delle dieci vittime che ricordiamo: l’ingegner Fracesco Nanni, direttore dell’azienda di Spilamberto (Mo), l’ingegner Vero Maionchi di Lucca, direttore a Gallicano, oltre al capofabbrica Pellegrino Consigli e agli operai Mario Da Prato, Giuseppe Simonini, Raffaello Lemetti, Pietro Lucchesi, Andrea Granducci, Eugenio Carli e Alessandro Simonini, tutti di
Gallicano. Numerosi i feriti. Ai primi soccorritori apparve uno scenario raccapricciante. Doloroso fu il compito del medico di condotta, Pietro Stringari, il quale nel ricomporre i poveri resti (ritrovati anche sul greto del fiume Serchio), pianse. Il disastro fu in parte contenuto dal tempestivo intervento dei vigili del fuoco, i quali riuscirono a spengere il furioso incendio che stava minacciando altri settori di lavoro, evitando così un’ulteriore catastrofe. La Garfagnana e la Valle in lutto, piansero unanimi le vittime di uno dei più tragici avvenimenti della storia di questi luoghi.
A
nche il presidente della Repubblica Einaudi inviò al Prefetto di Lucca un telegramma di cordoglio per le famiglie delle vittime. Profonda commozione ai funerali che si svolsero nella chiesa di San Giovanni con una partecipazione di folla immensa, fra la quale erano presenti i rappresentanti di tutte le istituzioni della provincia.
Era il 27 febbraio, giorno di paga Erano in molti, per non dire tutti, gli operai che quel venerdì 27 febbraio 1953 attendevano con trepidazione quel giorno. Il 27 del mese era infatti il giorno di paga, un giorno che doveva essere sereno e tranquillo per le famiglie. Un giorno che, invece, si tramutò in un dolore straziante per tutta la Valle. L’esplosione fu così forte che perfino alcune delle gigantesche banconote da mille lire, quelle contenute nelle valige con le quali i dirigenti erano giunti a Gallicano per pagare gli operai, furono ritrovate anche molto distante, penzolare dalle piante circostanti, testimoni di desolazione e morte.
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da La Nazione del 10 marzo 1972
Costa venti miliardi la “bretella” che ci porta al mare in 15 minuti Forse sarà inaugurata entro l’autunno Alla riscoperta di paesaggi meravigliosi e dove non esiste la nebbia.
Nelle foto : La Polstrada interviene a soccorrere un automobilsta rimasto in panne sulla Bretella.
E
ntro quest’anno sarà aperta una nuova autostrada, concepita principalmente, tale ci sembra il suo ruolo, per dare sfogo ai congestionati traffici che muovono – quando incombe il fine settimana – dall’entroterra al mare e viceversa. È la LuccaViareggio , una “bretella” di ventuno chilometri (pochi ma benedetti) fra la Firenze-Mare e la Sestri Levante-Livorno, un quarto d’ora d’automobile, un’alternativa al percorso obbligato dei fiorentini quando si tuffano in Versilia e vivono un’avventura che, logisticamente parlando, è un po’ un tuffo verso l’ignoto perché si sa quando si parte ma non quando si arriva.
O
ra, intendiamoci, la LuccaViareggio non promette il miracolo di rendere i movimenti dello scambio fra l’interno e la costa scorrevoli e lisci come un fuso; ma insomma, a qualcosa servirà, servirà a distribuire in maniera un po’ meno caotica la massa delle automobili nell’ultimo tratto del percorso,
quando è alle viste il traguardo del mare; e servirà anche a far risparmiare un po’ di benzina e qualche imprecazione residua. In pratica, giunti alla prossimità della barriera di Lucca si potrà svoltare a destra e infilarsi in questa nuova autostrada oppure tirare diritto. Nell’uno o nell’altro caso l’automobilista, reso esausto da una marcia troppo logorante, potrà finalmente dar sfogo ai suoi istinti di leone del volante.
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l discorso diventa meno allegro quando si guarda alla via del ritorno. Le due autostrade a Lucca torneranno ad essere una sola e si riproporrà, nei momenti più impegnati, il mesto scenario della marcia a passo di lumaca. L’autostrada per Firenze dovrà cioè sopportare due assalti ed è chiaro che la barriera di Montecatini sancirà inesorabilmente le solite, lunghissime code della domenica sera. È questo il motivo per cui i fiorentini, quando parlano della Lucca-Viareggio sono sul piede
di guerra della polemica e sostengono che un’autostrada più arretrata, almeno fino a Pistoia, avrebbe avuto una funzione ben più utile. Ma si sa che a volere la Viareggio-Lucca sono stati i lucchesi che invocavano un collegamento veloce con il mare. Altro discorso è dire che mentre l’autostrada sta arrivando, Lucca non ha ancora un progetto di allacciamento di territorio urbano. Il progetto è ancora motivo di accese discussioni e non è possibile dire dove approderà lo svincolo. A far ritardare ulteriormente le cose c’è la crisi comunale. In ogni modo prima o poi una decisione sarà presa…
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lavori della bretella sono molto avanzati. La ViareggioLucca è cosa fatta per un buon settantacinque per cento… Le previsioni: l’intera autostrada (allacciamento di Lucca a parte) sarà pronta entro l’autunno, al massimo entro dicembre. Il primo tratto partendo dalla costa – da Viareggio a Massarosa
– potrebbe già essere aperto al traffico se a Massarosa fosse stato costruito lo svincolo… Questo primo tratto è di 3500 metri. Da Massarosa alla futura barriera di Lucca , ora in costruzione, ci sono altri 13200 metri e infine 2300 metri separano la barriera di Lucca dall’ingresso alla FirenzeMare.
L’
intera autostrada costerà stando alle ultime valutazioni (ma la cifra potrebbe salire) attorno ai venti miliardi, come a dire un miliardo per chilometro. Il pedaggio, secondo una indicazione non ufficiale sarà di 400 lire per una auto di media cilindrata. Sul piano propriamente tecnico la realizzazione dell’opera ha dato e sta dando filo da torcere. Era necessario fare i conti con la montagna perché l’autostrada si arrampica sul Quiesa e ne fora la sommità passando sotto la vecchia e tortuosa Sarzanese, con una duplice galleria di circa un chilometro… Raffaele Giberti
In alto a destra: il titolo e la cartina col quale la Nazione annunciava la realizzazione dell’opera.
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Settembre 1989
Una gran folla acclama l’arrivo di Papa Wojtyla Ad accogliere Giovanni Paolo II il sindaco Franco Fanucchi e il vescovo Giuliano Agresti
di Remo Santini
È Giovanni Paolo II benedice la folla che lo acclama nel centro di Lucca. Accanto a lui nella “papamobile” è il vescovo Giuliano Agresti.
una bellissima giornata di sole. La città viene risvegliata da un’alba limpida, ma in realtà molti non hanno dormito per l’emozione: è il 23 settembre del 1989 e Giovanni Paolo II si appresta a visitare Lucca, dove un bagno di folla si stringerà intorno a lui. Una visita destinata a restare nella storia, e non solo per la popolarità sempre più grande raggiunta da Wojtyla negli anni successivi. Fin dalle prime ore del mattino migliaia di persone si assiepano al Campo Balilla per vedere da
vicino l’arrivo dell’elicottero. E un oceano di facce è anche quello in piazza Napoleone, dove è previsto l’incontro con le autorità civili e religiose cittadine, a partire dall’arcivescovo Giuliano Agresti, dal sindaco Franco Fanucchi e dal presidente della Provincia Leonardo Andreucci. Un programma breve e intenso, che viene rispettato nei dettagli. Sempre tra due ali di fedeli, fermandosi più volte alle transenne a stringere le mani, il Papa raggiunge la Cattedrale, dove vive l’intensa preghiera al Volto Santo e il contatto diretto con i rappresentanti della Diocesi. E ancora l’abbraccio dei giovani in piazzale Arrigoni, dietro il Duomo.
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ubito dopo il Pontefice si reca dalle suore del monastero di S. Gemma, mentre la tappa successiva è quella che rimarrà impressa indelebilmente nella memoria di molti: la S. Messa celebrata allo stadio Porta Elisa di fronte a venticinquemila persone, unite nello spirito di preghiera e nella devozione a Dio. Infine il trasferimento alla casermetta del Villaggio del Fanciullo, dove parla con il volontariato cattolico e il «Ceis».
A
l di là dell’avvenimento in sé, regolato da un rigido protocollo che non impedisce il gigantesco slancio affettivo della gente, la visita di Papa Wojtyla lascia vive nei cuori le parole pronunciate davanti ai lucchesi: parole legate alla necessità della solidarietà sociale e del rapporto tra i popoli. Un messaggio che scuote la città, già ribattezzata come capitale del volontariato e della pace. «Santità - chiude l’intervento rotto dall’emozione del sindaco Fanucchi -, la sua visita ci incoraggia e le diciamo grazie di essere venuto, e le esprimiamo una speranza e un augurio: che lei possa esercitare la sua alta missione ovunque nel Mondo in piena libertà, e che la sua opera possa dare i frutti che i cristiani e tutta l’umanità attendono».
Momenti di intensa preghiera davanti al Volto Santo. L’abbraccio con i giovani nel Piazzale Arrigoni.
A
ccadrà proprio così. Giovanni Paolo II diventerà uno dei pontefici più importanti della storia. La speranza e l’augurio diventeranno, dunque, realtà. Lucca non lo dimenticherà mai.
L’ultimo era stato Pio IX, nel 1857 Giovanni Paolo II arriva a 132 di distanza dall’ultima visita di un Papa nell’arborato cerchio. Ma quanti e chi furono i pontefici a toccare la nostra terra? Si inizia da Benedetto IX che passò da queste parti nel 1038, poi Alessandro II, che fu anche vescovo di Lucca e Sommo dal 1061 al 1073. Anche il suo successore, Gregorio VII, venne qui (nel 1077) accompagnato da Matilde di Canossa. In seguito fu la volta di beato Urbano II, di ritorno dal Concilio di Clermont dove aveva indetto la prima crociata, mentre nel 1107 toccò a Pasquale II. Per venerare il Volto Santo venne poi a Lucca Callisto II (era il 1119), mentre nel 1146 fece visita alla città il beato Eugenio III. Nacque a Lucca, dove vi fece ritorno anche da Pontefice, Lucio III della nobile famiglia degli Allucingoli (era il 1183). Andando avanti, un’altra visita papale in città la si ritrova nel 1386 con Urbano IV, a cui spetta la palma del soggiorno più lungo, ben 9 mesi. E ancora per ben due volte fece visita a Lucca Papa Paolo II Farnese, nel 1538 e nel 1541. Infine, prima di Giovanni Paolo II, l’ultimo pontefice a fare visita a Lucca fu Pio IX nell’agosto del 1857. Ma altri personaggi del mondo ecclesiastico, nel corso dei secoli, non hanno mancato di fare una tappa qui. Ve ne è traccia in numerosi archivi.
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Lucca, città dei santi
Nacque cento anni fa la più famosa “mistica” del ‘900 Gemma Galgani era originaria di Borgonovo nel comune di Capannori Le vengono attribuiti numerosi miracoli
di Vincenzo Pardini
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el 2003, Lucca ha vissuto un grande evento: il primo centenario della morte di Gemma Galgani, proclamata santa nel 1940 da Pio XII e considerata la più grande mistica del XX secolo. Da ogni parte del mondo, pellegrini vennero in visita al suo Santuario, fuori Porta Elisa, poi alle case in cui trascorse la vita: quella in via del Biscione, nel centro storico, che sarà a lei intitolata, dove l’8 giugno 1899 ricevette le stimmate, e a casa Giannini, in via del Seminario, dove ebbe molte estasi e subì le vessazioni sataniche. Satana le rubò perfino i diari. Glieli restituirà dopo due esorcismi del
suo padre spirituale, le pagine annerite, come si vede dalle foto in mostra nel museo del Santuario.
perfino da esponenti del clero, molti la chiameranno «La ragazzina della grazia». Iniziano le sventure economiche. Il padre, farmacista, ha un tracollo finanutto questo è raccontato ziario, poi si ammala e muore. anche da Cecilia Giannini, La famiglia cade nell’indigenza che assistette Gemma sia e iniziano le persecuzioni dei durante le estasi sia durante le creditori. Gemma si rifugia dalle vessazioni su incarico del padre sorelle del genitore. Molto bella, passionista Germano, direttore riceve proposte di matrimonio, spirituale della Santa. La quale ma le rifiuta, adducendo che nacque il 12 marzo 1878 nella vuole essere tutta di Cristo. E frazione di Borgonovo, comune così sarà. Cristo le ha infatti di Capannori. Sarà una bambina detto: «Ti farò Santa, perché prodigio. Mostra subito attitudi- molto mi assomigli». Tra tante ne a studio e preghiera. La fami- sofferenze non le mancano glia, numerosa, si trasferisce nel tuttavia le consolazioni della frattempo a Lucca. Tutto pareva Madonna, che le appare spesandare per il meglio, quando la so, e la presenza dell’Angelo madre Aurelia contrae la malat- Custode, che recapiterà le sue tia del secolo: la tubercolosi. Il lettere dirette al padre spiritua26 maggio 1885, nella chiesa di le senza che passassero dalle S. Michele in Foro, Gemma riceve poste del Regno. Morì a immala Cresima. D’un tratto accade gine di Cristo, l’11 aprile 1903, quanto le cambierà la vita. Una un sabato santo. Molti i miravoce interiore le chiede di darle coli che le sono stati attributi la madre. Risponde di sì, a patto durante i festeggiamenti del suo che prenda anche lei. La voce centenario, e che «La Nazione» replica di no e aggiunge: «Te la ha pubblicato in esclusiva. Chi la porterò in cielo la mamma. Me la conobbe ha raccontato ch’era di dai volentieri?». È l’inizio del suo media statura, ben proporzionadialogo con Cristo; un dialogo ta, di fattezze angeliche, i capelli che diverrà sempre più intenso, castani e gli occhi azzurri. È fino alle estasi e alle stimmate. A stata definita la Marilyn Monroe Lucca, sebbene fosse avversata delle sante.
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Procalmata santa nel 1940, la Galgani (foto grande) ricevette le stigmate e più volte fu sorpresa in estasi. Nel tondo: Elena Guerra che si impegnò per l’educazione religiosa dei giovani.
La beata Elena Guerra che fondò le Oblate dello Spirito Santo Con Santa Gemma e la Beata Maria Domenica Brun Barbantini (1789-1868) Fondatrice delle Suore Ministre degli Infermi di S. Camillo, un’altra donna che ha reso grande la storia di Lucca, ove nacque il 23 giugno 1835, è la Beata Elena Guerra, Apostola dello Spirito Santo. Elena venne educata dalla famiglia alla devozione e alla preghiera. Di notte, di nascosto dai genitori, che non volevano s’affaticasse, in quanto affetta da una malattia sconosciuta, studiava teologia in camera sua, accendendo lumini con l’olio dentro gusci di noce. La devozione allo Spirito Santo era già in lei. Nel 1871 dette inizio alla Congregazione delle Suore di S. Zita, per l’educazione culturale e religiosa della gioventù. Il suo pensiero fu sempre rivolto alle missioni e alla povera gente, a cui faceva visita. Nel 1866 scrisse a Leone XIII esortandolo ad invitare i fedeli a riscoprire lo Spirito Santo. Accolta la sua richiesta, il pontefice l’autorizzò a chiamare le religiose della sua Congregazione Oblate dello Spirito Santo. Muore a Lucca l’11 aprile 1914, un sabato santo. Giovanni XXIII la beatifica il 26 aprile 1956.
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Un vertice di cinque ore tra l’Italia e la Francia Era il 26 novembre del 2006 quando avvenne l’incontro fra Prodi e Chirac. “Lucca città simbolo nei rapporti fra le due nazioni”. Tutto come nel 56 a.C. con Cesare, Pompeo e Crasso
territoriali), Dominique Perben (trasporti) e dall’ambasciatore di Francia a Roma Yves Aubin de la Messuziere. Rispetto al programma, reso noto inizialmente, il vertice (che è stato il 25° incontro bilaterale ItaliaFrancia) ha registrato un rinvio di una quarantina di minuti nella fase iniziale. Stretta tra le ingenti misure di sicurezza - coordinate da Prefettura e Questura il cui obiettivo era quello di regalare un messaggio di «normalità e serenità» - la città ha accolto alle 10.40 la delegazione francese.
di Diego Casali
Nei tondi: Prodi e Chirac si incontranno con le autorità locali e passano in rassegna il picchetto d’onore. Nell’occasione furono accreditati oltre 200 giornalisti italiani e francesi.
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ome ai tempi del triumvirato. Come quando - nel 56 avanti Cristo - Giulio Cesare, Pompeo e Crasso scelsero Lucca quale sede logistica ideale per rinnovare il loro patto di Governo. A distanza di oltre duemila anni, la storia si è, in un certo senso, ripetuta. E la storia ha optato per il palcoscenico del «cerchio arborato» in occasione del vertice intergovernativo del 26 novembre 2006 tra l’Italia e la Francia. Se Cesare (da tempo governatore della Gallia Cisalpina) trascorse l’inverno a Lucca, va sottolineato che i leader del summit hanno scelto una sosta decisamente più breve, condensando i lavori e quindi la permanenza in una sola giornata. Allora, come in tempi più recenti però, la città ha visto la gradita presenza sia degli uomini politici (capi di Stato e Ministri) sia delle loro consorti. Tutti affascinati dalla piccolagrande realtà che li ha calorosamente accolti. «Una splendida città, simbolo storico dei rapporti di fiducia e di amicizia tra l’Italia e la Francia». Queste le parole del presidente transalpino Jacques Chirac. Affermazioni che hanno trovato una eco nel presidente del Consiglio dei ministri, Romano Prodi che, pochi istanti prima
aveva parlato di Lucca come «città simbolo delle relazioni tra le due Nazioni».
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ulla falsariga delle attese, il vertice - durato complessivamente cinque ore - ha spaziato su varie tematiche: dalla politica estera (con particolare riguardo al Medio Oriente, all’Europa e al Mediterraneo) alla Tav, dall’accordo sul trattamento delle scorie nucleari ai programmi culturali, dal futuro dell’Europa alle politiche economiche. La delegazione italiana, timonata dal presidente Prodi, era composta dai ministri Massimo D’Alema (affari esteri), Francesco Rutelli (beni e attività culturali), Arturo Parisi (difesa), Luigi Bersani (sviluppo economico), Emma Bonino (politiche europee), Antonio Di Pietro (infrastrutture) che fra l’altro stava poco bene e aveva 38 di febbre, Alessandro Bianchi (trasporti) e dall’ambasciatore d’Italia a Parigi Ludovico Ortona. La delegazione francese invece, guidata dal presidente Chirac, vedeva impegnati al tavolo i ministri Philippe Douste-Blazy (affari esteri), Renaud Donnedieu de Vabres (cultura e comunicazione), Michèle Alliot-Marie (difesa), Francois Loos (industria), Catherine Colonna (affari europei), Christian Estrosi (politiche
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el Cortile degli Svizzeri si è dato così finalmente spazio agli onori militari e agli inni nazionali. Poi, subito dopo, sono iniziati i colloqui bilaterali nelle sale della Provincia e della Prefettura (a Palazzo Ducale) e del Comune (a Palazzo Orsetti), incontri che sono stati ridotti a circa 30 minuti per recuperare il gap in previsiose degli altri momenti previsti dal cerimoniale: la «foto di famiglia» e la firma degli accordi e quindi la riunione plenaria iniziata alle 11.40 nella sala
Ademollo di Palazzo Ducale. Nel mirino dei grandi, oltre agli argomenti sopracitati, anche il tema dell’approvigionamento energetico così attuale anche ai giorni nostri e quello del futuro della compagnia aerea di bandiera con Alitalia (e il Governo) impegnati a contenere le avances del numero uno di Airfrance Spinetta. Successivamente la mega-conferenza stampa nell’auditorium San Romano, quindi, dalle 14 alle 15.15, la colazione ufficiale, sempre a Palazzo Ducale, dove intorno alle 15.20 sono tornate le signore Flavia Prodi e Bernadette Chirac, che hanno preso il caffè con i due presidenti. Intanto fuori dalla zona off-limits alcuni manifestanti (trasversalmente di destra e della sinistra antagonista) protestavano contro il vertice e le politiche dei rappresentanti dei due Paesi. Tutto è filato liscio fino alla partenza dei leader francesi prima e italiani poi. Qualche contestatore l’ha buttata anche sull’ironia-enogastronomica. Azione Giovani infatti ha offerto a tutti pane di Altopascio e mortadella in piazza San Ponziano. Un “esemplare suino” da 30 chili tagliato a fettine, vago (ma nemmeno poco) riferimento al soprannome dell’allora premier italiano.
Il Medio Oriente, il percorso della Tav, il trattamento delle scorie nucleari e il futuro economico dell’Europa furono gli argomenti trattati durante il vertice a Palazzo Ducale e a Palazzo Orsetti.
I retroscena del vertice: dal menu allo shopping Il dietro le quinte del vertice è di quelli da intenditori. Con numeri e minuziosi particolari da mille e una notte. Due camere speciali nelle sontuose stanze di Palazzo Ducale hanno accolto i leader Prodi e Chirac per i pochi momenti di relax. Grande attenzione alle premiere dames a cui Lucca, e le donne di Lucca, hanno riservato un programma ad hoc. Le consorti dei leader politici hanno assistito alle prove della «Bohème» di Puccini al Teatro del Giglio (andato in scena il 27 e 28 novembre). Dopodiché hanno degustato cioccolata calda, secondo le usanze francesi importate a Lucca dalla sorella di Napoleone e quindi visitato il centro storico distraendosi con un po’ di shopping. Riflettori accesi anche sui preparativi eno-gastronomici del summit. La cura dei menu è stata affidata all’esperienza collaudata di Tony Lazzaroni. A tavola hanno fatto la parte del leone il risotto alla parmigiana, presentato in una forma di grana e ricoperto di tartufo bianco. Poi un’apoteosi di carne con chianina e fagioli conditi dall’olio “bono” e verdure di campo saltate. Dessert decisamente di spicco lucchese con arcobaleno di frutta, castagnaccio e necci con ricotta. Come vini, una selezione di rossi e bianchi mentre per aperitivi e dessert, vini della tenuta del marchese Frescobaldi. Curiosa parentesi: a tavola Chirac ha chiesto a sorpresa un bicchiere di birra... I giornalisti si sono “accontentati” di un risottino servito in una zucca di 310 chili. Per secondo tagliata di chianina con fagioli bianchi, vitella con verdure cotte. Come dolce mousse al cucchiaio, macedonia con gelato, frutta cotta e plateau di formaggi. Ad annaffiare il tutto gli ottimi vini della Lucchesia. A proposito di giornalisti. Il vertice è stato seguito da oltre 220 professionisti italiani, francesi e delle principali agenzie di stampa internazionali. Un vero record, considerando che altri vertici bilaterali hanno avuto, a Roma, una media di 100-120 giornalisti. Ben 15 infine le televisioni in collegamento diretto da Lucca.
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Dal Littorio al Porta Elisa Ecco la storia del nostro stadio Fu inaugurato ufficialmente il 20 gennaio del 1935, ma già vi si giocava dall’ottobre del 1934
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Nel giorno dell’inaugurazione dello stadio la Lucchese sconfisse la gloriosa Pro Patria per due reti a zero. Marcatori furono Ottavi (su rigore) e Giordani.
di Fabio Lenzi
U
na volta era lo stadio del Littorio. Così nacque. E non poteva essere altrimenti, perché figlio del «Ventennio». Del resto le dittature - di qualunque colore - hanno sempre poca fantasia per celebrare loro stesse. Tranne che per le torture (basti ricordare l’uso degli stadi fatto da Pinochet in Cile o quello dei generali argentini con i desaparecidos: campi di concentramento; per non parlare dell’Iran, dell’Iraq o dei regimi del Sud-Est asiatico, Cina compresa). Così, a Mosca, l’impianto principale non poteva che chiamarsi «Lenin» e a Baghdad «Saddam» e via dicendo. E, anche per quello che sarà il futuro «Porta Elisa» (che, forse, andrà in pensione prima che gli si trovi un degno eponimo fra gli illustri rossoneri), la storia non poté essere diversa: come l’Eur, anche lo stadio di Lucca, nel suo piccolo, doveva essere la celebrazione della gloria fascista e richiamava, anche nello stile, con la torre di maratona molto simile all’attuale «Franchi» di Firenze, l’architettura razionalista dell’epoca. Fortunatamente, per quanto se ne sappia, non fu mai teatro diretto di persecuzioni od esecuzioni, anche se, non lontano, sotto le mura, fu trucidato don Aldo Mei dai
nazisti. (E, forse, lo si potrebbe intitolare a lui, visto che lo sport dovrebbe essere dono, pace e sacrificio).
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rogettato a seguito della promozione in serie «B» della Lucchese Libertas, l’attuale stadio «Porta Elisa» fu inaugurato ufficialmente il 20 gennaio del 1935. Anche se, in realtà, già vi si giocava, a costruzione ultimata e collaudata, dal 21 ottobre 1934, quando i rossoneri affrontarono il Pavia, battendolo per 1 a 0, con un gol di Scheer. Curioso notare come una cronaca dell’epoca, sottolinei come quella prima gara, «svoltasi allo stadio del Littorio, di fronte a un’inusitata cornice di pubblico, lieto ed orgoglioso del nuovo campo sportivo, non ha soddisfatto i tifosi». «La partita - chiosa infatti l’anonimo commentatore di allora - non è stata molto bella e, se si toglie il primo quarto d’ora della ripresa, in cui i rossoneri hanno preso il comando delle azioni, si può dire che gli azzurri di Pavia hanno costruito e imposto il loro gioco». Insomma, tutte le epoche si assomigliano e tutti i debutti sono spesso, in qualche modo, criticati. Ne sa qualcosa un lucchese doc come Giacomo Puccini che vide fischiate alla «prima» alcune sue opere che, poi, invece, trionfarono in seguito.
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nche qui, nel calcio degli albori o poco dopo, non bastava vincere nel nuovo stadio. Bisognava anche giocare bene. Notare, a parte le analogie con tante situazioni del football attuale, pure la modernità, in rapporto all’epoca, del linguaggio giornalistico sportivo. Quel commento postumo alla vittoria della Lucchese sul Pavia, nel primo incontro giocato al nuovo stadio del Littorio, potrebbe tranquillamente essere ospitato, con pochi ritocchi, nelle colonne del nostro inserto sportivo di oggi.
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a torniamo agli anni ‘30. E sempre in quel primo campionato cadetto per i colori rossoneri del 1934-35. Se l’inizio ufficiale del servizio del nuovo impianto di Porta Elisa fu con una vittoria, altrettanto avvenne nel giorno dell’inaugurazione ufficiale, il 20 gennaio 1935. Allora, a chinare il capo davanti alla «Pantera», furono i biancoblucerchiati della gloriosa Pro Patria et Libertate di Busto Arsizio. Un rigore di Ottavi e un gol di Giordani sancirono il 2 a 0 per i rossoneri, sotto gli occhi dell’onorevole Adelchi Serena, «vicesegretario del Partito», come scriveva Dino Grilli «e delle principali gerarchie della provincia».
autorevole esponente del Partito nazionale fascista, però, non si trovava a Lucca per caso, né era venuto appositamente solo per l’inaugurazione dello stadio del Littorio. In realtà era stato invitato per presiedere le «gerarchie provinciali» del PNF. Dunque, si era aspettato a «bagnare» ufficialmente il nuovo impianto, già operativo dall’autunno del ’34, proprio per far coincidere il vernissage con l’evento politico. Insomma, in perfetto stile dei regimi di qualunque colore, come dicevamo prima. Lo stadio, cioè, non era solo il luogo privilegiato dello sport, ma lo sport stesso e l’architettura erano e dovevano essere simbolo della nuova Era e strumento di propaganda. E, infatti, in un periodico fascista come L’Artiglio, si declamano le varie opere realizzate dal Partito, tra cui proprio lo stadio del Littorio, con tanto di due belle fotografie di tribuna e gradinata appena costruite. E, curiosamente, nonostante il successo, il solito anonimo commentatore, plaude alla vittoria, sul piano sportivo, ma non al gioco. Dice infatti che «La Lucchese ha superato in modo abbastanza netto il confronto con i biancoblu di Busto Arsizio, ma, la prova fornita domenica allo stadio, non ha troppo convinto. C’è ancora qualcosa che non ingrana nella squadra concittadina e questo qualcosa è nell’attacco». E, dopo aver fatto nomi e cognomi che, per brevità, non riportiamo, invita a fare, per la sfida successiva, qualche «spostamento».
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u ascoltato? Chissà. Intanto la Lucchese, a Casale, non vinse, ma pareggiò. E, poi, perse 3 a 2 a Seregno, nella seconda trasferta consecutiva. Ma, quando tornò allo stadio del Littorio, fu il solito 2 a 0, con Rivolo e Marianetti, questa volta sul Cagliari. Insomma, il futuro «Porta Elisa», intanto, porta... va bene. Alla faccia di tutte le proverbiali critiche tecnico-tattiche. Sale del calcio e della vita. Anche quella lunga di uno stadio che continua. Lui, a differenza della Lucchese, non è, per ora, mai morto neanche una volta. E continuerà ad ospitare, almeno per qualche anno ancora, i nuovi «risorti» rossoneri di oggi.
Lo stadio Littorio fu considerato un esempio di come il fascismo guardava con attenzione allo sport e di come sapeva utilizzare a proprio vantaggio ogni sorta di attività agonistica.
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La Lucchese è vissuta oltre 103 anni (ma già è pronta una giovane erede) di Fabio Lenzi
E’ Nella foto in basso: la rosa della U. S. Lucchese per il campionato 1936-1937. Negli anni Novanta più volte la Lucchese è stata vicina alla promozione in serie A. Fra i suoi allenatori il futuro C.T. della Nazionale Marcello Lippi.
morta da poco. Dopo 103 anni e mezzo. Ma ha già una figlia, nata sulle sue spoglie, pronta (se tutto andrà per il verso giusto) ad ereditarne presto lignaggio e titolo «nobiliare» ufficiale (ma non, purtroppo, la gloriosa matricola «anagrafica», ormai perduta per sempre). Stiamo parlando della mitica «Pantera» rossonera, ovvero, al secolo, Unione sportiva Lucchese Libertas 1905, poi, negli anni ’80 appena trascorsi, trasformatasi in As. Fino all’ignominiosa e misera fine recente, con il fallimento dichiarato dal tribunale il 18 novembre 2008 e la parallela nascita, qualche mese prima, dello Sporting Lucchese di Giuliano Giuliani e soci, erede morale e, presto - asta sul titolo sportivo permettendo -, anche «delfino» effettivo.
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a facciamo, alla moviola, un rapido passo indietro nel tempo. 27 maggio 1905 (data sicura solo per l’anno, assunta, però, ormai, in toto come ufficiale). Come riporta «Lucchese, amore rossonero» di Vincenzo Bonvino, in quei lontanissimi giorni, «due lucchesi rientrati dal Brasile, Vittorio Menesini ed Ernesto Matteucci, insieme a Mario Battaglini e a pochi altri», innamorati del Milan Cricket and Football Club, come si chiamava, allora, la società meneghina, fondarono il Lucca FBC (poi si chiamerà Lucchese nel 1918, ricostituita dopo la Grande Guerra; e, nel marzo 1924, dopo la fusione con la Ginnastica Libertas, Us Lucchese Libertas). Il club (maglie rossonere), dopo i primi passi - proprio nella zona di Porta Elisa, dove sorgerà l’attuale stadio - raggiunse, per la prima volta, la serie «B» nel 1930 e la «A» nel 1936 (rimanendovi tre stagioni di fila), dove, poi,
ritornerà, ininterrottamente, dal 1947 al 1952. La cosiddetta epoca d’oro della «Pantera», negli anni in cui furoreggiava il Grande Torino che perì a Superga il 4 Maggio ’49. E la Lucchese era un po’ il Chievo o, se volete, il Parma di allora, da tutti stimata e fucina di campioni, spesso, poi, ceduti ai grandi club.
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uindi la lenta discesa, gli anni bui e speranzosi (salvo uno spiraglio cadetto nei primi anni ’60) tra «D» e «C» a cavallo dei ’60-’70 e, finalmente, la recente “Era Maestrelli”, in «B». Con la serie «A» sfiorata più volte negli anni ’90 e, tra gli altri, il futuro ct campione del mondo, Marcello Lippi, come allenatore. Poi ancora serie «C» nel nuovo millennio. E la celebrazione del centenario, nel 2005. Mentre ci apprestavamo alle «godurie» (si fa per dire...) dei castelli di cartone dell’ambiguo dottor Giano bifronte Fouzi Hadj.
Nella foto accanto: Il mitico portiere Giovanni Viola che si è spento lo scorso anno a 82 anni. Viola fu portiere della Juventus dal 1945 al 1958, ma agli inizi della carriera aveva anche vestito la maglia della Lucchese.
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