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150 ANNI di STORIA ATTRAVERSO LE PAGINE DEL NOSTRO QUOTIDIANO
SUPPLEMENTO AL NUMERO ODIERNO A CURA DI
Pistoia
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Così nacque il giornale di Bettino Ricasoli Pistoia carbonara e risorgimentale leggeva fin dall’inizio La Nazione Firenze capitale era piena di debiti e a Pistoia aumentavano le tasse Lastricate vie e piazze mentre arriva la luce elettrica I cattolici aprono le Casse Rurali ma i socialisti vincono le elezioni Pistoia fa i conti con l’arrivo dei fascisti Nasce la Provincia di Pistoia (e l’anno dopo viene anche ingrandita) La guerra, i bombardamenti, le stragi Che gambe il signor Roncaglia! Tutti all’Abetone per la Festa della Neve Zeno Colò è medaglia d’oro e così l’Italia torna a sognare Venti corridori arrivano a Pistoia È la prima corsa ciclistica italiana Quando l’AnsaldoBreda aiutò l’Italia a risorgere Dalle auto agli aerei e ai treni Gli oltre 100 anni della Breda Gastone De Anna: “Così feci nascere le redazioni di provincia” Mamma Ebe: finisce in carcere la vicenda della santona La Pistoiese torna in serie A Un delitto, un’alluvione e l’attentato all’Ovovia Supplemento al numero odierno de LA NAZIONE a cura della SPE Direttore responsabile: Giuseppe Mascambruno
Vicedirettori: Mauro Avellini Piero Gherardeschi Antonio Lovascio (iniziative speciali)
PISTOIA
150 anni di storia attraverso le pagine del nostro quotidiano.
Non perdere in edicola il terzo fascicolo regionale che ripercorre, attraverso le pagine de La Nazione, la storia fino ai nostri giorni e i 17 fascicoli locali con le cronache più significative delle città.
Direzione redazione e amministrazione: Via Paolieri, 3, V.le Giovine Italia, 17 (FI) Hanno collaborato: Piero Ceccatelli Lucia Agati Luca Cecconi Alberto Ciullini Paolo Magli Martina Vacca
Stefano Vetusti Alberto Cipriani Alessandro Tonarelli Andrea Ottanelli Enzo Cabella Progetto grafico: Marco Innocenti Luca Parenti Kidstudio Communications (FI) Stampa: Grafica Editoriale Printing (BO)
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COSÌ NACQUE IN UNA SOLA NOTTE IL GIORNALE DI BETTINO RICASOLI Come Pistoia, nei giorni in cui venne fondata La Nazione, guardava a Firenze Una città con una sua storia, un suo accento, e perfino un suo “sinodo” Il “Barone di ferro” giansenista e le lontane memorie di Scipione de’ Ricci
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Pistoia sarà, fino al 1927 quando diverrà provincia autonoma, l’estremo confine del territorio fiorentino in direzione di Lucca. A una distanza di circa trenta chilometri rappresentava la tappa che poteva essere coperta in un giorno dalle truppe a piedi e a cavallo. E nella distanza tra Firenze e Pistoia si svolse nel 1870 la prima corsa ciclistica in Italia.
istoia non era ancora una provincia, e pur con una sua identità molto precisa, una sua storia, perfino un accento tutto particolare, viveva uno stretto rapporto con il capoluogo Firenze. Era, per molti aspetti, il confine della provincia. Trenta chilometri o poco di più, la distanza che fin dal Medio Evo era considerata il percorso da compiere in un giorno, a piedi, o a cavallo. Un giorno di marcia per un esercito, o come accadde nel 1870, per la prima corsa ciclistica in Italia, la giusta distanza per una gara in “velocipede”. Nasceva dunque La Nazione, anzi, nasceva l’Italia, e i pistoiesi guardavano con ansia a quanto avveniva in Palazzo Vecchio e in riva d’Arno. Era ancora presente l’eco di una grande rivoluzione di coscienze collegata alle vicende del vescovo Scipione de’ Ricci. Che aveva trasformato antiche chiese in edifici civili, abolito vari ordini religiosi, sostenuto l’autonomia delle chiese locali. Era un giansenista, e sostenuto inizialmente dal granduca Piero Leopoldo, si permise di compiere scelte al limite dell’eresia; non ultima quella di convocare un sinodo a Pistoia che si mise in aperto contrasto con la Chiesa di Roma, la sua chiesa. Ma poi i pistoiesi si ribellarono, ci furono tumulti, e così nel 1799 Scipione de’ Ricci – al quale nel frattempo era venuto a mancare l’appoggio del Granduca - dovette piegare la testa, ritrattare pubblicamente le sue idee, strappare a fatica un accordo col Papa, ottenerne un perdono e ritirarsi poi “a vita privata”. Ecco, Pistoia alla fine del Settecento era stata anche questo. Un tempio per nuove idee, riforme profonde nel concetto stesso di Chiesa. E forse per questo guardò con attenzione e simpatia al Bettino Ricasoli che da solo, dopo Villafranca, sfidò ogni elemento razionale per perseguire l’Unità dell’Italia. Ricasoli, infatti, fu molto vicino al giansenismo. Anzi, secondo alcuni, durante il periodo vissuto in Svizzera si avvicinò perfino al calvinismo. E comunque gli erano tutt’altro che estranee le idee e
gli obiettivi di Scipione, il vescovo di Pistoia.
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roviamo anche ne La Nazione tracce di questa esperienza? In parte, almeno nei primissimi anni, quando l’attenzione di Ricasoli verso il foglio che aveva creato, fu più netta e costante. Ma sempre, per certi aspetti fino ad oggi, un’ombra di quel sinodo svoltosi a Pistoia la ritroviamo. Nell’idea di una netta separazione fra Stato e Chiesa, nella convinzione, come fu scritto sul nostro giornale nei giorni della breccia di Porta Pia, che “il potere temporale ha congelato in forme precristiane il papato, e dunque, è nel suo interesse che lo si spogli delle necessità di una amministrazione civile.” Un concetto, questo, che sia pure con toni e parole ben diverse, ritroveremo nel Concilio Vaticano II, e che dunque, un secolo dopo, anche la Chiesa avrebbe fatto proprio.
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dunque, nascere con l’Italia e accompagnarla, giorno dopo giorno, fino ad oggi. Nessun altro giornale, come La Nazione, vanta questo primato. E infatti, se anche una testata, la Gazzetta di Parma, sicuramente è più antica di quasi 100 anni rispetto al giornale fiorentino, è anche vero che per lunghi periodi ebbe un altro nome, in altri sospese le pubblicazioni. La storia è nota. L’11 luglio del 1859, nel pieno della seconda guerra di indipendenza, quando le truppe franco piemontesi avevano vinto battaglie di rilevanza enorme, come quella di Solferino, e già si pensava come invadere e liberare il Veneto, all’improvviso francesi ed austriaci firmarono un armistizio ed i Savoia non ebbero la forza per opporsi. E dunque, ecco che al Piemonte veniva concessa quasi per intero la Lombardia, ma il Veneto il Trentino e la Dalmazia restavano agli austriaci, mentre in Toscana sarebbero tornati i Lorena, e in ogni caso si ipotizzava una federazione di stati del Centro Sud sotto la guida del Papa. Alla
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notizia Cavour, dopo uno scontro durissimo con Vittorio Emanuele si dimise. E l’unico a sostenere la causa dell’Italia da unire, restò in quelle ore il capo del governo toscano costituitosi dopo la partenza del Granduca, Bettino Ricasoli appunto.
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a notizia dell’armistizio arrivò a Firenze nel pomeriggio del 13 luglio e i patrioti si riunirono in Palazzo Vecchio dove regnava la rabbia, il caos, la voglia di reagire ma anche un profondo senso di impotenza. E l’unico che dimostrò di avere le idee chiare, ben al di là della logica, delle possibilità offerte dalla diplomazia, si rivelò Ricasoli. E infatti, lui guidava un governo toscano provvisorio con l’unico scopo di arrivare al plebiscito per l’annessione al Piemonte, e se fossero tornati i Lorena tutto sarebbe crollato. Così, dimostrandosi in quelle ore il vero artefice del Risorgimento, ancor più dello stesso Cavour che in qualche modo aveva gettato la spugna, Ricasoli spedì due ambasciatori a Torino e a Parigi per tentare di modificare le cose. Ma nello stesso tempo mandò a chiamare tre patrioti fiorentini, il Puccioni, il Fenzi ed il Cempini, che a suo tempo avevano proposto di stampare un quotidiano in appoggio alle posizioni del governo toscano, e disse loro: “È arrivato il momento, per domattina voglio il giornale.” E a niente valsero le timide proteste dei tre che, comprensibilmente, facevano notare come fossero già le nove di sera e come non sarebbe stato facile mettere insieme i testi e farli comporre in poche ore.
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uccioni, Fenzi e Cempini presero una carrozza e si fecero portare in via Faenza alla tipografia di Gaspare Barbera, un patriota piemontese, e quì cominciò un lavoro frenetico a redigere i testi ed a comporli. Come nelle migliori tradizioni del giornalismo, redattori e tipografi lavoravano gomito a gomito. Un articolo non era ancora concluso e già la prima parte passava ai compositori. Alle cinque del mattino Ricasoli si presentò alla tipografia, lesse le bozze e dette il consenso. Alle dieci, tirate pare in tremila copie, due pagine in mezzo foglio, oggi diremmo formato tabloid, erano in vendita nel centro cittadino. Si trattava di un’edizione senza gerenza, senza il nome dello stampatore, senza il prezzo, senza pubblicità. Praticamente un numero zero. E così si andò avanti fino al 19 luglio quando, finalmente, La Nazione
uscì nel suo primo numero ufficiale, con formato a tutto foglio, le indicazioni di legge, i prezzi per l’abbonamento e per la pubblicità.
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osì, dunque, nacque il nostro giornale. Che conobbe i giorni fausti dell’Italia Unita, e poi quelli pieni di problemi, non solo economici, in cui Firenze fu provvisoriamente capitale. Quindi la questione romana, la breccia di Porta Pia, e insomma tutte le fasi che con alterne vicende portarono alla nascita dello Stato italiano. Ma fu proprio con Roma Capitale che La Nazione dovette modificare il proprio tipo di impegno. Che fare? seguire il governo e il mondo politico fino a Roma, là dove si sarebbero svolte da allora in poi tutte le vicende, e prese le decisioni relative all’Italia? La domanda fu posta ed era più che legittima. Ma fu compiuta una scelta, che di certo non fu di tipo economico: restare. Restare a Firenze, accompagnare la vita della città dove era nata, e dedicare sempre di più le proprie attenzioni anche alla vita quotidiana, a quella che oggi diremmo la cronaca di ogni giorno. Insomma, da grande foglio risorgimentale carico di tensioni ideali, a giornale come oggi lo intendiamo. Con rubriche dedicate alla moda, allo sport, con grandi spazi dedicati alla vita musicale e teatrale. Rese possibile questa scelta di obiettivi un grande direttore, Celestino Bianchi. Che seppe conquistare il pubblico femminile, interessare anche la media e piccola borghesia mercantile, ma soprattutto richiamare intorno al foglio di Ricasoli le migliori firme italiane del momento. Che, del resto, già erano presenti su La Nazione, fin dai primissimi anni. E allora ecco il D’Azelio e il Tommaseo, ecco il Manzoni e il Settembrini, e poi il Collodi, il De Amicis, Alessandro Dumas, Capuana, il Carducci e in seguito anche il Pascoli, ed infinti altri. Grandi firme che sarebbero continuate durante il fascismo e nell’Italia repubblicana fino ad oggi. Da Malaparte a Bilenchi, a Pratolini, ad Alberto Moravia, a Saviane, a Luzi. Dopo aver ospitato Papini,
Prezzolini, Soffici, e gran parte dei letterati delle Giubbe Rosse nel periodo che precede e che segue la grande Guerra.
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ueste le scelte che permisero a La Nazione, pur dovendo affrontare momenti di crisi e di difficoltà, di battere ogni volta le testate concorrenti. Se esisteva una difficoltà di vendita o addirittura di immagine, sempre riuscì a trovare gli uomini e le energie per risollevarsi. Liberale infatti, fu sempre il quotidiano fiorentino, ma di un liberalismo illuminato che sapeva aprirsi ogni volta ai temi di interesse sociale, e per farlo non esitava ad ospitare anche firme lontane dalle proprie posizioni. Così, quando si trattò di presentare ai fiorentini, e commentare, la nascita delle scuole serali, fu chiesto un articolo a un giovane e rivoluzionario poeta, il Carducci. E fu tra i primi giornali, La Nazione di Firenze, a porre sul tappeto il dramma del lavoro minorile, e a pubblicare le relazioni di Sidney Sonnino sulla condizione dei bambini, quelli del Nord Italia che a sette anni lavoravano anche 13 ore al giorno nell’industria della seta e quelli di Sicilia, costretti a starsene chini, senza luce né acqua, nelle solfatare di Sicilia. E ancora, quando si trattò di decidere se trasferirsi a Roma capitale, seguendo le sorti del governo e del re, la spiegazione data ai lettori fu questa. “Noi non vogliamo che Roma attiri a sé
tutta la forza intellettuale. Noi vogliamo che Napoli, Firenze, Bologna, Venezia, Milano, Torino, serbino la loro influenza legittima, portino il peso nella bilancia delle sorti politiche nazionali. Ogni regione ha elementi originali da custodire e nello stesso tempo è sentinella dell’Unità inattaccabile.” Una prosa intelligente, modernissima, attuale ancor oggi, 140 anni dopo.
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n atteggiamento che La Nazione conservò anche in epoche ben diverse. Così, durante il fascismo, pur costretta come tutte le testate a pubblicare le veline del minculpop, non per questo La Nazione si allineò mai totalmente al regime. Tanto da opporsi, allorché il Regime voleva imporre come direttori uomini di assoluta fede a Mussolini. E ospitare firme, come quella di Montale, il personaggio che per il suo antifascismo era pur stato “licenziato” dal Vieusseux. Uno stile, un modo di essere, che la premierà quando, pur con mille problemi tornerà alle pubblicazioni nel 1947. E ancora, quando nel ’68 la realtà italiana dette segni di grande malessere e tutto il nostro modo di essere società fu posto in forse, La Nazione non esitò ad assumere giovani della più varia estrazione politica ed ideologica, anche con provenienze ben diverse da quelle liberali, perché contribuissero ad aiutare la direzione a interpretare quanto stava accadendo.
Bettino Ricasoli (nel tondo) fondatore del quotidiano La Nazione e il vescovo pistoiese Scipione de’ Ricci (foto grande). Il presule fu considerato ai limiti dell’eresia per le sue attenzioni verso il giansenismo. Le stesse che Bettino Ricasoli coltivò negli anni che lo videro in prima linea nella battaglia per l’Italia Unita.
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Pistoia carbonara e risorgimentale leggeva fin dall’inizio La Nazione Caffè, giornali, circoli diversi dividevano i “progressisti” dai “conservatori” Il 92 per cento votò per l’annessione al Piemonte
L’assemblea della Toscana si riunisce a Firenze nel Salone dei Cinquecento di Palazzo Vecchio dopo la partenza del Granduca.
di Alberto Cipriani
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e proprio si vuol mantenere l’usuale termine di “Toscanina” lorenese, non si deve attribuirgli significati dispregiativi o semplicemente diminutivi; perché allora – quando ci riferissimo al precedente periodo ultimo mediceo – dovremmo parlare di “Toscanuccia”. Il governo di granduchi lorenesi (non a caso dalle riforme di Pietro Leopoldo è venuta fuori la Festa della Toscana) si caratterizzò per i toni non autoritari, di corretta amministrazione quasi familiare e comunque più vicina alla gente. Toscanina in questo senso, dunque: che è quello per cui si dice che nelle botti piccole c’è il vin bono. La Nazione nacque nel 1859, l’anno in cui Leopoldo II, l’ultimo dei Lorena, apprese che diversi toscani – ed anche alcuni pistoiesi – avevano aderito alla richiesta d’arruo-
lamento di volontari fatta dal Piemonte, che muoveva in armi contro l’Austria. Scappellato dai presenti, il Granduca lasciò allora Firenze per Vienna. Lui ancora non lo sapeva, ma fu un addio definitivo; che – una volta tanto – avvenne con una rivoluzione pacifica: un cronista scrisse che a mezzogiorno tutto si calmò, perché la rivoluzione andava a desinare.
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ra i prodromi del Risorgimento, in Pistoia, c’erano state iniziative per chiamare a raccolta, in una chiave culturale ed anche in qualche modo “patriottica” (significato che doveva ancora esser chiarito), gli intellettuali, per la diffusione di nuove idee: l’Accademia di Scienze, Lettere ed Arti, e soprattutto la Società degli Onori Parentali ai Grandi Italiani. Circolarono le idee carbonare, ad opera di Bartolomeo Sestini, e quelle
mazziniane della Giovane Italia; spesso ritenute “sovversive” e represse, tuttavia senza brutalità. Poi venne in luce quella che il professor Giorgio Petracchi ha chiamato la “seconda generazione risorgimentale”, che sostituì la prima, generosa ma un po’ folcloristica: ad esempio un giovane, appartenente ad una nota famiglia, Baldistricca Tolomei, girava per la città con la barba tinta in tricolore. Progressisti e conservatori avevano giornali e caffè separati: i primi sedevano solo in un locale sulla Porta Vecchia e leggevano il “Courrier Francais”, i secondi sostavano davanti a San Giovanni ed erano affezionati a “La Voce della Verità”. La seconda generazione è ben incarnata da Niccolò Puccini, organizzatore delle “Feste delle Spighe” nel suo parco di Scornio, benefattore dei fanciulli negletti, primo propugnatore e sostanziale sostenitore della nuova strada per
Bologna (che passò dai suoi terreni) e della Cassa di Risparmio, cauto riformatore anche un po’ paternalistico, ma che auspicava profondi cambiamenti sociali. Si affidava all’agricoltura come comparto economico a tutti gli effetti primario, anche con qualche venatura luddista, e magari cercava una conciliazione fra la religione ed il nuovo corso politico. Giova ricordare che Giolitti venne in città nel 1848.
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istoia si era lasciata alle spalle il brutto periodo della dura occupazione austriaca (1849-1855), ultimo tentativo dell’impero austro-ungarico di tenere la Toscana; e la città aveva avuto i suoi “martiri”. Il giovanissimo scritturale Attilio Frosini era stato fucilato nella fortezza Santa Barbara, dopo una notte di contenzione; un verdetto militare, chiaramente imposto dalla strategia del terrore. Altri due uomini, Sergio
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Bettino Ricasoli consegna al Re i risultati del Plebiscito per l’annessione della Toscana al Piemonte.
Sacconi e Torello Biagioni, erano stati sciabolati e uccisi per questioni banali. I pistoiesi ne avevano abbastanza: una tenace voce popolare dice ancora che la molto diffusa ingiunzione “zitto e buci !”, o semplicemente “buci!”, ricorda l’episodio di un cittadino - di nome Buci, appunto - che faceva la spia per le truppe occupanti. Una sera, fra il lusco ed il brusco, un gruppo di giovani lo prese in mezzo e gli impartì una solenne e memorabile battuta. Da allora, in Pistoia, “buci !” vale come: sta zitto, se non vuoi che ti capiti come al Buci.
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el 1860 fu predisposto il Plebiscito, con due schede che chiedevano o l’unione alla monarchia sabauda od il “regno separato”. Potevano votare tutti i maschi
con più di ventun anni; ed esercitò il diritto di elettorato attivo il 72% degli iscritti. Il 92% dei votanti optò per l’unione ai Savoia; ma non mancarono pronunce, anche consistenti (in centri minori, come Tizzana e Lamporecchio), per l’altro voto. Soprattutto il professor Petracchi, nel suo quarto volume della monumentale “Storia di Pistoia”, ha dimostrato che ci furono alcuni scorretti “incoraggiamenti” per stimolare i recalcitranti. Quindi lo Stato unitario nacque in modo non limpidissimo. Rimase profondo il dissidio fra Stato e Chiesa, la quale nel 1864, con il Sillabo, aveva vietato ai fedeli l’elettorato nazionale attivo e passivo, mentre Pio IX si rinchiudeva in Vaticano, definendosi “prigioniero” del governo italiano. In Pistoia questo duro contrasto si manifestò pubblicamente
attraverso le figure del vicario vescovile e del primo sottoprefetto del Regno. Il vicario, Giovanni Breschi, in realtà reggeva la diocesi, dato che dopo la morte del vescovo Leone Niccolai (1857) per dieci anni non fu nominato un nuovo presule: ed il Breschi si dimostrò ostilissimo al governo nazionale, che accusò di aver rubato al papato il suo regno e contrario ad ogni ipotesi di conciliazione, che pure alcuni preti avanzavano. Anzi, sospese a divinis uno di essi, il curato della cattedrale Elio Babbini; fra le rumorose proteste dei chiodatoli della Sala, che magari non si erano mai occupati di questioni del genere, ma l’avevano a noia che il loro parroco fosse penalizzato.
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i contro, il sottoprefetto del circondario pistoiese, Domenico Tonarelli, rimise a Roma (1862) una risentita relazione contro il Breschi e la “corruttrice influenza dei Parrochi”; scrisse che la religione favoriva “una politica reazionaria antinazionale”, lamentò che le parrocchie non svolgevano un ruolo formativo (si comprende che il funzionario voleva che dessero una mano nel campo dell’istruzione pubblica) a causa di un clero ignorante e settario. “Il partito retrogrado è capitanato dai preti, frati e monache e dai grandi proprietari in gran parte fiorentini e recluta i suoi adepti nel basso clero, fra i contadini e nella classe più abietta della società”. Due posizioni che si dimostravano inconciliabili e non favorivano certo la pacificazione del clima politico. Le condizioni economiche e
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Giovanni Giolitti (nella foto) fu a Pistoia nel 1848. Anche la nostra città aveva avuto i suoi martiri risorgimentali, fra questi il giovanissimo Attilio Frosini fucilato nella Fortezza Santa Barbara.
Qui di lato, nel tondo: lo spoglio dei voti del Plebiscito il 13 e 14 marzo 1860.
sociali del circondario pistoiese, in epoca pre-unitaria, non erano comunque del tutto misere: le relazioni dell’epoca riferiscono di un territorio di circa 75.000 kmq. (in buona parte collinoso e montano), con una densità di circa 135 abitanti per kmq, in cui l’agricoltura era prevalente anche se non molto produttiva, per il frazionamento delle proprietà e la scarsa lungimiranza dei possidenti. I quali preferivano collocare i loro risparmi nei depositi della Cassa di Risparmio, che infatti negli anni Sessanta quadruplicarono. La città, fu scritto in una relazione inviata alla Camera di Commercio di Firenze, cui apparteneva il circondario di Pistoia, era “più industriosa che industriale”; la classe lavoratrice “più laboriosa che ricca”. Di un ceto dirigente abbastanza inerte aveva scritto anche il Tonarelli.
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erò, nel periodo in cui Firenze fu capitale del Regno (1865-1871), Pistoia riuscì a dare un suo buon apporto, sfruttando il da poco sorto settore vivaistico (perché l’architetto Poggi arredò a verde il viale dei Colli e le Cascine con le piante pistoiesi) ed anche con le nuove vie di comunicazione transappenniniche. Pistoia, e
quindi la Toscana, erano già collegate con Modena e Bologna attraverso le due grandi strade lorenesi, la Ximens-Giardini inaugurata nel 1781 e la Leopolda, del 1847; la ferrovia Maria Antonia correva già dalla capitale a Pistoia dal 1851 e fu proseguita per Lucca pochi anni dopo; nel 1864 fu aperta la strada ferrata Porrettana che riuscì davvero – come fu detto – ad “accorciare” l’Italia.
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el 1777 il territorio pistoiese era stato amministrativamente ripartito in quattro Cortine (che prendevano il nome dalle porte cittadine), in Podesterie e Comunità, compresa quella civica di Pistoia. Quest’ultima era isolata non solo dalle mura, ma anche dalla cinta daziaria che la penalizzava sotto il profilo economico. Il censimento demografico del 1871 mostrò che la città aveva 12.900 abitanti, un quarto dei quali “senza professione”. Fra gli occupati, troviamo gli acquaioli, i chiodatori, i barbieri, bettolieri, caffettieri, chifellai, commercianti vari, le cucitrici a domicilio, circa 90 ecclesiastici, più di 100 religiosi conventuali, più di 500 domestici, fornai, impagliatori di fiaschi, funai (tipica specializzazione pistoiese), giardinieri
(qualcuno aveva già cominciato ad impiantare un piccolo vivaio), addirittura 350 impiegati (soprattutto in ferrovia, per la già attiva Porrettana, ma almeno 90 in Comune), 85 maestri e precettori, 64 copisti (la popolazione scolastica era il 3% della totale), 17 prostitute (due delle quali pietosamente comprese nella vasta categoria fra i 30 ed i 60 anni). La riunificazione delle Cortine con il centro avvenne nel 1878.
1866: QUANTA FATICA PER L’ACQUEDOTTO Vene di abbondante e purissima acqua sgorgano da una galleria appena scavata per costruire la Porrettana. L’idea è di convogliarla a valle e dare finalmente un acquedotto a Pistoia, dove i pozzi erano inquinati e malsani. Il sindaco Pietro Bozzi però dovette fare i conti con la città, refrattaria all’impresa: i possidenti locali, timorosi delle espropriazioni e con l’intento di sfruttare per sé la risorsa idrica, mossero una guerra spietata al sindaco e la banca locale negò il mutuo al Comune. I soldi arrivarono da un altro istituto di credito ma il sindaco dovette garantire di persona il prestito accollandosi una pesante fidejussione. Nel 1873 l’acqua arrivò in città e Bozzi fu acclamato come “benemerito” dal consiglio comunale.
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Economia
Firenze capitale era piena di debiti e a Pistoia aumentavano le tasse La grave crisi finanziaria del 1870 Il sindaco Pietro Bozzi costretto ad implorare il governo romano perché non gli vendesse il municipio di Alberto Cipriani
Il palazzo del comune di Pistoia (foto) fu edificato come residenza dei “Signori Anziani e del Gonfaloniere di Giustizia” . I lavori iniziarono nel 1294 nell’area del “palatium comunis” la cui esistenza è documentata per la prima volta nel 1211.
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ll’inizio degli anni Settanta dell’Ottocento, il Comune capoluogo aveva dovuto affrontare e superare una grave crisi finanziaria, che l’accurata relazione alla Giunta dell’assessore al bilancio Luigi Bargiacchi ha documentato. Erano cadute anche su Pistoia le spese obbligatorie e straordinarie dell’unificazione: scuole, sanità, servizi vari, ecc.; ma anche per cerimonie e festeggiamenti ai nuovi sovrani. Il Comune vi aveva fatto fronte assumendo debiti, e, riscosse le imposte nazionali. Aveva pensato di rivalersi con forme compensati-
ve. Ma fu addirittura minacciato di esecuzione forzosa, come un qualunque debitore insolvente: ed il sindaco dovette correre a Roma per non farsi vendere all’incanto il palazzo e gli arredi comunali.
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l sindaco era Pietro Bozzi, avvocato, insegnante di materie giuridiche nel Collegio Forteguerri, amministratore di Pistoia (prima assessore, poi primo cittadino) dal 1866. la sua opera più meritoria, quella per cui è stato ricordato con l’intitolazione di una via del centro storico, è la costruzione dell’acquedotto cittadino. Opera assolutamente necessaria;
perché – l’aveva rilevato anche lo scienziato Leonardo Ximenes, in epoca lorenese – i pozzi pistoiesi erano inquinati dalle “più malsane e fetenti materie”; ed infatti alla metà dell’Ottocento c’era stato il colera. Durante i lavori della Porrettana, erano emerse da una galleria vene di purissima acqua; logico quindi attingervi per portarla in città.
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a i possidenti locali, timorosi delle espropriazioni e con l’intento di usare a loro scopi la risorsa idrica, mossero una guerra spietata al sindaco: sostennero pubblicamente che si andava verso una spesa “col capo nel sacco”, vantarono i loro diritti e privilegi, arrivarono a mettergli contro gli acquaioli che vendevano in città l’acqua
dello Specchio, una buona ma periferica fonte. Furono in grado di condizionare le scelte della Cassa di Risparmio, il cui Consiglio era da essi dominato: e quindi di negare il mutuo al Comune. Allora il Bozzi si rivolse ad una banca concorrente (quella che poi diverrà la Banca Toscana) ed ottenne i soldi necessari, ma garantiti da una sua, cospicua fidejussione. Così nel 1873 l’acqua arrivò al serbatoio principale di Capostrada e da lì fu diramata verso San Francesco e nelle tre direttrici cittadine. Quando Pietro Bozzi fu proposto per la riconferma, rifiutò ed indicò come suo possibile successore il matematico Enrico Betti. Nel 1878 il Consiglio comunale lo acclamò “benemerito del paese”.
Il sindaco Pietro Bozzi ebbe tra i suoi meriti quello di fornire Pistoia di un acquedotto. Seppe anche aiutare la città a superare la grave crisi finanziaria del 1870. In quei giorni il Municipio rischiava di essere venduto all’incanto assieme agli arredi comunali.
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Lastricate vie e piazze mentre arriva la luce elettrica Dal 1850 comincia l’ammodernamento della città Alla fine dell’0ttocento la prima industrializzazione di Pistoia
di Alberto Cipriani
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L’illuminazione arrivò nel 1897. La rete pubblica partì da piazza del duomo e si allargò progressivamente alle vie cittadine. Le lampade erano disposte a una distanza fra i trenta e gli ottanta metri.
ella seconda metà dell’Ottocento si era ammodernato il volto cittadino: già dal 1850 erano state lastricate diverse vie e piazze (compresa la piazza del Duomo) e poi venne ricoperta la gora davanti alla Porta Vecchia, che serviva un antiestetico lavatoio sul Canto al Pizzicore. Tanto per modernizzare la città, un pudibondo amministratore pensò bene di cambiare questo nome, che fin dal Medioevo faceva riferimento ad una lì esistente “stufa”, ed a quel certo fremito d’eccitazione di chi vi andava come cliente. Infatti le “stufe” medioevali (ce n’era anche una seconda nella via che ancora porta questo nome) erano luoghi ameni in cui uomini e donne, nudi e con il conforto di cibi stuzzicanti, stavano a mollo nell’acqua calda. E nessuno poteva indagare cosa succedeva sotto la superficie… Ora, abolito lo spiritoso toponimo, dobbiamo contentarci di via Puccinelli (un oscuro linguista del passato).
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cavallo fra l’Otto ed il Novecento avvenne la prima industrializzazione di Pistoia; si formò – per dirla con Luciano Cafagna – la sua “base industriale”. La stagione delle esposizioni si svolse dal 1833, nel 1854 favorì la partecipazione locale alla grande “Esposizione dei prodotti naturali ed industriali della Toscana” (preparatoria di quella universale di Parigi, dell’anno successivo); e si concluse con la vasta Mostra Circondariale del 1899, che occupò con i suoi padiglioni tutta la piazza San Francesco e debordò nel convento delle monache da Sala (ora Liceo Classico).
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ueste manifestazioni avevano messo in moto una politica che oggi definiremmo di marketing: c’era infatti una Pistoia agricola, una agricolo-specializata ed anche una artigianoindustriale. Per esempio, era conosciuta la qualificazione delle carrozzerie: elemento principale per cui nel 1905 la San Giorgio di Genova scelse Pistoia per impiantarvi una nuova fabbrica di un prodotto modernissimo: l’automobile.
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el 1897 arrivò l’illuminazione pubblica elettrica, che sostituì quella a gas; la rete pubblica serviva piazza del Duomo e le principali vie cittadine con lampade disposte ad intervalli fra i 30 e gli 80 metri. La ditta che aveva vinto l’appalto – la Banti e Torrigiani, la cui centrale a carbone era nella strada non a caso intitolata ad Antonio Pacinotti – si aspettava moderne applicazioni in campo industriale.
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i fu infatti, nei primi del Novecento, un progetto che, se si fosse realizzato, avrebbe anticipato di un secolo quello dei collegamenti dell’attuale “area metropolitana”. Si trattava della tramvia elettrica,
Nei tondi: una delle prime centrali elettriche italiane databile verso la fine del 1800 e un’immagine di cavi elettrici stesi sulle pareti di un palazzo ottocentesco.
esistente fra Lucca e Monsummano, fra Firenze e Poggio a Caiano; terminali che sarebbero stati uniti attraverso Pistoia, con una linea che in città non avrebbe dovuto superare – per ragioni di prudenza! – i 10 km all’ora, ma nelle “tratte libere” avrebbe potuto spingersi ai 20. II progetto tramontò col primo decennio, quando cominciarono a soffiare venti di guerra.
N
el 1904 il presidente della Camera di Commercio di Firenze rimise al ministero una relazione “per servire allo studio dei fenomeni economici verificatisi”. Tutto sommato, Pistoia non se la cavava male: il suo grado di industrialità (38, 5%) superava quello globale della provincia fiorentina (31,7%); il tasso agricolo pistoiese era naturalmente ancora superiore (oltre 50%),
però si stavano affermandosi numerose manifatture.
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erto, come dimostra la relazione del presidente della sezione pistoiese dell’Opera dei Congressi, Alberto Chiappelli, lo sfruttamento del lavoro operaio, con particolar riferimento a quello delle donne e dei ragazzi, era molto diffuso e pesante.
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I cattolici aprono le Casse Rurali ma i socialisti vincono le elezioni Nel 1907 la chiesa locale organizza la prima Settimana sociale Le aperture della Rerum Novarum e la settimana rossa
di Alberto Cipriani
N Nel 1913 con le prime elezioni a suffragio universale (riservate agli uomini) votò soltanto il 60% degli aventi diritto. Vinse di misura il “Blocco Costituzionale” composto da liberali e cattolici.
el 1907 la diocesi pistoiese accolse la prima Settimana Sociale dei cattolici, nella quale – come ha dimostrato nella sua recente commemorazione l’intervento del professor Petracchi – non mancarono problemi e pecche; comunque, con la presenza di uomini come il Toniolo ed altri specialisti, di lì a poco si riuscì ad introdurre anche a Pistoia le istanze sociali della Rerum Novarum. Infatti questa è l’epoca in cui preti coraggiosi come Don Orazio Ceccarelli e Don Dario Flori misero in piedi le Casse Rurali, concorrendo potentemente ad alleviare la drammatica situazione del mondo rurale. Flori, il popolare Don Sbarra, organizzò sindacalmente – anche con l’arma dello sciopero – le migliaia di trecciaiole della campagna, che lavoravano a domicilio la paglia per cercar di arrotondare il magro reddito familiare, indegnamente sfruttate da industriali e fattorini. Quelle del 1913 furono le prime elezioni politiche a suffragio universale (solo maschile): in Pistoia gli elettori aumentarono da 11 a 38.000. Ne votò solo il
60%; e per la prima volta ci fu un successo socialista (6.000 voti) che allarmò la sempre egemone classe conservatrice. L’anno dopo, nelle amministrative, nel Comune capoluogo si fronteggiarono il “Blocco costituzionale” (liberali e cattolici) ed il “Blocco popolare”, che univa le forze di sinistra: il primo vinse, ma di misura (33 consiglieri su 60). Ed il Comune di Lamporecchio fu conquistato dai socialisti.
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l periodo era turbolento, contrassegnato dalla cosiddetta “settimana rossa”, con disordini anche sanguinosi in buona parte della Toscana. Si arrivò alle politiche del 1919, in cui i socialisti nel circondario di Pistoia sfiorarono la maggioranza assoluta (49%) e la raggiunsero nel capoluogo (55%); la seconda forza politica fu quella dei cattolici che avevano superato il non expedit (24 e 22%), mentre i liberali crollarono al 21 e 17%. Un vero e proprio rivolgimento politico; è evidente che se le due componenti popolari si fossero messe insieme, o accordate (oggi si chiamerebbe un centro sinistra, con o senza trattino), avrebbero sbarrato il passo al nascente Fa-
scismo. Ma ogni collaborazione fu impossibile; nello stesso anno si manifestò il fenomeno del “bocci-bocci” (banalizzazione semplicistica della voce “bolscevismo”), cioè dell’esproprio proletario di alcuni negozi da parte di guardie rosse, nel senso che erano fornite di un bracciale di questo colore, dato dalla Camera del Lavoro. Gli spacci che il Governo aveva messo in piedi durante la guerra erano stati chiusi, la gente aveva fame e l’esempio della Rivoluzione russa spingeva all’azione.
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l fatto grave fu che vennero saccheggiati solo i negozi e magazzini i cui proprietari, buoni liberali come il Lavarini, fidando nell’azione pubblica avevano consegnato le chiavi al sottoprefetto; ed invece risparmiati quelli che si erano rivolti alla Camera del Lavoro.
La quale agì, ha scritto lo storico Renato Risaliti, come un vero e proprio soviet russo. Cominciarono discorsi e proclami in cui per la prima volta appariva la parola “fascio”; ad esempio questo ordine del giorno inviato al sottoprefetto da alcuni benpensanti, pubblicato su La Nazione: “Proprietari, professionisti, industriali, commercianti riuniti in solenne assemblea, mentre deliberano costituirsi in Fascio Ordine e Libertà, per quanto fidenti energia governo contro insane ribellioni, pongonsi Vostra disposizione per qualunque evenienza, pronti al sacrificio pecuniario e personale”.
Nei tondi: Don Dario Flori, il popolare Don Sbarra (in alto) che organizzò in sindacato le trecciaiole (in basso).
IL PRIMO MAGGIO? “QUI TUTTO PROCEDE TRANQUILLO” Siamo alla vigilia del Primo Maggio, ( anche se La Nazione pubblica il 2, si tratta di una corrispondenza del 30 aprile) e ovunque si minacciano disordini e cortei. La Nazione fa così una “carrellata” in tutte le province toscane per capire come veniva affrontata la giornata dei lavoratori nelle varie città. Quella che segue è la cronaca arrivata da Pistoia. Quì tutto procede tranquillamente. Gran parte degli operai domani lavorerà. Fors’anco lavoreranno tutti. Per non distogliere gli operai dal lavoro la Commissione dirigente ha stabilito di riunirli alla conferenza la sera ad ore 8. Il manifesto convocatore che , tolte alcune frasi di polemica è ispirato a sentimenti nobili e dignitosi ha fatto eccellente impressione. Il muncipio, l’autorità politica, gli operai, chi li dirige, gli altri cittadini, insomma tutti pare che siansi dati la intesa di festeggiare la giornata di domani con manifestazioni generose e degne del popolo libero, civile e intelligente. Stasera, come al solito, si festeggia la vigilia di Calendimaggio con suoni e canti popolari: tutti tranquilli, tutti allegri. Credo poter dire: oh se in questa occasione fosse Pistoia tutta l’Italia. Sono molto festeggiati i sergenti del 58° fanteria signori Ottonelli, Fondelli e Merlini (quest’ultimo pistoiese) che il 27 di qui andarono a Siena (chilometri 110) in 23 ore, guadagnando un’ora sulle scommesse. da La Nazione del 2 maggio 1891
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1921
Pistoia fa i conti con l’arrivo dei fascisti Due colonne partono dalla nostra città per la Marcia su Roma Podestà un nipote del vecchio sindaco Pietro Bozzi
di Alberto Cipriani
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l Fascio di combattimento di Pistoia fu costituito il 22 gennaio 1921, nelle elezioni politiche dello stesso anno il Blocco Nazionale (liberali e fascisti) ottenne il 38%; socialisti e comunisti, insieme per l’ultima volta, il 40%; i popolari il 20%. Destra e sinistra erano ormai sullo stesso livello; ma la seconda era minata dall’ormai prossima scissione di Livorno. L’ago della bilancia avrebbe potuto essere il Partito Popolare, che però non poteva – anche nell’accostamento di alcuni programmi – che rimarcare la grande diversità ideologica. Da allora, per il Fascismo passato da movimento a partito, tutto fu più facile: era stato eletto alla camera un esponente del ceto agiato liberale e massone, Dino Philipson; presto sostituito da chi aveva militato nel primo squadrismo.
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i impose fra tutti il giovane studente Enrico Spinelli, fautore di un fascismo duro e puro. Durante la marcia su Roma (ottobre 1922) la prima delle due colonne pistoiesi che si recarono nella capitale fu da lui capitanata: difficile stimare, dai documenti residui più volte in seguito manipolati, quanti e quali siano stati gli “antemarcia” locali. Forse non più di quattrocento; giova però ricordare che un rapporto ufficiale inviato a Roma aveva indicato il numero degli aderenti al nuovo partito in 3.291 unità.
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pinelli si riconosceva nel pensiero – se così si può dire – di Farinacci; ma dopo la cosiddetta “fase liberistica” del Fascismo, l’assassinio di Matteotti (1924) e l’uscita delle
I Balilla imparano ad usare i fucili durante una esercitazione.
leggi speciali cui si fa risalire l’avvento del vero e proprio regime (1926), Mussolini ormai raccoglieva il consenso dei ceti borghesi. Cadde Farinacci e con lui, in Pistoia, lo Spinelli, fulminato dalla significativa motivazione di “deficienza nel suo atteggiamento politico”.
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nche in ambito pistoiese iniziò l’epoca del Fascismo “in doppio petto”. Infatti fu nominato dal centro (non più eletto dagli elettori) come podestà un avvocato ex liberale, nipote del già citato sindaco Pietro Bozzi, quello che aveva fatto l’acquedotto. Leopoldo Bozzi divenne anche capo della Federazione fascista; assommando così le cariche
amministrative e politiche, non occasionalmente unite.
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distanza di tempo e sulla scorta di altri esempi, sembra di capire che era stato destinato come ras del nuovo Fascismo, come Pavolini a Firenze, Scorza a Lucca, Ricci ad Apuania (poi Massa Carrara), ecc. Erano uomini più che determinati (Scorza, tanto per dire, fece ammazzare Amendola in quel di Montecatini; sotto il Bozzi si riunì il primo Tribunale speciale, che condannò alla fucilazione il bracciante Della Maggiora a Ponte Buggianese; Pavolini – detto “Buzzino” – arrivò fino all’ultima Repubblica di Salò; però abili nel mediare fra le istanze che venivano dall’alto,
non di rado cervellotiche, e le esigenze locali. Basterà pensare a come Pavolini seppe promuovere Firenze. Leopoldo Bozzi poteva incarnare una figura del genere; a lui fu accreditata, dallo stesso Mussolini, la costituzione della Provincia di Pistoia, sostenendo falsamente, come poi si è visto, ma autorevolmente, che tale dignità era stata in epoca granducale tolta (dopo i tre anni in cui il circondario era stato fatto Prefettura) per il grande patriottismo e la volontà unitaria mostrata dai pistoiesi.
Le attività dei giovanissimi furono anche regolate, dal 1928 nell’ambito del Coni.
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1927
Nasce la Provincia di Pistoia (e l’anno dopo viene anche ingrandita) L’aggiunta dei comuni della Valdinievole Lo strano incidente che costò la vita al podestà Leopoldo Bozzi
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l Fascismo locale ebbe quattro testate, la più importante fu quella de “Il Ferruccio” (19321944) che, dopo le vergognose leggi razziali del ’38, ospitò articoli di adesione alla campagna promossa dall’ufficio centrale di Demorazza. Furono condotte iniziative stupidamente e crudelmente vessatorie; ma più grave fu la richiesta che fossero censiti tutti gli ebrei che si trovavano nel territorio provinciale. Cosa che fu utile ai nazisti, durante la Repubblica di Salò: perché un fascicolo dell’Istituto Storico della Resistenza di Pistoia ha dimostrato che ne furono catturati e deportati ben 79, e tornarono in cinque.
Chiesa e campanile di un paese della Valdinievole (in una foto dell’epoca). Dopo la messa domenicale la gente si raccoglie sul sagrato.
di Alberto Cipriani
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a nuova Provincia nacque nel 1927; così piccola che l’anno dopo fu ingrandita con l’aggiunta dei comuni della Valdinievole: e Carlo Sforza, autorevole capo valdinievolino, dovette ingoiare il rospo. Bozzi ebbe dunque un buon esordio per le sorti del Fascismo, che raccoglieva consensi, anche se – sembra di capire – alquanto fittizi. Per esempio, i sindacati fascisti sostennero che gli operai della San Giorgio avevano “spontaneamente” chiesto la riduzione delle loro paghe per concorrere allo forzo nazionale di portare la lira a quota 90 (1926). È lecito nutrire qualche dubbio su questa “spontaneità”.
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l fatto è che Leopoldo Bozzi, che aveva iniziato l’opera di corredare la neonata Provincia delle necessarie strutture, civili e politiche, visitando il cantiere della Casa del Balilla (in piazza San Francesco, edificio costruito dagli architetti Fagnoni e Michelucci), ebbe un incidente che lo portò a morte (1928). Ci fu il cordoglio unanime di tutta la stampa, e forse anche qualche sospetto, subito fugato. Certo che da allora il Fascismo pistoiese, privato del suo preconizzato uomo forte, si avvitò nella spirale di quattordici federali, nel corso dei rimanenti anni del regime.
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ersonaggi meno autorevoli, spesso venuti da fuori, attenti più agli ordini dall’alto che alle necessità locali, spesso divisi fra la nostalgia del movimento originario (lo “spinellismo”, si chiamava a Pistoia) e gli ordini che fioccavano dal centro.
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el Fascismo pistoiese, singolare impasto di autoritarismo e provincialismo, si condussero tutte le “battaglie” promozionali imposte: quella demografica, del ruralismo (il grano fu perfino seminato in piazza d’Armi: si può immaginare con quali brillanti risultati),
della riforma scolastica secondo gli schemi del ministro Gentile. Politiche che furono commentate con qualche battuta, più di pistoiesità che di dissenso, vien fatto di dire. Quando gli universitari del GUF, stufi del ruralismo di maniera, sentirono cantare, in un varietà del Politeama (dove erano andati per vedere le gambe delle ballerine), la stucchevole canzoncina “Campane / ripetete a costoro / che la terra dei campi / vale più di un tesoro”, cambiarono l’ultimo verso ed urlarono: “se la vanghino loro!”.
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scuola un irriverente maestro, continuamente pressato dal direttore didattico perché i ragazzi eseguissero canti educativi – chiesti dalla riforma Gentile - disse aver preparato il “canto del lavoro”. “Piglia l’incudine piglia il martello”, gorgheggiarono i ragazzi, cui era stato raccomandato di fare un bello stacco su quel “cu”. Il direttore non fece una piega: “Ho capito”, disse, e girò i tacchi.
Contadini dell’Alta Valdinievole posano per una foto ricordo. Carlo Sforza, l’autorevole leader della Valdinievole, inutilmente si oppose all’annessione nella provincia di Pistoia.
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La guerra, i bombardamenti, le stragi Mille gli edifici colpiti, centinaia le vittime, l’economia in ginocchio La San Giorgio simbolo della rinascita
di Alberto Cipriani
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a guerra portò molti guai, per i richiamati e, sul fronte interno, per i cinque bombardamenti aerei; il primo dei quali, il più tremendo, fece 140 vittime, compresi molti bambini, fra cui i cinque fratellini Zanzotto. La fine del conflitto fece registrare 200 fabbricati distrutti ed 800 resi inabili. La fabbrica della San Giorgio fu duramente colpita. Sembra quì appena il caso di citare, perché molta pubblicistica locale specializzata se ne è occupata (basti citare i testi dell’Istituto Storico della Resistenza), il biennio fino al 1945, contrassegnato dall’occupazione tedesca, la drammatica guerra civile, le stragi (Montale, padule di Fucecchio, San Lorenzo, ecc.).
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a ricostruzione cominciò proprio dalla San Giorgio, la fabbrica emblema della vocazione industriale pistoiese;
una vocazione che era stata artatamente compressa e mortificata durante il ventennio, e che esplose nel primo dopoguerra. Allora, come testimoniato dai censimenti, si verificò la vigorosa crescita della piccola impresa, nei settori che sono stati definiti “tipici” delle manifatture locali: tessitura, calzature, filati, prodotti alimentari, vestiario, sughero, plastica, mobili, legno in genere, ecc. L’agricoltura tradizionale si contrasse, ma avanzò potentemente (decuplicando la superficie a coltura) quella specializzata dal vivaismo.
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u il periodo del boom economico, con alcune crisi congiunturali e, nelle campagne, con lo sviluppo di quella che fu definita “la cultura del telaio”: in tutte le sue connotazioni positive (crescita dei redditi per la conduzione di una vita più accettabile e nella visione “moderna”) e negative (forme di autosfruttamento e sfruttamento, lavoro nero). Anche i consumi cambiarono: la legge di Engel, che mostra
la riduzione della percentuale destinata alle spese alimentari, quando cresce il reddito complessivo, ha messo in evidenza che siamo arrivati ad appena il 15% destinato alla tavola, mentre si sono aggiunte spese che prima magari neanche venivano immaginate.
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ra – ma non da ora – siamo nel clima della cosiddetta globalizzazione, il che, com’è ben noto, comporta nuovi problemi. Al localismo studiato dal CENSIS si è sovrapposto il neologismo del global-local, all’industriale il post-industriale, ai servizi tradizionali quelli del terziario “nobile”, o quaternario, come qualcuno l’ha chiamato. Un processo non semplice, per l’attuale Pistoia, se si pone mente a come si è formata ed ha sviluppato la propria recente economia. Ma forse può aiutare il riferimento alle sue radici, se si segue la nuova dottrina glocal. Ha scritto Ralph Dahrendorf: “Si può vivere la globalizzazione solo basandosi su solide radici locali”.
La città fu bombardata per cinque volte. Nella prima incursione le vittime furono 140, fra queste i cinque fratelli Zanzotto. Alla fine del conflitto duecento fabbricati rimasero distrutti e ottocento gravemente colpiti. Fortemente danneggiata anche la fabbrica della San Giorgio (foto in basso).
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da La Nazione del 4 febbraio 1870
Che gambe il signor Roncaglia! Cronaca di una scommessa vinta da un podista del Jochey Club Tra Firenze e Pistoia in meno di cinque ore
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ltroché velocipede…! Siamo addirittura agli uomini dal piè veloce, agli Achilli del secolo decimonono si rinnovano i miracoli d’Atlanta, lasciando da parte la favola e la mitologia si ripetono a Firenze le meravigliose prove di que’ celebri camminatori americani dai garetti d’acciaio, che empirono del loro nome tutti i giornali della grande repubblica.
I
l signor Roncaglia, membro del fiorentino Jochey Club, si sentì giorni orsono così forte in gambe da scommettere che sarebbe andato in cinque ore, e senza mai fermarsi, da Firenze a Pistoia per la via del Poggio a Caiano. La scommessa fu accolta dal signor Sebastiano Martini – Bernardi, uno degli sportsmen più emeriti ed eleganti della capitale, che depositò le sue brave duemila lire, e scelse a giudici il Conte Spine di Rimini e il signor Otley di Firenze. Martedì a mezzogiorno in punto, il signor Roncaglia partì tranquillamente dalla Porta al Prato, seguito a poca distanza da due carrozze in una delle quali sedevano i due giudici, e nell’altra lo stesso signor Martini.
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rentatré chilometri di strada sono un bel tratto in verità, e non pareva possibile che in cinque ore alcuno riuscisse a percorrerli a piedi né erano pochi coloro che avrebbero volentieri tenuto le parti del signor Martini.
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nfatti, sul principiar della prova, tenuto conto dei primi chilometri percorsi in un dato spazio di tempo, si pronosticava che l’ardito camminatore sarebbe venuto meno al difficile compito, e le sue duemila lire correvano un gravissimo rischio.
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a grado a grado, e chilometro a chilometro l’esercizio sembrava sciogliere e rafforzare i muscoli del signor Roncaglia, che cominciò ad affrettare il passo, a precorrere le carrozze, a divorare la via, tanto che giunto presso alla metà del suo viaggio poté rallentare la corsa, e passeggiarsi quasi a diporto gli ultimi tre o quattro chilometri presso Pistoia. Le cinque pomeridiane non erano ancora scoccate e il vincitore entrava da Porta Firenze nella città del Leoncino. Le duemila lire del signor Martini erano definitivamente perdute… Ginnastica, marcia e puglilato erano fra gli sport che andavano per la maggiore in questi anni. I boxeur ancora usavano le mani nude, i marciatori invece indossavano pantaloni lunghi fino alle ginocchia. Per tutti - come dimostrano queste immagini di due atleti dell’epoca - sguardo fiero e immancabili baffi.
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da La Nazione del 28 febbraio 1934
Tutti all’Abetone per la Festa della Neve
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iamo nel 1934, nella pagina sportiva La Nazione accoglie una disciplina fino ad allora trascurata: lo sci. Sotto il titolo “Una grande giornata di sport all’Abetone” e col sottotitolo “La Festa della Neve i campionati toscani”, vengono presentate le foto dei campioni in carica: Vittorio Chierroni e Rolando Zanni, Gualtiero Petrucci e Gino Seghi. Il tutto è inserito nell’articolo che riportiamo integralmente che presenta la manifestazione
Fu negli anni Trenta che anche il fascismo scoprì lo sport della neve. Nella pagina de La Nazione qui riprodotta la foto dei campioni regionali di sci Vittorio Chierroni e Rolando Zanni; Gualtiero Petrucci e Gino Seghi.
Indetta dal Comitato del Turismo e in accordo con lo Sci Club Abetone e con l’O.N. Balilla domenica prossima si svolgerà all’Abetone la festa della neve, la manifestazione annuale che ha sempre raccolto il pieno successo. Contemporaneamente si svolgeranno pure i campionai regionali per gli iscritti all’Opera Balilla e a questa manifestazione assisterà anche il segretario all’educazione nazionale Sua Eccellenza Ticci. Il programma della giornata è stato compilato ed è il seguente: Dalle ore 9 alle 10 arrivo dei convegnanti. Iscrizionie e controllo numerico. Mattino al campo dell’Uccelleria: Ore 9,30 Partenza gara a pattuglie per avanguardisti. Ore 9,45 – 10,15 Esibizioni del salto per Balilla.
Ore 10,45 - 11,15 Esibizioni di discesa per Piccole italiane Ore 11,30 - 12 Messa al campo. Ore 12,15 -12,30 Rivista dei partecipanti ai campionati toscani di Sci dell’O.N. Balilla. Pomeriggio al Campo Sportivo. Ore 14 Partenza gara individuale di fondo per avanguardisti. Ore 14,15 Inizio gara di slalom per avanguardisti. Ore 14,30 Partenza gara d discesa per avanguardisti. Ore 14,45 Inizio della seconda prova della gara di slalom per avanguardisti. Ore 15 Partenza gara discesa per non valligiani di ambo i sessi. Ore 15,30 Partenza gara a coppie. Ore 15 - 16 Gara di slalom per i non valligiani di ambo i sessi. Ore 17 Premiazione Festa della Neve e dei campionati toscani di sci O.N. Balilla. Ore 17,30 Partenza dei convegnanti per le proprie sedi. Molti comitati Balilla, Enti associazioni e Dopolavori della Toscana hanno già inviato la loro adesione alla grande manifestazione cui è destinato il più completo successo.
Nei tondi: Vittorio Chierroni (in alto) e Celina Seghi rappresentarono assieme a Colò il tris d’assi dello sci abetonese che per quasi vent’anni non ebbe avversari in Italia.
Anni Cinquanta: quando gli italiani Scoprirono il piacere degli sci …In principio furono Vittorio Chierroni (1917-2000) Rolando Zanni (1914-2000) e un pugno di altri ‘intrepidi’, che con lo studioso fiorentino Fosco Maraini e altri giovani abetonesi per primi praticarono lo sci. Maraini, durante i suoi viaggi, esportò addirittura lo sport bianco in Tibet, dove lo chiamavano “il mago” perché lì un paio di sci non lo avevano mai visto. Chierroni nel 1941, a Cortina d’Ampezzo, fu il primo italiano a conquistare un titolo mondiale, nella discesa libera obbligata. Fu poi la volta della classe 1920 con Zeno Colò e Celina Seghi, grazie alle cui vittorie lo sci, da passatempo riservato a una ristretta casta, diventò sport popolare. Colò vinse il mondiale di discesa libera ad Aspen nel 1950 e l’oro olimpico a Oslo il 16 febbraio 1952. Con Chierroni e Zanni, Alessandro e Olinto Petrucci, Paride Milianti e Gaetano Coppi (che oggi è presidente nazionale della Federsci) Zeno e Celina costituirono mitiche “valanghe azzurre”. E l’Abetone fu capitale mondiale dello sci.
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Zeno Colò, è medaglia d’oro e così l’Italia torna a sognare La vittoria ad Aspen dello sciatore abetonese e le sue lacrime all’arrivo Come la scuola pistoiese di sci si impose nel mondo
di Alessandro Tonarelli Zeno Colò fu il primo italiano a vincere una medaglia d’oro ai mondiali di sci (Aspen, 1950) e alle olimpiadi invernali (Oslo, 1952).
E
rano dell’Abetone i campioni grazie ai quali lo sci da disciplina elitaria divenne sport popolare. 30 giugno 1920: nasce sul passo appenninico da Alfredo Colò e Teresa Rubechi colui che è detinato a divenire un mito come il “Falco di Oslo”: Zeno Colò. Le sue gesta appartengono senz’altro alla storia dello sport mondiale. Prima di tracciare un ritratto del grande Ze-noCo-lò (così sillabavano i liceali degli anni ’50, per i quali questo nome così semplice divenne talmente familiare da rendere loro altrettanto familiare la
pratica dello sci) però, prendendo a prestito espressioni del suo amico Marcello Fontana, è giusto e opportuno sottolineare come quest’uomo nato nella miseria di una famiglia povera, in continua lotta per la sopravvivenza, sia stato proprio dalla stessa miseria temprato a una disciplina di vita seria e rigorosa, che egli si autoimpose anche nello sport. Certo il festeggiamento più gradito da Zeno, persona semplice e schiva, non è stato l’eclatante fragore degli onori che gli furono tributati in tutto il mondo, ma bensì il modo in cui le sue vittorie venivano accolte dai vecchi boscaioli abetonesi della Consuma, il cui temperamento anarcoide li portava ad affogare in vino
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L’Abetone fu negli anni Trenta una palestra ineguagliabile per i nostri campioni di sci.
e lacrime la gioia vera, con la semplicità genuina dei veri montanari.
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ra il 1950 e Zeno Colò, reduce da tante e tante vittorie sulle piste da sci di tutta Europa, si aggiudicava ad Aspen nel Colorado (Usa) medaglie d’oro in discesa libera e slalom gigante, d’argento nello slalom speciale. Il trentenne boscaiolo abetonese era campione del mondo in due specialità e vice campione in una terza, impresa rimasta unica nella storia dello sport bianco. Il suo nome entrava nella leggenda assieme a quelli di Primo Carnera, Fausto Coppi, Gino Bartali. E due anni dopo, nella Olimpiade di Oslo, era un nuovo trionfo: Zeno conquistava all’Italia la medaglia d’oro nella discesa libera. I giornali di tutto il mondo esaltavano un’impresa èpica, anch’essa rimasta unica nella storia dello sport. E un altro “pioniere” dello sci abetonese, il grande scrittore fiorentino Fosco Maraini, al ritorno di Zeno
sul passo appenninico filmava con una cinepresa scene che appartengono alla letteratura. Alla vittoria olimpica e a quelle dei campionati del mondo si aggiungevano diciotto titoli nazionali in tutte le specialità alpine e il record mondiale di velocità.
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n’immagine di Zeno ci è particolarmente cara: quella che lo ritrae mentre ad Aspen, dopo l’arrivo nella discesa libera, seduto sulla neve, con ancora gli sci ai piedi, coprendosi il volto con le mani guantate egli affida al pianto la gioia per la medaglia d’oro appena conquistata. Il tutto con estrema dignità, da buon figlio della Montagna Pistoiese. Sono note foto che ritraggono Zeno Colò con Gary Cooper e con un capo pellerossa, così come è risaputo di un americano che scommise mille dollari sulla sua vittoria. Però le immagini più significative del “Falco di Oslo” sono, oltre a quelle citate, le foto che vedono Zeno Colò assieme agli altri campioni che con lui composero quella mitica “valanga azzurra” che era targata Abetone: da Vittorio Chierroni a Celina Seghi, Paride Milianti, Alessandro e Olinto
Petrucci. E quel Rolando Zanni che dopo aver partecipato alle Olimpiandi di Garmish nel 1936 vinse l’ultimo titolo italiano di discesa libera nel ’51, a 37 anni, per divenire poi lui, “terrone” abetonese, la principale guida delle Alpi.
E
che dire di Celina “Topolino delle nevi” Seghi la quale coetanea di Zeno, vinse 24 titoli italiani, la Coppa Foemina nel ’50, il bronzo ad Aspen (dove Zeno si aggiudicò l’oro) e prima, nel ’41 e ’48, fu l’unica donna nella storia ad aggiudicarsi il Kandahar di diamanti? È la stessa “donna di ferro” che non solo ancora scia sulle nevi abetonesi, ma addirittura, ultraottantenne, vola in parapendio. L’autentico “pioniere dello sci” è però Vittorio Chierroni. Quando, negli anni scorsi, una piazza di AbetoneLe Regine è stata intitolata alla sua memoria, Amedeo di Savoia, presenziando alla cerimonia, affermò che Vittorio Chierroni gli aveva insegnanto non solo a sciare, ma a vivere. Nato tre anni prima di Zeno e vincitore di indimenticabili trofei a Cortina nel ’37 e sulla Marmolada in slalom nel ’39 (con un tempo strepitoso: 5’45” con 80 porte e su mille
metri di dislivello!), a Vittorio Chierroni va ascritta anche l’invenzione (sia pure motivata da uno scherzo) del salto con gli sci: la domenica mattina era infatti solito discendere, sci ai piedi, una china a lato della chiesa abetonese e saltare, da un grotto, quanti, uscendo dall’edificio di culto al termine della messa, camminavano sulla statale 12. Probabilmente, però, il palmarès più ricco è quello di Paride Milianti, in quanto, oltre che in veste di sciatore, si è aggiudicato una valanga di medaglie anche quale allenatore della Nazionale azzurra.
La vittoria di Zeno Colò ai campionati del mondo e alle Olimpiadi rappresentò, per l’Italia del dopoguerra, un motivo di speranza e di orgoglio dopo la tragedia della guerra.
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da La Nazione del 4 febbraio 1870
Venti corridori arrivano a Pistoia È la prima corsa ciclistica italiana Vince un giovanissimo americano, il pisano Ancelotti solo quarto Una folla enorme per le strade E c’è anche chi cade alla prima pedalata
E Nella foto a destra: gli organizzatori della Firenze-Pistoia, la prima corsa ciclistica italiana posano con i loro “bolidi”.
cco un documento storico di grande rilevanza. È la cronaca della prima corsa ciclistica italiana, disputata da Firenze a Pistoia il 2 febbraio del 1870 e promossa dal Veloce Club fiorentino. In precedenza, la prima corsa in bicicletta a livello mondiale, si sarebbe svolta il 31 luglio del 1868 fra Parigi e Sain Cloud. Mentre qualcosa di simile a una gara in velocipede si sarebbe svolta a Padova il 25 luglio del 1869, durante una corsa di cavalli. Nell’occasione, infatti, in quella che sarebbe stata definita una “esibizione”, anche sette ciclisti si sarebbero messi in mezzo ai quadrupedi, pedalando come ossessi, a dimostrare che l’uomo non era inferiore – purché dotato di un mezzo tecnico – ai cavalli della gara. E dunque, la prima corsa vera e propria, riservata agli uomini e senza la presenza di animali fu la Firenze–Pistoia della quale riportiamo la cronaca completa. Vi parteciparono venti corridori, durò due ore e dieci (la distanza era di circa 33 chilometri) e fu acclamata da una grande folla disposta lungo il percorso. La vinse un giovanissimo americano, Van Hest Rynner. Il primo fra gli italiani fu invece il pisano Edoardo Ancellotti.
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a Corsa di velocipedi da Firenze a Pistoia ebbe luogo mercoledì come era stato annunziato. Il tempo fu favorevole, e una leggerissima pioggia caduta nelle prime ore della mattina aveva bagnato un poco la polvere della strada, ma non era stata tale da opporre col fango un ostacolo che avrebbe messo a dura prova i muscoli de velocipedisti.
S
i era parlato assai di questa Corsa, si diceva già che da Modena e da Pisa venivano
concorrenti e che il numero degli iscritti superava la trentina. Questo numero poi, come era da aspettarsi diminuì: e mercoledì mattina una ventina soltanto di velocipedi era sulla strada di Pistoia al punto fissato per la partenza, al ponte alle Mosse. Moltissimi curiosi erano venuti a godere di questo nuovo spettacolo. Alcuni di loro, a cavallo o in barroccino si proponevano di seguire la corsa per vederne le varie vicende.
E
ra stata scelta la strada che passa dal Poggio a Caiano perché più breve e meno frequentata. In alcuni punti stavano i delegati del Veloce Club che dovevano vegliare sul buon andamento della corsa. Al Poggio a Caiano tutti i concorrenti dovevano fermarsi a far vidimare il loro biglietto di ammissione. Alle nove tutti i concorrenti erano al loro posto assegnato. La larghezza della strada non consentiva che fossero collocati tutti di fronte: erano perciò stati disposti su quattro linee con un intervallo di pochi metri fra l’una e l’altra. Dei brevi istanti che necessariamente dovevano decorrere fra le partenze delle varie squadriglie era tenuto conto perché la Commissione potesse poi assegnare con piena giustizia i quattro premi stabiliti.
V’
erano velocipedi di varie fabbriche e fogge diverse: i più venuti dalla Francia, alcuni fatti in Italia. Il diametro delle ruote variava da ottantacinque centimetri a un metro e cinque. I concorrenti erano tutti in sella. Molti di loro avendo dei veicoli troppo alti per toccar terra col piede, se li facevano sostenere.
Altri che avevano avuto la fortuna o l’arte di collocarsi presso il marciapiede puntavano su quello il piede sinistro. Tutti colle mani sulle impugnature, col piede destro ben pianto sopra il pedale e pronto a dare l’impulso, aspettavano il cenno. Pochi minuti dopo le 9 suonò la tromba, e la prima squadriglia si mosse, seguita immediatamente dalla seconda, dalla terza, della quale facevano parte i più valenti, e dell’ultima. Non tutte le partenze furono felici. Qualcuno fu visto con la gamba destra sulla sella e il piede sinistro in terra tentare con vario successo di prendere l’assetto definitivo, ma fu un momento: tutti o per virtù propria o per soccorso altrui vi riuscirono, e mossero rapidamente alla volta di Pistoia. Mezz’ora dopo partiva da Firenze nella stessa direzione il treno ordinario, portando moli dei componenti del Veloce Club,
alcuni altri velocipedisti che meno fiduciosi delle proprie forze, o più amanti del comodo loro, avevano trovato preferibile quel mezzo di trasporto, e molti curiosi che si recavano a Pistoia per vedere l’arrivo.
U
n numero immenso di curiosi occupava la strada, si stendeva per lungo tratto di quella verso Firenze, si arrampicava ai muri e agli alberi per meglio vedere. Molte signore stavano nelle loro carrozze ferme sui lati della via. Dinanzi alla casa era schierata una banda musicale, e la folla era così compatta che i membri del Veloce Club non ottennero senza fatica un po’ di largo, tanto da permettere ai velocipedisti di arrivare fino alla meta senza rallentare la loro andatura.
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E
rano trascorse due ore e dieci minuti dopo la partenza. Già cominciavano a sapersi, da qualcuno arrivato in legno o a cavallo, i nomi di quelli che erano più avanti, e chi era pratico del nuovo e tanto combattuto veicolo prevedeva già prossimo l’arrivo de primi. A un tratto gli spettatori che stavano in vedetta su pei muri, cominciarono a gridare: “Eccolo! Eccolo!” e poco dopo tutti poterno scorgere da lontano, poco sopra all’ondeggiar delle teste un cappello ornato del distintivo del Veloce Club che si avanzava senza scosse e con quell’andatura piana e uniforme che distingue il velocipede.
E
ra i signor Van Hest Rynner, giovinetto americano, ben noto a quanti frequentano le Cascine sul mezzogiorno, per la straordinaria maestria colla quale si serve del velocipede. Si avanzava assai lentamente e pareva spossato: ma nessuno degli altri si vedeva ancora, ed egli giungeva alla meta in due ore e dodici minuti. Gli amici, i conoscenti che si trovavano sulla strada lo acclamarono, e tutta quella massa di spettatori meravigliata di veder vincere una
corsa così lunga a un giovinetto che non mostra di avere più di quindici o sedici anni, proruppe in una salva di applausi unanime e prolungata. Egli montava un velocipede della fabbrica Michaux di Parigi. I cerchioni erano fasciati di caut-chouc, ma la ruota maggiore aveva soltanto ottantacinque centimetri di diametro: era forse la più piccola di tutte. Quella rota aveva dovuto, per percorrere trentatre chilometri, più di dodicimila giri, novanta per minuto, tenendo conto del tempo impiegato. Ed è ora da notare che ogni giro di ruota suppone la spinta successiva sulle gambe. Si seppe poi che il signor Val Hest si era spinto avanti a tutti fin da principio, ed era riuscito a conservare sempre il suo posto.
E
ra appena sceso, che un nuovo grido segnalava l’arrivo degli altri. Questi si vedevano da lontano dominar la folla di tutta la testa. Il primo era il signor Augusto Charles montato sopra un velocipede della Compagnie Parisienne, con una ruota di un metro di diametro: il secondo era il signor Alessandro de Sariette e montava un velocipede costruito a Firenze, la cui
ruota aveva un diametro di un metro e cinque centimetri. Erano a distanza di pochi metri l’uno dall’altro. Giovani alti e robusti ambedue apparivano piuttosto riscaldati che stanchi e venivano molto rapidamente continuando fino all’ultimo momento la gara.
E
rano seguiti a poca distanza dal signor Edoardo Ancillotti, venuto da Pisa per prendere parte alla corsa. Il suo velocipede era di fabbrica francese e il diametro della ruota era di un metro. Anche questi tre ebbero la loro parte di applausi. Dieci minuti dopo arrivava il quinto. Era il signor Gustavo Langlade presidente del Veloce Club. Egli aveva risparmiato le sue forze e non mostrava segno d fatica. Seguirono poi gli altri quasi tutti prima che fossero scorse tre ore dopo la partenza. I più di loro, perduta la speranza di vincere, avevano preso un’andatura moderata e non si erano inutilmente stancati. Nessuna disgrazia avvenne. Uno solo giunto a poca distanza da Pistoia cadde, e si fece alcune contusioni che però lo indussero a seguitare il viaggio in carrozza. Gli altri arrivarono
tutti felicemente e tre ore e trentanove minuti fu il limite massimo del tempo impiegato a percorrere l’intero cammino prescritto.
I
ntanto i quattro vincitori preceduti dalla banda e seguiti dalla folla, erano entrati trionfalmente in città montati i loro velocipedi, ed erano andati a fermarsi alla trattoria del Globo. Sul conferimento del primo e del secondo premio non v’era questione. Per il terzo, sostennero alcuni che potesse pretenderci anche il signor Ancillotti, il quale era stato collocato alla partenza in quarta fila. La Commissione giudicante doveva radunarsi ieri sera per pronunziare definitivamente.
Il ciclismo riuscì nell’arco di pochi anni a conquistare le nuove generazioni. Nella foto in alto: un gruppo di amanti della due ruote alla fine del Novecento.
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Quando l’AnsaldoBreda aiutò l’Italia a risorgere Distrutta dai bombardamenti nell’ultimo conflitto mondiale, negli anni Cinquanta fu ricostruita per produrre attrezzi meccanici, telai, ma soprattutto mezzi ferroviari
di Andrea Ottanelli
L’ IL primo stabilimento industriale a Pistoia fu costruito nel 1907 dalla San Giorgio di Genova. Scopo della società era la costruzione di auto, autocarri e imbarcazioni. L’AnsaldoBreda è dunque erede di quel primo insediamento di oltre un secolo fa.
attuale stabilimento AnsaldoBreda di Pistoia è l’erede di uno stabilimento industriale impiantato a Pistoia nel 1907 per scelta della San Giorgio di Genova. La “San Giorgio, Società anonima per la costruzione di aeromobili terrestri e marittimi” venne costituita a Genova il 18 novembre 1905 con capitale di 3 milioni di lire. Lo scopo della Società era la costruzione di automobili, sportive e berline, autocarri e imbarcazioni di limitate dimensioni. Le auto erano costruite su licenza della ditta inglese Napier e per la loro realizzazione fu costruito uno stabilimento a Sestri nei pressi di Genova e uno più piccolo a Pistoia che allora vantava una grande tradizione artigiana nel settore della costruzione delle carrozze, rilevando la ditta di Aiace Trini. Lo stabilimento, composto da 4 capannoni fu realizzato lungo la via Pacinotti e uno venne decorato con una facciata disegnata da Gino Coppedè ed entrò in funzione nel 1907.
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a produzione automobilistica fu molto limitata perché il settore entrò in crisi a causa di una sovrapproduzione nazionale di autovetture e la San Giorgio decise quindi di dedicarsi all’attività nel settore ferroviario, grazie anche allo sviluppo impresso dalla statizzazione delle ferrovie attuato nel 1905 e lo stabilimento pistoiese fu destinato alla riparazione e produzione di carrozze e carri ferroviari.
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egli anni successivi la fabbrica si ampliò costantemente toccando i 900 addetti nel 1911. Durante la Prima guerra mondiale furono costruiti parti di cannone, carri
lettiga e anche diversi aerei Caproni da bombardamento e nel 1917 venne realizzato il Campo di volo.
N
el primo dopoguerra venne iniziata anche la produzione di carrozze tranviarie e la fabbrica si specializzò in particolare nella produzione ferroviaria. Con la Seconda guerra mondiale fu ripresa in forze la produzione aeronautica e quella di parti ottiche per strumenti di puntamento tra cui i prototipi di due radar. La San Giorgio uscì sostanzialmente distrutta dai bombardamenti del 1943-1944 e fu completamente ricostruita prima degli anni Cinquanta. Nel 1947 la San Giorgio passò interamente all’Iri e al gruppo Finmeccanica e lo stabilimento di Pistoia fu reso indipendente da quello genovese e nel
1950 fu costituta una nuova società denominata Officine Meccaniche Ferroviarie Pistoiesi (OMFP).
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a nuova ditta proseguì nella produzione ferroviaria e iniziò a costruire anche autobus, macchine agricole, telai, carde, mezzi militari, roulotte, e meccanica varia. Nel 1968 il complesso passa sotto il controllo dell’EFIM e assume il nome di Ferroviaria Breda Costruzioni s.p.a. La produzione di concentra su treni, carrozze e carri ferroviari, autobus urbani, metropolitane. Nel 1973 la produzione viene spostata nel nuovo stabilimento in via Ciliegiole all’ex campo di volo e nasce la Breda Costruzioni ferroviaria s.p.a.. Nel 1996 la ditta passa all’IRI Finmeccanica e nel 2001 viene costituita la AnsaldoBreda s.p.a. Finmeccanica, settore trasporti.
Un gruppo di belle ed elegantissime signore (nella foto grande) posa davanti agli ultimi modelli di autobus prodotti dall’azienda pistoiese. Nel tondo: un gruppo di operai posano per la foto ricordo all’interno dello stabilimento.
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Dalle auto agli aerei e ai treni Gli oltre 100 anni della Breda 1905
Viene costituita a Genova la “Società anonima industriale per la costruzione di automobili terrestri e marittimi San Giorgio”. La San Giorgio acquista i primi terreni lungo il viale Pacinotti.
1907
Costruzione dello stabilimento San Giorgio, costituito da quattro capannoni e destinato alla costruzione di automobili.
2004
1942–1943
Lo stabilimento raggiunge la massima espansione e il maggior numero di addetti e viene destinato alla produzione bellica specializzata.
1952-1965
Lo stabilimento si specializza nella produzione ferroviaria e autoferrotranviara ma vengono realizzati anche mezzi militari, trattori, roulotte, carde, telai e un’ampia gamma di prodotti meccanici.
1968
Passaggio delle OMFP all’EFIM. Vene costituita la Ferroviara Breda Pistoiesi s.p.a.
1970
Viene presentato il progetto del nuovo stabilimento.
1973
1908 La consegna del premio teatrale Vallecorsi (1960) nato dall’iniziativa di un operaio della Breda e patrocinato dall’azienda. Nelle foto di fianco alcuni momenti di “vita aziendale”: la consegna della Befana ai figli dei dipendenti, i concerti e in genere le attività culturali sempre caratterizzarono le relazioni industriali dello stabilimento pistoiese.
La San Giorgio inizia la produzione ferroviaria e abbandona quella automobilistica.
1915
Inizia la produzione di mezzi militari.
1917
Viene iniziata la produzione di aerei. Viene costruita la sezione aeronautica e realizzato il campo di volo.
1919
Viene ripresa la produzione e riparazione di carrozze e carri ferroviari.
1935 – 1941
La San Giorgio completa l’edificazione dell’area ad est di via Ciliegiole e costruisce i capannoni nella zona ad ovest di via Ciliegiole.
1944
Lo stabilimento esce sostanzialmente distrutto dalla guerra.
1945–1948
Lo stabilimento viene ricostruito ad eccezione della sezione aeronautica.
1948
Viene istituito per iniziativa dei lavoratori il Premio nazionale di pittura San Giorgio.
1949
Passaggio della San Giorgio all’IRI Finmeccanica. Nascono le Officine Meccaniche Ferroviarie Pistoiesi (O.M.F.P.).
1951
Viene istituito per iniziativa dei lavoratori il Premio nazionale per il teatro Francesco Vallecorsi.
Nasce la Breda Costruzione Ferroviarie S.p.A. La produzione viene trasferita nel nuovo stabilimento di via Ciliegiole, al campo di volo.
1980
L’area ex Breda est viene acquistata dal Comune di Pistoia.
1985
Il Comune approva il Piano particolareggiato di recupero dell’area ex Breda redatto dal Laboratorio internazionale di architettura urbanistica di Giancarlo De Carlo.
1989
Il Comune acquista l’area ex Breda ovest.
1996
La Breda Costruzione Ferroviarie passa all’IRI Finmeccanica.
2001
Viene costituita la AnsaldoBreda S.p.A. Finmeccanica, settore trasporti.
Viene completato l’intervento di recupero dell’area ex Breda ovest.
2005
Il Comune approva la variante al piano particolareggiato dell’area ex Breda est, redatta dall’architetto Carlo Stilli.
2007
Viene inaugurata la nuova Biblioteca San Giorgio.
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Nascono le edizioni locali
Gastone De Anna: “Così feci nascere le redazioni di provincia a La Nazione” Il “fuori sacco” e i megafoni che annunciavano il ritorno in edicola del nostro giornale I “pionieri” di una grande avventura nel racconto di colui che seppe trovarli e organizzarli
Gastone de Anna (al centro della foto, in ginocchio) tra i colleghi Rosario Poma e Paolo Marchi. Alle loro spalle circondano Wanda Lattes redattori e cronisti de La Nazione alla fine degli anni Sessanta.
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n principio c’erano dei corrispondenti, uno per ogni capoluogo di provincia. Erano personaggi di rilievo nelle proprie realtà, ma non per questo avevano molto a che fare con il giornalismo. Un nobiluomo legato alla causa risorgimentale, un professore di liceo, un sacerdote. A Perugia, ad esempio, quando ancora era sotto il papato, e dunque fra il 1860 e il 1870, un anonimo estensore inviava notizie, per lo più di politica, rischiando le persecuzioni e l’arresto. Fu tra gli anni Trenta e Quaranta del secolo scorso, che ogni capoluogo toscano ebbe il suo corrispondente. Le notizie, battute a macchina e spedite con un fuori sacco (si trattava di un plico che viaggiava “fuori dal sacco postale” perché ad attenderlo e a ritirarlo alla stazione, dei treni o degli autobus, per abbreviare i tempi di consegna era un usciere de La Nazione) impiegavano per lo più una notte ad arrivare a Firenze. L’indomani venivano vagliate, qualche volta riscritte, titolate e impaginate nella redazione di via Ricasoli. E per lo più ogni provincia aveva almeno un titolo al giorno, qualche volta mezza pagina. Non di più.
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egli anni Quaranta la redazione delle province era formata da quattro redattori sotto la guida Giuseppe Cartoni il cui figlio, Mario, sarebbe poi diventato un noto cronista giudiziario. Fra questi era Nicola Della Santa, almeno finché non fu richiamato sotto le armi. Fu allora che entrò in scena un personaggio destinato a organizzare le redazioni provinciali così come sono ancor oggi, sia pure con
ben altra consistenza di pagine e di giornalisti. Si trattava di Gastone De Anna, figura mitica del giornale, al quale si deve – assieme a Giordano Goggioli, ad Alberto Marcolin, e ai grandi direttori Russo e Mattei – il rilancio del dopoguerra che permise a La Nazione di raggiungere negli anni Cinquanta le centomila copie. De Anna ha oggi novant’anni, non uno di meno. Ma anche una memoria di ferro e una lucidità invidiabile. È capace, perfino, di divertirsi a raccontare quegli anni. Ha conservato l’ironia, la capacità di narrare e fare sintesi, che ne fece un grande giornalista. Assieme a Giorgio Batini è l’ultimo di una grande generazione di colleghi, che insegnarono a tutti noi il mestiere. Ci riceve a casa sua, splendida vista su una delle più prestigiose piazze di Firenze. E dopo pochi minuti si ricrea l’atmosfera di un tempo.
Come si diventava giornalisti ai suoi tempi? “Per quanto mi riguarda fu davvero un caso. Sono nato nel 1919, mio padre comandante di marina era morto nel ’20 a Trieste, con D’Annunzio, quindi ero orfano di guerra. Nel ’40 trovai un mio amico di scuola che voleva offrirmi da bere perché era entrato come correttore di bozze a La Nazione. Era felice, volevo diventarlo anch’io. Così, ci provai. Avevo buoni studi e come orfano di guerra anche qualche vantaggio. Mi chiamarono in prova perché Nicola Della Santa, che dopo una lunga prigionia sarebbe tornato a collaborare nel mio stesso ufficio, era stato richiamato in guerra”. Con chi ebbe il primo colloquio? “Con Micheli, un capo redattore leggendario che faceva tutto, conosceva tutto, anche il lavoro dei tipografi, e lo svolgeva a una velocità impressionante. Aveva un occhio di vetro, e noi dicevamo che l’unico lampo di
umanità gli veniva proprio da quell’occhio”.
Com’era il clima in redazione? “Scansonato, ironico, divertente. Ma lavoravamo tutta la notte senza pause. L’editore era Favi, l’amministratore Gazzo, era tutto un gioco di parole.” Quanto rimase a La Nazione prima della guerra? “Pochissimo. Nel ’42 fui richiamato sotto le armi, poi fui fatto prigioniero. Fuggii, fui catturato e portato in Polonia, ci stetti due anni e infine mi liberarono gli americani mentre scappavo perché stavano arrivando i russi. Tornai a casa nel ’45, la feci tutta a piedi, o quasi, e trovai Firenze distrutta. Al posto de La Nazione c’erano tre giornali, La Nazione del popolo, il Nuovo Corriere e la Patria. Presi a collaborare col Nuovo Corriere, che era inizialmente il giornale degli alleati. Ma finalmente, nel ’47, a marzo, riprendemmo le pubblicazioni.”
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E lei? “Favi mi considerava come un figlio. Mi disse: “Devi ricostruire la rete dei corrispondenti.” Mi dette un auto e un autista. Andavamo nelle varie province, e quando io ero sceso - prima no perché mi vergognavo - lui cominciava ad urlare in un megafono “La Nazione! Torna La Nazione!” Come organizzò il lavoro? “Dove era possibile contattavo i vecchi corrispondenti e riaprivo i vecchi locali. Altrimenti cercavo edifici e uomini nuovi. Nel ’48, quando Favi morì, tutte le redazioni dei capoluoghi di provincia erano riorganizzate.”
Qualche nome di allora, qualche collega? “Passaponti a Pisa, Chiantini a Siena, Coppini ad Arezzo e poi Dragoni e Piero Magi. A Spezia Reggio che poi passò il testimone al figlio, il conte Vitelleschi e poi Bassi a Perugia. E ancora Ciullini a Pistoia, Del Beccaro a Lucca, Valleroni e Pighini a Massa, Rossi a Grosseto. Mauro Mancini diresse la prima redazione di Prato. Poi divenne inviato speciale assieme a Piero Magi, e più tardi a Piero Paoli e Raffaele Giberti che ricordo con immenso affetto, veniva da Spezia. Intanto cresceva anche la redazione province a Firenze. Era tornato Della Santa, poi arrivarono Gianfranco Cicci, Nereo Liverani, Romolo De Martino, Enrico Mazzuoli, Aldo Satta, Giancarlo Domenichini, Tiberio Ottini, Giuseppe Mannelli, Luigi Scortegagna, Rossi, l’indimenticabile Piero Chirichigno, Franco Ignesti e una splendida segretaria, la signorina Giorni, che divenne un po’ l’anima di quell’ufficio. Si andò avanti così sino alla fine degli anni Sessanta quando arrivarono giovani come Enrico Maria Pini, Riccardo Berti e Maurizio Naldini. Spero di non aver dimenticato nessuno.”
Come lavoravate? “Al contrario di oggi. Tutto il materiale viaggiava col fuori sacco, e in base alle ore in cui arrivava era controllato e titolato in redazione. Fu solo con il computer che le redazioni presero a organizzare le loro pagine direttamente. L’impaginazione poi partiva dalle nove di sera con la prima edizione che veniva chiamata “Nazionale”. Poi si passava alle province più lontane come Spezia, Perugia, Grosseto, e un po’ alla volta si arrivava a impaginare Prato. Quindi, alle tre di notte veniva preparata l’ultima edizione, quella che i fiorentini trovavano in edicola al mattino. Intanto i primi corrispondenti erano diventati gior-
nalisti professionisti, accanto a loro erano vari collaboratori, poi assunti come giornalisti anche loro, mentre la rete si infittiva fino a raggiungere anche i paesi più piccoli e sperduti.” Quando fu concluso il lavoro di organizzazione? “Praticamente mai, continuava giorno dopo giorno. Però, alla fine degli anni sessanta La Nazione dominava totalmente il suo territorio di diffusione, e cominciavano anche le edizioni di Sarzana con Osvaldo Ruggeri e di Pontedera con Orazio Pettinelli. Era poi arrivato dal Nuovo Corriere un ottimo amministratore, Ivo Formigli, che già aveva collaborato con Favi”.
Rimpianti? Lo rifarebbe quel lungo lavoro? “Subito. Credo di essere nato per svolgere quell’attività. Eravamo una grande squadra, un gruppo di amici che riuscivano a lavorar bene divertendosi. La redazione era sempre affollata di personaggi famosi che venivano a trovarci. Per segnalare notizie, per commentarle, semplicemente per scambiare due idee. Potevano essere attori o personaggi della televisione, atleti, uomini politici. Ci sentivamo forti, i lettori del resto, ci davano ragione.”
Nella foto in alto, da sinistra in piedi: Enzo Cabella, Valerio Gelli, Alberto Ciullini, Tony Renis, Maurizio Tuci, Aurelio Amendola, Franco Bacci, Luciano del ristorante Rafanelli. In ginocchio da sinistra: Bruno Brunori e Adriano Tosi.
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Mamma Ebe: finisce in carcere la vicenda della santona All’alba, a “Villa Gigliola”un blitz dei carabinieri Arrestati anche un prete e un frate. Le accuse
DAL PRIMO ARRESTO ALL’ULTIMA CONDANNA
Tre immagini di Mamma Ebe durante l’arresto dell’84 e il processo che ne seguì. Fu condannata a dieci anni poi ridotti a sei in appello.
La “Santa di Pistoia” in carcere, con un parroco, un frate e altri. Beni per miliardi: gravi le accuse. Così La Nazione del 10 aprile 1984 riportava, a firma dell’inviato, la notizia dell’arresto di Ebe Giorgini, nota in tutta Italia come mamma Ebe.
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ancavano pochi minuti alle sei quando i carabinieri hanno superato il cancelletto verde di “Villa Gigliola” sulla strada per San Baronato, a pochi chilometri da Pistoia. In mano un ordine di perquisizione per la “clinica” di mamma Ebe, al secolo Maria Gigliola Ebe Giorgini, 51 anni, bolognese, la cui fama di “Santa”
e di “guaritrice” ha varcato da anni i confini della Toscana. Lo aveva firmato, sabato scorso, dopo decine di interrogatori e un rapporto di oltre cento pagine preparato dai carabinieri il procuratore di Vercelli, professor Vincenzo Serianni. E con esso, un ordine di cattura per Mamma Ebe ed i suoi più stretti collaboratori. Gravi le accuse: associazione per delinquere, sequestro di persona, truffa aggravata, abbandono di malati, esercizio abusivo della professione medica. Nello stesso momento, carabinieri del nucleo operativo di Vercelli operavano a Roma e a Rimini. Nella capitale le manette scattavano ai polsi di monsi-
gnor Pier Giovanni Moneta, 53 anni, parroco della chiesa del Preziosissimo Sangue di Nostro Signore Gesù Cristo, sulla via Flaminia Vecchia e di Padre Roberto Tognacca, 73 anni, francescano, da anni distaccato nella sessa chiesa. A Rimini, invece, veniva bloccato Umberto Battaglino, 47 anni, marito separato di Mamma Ebe. Era in compagnia di una sua amica e si trovava in città solo perché da qualche giorno stava lavorando per vendere le case di sua proprietà. Anche nei loro confronti l’ordine di cattura porta le stesse cause. A San Baronto l’operazione è stata curata nei minimi dettagli. Già della cinque del mattino la >
Ebe Gigliola Giorgini nasce a Pian del Voglio (Bologna) nel 1933, nona di 14 fratelli. Sulle sue origini ha sempre diffuso versioni suggestive. La madre racconterà: «La chiamammo Ebe come la dea della giovinezza, ma al battesimo il parroco rifiutò quel nome perchè pagano. E scegliemmo Gigliola». A 5 anni i genitori l’affidano a un istituto di suore ma la bambina scappa. A 13 lavora in fabbrica a Vaiano; a 15 si sposa, ma il matrimonio sarà annullato dalla Sacra Rota. A 19 anni apre una fabbrichetta d’abbigliamento. A 27 arriva a San Baronto (provincia di Pistoia) e fonda la congregazione di Gesù Misericordioso. Mamma Ebe sosteneva di essere in grado di guarire certi mali col fluido delle mani. A Villa Gigliola bussavano malati di ogni parte d’Italia che speravano di ottenere il «miracolo». Nel novembre 1980 il primo arresto (l’accusa: sequestro di persona), ma la «santona» fu assolta. Il 9 aprile 1984 i carabinieri l’arrestano nuovamente per associazione a delinquere, sequestro di persona, esercizio abusivo della professione medica e abbandono di malati. Il processo si celebrò a Vercelli, dove in un istituto di anziani era stato consumato l’ultimo reato. Fu condannata a 10 anni, ridotti a 6 in appello. Dopo il processo si trasferì a Morlupo (Roma). Nuovo arresto, stesse accuse, ma anche un’altra assoluzione. In carcere si sposa. Si trasferisce in Romagna. Nel gennaio 2002 nuovo arresto. L’accusa è di pratiche illecite nella sua villa da 3 miliardi. L’inchiesta della procura di Forlì e del commissariato di Cesena porta all’arresto di numerose persone. E per Mamma Ebe arriva, il 10 aprile del 2008, la nuova condanna a sette anni di reclusione.
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strada provinciale era sotto il controllo dei carabinieri. A un centinaio di metri da “Villa Gigliola” il primo posto di blocco, poi, gli uomini in divisa hanno circondato la villetta e sono scesi nel bosco.
La donna era già stata arrestata nel 1980 con l’accusa di sequestro di persona ma poi assolta in tribunale.
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uando hanno suonato il campanello nella villa e nella dependance dormivano tutti. In fretta uomini e donne, una cinquantina, si sono vestiti e raggruppati in una stanza a piano terra. L’unica a fare le cose con calma è stata proprio Mamma Ebe. Di fronte all’ordine di cattura è rimasta impassibile, mentre i carabinieri perquisivano tutte le stanze. Le “suore” e i “seminaristi” hanno indossato l’abito usuale della “Pia unione di Gesù Misericordioso” (l’ordine fondato tant’anni fa proprio da Mamma Ebe): una tunica color cenere le ragazze, pantaloni e maglioni blu scuro i ragazzi.
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ei, invece, si è presentata ai carabinieri avvolta in una pelliccia di volpe rossa, scarpe con tacco alto, i lunghi capelli neri spazzolati con cura. E le sorprese, durante le perquisizioni, non sono mancate: sotto sequestro sono finite altre cinquanta pellicce, gioielli e venticinque milioni in contante. Sul suo conto, poi, i carabinieri avrebbero accertato un patrimonio immobiliare di oltre due miliardi.
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er tutta la durata dell’operazione “suore” e “seminaristi” hanno pregato inginocchiati a terra. Mamma Ebe li ha salutati uno per uno. La stessa cosa è accaduta qualche ora dopo nella caserma di Casalguidi. Mentre ai seguaci veniva notificato l’ordine di presentasi nella giornata di oggi ai carabinieri di Vercelli.
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amma Ebe e i suoi collaboratori sono stati fatti salire sulle Alfette dei militari. Manette ai polsi sono usciti Mario Leonardi, 35 anni, vicario generale dell’Opera, Gabriele Casotti, 29 anni, segretario particolare di Mamma Ebe, Fabio De Santis, 28 anni, capo del personale. Tutti di Quarrata. L’onta delle manette è stata invece risparmiata a Ebe Giorgini e a Maria Enrica Ballantini, 35 anni, vicario generale dell’organizzazione per il settore femminile.
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utto sembra prendere le mosse da un episodio accaduto lo scorso anno nella casa di riposo “La Consolata” a Borgo d’Ale, un piccolo centro
agricolo a quindici chilometri da Vercelli. Una notte, (non si sono mai chiariti i motivi) alcune “suore” dell’ordine di Mamma Ebe che accudivano 160 ricoverati lasciarono l’Istituto. Si tolsero la veste e indossati jeans e camicette raggiunsero la strada chiedendo un passaggio ad alcuni automobilisti. L’episodio si venne a sapere e i carabinieri cominciarono l’inchiesta. Stessa indagine fu fatta dai membri del consiglio di amministrazione dell’Istituto i quali decisero l’allontanamento del personale inviato da Mamma Ebe. Nel settembre scorso, inoltre, il Vescovo di Reggio Emilia aveva fatto a meno dell’assistenza delle “sorelle” e della “Pia unione di Gesù” che mandavano avanti
due scuole materne a Sant’Antonino e a Gattatico e un ospizio a Baiso.
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a a premere sulla magistratura con esposti denuncia erano anche i padri e le madri dei ragazzi che avevano scelto di seguire Mamma Ebe. Volevano che si accertassero le voci inquietanti che circolavano sulla organizzazione venuta a galla con la scoperta che i loro figli non sarebbero mai stati né preti né suore della Chiesa di Roma. Aldo Villani
Nel 2008 , per nuove accuse, Mamma Ebe verrà nuovamente processata e condannata a sette anni di reclusione.
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giugno 1980
La Pistoiese torna in Serie A Ci era già riuscita nel campionato del 1928 - 1929 Un torneo trionfale: Melani “il faraone” lo aveva promesso sei anni prima
di Enzo Cabella
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rimo giugno 1980: una data storica per Pistoia. È il giorno della promozione in serie A della Pistoiese, 51 anni dopo quella del campionato 1928-29. Ma quelli erano altri tempi, tempi eroici di un calcio pionieristico, agli albori, la Pistoiese aveva solo otto anni di vita. Quel 1° giugno dell’80 è la trionfale conclusione di un campionato strepitoso della squadra guidata da Mario Frustalupi e Giorgio Rognoni, due grandi campioni divenuti pistoiesi di adozione, cui la sorte qualche anno più tardi fu tristemente maligna. La Pistoiese, che giornali e televisioni chiamavano la «Piccola Olanda», non solo per lo stesso colore di maglia della nazionale olandese, a quei tempi universalmente la più ammirata, ma anche per la qualità del gioco espresso. C’era anche chi voleva in qualche modo sminuire il valore della squadra di provincia che stava meravigliando tutta l’Italia del pallone, definendola «squadra dei vecchietti», in quanto aveva nelle proprie file alcuni giocatori che giovani non erano più, come Frustalupi, Rognoni, Lippi, Bellugi, Berni, Badiani.
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a conquista della serie A fu anche il coronamento dell’avventuroso progetto ideato da Marcello Melani, il presidente dotato di una forza trascinatrice fuori del comune, capace di sollevare entusiasmi con atteggiamenti passionali, a volte egocentrici e dittatoriali (come lo sono un po’ tutti i presidenti di società di calcio), che Pistoia sportiva elesse a salvatore della patria, dopo anni di tribolate gestioni, imparando
Nella foto di fianco: gli ultras esultano dopo la promozione in Serie A. Con uno striscione ringraziano l’allenatore Riccomini. In basso: un giovanissimo Marcello Lippi.
ad amarlo nella prospettiva di raggiungere traguardi fino ad allora impensabili. Per i tifosi pistoiesi era il presidentissimo, amato e venerato come un’icona. Voleva che venisse chiamato semplicemente Marcello, e questo rese ancor più forte il legame con i tifosi e la città.
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approdo in serie A fu per Melani la realizzazione di una promessa fatta sei anni prima ai tifosi che affollavano il cinema teatro Lux. «È l’ora di tornare a vincere, Pistoia lo merita. Se lavoreremo tutti assieme - città, società, squadra, stampa - vi prometto la serie A in cinque anni». (sbagliò
di un solo anno!). A tutti parve una boutade, una battuta da “Faraone”, come Melani veniva chiamato in Valdinievole. Infatti, tornato da Torino dove aveva fatto l’industriale nel ramo petrolifero, Melani si era stabilito nel comune di Pieve a Nievole e aveva creato un’azienda agricola moderna dopo aver bonificato
Un “libero” chiamato Marcello Lippi La partita in casa col Lecce finisce 0-0 ma le emozioni sono tutte alla fine quando la gente si riversa in campo in una gioia immensa. La Pistoiese è in serie A. Il miracolo è compiuto. Un miracolo firmato Marcello Melani, detto il “Faraone”, capace in sei anni di portare gli arancioni dalla serie D al paradiso del calcio. In serie A la Pistoiese vivrà una sola stagione con un bravo libero a fine carriera, Marcello Lippi, a metà campo la coppia Rognoni-Frustalupi e davanti un brasiliano malato di saudade: Luis Silvio Danuello. A gennaio 1981 un’impresa storica: la Pistoiese vince in casa della Fiorentina con i gol di Rognoni e del pratese Roberto Badiani. Da allora più nessuna vittoria e a fine stagione il ritorno in serie B.
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L’allenatore Lido Vieri guidò la pistoiese nel campionato di serie A. All’esordio riuscì perfino a battere la Fiorentina per due reti a uno. Nel tondo in basso: un’immagine di Pistoiese-Torino conclusa con la vittoria dei granata per 1 a 0.
terreni paludosi. Si parlò di opere faraoniche e Melani diventò ben presto il “Faraone’” soprannome che mantenne anche nel calcio; a lui dava fastidio, perché vi notava ironia se non un’invidiosa cattiveria. È doveroso ricordare i protagonisti di quella impresa. Con l’allenatore viareggino Riccomini («il bagnino», come lo chiamavano affettuosamente i tifosi) c’erano il portiere Moscatelli, i difensori Salvatori, Berni, Lippi (sì, il c.t. azzurro), Manzi, La Rocca e Arecco, i centrocampisti Borgo, Frustalupi, Rognoni, Mosti e Guidolin, gli attaccanti Saltutti, Luppi e Cesati.
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a promozione in serie A non fu soltanto uno straordinario successo sportivo. Sull’onda di quella irripetibile impresa la città di Pistoia uscì dal limbo dell’anonimato. Gli italiani cominciarono a conoscere di più le sue bellezze artistiche, i suoi vivai, i suoi prodotti tipici. La domenica, quando la squadra giocava in casa contro un avversario di rango (Palermo, Genoa, Sampdoria, Bari, Verona, Spal) la città veniva invasa da comitive di tifosi. Anche i giornali e le televisioni nazionali si occupavano della Pistoiese con commenti anche di giornalisti illustri, tra cui Gianni Brera.
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nsomma, Pistoia e la Pistoiese d’improvviso si trovarono al centro dell’attenzione nazionale, che continuò con maggior risalto l’anno dopo, nel campionato di A, quando la ce-
Con l’allenatore viareggino Riccomini c’erano il portiere Moscatelli, i difensori Salvatori, Berni, Lippi ( il futuro c.t. azzurro), Manzi, La Rocca e Arecco, i centrocampisti Borgo, Frustalupi, Rognoni, Mosti e Guidolin, gli attaccanti Saltutti, Luppi e Cesati.
nerentola arancione si trovò a duellare con squadre di illustre tradizione.
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l sogno della A durò, purtroppo, lo spazio di un solo anno. Dopo un inizio brillante (storica la vittoria di Firenze, 2-1 con reti di Rognoni e Badiani, che vanificarono quella su rigore di Antognoni) la squadra guidata da Lido Vieri e Mondino Fabbri, l’ex c.t. della nazionale, raggiunse il sesto posto in classifica. Il profumo di coppa Uefa si rivelò... nauseabondo per la Pistoiese. La storica impresa di Firenze fu quasi una maledizione: da allora cominciò il declino della squadra, il sogno ben presto s’infranse miseramente e la gloriosa «Piccola Olanda» tornò in serie B.
Nel tondo in basso: Marcello Melani, il “Faraone”, brinda con l’allenatore Enzo Riccomini dopo la promozione in serie A della Pistoiese :
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In breve
Un delitto, un’alluvione e l’attentato all’Ovovia da La Nazione del 10 febbraio 1996
Delitto Bonacchi
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a mattina del 10 febbraio del 1996, alla Ferruccia di Quarrata, la parrucchiera attende invano la cliente del sabato, puntuale da anni, all’ora di apertura. Ma Romana Bonacchi non arriva, non risponde al telefono. All’ora di pranzo, la parrucchiera e amiche vanno a cercarla a casa. Non risponde al campanello. Porte e finestre sono sprangate, dal cortile sul retro s’intravede una sagoma in fondo alle scale. I soccorritori scoprono che Romana è stata raggiunta alla schiena da 23 coltellate vibrate con violenza, dopo essere stata stordita con un colpo di bottiglia alla nuca. Romana aveva 54 anni. Viveva sola nella sua villa. Era ricca. Le indagini scavano inutilmente nella sua vita, ma non si approda a nulla. L’assassino di Romana Bonacchi è rimasto impunito.
da La Nazione del 23 ottobre 2002
Una valanga d’acqua travolge un paese
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lle 8 di mattina l’Ombrone si trasforma in una montagna d’acqua marrone che dal paese di San Felice trasporta di tutto e travolge l’abitato di Ponte Calcaiola. Abitazioni completamente allagate. Una donna di 75 anni rischia di morire annegata nel suo piccolo salotto. La salvano un carabiniere e un vigile urbano che la raggiungono nuotando nella stanza. La gente non ha dubbi: c’è una falla nell’argine, a San Felice. Altri pensano che sia colpa dell’incuria. Finiscono nei campi anche le traverse della ferrovia. Vengono devastate dall’acqua abitazioni costate quarant’anni di sacrifici. Dopo le lacrime la gente si rimbocca le maniche, ripulisce le strade dal fango e accatasta i mobili da buttare.
da La Nazione del 22 gennaio 2003
Un attentato distrugge l’ovovia dell’Abetone È la notte fra il 20 e il 21 gennaio del 2003. Le neve dell’Abetone s’incendia all’improvviso e, in quaranta minuti va distrutta, l’ovovia Saf, il più prestigioso impianto di risalita dell’Appennino, inaugurato quattro anni prima e costato 15 miliardi di lire, capace di trasportare 2400 persone all’ora in vetta al monte Gomito. Quattro boati seguiti da fiamme altissime distruggono la stazione di partenza, le 79 telecabine da 8 posti l’una e il capannone di 900 metri che le ospitava. Il calore liquefa il cavo che le sorreggeva. Un disastro. C’è una scritta su un muro vicino: «Fuoco ai distruttori; Marco libero». Marco è Marco Camenish; ecoterrorista detenuto in carcere per attentati analoghi. Arrivano rivendicazioni senza firma: «Attacchiamo chi trasforma la montagna in denaro». Le indagini si concentrano nel mondo degli ecoterroristi. Abetone è in ginocchio. Dopo un anno risorge: l’impianto viene riattivato. I responsabili del distrastro non sono mai stati individuati.
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