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150 ANNI di STORIA ATTRAVERSO LE PAGINE DEL NOSTRO QUOTIDIANO
SUPPLEMENTO AL NUMERO ODIERNO A CURA DI
Arezzo
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Così nacque in una sola notte il giornale di Bettino Ricasoli L’annessione della Lombardia? Ecco quanti fiorini costò ai piemontesi Arezzo città risorgimentale legge fin dall’inizio La Nazione È il 24 marzo del 1921 La rivolta degli anarchici nelle miniere di Castelnuovo È l’aprile del 1921 Un agguato e una strage a Foiano Ormai l’Aretino è in mano ai fascisti da La Nazione del 29-30 ottobre 1922 È in corso la Marcia su Roma Arezzo invasa dalle camicie nere Cronache dagli anni Venti (dalla città e dalla provincia) Un secolo di cronaca locale (e tanti giornalisti illustri) De Anna: Così nacquero le redazioni di provincia Arezzo: il simbolo della rinascita economica da La Nazione del 12 gennaio 1967 Le dighe sull’Arno accusate del disastro È il 21 maggio del 1981 P2: l’elenco di Licio Gelli che fece tremare l’Italia È il 2 marzo 2003 I terroristi uccidono ancora Arrestata Desdemona Lioce Una storia fatta di campioni I “grandi” dell’avventura amaranto Supplemento al numero odierno de LA NAZIONE a cura della SPE
AREZZO
150 anni di storia attraverso le pagine del nostro quotidiano.
Non perdere in edicola il terzo fascicolo regionale che ripercorre, attraverso le pagine de La Nazione, la storia fino ai nostri giorni e i 17 fascicoli locali con le cronache più significative delle città. In copertina: Il Valletto della Giostra del Saracino con “La lancia d’oro”. La 118a edizione della Giostra (6 settembre 2009), è dedicata al quotidiano La Nazione in occasione dei 150 anni della sua fondazione.
Direttore responsabile: Giuseppe Mascambruno
Progetto grafico: Marco Innocenti Luca Parenti Kidstudio Communications (FI)
Vicedirettori: Mauro Avellini Piero Gherardeschi Antonio Lovascio (iniziative speciali)
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COSÌ NACQUE IN UNA SOLA NOTTE IL GIORNALE DI BETTINO RICASOLI Gli studenti che avevano combattuto a Curtatone e Montanara, i professori, gli enti e gli amministratori, furono dagli inizi sostenitori del Ricasoli e del suo governo provvisorio
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essun altro giornale può vantarsi di essere nato con l’Italia e di averla accompagnata giorno dopo giorno, fino ad oggi. E infatti, se anche una testata, la Gazzetta di Parma, sicuramente è più antica di quasi 100 anni rispetto al giornale fiorentino, è anche vero che per lunghi periodi ebbe un altro nome, in altri sospese le pubblicazioni, e in ogni caso non svolse il ruolo fondamentale per l’Unità d’Italia che toccò al foglio di Bettino Ricasoli. Già, perché fu proprio lui, il “Savonarola del Risorgimento” come lo definiva Spadolini, a volere che il nostro giornale fosse in edicola, redatto e composto in una sola notte, alla notizia dell’armistizio di Villafranca.
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a storia è nota. L’11 luglio del 1859, nel pieno della seconda guerra di indipendenza, quando le truppe franco piemontesi avevano vinto battaglie di rilevanza enorme, come quella di Solferino, e già si pensava come invadere e liberare il Veneto, all’improvviso francesi ed austriaci firmarono un armistizio ed i Savoia non ebbero la forza per opporsi. Lo fecero perché la Francia cominciava a temere un attacco da parte della Prussia che stava ammassando le sue truppe ai confini. Lo fecero, perché un’Italia libera e indipendente poteva anche andar bene alla grandi potenze europee, ma non doveva essere eccessivamente forte. E dunque, ecco che al Piemonte veniva concessa quasi per intero la Lombardia, ma il Veneto il Trentino e la Dalmazia restavano agli austriaci, mentre in Toscana sarebbero tornati i Lorena, e in ogni caso si ipotizzava una federazione di stati del Centro Sud sotto la guida del Papa. Alla notizia, Cavour, dopo uno scontro durissimo con Vittorio Emanuele si dimise. E l’unico a sostenere la causa dell’Italia da unire, restò in quelle ore il capo del governo toscano costituitosi dopo la partenza del granduca,
Bettino Ricasoli appunto. La notizia dell’armistizio arrivò a Firenze nel pomeriggio del 13 luglio e i patrioti si riunirono in Palazzo Vecchio dove regnava la rabbia, il caos, la voglia di reagire ma anche un profondo senso di impotenza. E l’unico che dimostrò di avere le idee chiare, ben al di là della logica, delle possibilità offerte dalla diplomazia, si rivelò Ricasoli che non poteva a nessun costo accettare quanto stava accadendo.
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infatti, lui guidava un governo toscano provvisorio con l’unico scopo di arrivare al plebiscito per l’annessione al Piemonte, e se fossero tornati i Lorena tutto sarebbe crollato. Sotto il profilo politico ma anche sotto il profilo personale. Così, dimostrandosi in quelle ore il vero artefice del Risorgimento, ancor più dello stesso Cavour che in qualche modo aveva gettato la spugna, Ricasoli spedì due ambasciatori a Torino e a Parigi per tentare di modificare le cose. Ma nello stesso tempo mandò a chiamare tre patrioti fiorentini, il Puccioni, il Fenzi ed il Cempini, che a suo tempo avevano proposto di stampare un quotidiano in appoggio alle posizioni del governo toscano, e disse loro: “È arrivato il momento, per domattina voglio il giornale.” E a niente valsero le timide proteste dei tre che, comprensibilmente, facevano notare come fossero già le nove di sera e come non sarebbe stato facile mettere insieme i testi e farli comporre in poche ore. Ma Ricasoli insisteva “O domattina o mai più.” E dette anche il nome alla testata “La Nazione”, che era tutto un programma, anzi, era il programma. Puccioni, Fenzi e Cempini presero una carrozza e si fecero portare in via Faenza alla tipografia di Gaspero Barbera, un patriota piemontese, qui cominciò un lavoro frenetico a redigere i testi ed a comporli. Come nelle migliori tradizioni del giornalismo, redattori e tipografi lavoravano gomito a gomito. Un articolo non era ancora concluso e già la prima parte passava ai compo-
Puccioni (nel tondo) assieme a Fenzi e Cempini fu chiamato da Bettino Ricasoli a redarre e stampare in una sola notte il giornale La Nazione.
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sitori. Un articolo non era del tutto composto – all’epoca non estivano le linotype ed ogni parola era composta a mano – e già si facevano le bozze per le correzioni della prima parte. Alle cinque del mattino Ricasoli si presentò alla tipografia, lesse le bozze e dette il consenso. Alle dieci, tirate pare in tremila copie, due pagine in mezzo foglio, oggi diremmo formato tabloid, erano in vendita nel centro cittadino. Si trattava di un’edizione senza gerenza, senza il nome dello stampatore, senza il prezzo, senza pubblicità. Praticamente un numero zero.
E Il quotidiano di Ricasoli uscì il 14 luglio con un formato ridotto e senza l’indicazione dello stampatore. Fu solo con il 19 luglio del 1859 che venne distribuito (anno I° numero 1) il primo numero ufficiale.
così si andò avanti fino al 19 luglio quando, finalmente, La Nazione uscì nel suo primo numero ufficiale, con formato a tutto foglio, le indicazioni di legge, i prezzi per l’abbonamento e per la pubblicità. Così, dunque, nacque il nostro giornale. Che conobbe i giorni fausti dell’Italia Unita, e poi quelli pieni di problemi, non solo economici, in cui Firenze fu provvisoriamente capitale. Quindi la questione romana, la breccia di Porta Pia, e insomma tutte le fasi che con alterne vicende portarono alla nascita dello Stato italiano.
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a fu proprio con Roma Capitale che La Nazione dovette modificare il proprio tipo di impegno. Che fare? Seguire il governo e il mondo politico fino a Roma, là dove si sarebbero svolte da allora in poi tutte le vicende, e prese le decisioni relative all’Italia? La domanda fu posta ed era più che legittima. Nessun altro quotidiano aveva il diritto di continuare le proprie pubblicazioni nella sede del regno e del governo italiano, più di quello che l’Italia aveva contribuito a farla nascere. Ma fu compiuta una scelta, che di certo non fu di tipo economico: restare. Restare a Firenze, accompagnare la vita della città dove era nata, e dedicare sempre di più le proprie attenzioni anche alla vita quotidiana, a quella che oggi diremmo la cronaca di ogni giorno. Insomma, da grande foglio risorgimentale carico di tensioni ideali, a giornale come oggi lo intendiamo. Con rubriche dedicate alla moda, allo sport, con grandi spazi dedicati alla vita musicale e teatrale. Con la disponibilità a condurre grandi battaglie nel nome e per conto di Firenze, che già allora viveva con naturalezza la sua doppia natura, ancor oggi visibile: quella di una
dimensione provinciale aperta al mondo. Città universale e allo stesso tempo città dove pochi personaggi, e fra loro in costante conflitto, dominavano la scena. Rese possibile questa scelta di obiettivi un grande direttore, Celestino Bianchi. Che seppe conquistare il pubblico femminile, interessare anche la media e piccola borghesia mercantile, ma soprattutto richiamare intorno al foglio di Ricasoli le migliori firme italiane del momento. Che, del resto, già erano presenti su La Nazione, fin dai primissimi anni. E allora ecco il D’Azelio e il Tommaseo, ecco il Manzoni e il Settembrini, e poi il Collodi, il De Amicis, Alessandro Dumas, Capuana, il Carducci e in seguito anche il Pascoli, ed infinti altri. Grandi firme che sarebbero continuate durante il fascismo e nell’Italia repubblicana fino ad oggi. Da Malaparte a Bilenchi, a Pratolini, ad Alberto Moravia, a Saviane, a Luzi. Dopo aver ospitato Papini, Prezzolini, Soffici, e gran parte dei letterati delle Giubbe Rosse nel periodo che precede e che segue la grande Guerra.
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ueste le scelte che permisero a La Nazione, pur dovendo affrontare momenti di crisi e di difficoltà, di battere ogni volta le testate concorrenti. Se esisteva una difficoltà di vendita o addirittura di immagine, sempre riuscì a trovare gli uomini e le energie per risollevarsi. Liberale infatti, fu sempre il quotidiano fiorentino, ma di un liberalismo illuminato che sapeva aprirsi ogni volta ai temi di interesse sociale, e per farlo non esitava ad ospitare anche firme lontane dalle proprie posizioni. Così, quando si trattò di presentare ai fiorentini, e commentare, la nascita delle scuole serali, fu chiesto un articolo a un giovane e rivoluzionario poeta, il Carducci.
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fu tra i primi giornali, La Nazione di Firenze, a porre sul tappeto il dramma del lavoro minorile, e a pubblicare le relazioni di Sidney Sonnino sulla condizione dei bambini, quelli del Nord Italia che a sette anni lavoravano anche 13 ore al giorno nell’industria della seta e quelli di Sicilia, costretti a starsene chini, senza luce né acqua, nelle solfatare di Sicilia. Ancora di più colpisce, per il giornale del Risorgimento, la moderazione con la quale fu seguita la questione romana e fu data notizia della breccia di Porta Pia. E infatti,
mentre la retorica anticlericale si scatenava, creando con i suoi estremismi solo un effetto boomerang, La Nazione fu capace di analisi e di intuizioni che a distanza di 90 anni, con il Concilio Vaticano II, perfino il mondo cattolico avrebbe fatto proprie. Scriveva infatti il nostro giornale: “Il potere temporale ha trattenuto il cattolicesimo fermo sull’idea imperiale pagana.” Del resto non era il Ricasoli religiosissimo?
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dunque, è in omaggio ad una visione laica delle differenze fra Stato e Chiesa, una visione totalmente deducibile dai vangeli che si combatté quella battaglia, che non significava affatto compiacersi di un assoluto anticlericalismo ideologico, o ancor di più di una qualsiasi forma di ateismo conclamato. E ancora, quando si trattò di decidere se trasferirsi a Roma capitale, seguendo le sorti del governo e del re, la spiegazione data ai lettori fu questa. “Noi non vogliamo che Roma attiri a sé tutta la forza intellettuale. Noi vogliamo che Napoli, Firenze, Bologna, Venezia, Milano, Torino, serbino la loro influenza legittima, portino il peso nella bilancia delle sorti politiche nazionali. Ogni regione ha elementi originali da custodire e nello stesso tempo è sentinella dell’Unità inattaccabile.” Una prosa intelligente, modernissima, attuale ancor oggi, 140 anni dopo.
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n atteggiamento che La Nazione conservò anche in epoche ben diverse. Così, durante il fascismo, pur costretta come tutte le testate a pubblicare le veline del minculpop, non per questo La Nazione si allineò mai totalmente al regime. Tanto da opporsi, allorché il Regime voleva imporre come direttori uomini di assoluta fede a Mussolini. E ospitare firme, come quella di Montale, il personaggio che per il suo antifascismo era pur stato “licenziato” dal Vieusseux. Uno stile, un modo di essere, che la premierà quando, pur con mille problemi tornerà alle pubblicazioni nel 1947.
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ancora, quando nel ’68 la realtà italiana dette segni di grande malessere e tutto il nostro modo di essere società fu posto in forse, La Nazione non esitò ad assumere giovani della più varia estrazione politica ed ideologica, anche con provenienze ben diverse da quelle liberali, perché contribuissero ad aiutare la direzione a interpretare quanto stava accadendo. Erano i giorni del direttore Mattei ed ancor più del condirettore Marcello Taddei. La Nazione si poneva una volta di più il problema di come adeguarsi ai tempi. E se ciò le costò dei rischi, e dure minacce per alcuni dei suoi cronisti quelli più esposti nei giorni del terrorismo - ciò non modificò la sua linea.
Nella foto: Alessandro Dumas fu il primo inviato speciale de La Nazione. Toccò a lui seguire l’impresa dei Mille. I suoi dispacci arrivavano alla tipografia a distanza di settimane.
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L’annessione della Lombardia? Ecco quanti fiorini costò ai piemontesi Il primo supplemento nella storia de La Nazione pubblicò gli accordi di pace tra Francia e Austria
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cco il primo supplemento pubblicato a corredo de La Nazione. Fu diffuso il 22 ottobre 1859, ed andò a ruba fra i lettori. Si tratta di un dispaccio dell’Agenzia Stefani composto a tutta pagina arrivato da Parigi la sera del 21 ottobre, e contiene il trattato di pace tra Francia ed Austria. È dunque la conseguenza dell’armistizio di Villafranca, del quale riprende in gran parte le decisioni, e segna la fine della seconda guerra di Indipendenza.
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olpisce, leggendolo, l’aspetto economico che solitamente viene trascurato nei libri di storia. Eppure, a guardar bene è forse la parte più rilevante della pace. Al Piemonte infatti, per avere la Lombardia, in qualche modo conquistata sul campo di battaglia, occorre versare una cifra considerevole oltre a farsi carico dei tre quinti dei debiti della banca del Lombardo Veneto. Ora, se si pensa che il Veneto restava all’Austria, appare chiaro che la gran parte dei debiti dell’Istituto finanziario finisce
Il 22 ottobre del 1859 i lettori de La Nazione per la prima volta ricevono in omaggio un supplemento di particolare valore storico.
proprio a carico dei Savoia. E allora, il sangue versato a Solferino dalle armate vittoriose dei patrioti?
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’altro aspetto riguarda il timore che l’Italia Unita voglia in qualche modo rifarsi delle spese a scapito degli “stabilimenti religiosi” e in genere della Chiesa. Cosa che poi avvenne in qualche modo, ma che austriaci e francesi volevano evitare ad ogni costo. Così dettano una serie di regole per evitare che in Lombardia, il nuovo governo vada a far cassa confiscando le confraternite religiose. Altro aspetto, in qualche modo collegato, il ruolo che dovrà avere il Papa in una possibile confederazione di stati italiani.
IL TRATTATO DI PACE Parigi 21 ottobre sera – I fogli francesi ed Inglesi riproducono un dispaccio da Zurigo contenente i particolari del trattato Franco – Austriaco. L’Austria conserverà Peschiera e Mantova. Il Piemonte pagherà le pensioni accordate precedentemente dal Governo lombardo. Pagherà all’Austria 40 milioni di fiorini, assumerà tre quinti del debito del Monte Lombardo Veneto: totale del debito assunto dalla Sardegna 250 milioni di franchi. Desiderando la tranquillità della Chiesa e volendo assicurare il potere del Papa, convinte che questo oggetto potrà essere compiutamente ottenuto soltanto da un sistema che risponda ai bisogni delle popolazioni ed alle riforme di
cui il Papa già conobbe la necessità, le due parti contraenti riuniranno i loro sforzi per ottenere che il Papa faccia delle riforme nell’amministrazione dei suoi stati. I limiti dei territori degli stati indipendenti italiani che non parteciparono alla guerra non potranno essere mutati che dietro il consenso delle potenze che concorsero a formarli, garantendo la loro esistenza: i diritti dei sovrani di Toscana, Parma e Modena sono espressamente riservati alle potenze contraenti. I due imperatori daranno tutto il loro appoggio alla formazione di una Confederazione degli Stati Italiani, collo scopo di conservare all’Italia l’indipendenza e l’integrità, assicurare il benessere morale
e materiale del Paese, vegliare alla sua difesa col mezzo di un esercito federale. La Venezia resta sotto lo scettro dell’Imperatore d’Austria, farà parte della Confederazione, parteciperà ai diritti ed agli obblighi del trattato federale, quale sarà stabilito fra gli stati italiani. Un articolo apposito regola l’amnistia. Le ratifiche saranno scambiate entro 15 giorni. L’Austria restituirà i depositi in valore affidati alla Casse pubbliche ai privati. Gli stabilimenti religiosi di Lombardia potranno disporre liberamente dei loro beni di qualsiasi natura, se il possesso di questi beni fosse incompatibile colle le leggi del nuovo governo.
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Arezzo città risorgimentale legge fin dall’inizio La Nazione Il foglio voluto da Ricasoli divenne fin dal 1859 il giornale dei moderati Il ruolo svolto dai patrioti dell’Accademia dei Costanti e dell’Accademia Petrarca
morti), Cavriglia (4 luglio 1944, 200 morti) e San Polo (14 luglio 1944, 78 morti).
di Salvatore Mannino
È Nella foto: Il barone Bettino Ricasoli che alla notizia dell’armistizio di Villafranca volle che fosse stampata, in una sola notte, La Nazione.
il telegrafo che porta ad Arezzo nella notte fra il 27 e il 28 aprile 1859 la notizia della fuga dell’ultimo dei Granduchi, Leopoldo II. Nei luoghi di ritrovo principali dell’aristocrazia e della borghesia cittadine, l’Accademia dei Costanti con il Caffè omonimo e l’Accademia Petrarca, allora ubicata in via di Vallelunga, adesso via Cavour, si commenta subito con favore l’insediamento del governo provvisorio toscano, dominato dalla figura di Bettino Ricasoli. Il liberalismo moderato di stampo cavouriano è del resto da tempo l’ideologia che si va affermando nella classe dirigente aretina, sulla quale pesa il peccato originale delle porte chiuse in faccia a Garibaldi nel 1849.
È
liberale Pietro Mori, già iscritto alla Società Nazionale, che sarà il sindaco del primo decennio post-unitario, è liberale Leonardo Romanelli, che il governo provvisorio nomina prefetto, è liberale Enrico Felciai-Fossombroni, figlio adottivo del grande Vittorio, che di Arezzo sarà il primo deputato al parlamento nazionale. L’Accademia Petrarca, principale centro intellettuale nomina fra i suoi soci onorari i grandi del Risorgimento, da Cavour a Vittorio Emanuele II.
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he in questo clima la nascita de La Nazione, il 13 luglio 1859, all’indomani dell’armistizio di Villafranca e in polemica con essa, venga accolta con entusiasmo è fin troppo
D comprensibile. Il giornale voluto da Ricasoli diventa subito uno dei più apprezzati nei gabinetti di lettura dei Costanti e dell’Accademia Petrarca, affermandosi come il principale portavoce dei moderati aretini, saldamente egemoni nella politica locale. Non a caso, Piero Puccioni, fondatore e uno dei primi direttori del quotidiano, verrà eletto deputato nel collegio di Sansepolcro. Sono anni di grande mutamento. Nel 1866, l’arrivo della ferrovia Firenze-Roma induce l’amministrazione comunale a una radicale rivoluzione urbanistica, con la realizzazione di via Guido Monaco e della piazza omonima fra la città antica e la stazione.
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olo a metà degli anni ’70 si appanna un po’ la stella dei moderati, il cui deputato, il celebre studioso Pasquale Villari, viene costretto al ballottaggio dall’astro nascente dell’Estrema Sinistra, il radicale Giovanni Severi. Ma bisognerà arrivare al principio del ‘900 perché i democratici riescano a conquistare
il Comune con Guglielmo Duranti, mentre sono radicali i deputati di Cortona, Luigi Diligenti, di Bibbiena, Guglielmo Sanarelli, e Montevarchi, Arturo Luzzatto, amministratore delegato delle Ferriere di San Giovanni.
opo la Liberazione, Arezzo riparte da un nuovo sindaco, l’azionista Antonio Curina, mentre un po’ dovunque è la sinistra sulla cresta dell’onda. Le prime elezioni del 1946 danno la vittoria a maggioranze fra partito socialista e partito comunista non solo nel capoluogo ma in tutti i principali centri della provincia. Il referendum istituzionale del 2 giugno vede prevalere nettamente la repubblica, viene eletto per la prima volta il democristiano Amintore Fanfani, che di Arezzo resta a tutt’oggi la figura di maggiore spicco politico, l’unico presidente del consiglio.
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elle amministrazioni locali, invece, continua il dominio della sinistra, che sarà infranto solo nel 1999 dall’elezione a sindaco di Luigi spazzare l’eterna contesa Lucherini, il primo esponente di tra moderati e democrati- centrodestra dal 1921. La figura ci, già incrinata dalla pri- dominante del dopoguerra, ma guerra mondiale, arriva nel assieme a Fanfani, è quella di 1921 l’affermazione del fasciAldo Ducci, socialista, sindaco smo, caratterizzata da episodi di dal 1962 al 1990, l’uomo della terribile violenza politica, come grande crescita del capoluogo i fatti delle miniere di Castelnell’era del boom economico. nuovo (marzo 1921) e di Foiano Nel 1994 Paolo Ricci, cattolico di (aprile 1921, ben 11 morti). centrosinistra, è il primo sindaco eletto dal voto popolare dopo la nche l’edizione locale de fine della prima repubblica. La Nazione, simpatizzante Nel 2006, sull’onda dello del fascismo fin dal suo scandalo noto come Variantosorgere, si allinea ben presto poli, approda a Palazzo Cavallo al Regime, cui rimarrà fedele Giuseppe Fanfani (ancora cenfino alla catastrofe del conflitto trosinistra), nipote di Amintore. mondiale e alla guerra civile, che Il lungo dopoguerra è finito, porta con sé nuovi, tragici lutti. Arezzo è ormai pienamente nel La provincia di Arezzo è tra le nuovo millennio. più colpite, con quasi mille vittime delle stragi naziste, da Vallucciole (aprile 1944, 108 morti) a Civitella (29 giugno 1944, 230
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I risorgimentali rappresentavano la maggioranza nella classe dirigente aretina. Per questo La Nazione fu accolta con entusiasmo fin dagli inizi.
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È il 24 marzo del 1921
La rivolta degli anarchici nelle miniere di Castelnuovo Ucciso un ingegnere, i rivoltosi hanno infierito sul suo cadavere La situazione a San Giovanni Valdarno e il manifesto dei fascisti
Nella foto: Errico Malatesta (a sinistra con la barba) con un gruppo di Arditi del Popolo. Malatesta fu fermamente convinto, così come l’amico Pëtr Kropotkin, dell’imminente avvento di una rivoluzione anarchica. Passò più di dieci anni della sua vita in carcere e buona parte in esilio.
Errico Malatesta, l’anarchico amico di Bakunin soprannominato il Lenin d’Italia, ancora una volta è in carcere e sta facendo lo sciopero della fame. Ex mazziniano, poi diventato anarchico durante l’esperienza della Comune di Parigi del 1871, cercatore d’oro in Patagonia, per un certo periodo anche massone, protagonista di innumerevoli e regolarmente falliti tentativi insurrezionali, dopo aver vissuto in Sud America, a Nizza, a Parigi, in Spagna, è riuscito a trascinare dalla sua parte molti minatori e cavatori toscani. In particolare a Cavriglia e Castelnuovo dei Sabbioni, dove sono le miniere di lignite, può contare sulla fedeltà di molti uomini. E sono loro, per chiederne la liberazione il 24 marzo del 1921, che organizzano una serrata delle miniere. Ma la
serrata si trasformerà poi in una vera e propria rivolta con morti e feriti. Agli anarchici si oppongono i fascisti. Ecco alcuni brani dalle cronache con le quali La Nazione ne dava notizia
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astelnuovo… i minatori che come è noto avevano proclamato lo sciopero ieri mattina contro la detenzione di Errico Malatesta, ebbero sentore del passaggio di camions di fascisti a Montevarchi. Si sparse immediatamente la voce che i fascisti fiorentini erano diretti verso Castelnuovo dei Sabbioni
e l’elemento anarchico e comunista, assai forte fra i minatori, si dette la cura di destare quanto più allarme possibile nella massa… le voci allarmistiche ottennero l’effetto desiderato e la massa dei minatori, richiamata dal fischio della sirena della Centrale, dopo qualche titubanza decise di andare sulla strada di Montevarchi a impedire il passaggio a chicchessia. E si riversarono giù dalla cave, abbandonando le gallerie, fermando le macchine, si riunirono prima in paese e poi formata una colonna di circa un migliaio, si diressero nella strada che mena a Montevarchi. Gli operai, eccitati dai discorsi dei capi comunisti che li avevano invitati ad usare la violenza non ragionavano ormai più e lo stato d’animo della massa… si è rivelato in un selvaggio episodio.
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roprio ai piedi della collina su cui è appollaiata Castelnuovo… ha sede la direzione… mentre nelle stanze della villa continuava il saccheggio e la devastazione, alcuni operai si imbattevano nell’ingegner Longhi che si trovava casualmente a Castelnuovo… mente tentava di fuggire. Contro di lui venivano sparati numerosi colpi di rivoltella e di fucile. Il disgraziato colpito mortalmente cadeva al suolo e contro di lui si accaniva la furia degli aggressori che lo colpivano con pietre e coi bastoni ferocemente. Anche altri
impiegati venivano più o meno gravemente feriti….
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an Giovanni Valdarno. Dopo i luttuosi fatti di ieri sera la città si è svegliata stamani nella calma più perfetta… Altra truppa si è intanto aggiunta a quella arrivata ieri sera e nel corso della notte….
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hi dà invece segni di vita sono i fascisti fiorentini i quali fin dalle prime ore di stamani si sono posti in moto per cercare una tipografia che componesse un manifesto… tutti i tipografi avevano lasciato il paese ad eccezione di uno che era stato arrestato. Ed è stato proprio a lui che si sono rivolti i fascisti… il manifesto dice: I fascisti fiorentini ordinano a tutti i cittadini di esporre entro un’ora il tricolore. Dopo la vigliacca aggressione subita avvisiamo che i capi comunisti che presero parte alla aggressione di ieri sera saranno soppressi appena che si rintraccino… fosse pure fra un anno visto che vigliaccamente sono fuggiti.
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le prime bandiere hanno fatto quasi immediatamente la loro apparizione. Poche dapprima, poi numerose fino a diventare un’infinità. Ora le bandiere sventolano a tutte le finestre. Non c’è casa a cui non sia stato esposto il tricolore e molti negozi si sono riaperti quasi che l’apparizione della bandiera nazionale avesse esercitato sulla popolazione una benefica opera di pacificazione.
Nel tondo: operai al lavoro nelle miniere di lignite a Castelnuovo dei Sabbioni. Fra di loro si diffusero le idee anarchiche di Malatesta.
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È l’aprile del 1921
Un agguato e una strage a Foiano Ormai l’Aretino è in mano ai fascisti
Nella foto: una manifestazione comunista a Foiano della Chiana del 1921. Il paese resistette alle continue provocazioni degli squadristi tanto da essere definito la “cittadella rossa”.
Le ricerche accurate di Salvatore Mannino - studioso di storia del fascismo aretino e nostro collega della redazione di Arezzo - ci permettono di ricostruire, oltre la cronaca, gli antefatti della strage di Foiano della Chiana, una delle pagine più tristi nel periodo che portò all’avvento del fascismo nella provincia di Arezzo. Dalle sue note, che gentilmente ci vengono concesse in attesa della pubblicazione di un volume destinato alla vicenda, traiamo dunque, con estrema sintesi, l’articolo che segue.
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ell’aprile 1921 Foiano è il cuore delle organizzazioni “rosse” non solo in Valdichiana ma in tutta la provincia, almeno alla pari di San Giovanni Valdarno e Cavriglia, in cui maggiore è stata (dopo i fatti del 23 marzo) la forza dei partiti di sinistra. Per i fascisti, attaccare Foiano è una necessità strategica: dopo aver espugnato la “cittadella rossa” la conquista dell’Aretino può dirsi completa. Fra il 12 e il 13 aprile spedizioni squadristische vengono lanciate contro la Valtiberina e il Casentino. È matura ormai l’offensiva
anche contro la “cittadella rossa” di Foiano, che infatti viene raggiunta la mattina di martedì 12 aprile, nelle stesse ore in cui si completa ad Arezzo l’occupazione del quartiere Colcitrone. Le fonti parlano di 150-200 squadristi giunti a Foiano per una spedizione punitiva.
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metodi sono quelli consueti: assalto al municipio e alle leghe rosse con incendio delle suppellettili in piazza, devastazione della Cooperativa di consumo, distruzione della Camera del Lavoro e della Cooperativa Badilanti “Fossombroni”. La domenica successiva gli squadristi, su due camion, si radunano nel capoluogo e partono verso la Valdichiana. Sono ventidue in tutto, il che lascia intuire come loro intenzione fosse non tanto un’occupazione del paese ma una spedizione di assaggio.
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l drappello dei fascisti giunge a Foiano quando militanti e dirigenti dei partiti di sinistra sono ancora a letto e non hanno il tempo di reagire. Solo alcuni dei capi, tra loro Gervasi e Melacci, riescono a darsi alla campagna. Vengono percossi
altri esponenti di sinistra. I fascisti tuttavia non desiderano altri inconvenienti né scontri. Per loro la spedizione volge al termine, si cerca solo un ristorante a Foiano in cui consumare il pranzo prima di ripartire. Ma tra i militanti di sinistra locale si intravede l’occasione di dare una lezione agli squadristi in inferiorità numerica. Mentre gli squadristi mangiano prima del ritorno ad Arezzo, alcuni dirigenti della sinistra locale mettono a punto il “colpo”. Il luogo scelto per l’agguato è la località Renzino, un paio di chilometri fuori del paese verso Arezzo. Gli esponenti di sinistra battono le case “sicure” di Foiano rastrellando armi, a volte raccolte anche contro il consenso dei proprietari. Vengono radunati intanto anche i partecipanti all’agguato, una cinquantina. Ci sono sicuramente alcune donne. Nel primissimo pomeriggio i partecipanti all’azione sono già alla Cascina Sarri, e si appostano sui due lati della strada.
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el frattempo, i fascisti ignari indugiano prima in trattoria e poi al Caffè. Intorno alle 15,30 si dividono in
due gruppi. Il primo resta in paese per preparare la costituzione del fascio. Gli altri riprendono, su uno dei camion, la via di Arezzo. Quando il mezzo arriva all’altezza della Cascina Sarri, dai due lati della strada, parte una fitta raffica di colpi d’arma da fuoco. Resta ferito per primo l’autista: Dante Rossi perde il controllo del camion che si rovescia. Colpito anche, mortalmente, Tolemaide Cinini. Il gruppetto dei protagonisti dell’agguato esce a questo punto allo scoperto e si lancia sui fascisti che paiono indifesi. Lo scontro è violento: Fegino, pur intrappolato sotto il camion, si salva fingendosi morto, Rossi, già sanguinante, viene finito con un colpo di scure alla testa, Gualtiero Quadri, un altro squadrista, si vede amputare due dita con la roncola. Mentre Dal Piaz, gravemente ferito a un braccio e al volto, e Guido Ciofini cercano rifugio in un fosso, gli squadristi rimasti illesi tentano di salvarsi fuggendo in direzione della fattoria di Brolio. Ce la fanno tutti ad eccezione del diciottenne Aldo Roselli che viene raggiunto, ferito a colpi di scure e ucciso da uno sparo. Intanto, la notizia dell’agguato è giunta fino a Foiano. Si organizzano i soccorsi, ma soprattutto monta la rabbia dei fascisti rimasti in paese che si precipitano a Renzino dopo aver allertato i camerati di Arezzo e Siena.
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l tramonto lo spettacolo che accoglie gli squadristi in arrivo da Arezzo, Siena e Perugia (altri ne giungeranno nelle ore successive da Firenze, da Roma e persino, secondo alcune fonti, da Ferrara) è drammatico: oltre il centro abitato le campagne sono in fiamme. La vendetta dei fascisti che ormai a centinaia hanno occupato il paese prosegue nella tarda serata di domenica e lunedì mattina. In totale il bilancio ufficiale è di dodici morti (tre fascisti e nove contadini o militanti di sinistra).
Per reazione contro un agguato che costò la vita a dodici persone, i fascisti misero a ferro e fuoco Foiano e le sue campagne.
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da La Nazione del 29-30 ottobre 1922
È in corso la Marcia su Roma Arezzo invasa dalle camicie nere I fascisti arrivano da tutta la Provincia e molti continuano in treno verso la Capitale Una riunione in prefettura, nell’eventualità dello Stato d’assedio. “I toscani sono in testa”
toscani sono in testa”. A rendere inutile ogni speranza di reazione, fu inoltre l’atteggiamento del Re. Il Governo aveva infatti proclamato lo Stato d’assedio che doveva entra in vigore a mezzogiorno del 29 ottobre e i ministri avevano deciso di “sedere in permanenza a Palazzo Venezia”. Tutto sembrava volgere verso uno scontro militare con i fascisti. Ma il re si era rifiutato di firmare l’atto. E dunque, veniva lasciata via libera alle camicie nere fasciste che nel frattempo avevano invaso Roma. Da ciò alcuni brani, in apparenza contraddittori, nella cronaca che segue.
Arezzo è una delle provincie toscane dove lo scontro tra fascisti e antifascisti è più duro e violento, negli anni che precedono l’arrivo al potere di Mussolini. In particolare, scontri durissimi si ebbero in Valdarno, nella zona delle miniere di lignite e in Val di Chiana. Ma nei giorni della Marcia su Roma, come dimostra la cronaca che segue, tutto fu in apparenza tranquillo. Le camicie nere avevano costituito una loro base operativa nella ex chiesa di Sant’Ignazio, e qui si presentavano quanti avevano
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rezzo 28 notte. Grande folla dalla Provincia convenuta in città stamani per la tradizionale fiera di San Simone, ha appreso la notizia della Marcia su Roma. La città è coperta di striscioni tricolori con le scritte W. il Re, W. l’Eserintenzione di continuare verso cito, W. l’Italia, W. il Fascismo. In Roma e piuttosto fermarsi in prefettura un lungo colloquio ha città per evitare “colpi di testa” avuto luogo tra il prefetto Comm. da parte degli avversari politici. Cavalieri, il Questore Cav. Uff. In breve tempo la città sembra Vincenzo Gueli, il Comandante sotto il loro controllo. del presidio Col. Cav. Antonio Del resto, quanto accadeva Duranti, il Capitano dei RR. CC. nelle province vicine, non Bertarelli. lasciava spazio per azioni di qualsiasi tipo. Da Firenze e da iù tardi ha conferito col PreEmpoli erano partiti su Roma fetto il Segretario Politico migliaia e migliaia di fascisti. provinciale del P.N.F. ProfesLo stesso era accaduto da Siena, sor Alfredo Frilli. A mezzogiorno da Lucca, da Pisa e Livorno, per il servizio d’ordine della città non parlare della vicina Perupasserà nella mani dell’autorità gia. Tutto questo permetteva militare giacchè sappiamo che è a La Nazione di titolare che “I stato proclamato lo stato d’asse-
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dio. Fino ad ora nessun incidente si è verificato e i fascisti sono disciplinatissimi e informano che moltissimi fascisti nella nottata scorsa sono partiti verso Roma. In mattinata ad Arezzo i fascisti hanno occupato l’ex chiesa di Sant’Ignazio e hanno stabilito degli accantonamenti dove affluiscono i fascisti della provincia.
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ol treno delle 15,07 saranno avviati a Monterotondo altri notevoli nuclei fascisti. Oggi sabato si sono concentrati alla stazione ferroviaria diverse centinaia di fascisti di Arezzo e provincia, pienamente equipaggiati e riboccanti di entusiasmo. Le squadre, organizzate militarmente, sono lungamente rimaste in attesa del direttissimo 21, che però come il diretto proveniente da Roma ha avuto enorme ritardo. Altre, e assai numerose, sono partite nella notte di venerdì da Arezzo e da altre regioni della Provincia. In città e provincia la calma è completa.
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d Arezzo continuano a giungere dalla provincia squadre di camicie nere. Il telefono ha funzionato fino alle… completamente dalle 14 alle 15 solo per la stampa e dopo le 15 tutte le comunicazioni sono rimaste completamente interrotte. La cittadinanza ha appreso con la più viva soddisfazione che lo stato d’assedio è stato subito revocato telegraficamente. Ad Arezzo, infatti, non sono stati nemmeno affissi i bandi dell’Autorità Militare.
Nella foto: un gruppo di fascisti aretini, armi in pugno, posano per una foto destinata ad esaltare le loro “virtù guerriere”.
16 Informazione pubblicitaria
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Cronache dagli anni Venti
(dalla città e dalla provincia) La redazione storica de La Nazione, in via Cavour al numero 20, con l’indirizzo ben posto in evidenza sotto la testata di cronaca di Arezzo. Così venivano presentate ai lettori degli anni Venti le notizie della nostra città, per lo più a pagina 4 o 5 del giornale. Erano numerose le cronache dalla provincia. E ciò dimostra che La Nazione non aveva solo un ufficio di corrispondenza nel capoluogo, ma anche una rete ben organizzata di corrispondenti. In questa pagina, del 21 maggio 1924, e dunque agli inizi del regime fascista, si ha un’idea di come veniva preparata la cronaca aretina. Qui di seguito riscritte, alcune delle notizie pubblicate in quel giorno.
La Commissione aretina ricevuta da S. E. Mussolini
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i telefonano da Roma: Il Presidente del Consiglio ha oggi ricevuto a Palazzo Chigi nel salone della Vittoria la Commissione aretina composta dall’On. Bartolomei, dal Sindaco dott. Fiumicelli, dal Presidente della deputazione Avv. Ristori, dal Prefetto Comm. Massara, dal Segretario della Federazione Fascista Dragoni, dal Segretario Politico del Fascio Avv. Renato Bizzelli, dal Segretario della Federazione Combattenti Patrizi, dal Segretario dei Sindacati Fascisti Mario Barioli dal Segretario della Federazione Mutilati Nello Ricci. La Commissione è stata presentata dalle LL. EE. Marchi e Lupi. Messo al corrente delle vicissitudini dell’erigendo monumento a Petrarca il presidente del Consiglio si è interessato vivamente e ha voluto vedere la fotografia del bozzetto giudicando l’opera molto bella e dignitosa; ha dato poi l’assicurazione che lo Stato darà un contributo di L. 120mila perché l’opera sia portata termine. La commissione ha quindi ricordato al Presidente la promessa fatta alla popolazione in occasione del suo passaggio alla stazione di Arezzo di visitare la città e ha pregato di fissare la data. S. E. Mussolini, pur non potendo determinare il giorno preciso ha assicurato che verrà ad Arezzo entro il mese di giugno e ha chiesto il programma della giornata…
Cronaca di San Giovanni
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oloroso fatto di sangue. Stamani per cause non ancora ben precisate perché nessuno fu testimone una tragica repentina scena è avvenuta nell’interno della pizzicheria Scaramelli situata al N. 3 in Corso Vittorio Emanuele. Verso le ore 11 il negoziante di cereali Borbui Luigi di anni 43, fu Simone, abitante in Corso Vittorio Emanuele 49 si presentava nel negozio del pizzicagnolo Giuseppe Scaramelli per trattare di alcuni lavori relativi al fondo tenuto da questi in affitto e del quale risulterebbe come nuovo proprietario il Borbui. Non è dato sapere quello che avenisse fra i due. Solo le grida del Borbui, ferito da una coltellata alla schiena tiratagli dallo Scaramelli, uomo sulla sessantina, padre di cinque figli, facevano accorrere molti cittadini che provvedevano a trasportarlo all’Ospedale Alberti dove riceveva le cure del prof. Bastianelli... Lo Scaramelli si è costituito in pieno stato di incoscienza agli agenti di P. S. Loddi e Artigiani, i quali sopraggiungevano pochi istanti dopo e trovasi ora rinchiuso in queste carceri giudiziarie. Il Bobui, che abbiamo potuto interrogare che ha dichiarato che fu ferito con una coltellata all’improvviso senza che lo Scaramelli pronunciasse parola alcuna, aggiungendo inoltre che fra loro intercorrevano i migliori rapporti di amicizia.
Cronaca di Cavriglia Mussolini cittadino onorario. Stamani nel civico palazzo di Cavriglia si è tenuta l’adunanza di quel consiglio comunale che fra i molteplici affari escussi ha approvato lo statuto relativo alla costituzione in consorzio dell’ospedale Alberi di San Govanni Valdarno fra i comuni del nostro mandamento… In fine seduta, a cui assisteva molto pubblico, veniva acclamato cittadino onorario del Comune di Cavriglia , S. E. Mussolini al quale il sindaco Fineschi comunicava telegraficamente la conferita cittadinanza.
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Un secolo di cronaca locale (e tanti giornalisti illustri) Dalla sede di via Cavour a quella attuale di via Petrarca Il ruolo svolto da La Nazione per la Giostra del Saracino, il recupero del Centro Storico, la fiera antiquaria
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primi nomi che affiorano sono quelli di Giovanni Lazzeroni e di Alfredo Bennati, che negli anni ‘20 e ‘30 sarà a lungo il titolare di quello che nel frattempo ha preso il nome di ufficio di corrispondenza, con sede dal 1931 al numero 1 di via Petrarca. Bennati è un intellettuale legato alla cerchia nazionalista del podestà Pier Ludovico Occhini, teorico dell’ideologia dell’aretinità, cui va attribuita la reinvenzione del centro storico come è ancora oggi. Al giornalista in particolare si deve la riscoperta delle carte sulla base delle quali, proprio nel 1931, viene allestita la prima edizione moderna della Giostra del Saracino, di cui La Nazione ovviamente contribuisce al lancio, un altro segno del legame strettissimo fra giornale e aretini.
Nei tondi: Beppe Dragoni (in alto) che per anni guidò la redazione aretina del nostro giornale e Mario D’Ascoli (in basso), capo pagina dal 1992 al 2006 e noto opinionista sportivo.
di Salvatore Mannino
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Il primo indirizzo conosciuto è il numero 20 di via Cavour. Qui, fra piazza San Francesco e il Corso, la testatina della cronaca di Arezzo, a pagina 4 di un’edizione in sei fogli, indica dal 25 luglio 1920 la sede della redazione locale de La Nazione. Anche se probabilmente si trattava di un ufficio di corrispondenza, della stanza da cui uno o più corrispondenti inviavano le loro notizie alla redazione centrale di Firenze, che provvedeva ad impaginarle e titolarle. Tuttavia, la presenza di una sede aretina del giornale e di una cronaca locale in una
paginetta di titoli a una colonna, articoletti per lo più simili a brevi, è assai più antica, sicuramente esisteva nel 1914, alla vigilia della Grande Guerra, forse già nel primo decennio del ‘900.
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hi fossero questi cronisti d’epoca non è facile riscoprirlo, a un secolo di distanza. Allora gli estensori di cronaca erano rigorosamente anonimi, firme non se ne trovano, ad eccezione di qualche collaboratore illustre, come il dottor Ugo Viviani, medico di mestiere e storico per vocazione, cui è anche dedicata una strada.
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l quotidiano, non può essere diversamente in quegli anni, è pienamente allineato con il Regime. Ancora nel 1944 (la sede si è nel frattempo trasferita in piazza Guido Monaco) Alfredo Bennati è corrispondente dell’edizione repubblichina del giornale, la più triste. La collezione della cronaca di Arezzo si interrompe nel giugno 1944. Riprenderà nel 1945 sotto la testata di “La Nazione del Popolo” e poi, dal 1947, con la testata classica La Nazione.
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ra i giornalisti arriva linfa nuova. Nei primi anni ’50 entrano in redazione (l’ufficio si è spostato in Corso Italia, nel palazzo del Circolo Artistico) due personaggi chiave della storia aretina del quotidiano: Piero Magi, che sarà a lungo inviato di prestigio e infine dal 1981 direttore, e Giuseppe Dragoni, giovane ingegnere mancato, implacabile giocatore di poker, uomo dal giudizio sempre lucido.
Magi sarà il primo capo della sede locale, quando verrà chiamato a Firenze in redazione centrale gli succederà Dragoni, che resterà in carica per un trentennio, fino al 1992, divenendo, con l’istituzione dell’ordine dei giornalisti, il primo professionista aretino. Sarà il padre di almeno due generazioni di cronisti. Fra la fine degli anni ’50 e i primi anni ’60 lo affiancano Alvaro De Fraja, Mario Del Gamba, che sarà poi a Firenze il principale cronista giudiziario del giornale, Carlo Dissennati, Mario Giuliattini, Gianfranco Barbiera, Giuseppe Aratoli e un giovanissimo Mario D’Ascoli, destinato ad affermarsi anche come inviato sportivo di eventi nazionali.
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l legame con Arezzo, di cui La Nazione è a lungo l’unica voce (hanno chiuso i battenti Giornale del Mattino e Nuovo Corriere) resta fortissimo. Lo
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Nella foto: Piero Magi prende la parolo durante una conferenza. Inviato speciale e apprezzato scrittore, Magi, come direttore de La Nazione.
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Con lui, a metà degli anni Ottanta, il giornale raggiunse la tiratura massima e arrivò a vendere oltre duecentomila copie.
UN DIRETTORE DI NOME PIERO MAGI
dimostra il ruolo che il giornale, e in particolare Carlo Dissennati, svolgono nella nascita dell’altro grande evento locale, la Fiera Antiquaria, che prende avvio nel giugno 1968.
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ra la fine degli anni ‘70 e la metà del decennio successivo avvengono due eventi epocali per la cronaca aretina, la cui sede passa intanto da via Crispi e via Roma (palazzo di vetro) per riapprodare in via Petrarca, dove è ancora. Intanto, viene concentrata ad Arezzo la fattura, con sistema editoriale informatico, non solo della pagina cittadina ma anche di quelle provinciali.
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asce pure una pagina sportiva: le poche colonne di una volta diventano un vero e proprio fascicolo, autonomo da quello nazionale. Risorge, poi, la concorrenza, con la nascita del “Corriere di
Arezzo”. La Nazione risponde aumentando pagine e giornalisti: Dragoni chiama in redazione forze nuove, quelli che ancora oggi costituiscono il nucleo forte dell’edizione.
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el 1992 diventa caposervizio Mario D’Ascoli che terrà l’incarico per un quindicennio, fino alla pensione. Lo sostituisce, dopo un breve interregno del senese Gianni Tiberi, Sergio Rossi, che guida un gruppo di sette redattori, affiancati da una ventina di collaboratori in tutta la provincia. Ma ormai siamo all’oggi. Non è più storia bensì cronaca. Quella che, in un ampio fascicolo formato tabloid, cerchiamo di raccontarvi ogni giorno.
Nella foto grande: un’immagine storica della redazione aretina. Si riconoscono in basso da sinistra: Mario D’Ascoli, Carlo Dissennati, Piero Magi e l’ispettore Tavanti. Alle loro spalle, tra gli altri, Beppe Dragoni, Fulvio Apollonio e gli amministratori Formigli e Migliori.
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ra i tanti giornalisti di valore che la Redazione di Arezzo ha conosciuto in circa un secolo di attività, un posto particolare merita senz’altro Piero Magi. Fu scoperto da Gastone De Anna, il capo delle redazioni provinciali de La Nazione, nell’immediato dopoguerra. Magi lavorava per un giornale della concorrenza, De Anna lo convinse a passare sotto la prestigiosa testata fiorentina. Inizialmente, per un breve periodo, Piero lavorò alla redazione di Arezzo, ma la sua prosa ironica, scorrevole, il suo modo assolutamente unico di avvicinare notizie e personaggi, lo trasformò ben presto in un inviato speciale. Toccò così a Magi guidare La Nazione alla “conquista” dell’Umbria, dove il giornale di Firenze seppe conquistare in breve tempo, negli anni Sessanta, posizioni di grande prestigio, tutt’ora conservate con successo. Dall’impegno nelle cronache provinciali, ben presto Piero Magi passò a grandi avvenimenti nazionali ed esteri. Lo troviamo, così, a seguire le vicende di Ermanno Lavorini, il bambino di Viareggio ucciso e il cui corpo fu ritrovato dopo mesi sepolto nella spiaggia, poi ad occuparsi della morte di Pasolini, ma anche a seguire il colpo di stato in Cile e quello dei colonnelli in Grecia. Negli anni Ottanta divenne vice direttore, poi direttore del giornale. E fu con lui che La Nazione raggiunse il record di vendite arrivando a superare le duecentomila copie. Piero Magi, amico di Montanelli e dei grandi del giornalismo nazionale, ci ha lasciato anche un buon numero di volumi dedicati, in gran parte, alla sua amata Toscana.
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Le edizioni locali
De Anna: Così nacquero le redazioni di provincia Il “fuori sacco” e i megafoni che annunciavano il ritorno in edicola del nostro giornale I “pionieri” di una grande avventura nel racconto di colui che seppe trovarli e organizzarli
N Gastone de Anna (al centro della foto, in ginocchio) tra i colleghi Rosario Poma e Paolo Marchi. Alle loro spalle circondano Wanda Lattes redattori e cronisti de La Nazione alla fine degli anni Sessanta.
egli anni Quaranta la redazione delle province era formata da quattro redattori sotto la guida di Giuseppe Cartoni il cui figlio, Mario, sarebbe poi diventato un noto cronista giudiziario. Fra questi era Nicola Della Santa, almeno finché non fu richiamato sotto le armi. Fu allora che entrò in scena un personaggio destinato a organizzare le redazioni provinciali così come sono ancor oggi, sia pure con ben altra consistenza di pagine e di giornalisti. Si trattava di Gastone De Anna, figura mitica del giornale, al quale si deve – assieme a Giordano Goggioli, ad Alberto Marcolin, e ai grandi direttori Russo e Mattei – il rilancio del dopoguerra che permise a La Nazione di raggiungere negli anni Cinquanta le centomila copie.
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e Anna ha oggi novant’anni, non uno di meno. Ma anche una memoria di ferro e una lucidità invidiabile. È capace, perfino, di divertirsi a raccontare quegli anni. Ha conservato l’ironia, la capacità di narrare e fare sintesi, che ne fece un grande giornalista. Com’era il clima in redazione? “Scansonato, ironico, divertente. Ma lavoravamo tutta la notte senza pause. L’editore era Favi, l’amministratore Gazzo, era tutto un gioco di parole.” Come organizzò il lavoro? “Dove era possibile contattavo i vecchi corrispondenti e riaprivo i vecchi locali. Altrimenti cercavo edifici e uomini nuovi. Nel ’48, quando Favi morì, tutte le redazioni dei capoluoghi di provincia erano riorganizzate.” Qualche nome di allora, qualche collega? “Passaponti a Pisa, Chiantini a Siena, Coppini ad Arezzo e poi Dragoni e Piero Magi. A Spezia Reggio che poi passò il testimo-
ne al figlio, il conte Vitelleschi e poi Bassi a Perugia. E ancora Ciullini a Pistoia, Del Beccaro a Lucca, Valleroni e Pighini a Massa, Rossi a Grosseto. Mauro Mancini diresse la prima redazione di Prato. Poi divenne inviato speciale assieme a Piero Magi, e più tardi a Piero Paoli e Raffaele Giberti che ricordo con immenso affetto, veniva da Spezia. Intanto cresceva anche la redazione province a Firenze. Era tornato Della Santa, poi arrivarono Gianfranco Cicci, Nereo Liverani, Romolo De Martino, Enrico Mazzuoli, Aldo Satta, Giancarlo Domenichini, Tiberio Ottini, Giuseppe Mannelli, Luigi Scortegagna, Rossi, l’indimenticabile Piero Chirichigno, Franco Ignesti e una splendida segretaria, la signorina Giorni, che divenne un po’ l’anima di quell’ufficio. Si andò avanti così sino alla fine degli anni Sessanta quando arrivarono giovani come Enrico Maria Pini, Riccardo Berti e Maurizio Naldini. Spero di non aver dimenticato nessuno.”
Come lavoravate? “Al contrario di oggi. Tutto il materiale viaggiava col fuori sacco, e in base alle ore in cui arrivava era controllato e titolato in redazione. Fu solo con il computer che le redazioni presero a organizzare le loro pagine direttamente. L’impaginazione poi partiva dalle nove di sera con la prima edizione che veniva chiamata “Nazionale”. Poi si passava alle province più lontane come Spezia, Perugia, Grosseto, e un po’ alla volta si arrivava a impaginare Prato. Quindi, alle tre di notte veniva preparata l’ultima edizione, quella che i fiorentini trovavano in edicola al mattino. Intanto i primi corrispondenti erano diventati giornalisti professionisti, accanto a loro erano vari collaboratori, poi assunti come giornalisti anche loro, mentre la rete si infittiva fino a raggiungere anche i paesi più piccoli e sperduti.” Quando fu concluso il lavoro di organizzazione? “Praticamente mai, continua-
va giorno dopo giorno. Però, alla fine degli anni sessanta La Nazione dominava totalmente il suo territorio di diffusione, e cominciavano anche le edizioni di Sarzana con Osvaldo Ruggeri e di Pontedera con Orazio Pettinelli. Era poi arrivato dal Nuovo Corriere un ottimo amministratore, Ivo Formigli, che già aveva collaborato con Favi”.
Rimpianti? Lo rifarebbe quel lungo lavoro? “Subito. Credo di essere nato per svolgere quell’attività. Eravamo una grande squadra, un gruppo di amici che riuscivano a lavorar bene divertendosi. La redazione era sempre affollata di personaggi famosi che venivano a trovarci. Per segnalare notizie, per commentarle, semplicemente per scambiare due idee. Potevano essere attori o personaggi della televisione, atleti, uomini politici. Ci sentivamo forti, i lettori del resto, ci davano ragione.”
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Arezzo: il simbolo della rinascita economica Una generazione di imprenditori che seppe trasformare l’economia e la società aretina Dall’abbigliamento all’oro, dai fratelli Lebole a Leopoldo Gori e Carlo Zucchi
di Salvatore Mannino
Nella foto grande: un reparto della Uno-A-Erre negli anni trenta-quaranta.
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overi ma belli? Se gli aretini della prima metà del ‘900 fossero belli la storia non lo dice, di sicuro erano poveri. La provincia più arretrata della Toscana, assieme a Grosseto, un grosso quadrilatero, incuneato fra Romagna, Marche ed Umbria nel quale dominava la tradizione agricoltura mezzadrile. Basti dire che ancora nel 1911 su 290 mila abitanti gli addetti all’agricoltura erano più di 200 mila, con oltre 60 mila mezzadri, e si parla solo dei capifamiglia di nuclei che arrivavano fino a dieci, quindici persone. Il sistema mezzadrile va in crisi già nel primo dopoguerra, tra il 1919 e il 1921, dinanzi alla poderosa spallata delle lotte contadine. Ma il disfacimento vero comincia dopo la seconda guerra mondiale, con quella che è un’autentica fuga dalle campagne, che in un decennio svuota letteralmente poderi e case coloniche abitati per secoli. L’emigrazione si dirige all’inizio verso il triangolo industriale della regione, ovvero Firenze, Prato e Pistoia, ma ben presto una delle destinazioni principali diventa la città capoluogo, ossia Arezzo, che ancora nel 1911 aveva soltanto 47 mila abitanti, la metà dei quali concentrati nelle frazioni di campagna. Contadini anch’essi insomma.
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osa è successo? Che la città, negli anni ‘50, ha visto crescere una generazione straordinaria di imprenditori, capaci di cambiarne la vocazione e la storia. Tra tutti, i più geniali e pronti a salire sull’onda del boom, sono due fratelli ex partigiani, le cui immagini si stagliano sulla foto più famosa della liberazione di Arezzo da parte degli alleati, il 16 luglio 1944: Mario e Giannetto Lebole. Sono giovani, sono dinamici, hanno tanta voglia di crescere e di arricchirsi. La prima fabbrichetta di confezioni (l’abbigliamento sarà uno dei settori chiave del “miracolo
economico”), nasce in pieno centro, fra via Pietro da Cortona e via Margaritone.
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dipendenti, anzi le dipendenti, sono poche decine, ma ben presto lo spazio non basta più. Sono bravi, i Lebole, hanno un’eccellente capacità di cavalcare un mercato nel quale l’incipiente benessere lancia le confezioni di massa, il vestito fatto in serie al posto dell’abito del sarto che durava tutta una vita. Nel 1957 viene inaugurato il primo, grande stabilimento, alla Chiassa Superiore: reggerà poco, già all’inizio degli anni ‘60 si rende necessario il trasferimento nei grandi capannoni della nascente zona industriale, in via Galileo Ferraris. E’ una rivoluzione non solo economica, ma anche sociale e culturale. La Lebole Euroconf arriverà ad avere 5 mila dipendenti, in gran parte donne, in gran parte provenienti dalle campagne. La fabbrica è una straordinaria scuola di emancipazione: la donna che lavora ha bisogno di asili per i figli, di autobus per spostarsi, di elettrodomestici per ridurre la fatica dell’impegno casalingo. Intanto, è cresciuto in città l’altro grande polo del boom. La Uno-A-Erre, o Gori-Zucchi, come più familiar-
mente la conoscono gli aretini, è in verità attiva fino dagli anni ‘20 in un settore che per la città è una novità, prima di diventarne l’elemento più peculiare di identità: l’oro, per meglio dire i gioielli. Anche Leopoldo Gori e Carlo Zucchi sanno approfittare con intuito geniale dei primi segni del “miracolo”. Nel dopoguerra la sede si trasferisce all’angolo fra via Vittorio Veneto e via Schiapparelli. Ci lavorano già centinaia di persone, diventeranno più di mille nel nuovo stabilimento di via Fiorentina, inaugurato a metà degli anni ‘60 dal ministro dell’industria Andreotti, così come Fanfani, nume tutelare della città e dei Lebole, pone la prima pietra della nuova Lebole.
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fratelli Mario e Giannetto, così come Leopoldo Gori e Carlo Zucchi, sono imprenditori all’antica, ancora legati alla tradizione paternalistica che non ama il sindacato in fabbrica, ma governare l’impetuoso sviluppo urbanistico e sociale che le loro aziende portano in città non tocca a loro. Sarà il sindaco per eccellenza, Aldo Ducci, socialista, in carica dal
1962 al 1990, a mettere mano alla costruzione di case popolari, asili, scuole, depuratori e servizi. Arezzo quasi raddoppia gli abitanti, da 50 mila a poco meno di 100 mila. Il boom chiama il boom, in una sorta di modello autopropulsivo.
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li operai più svegli, più capaci, lasciano le fabbriche madre Lebole ed Uno-AErre e si mettono in proprio, usando il know-how che hanno imparato dai maestri. Alla fine, solo i marchi dell’oro saranno più di mille. E siamo quasi all’oggi. La Lebole non c’è più da fine anni ‘90 (i fratelli ne sono usciti addirittura nel 1972), la Uno-A-Erre resiste. La provincia dei poveri ma belli è entrata a più riprese nell’elite della qualità della vita. Certo, la crisi morde (eccome) anche qui, ma Arezzo resta ben salda nell’Italia del benessere.
Nel tondo: la posa della prima pietra del nuovo stabilimento Lebole. In prima fila Fanfani, dietro Mario Lebole.
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Le acque dell’Arno si ritirano dopo aver provocato una tragedia in tutta la Toscana. Per mesi si credette che l’apertura improvvisa delle dighe del Valdarno avesse provocato l’ondata di piena.
da La Nazione del 12 gennaio 1967
Le dighe sull’Arno accusate del disastro I tecnici degli impianti di Levane e La Penna accusati dai magistrati fiorentini Ma l’inchiesta si concluderà senza colpevoli Si cercava un colpevole dopo la tragica alluvione del novembre 1966. E qualcuno credette di individuarlo in chi aveva la responsabilità delle dighe del Valdarno, nella provincia di Arezzo. Due mesi e mezzo dopo il disastro, un’azione giudiziaria fu intrapresa nei confronti di 8 dipendenti dell’Enel. Ma l’inchiesta finirà in un nulla di fatto. Qui di seguito brani dall’articolo di Giuseppe Peruzzi col quale, in prima pagina, La Nazione del 12 gennaio 1967 dava la notizia delle accuse rivolte ai tecnici.
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na decisione presa ieri dai magistrati che conducono l’inchiesta sul disastro di Firenze conferma clamorosamente che le indagini sono arrivate a una svolta importante, se non decisiva.
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otto persone, tecnici della diga di Levane e La Penna e funzionari dell’Enel,
sono stati notificati avvisi con inviti a nominare un difensore... sarebbero emersi elementi in base ai quali nei confronti degli otto dipendenti dell’Enel potrebbero ritenersi sussistenti reati di falso materiale su documenti, correzione dei dati sui famosi registri sequestrati alle due dighe e negli uffici fiorentini dell’Enel, e per alcuni di loro anche quello di inondazione colposa per l’allagamento avvenuto, la notte precedente l’alluvione di Firenze a ponte a Buriano, una frazione a monte della diga di La Penna in provincia di Arezzo…
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uali siano i particolari precisi che hanno delineato la posizione degli otto funzionari e tecnici ovviamente non possiamo saperlo. È verosimile comunque che sui registri sequestrati siano state rilevate correzioni, non sappiamo se sugli orari degli scarichi, sull’entità dell’acqua affluita o defluita, o sui livelli dei bacini, oppure su tutte
le registrazioni. Su questo punto gli inquirenti non avrebbero dubbi, anzi sembra che di fronte a tanta evidenza anche gli stessi interessati abbiano ammesso la discordanza di alcuni dati. Ma i funzionari e i tecnici dell’Enel avrebbero precisato che quelle discordanze sono dovute a errori manuali compiuti nel trascrivere i dati sull’andamento delle due dighe. In una parola essi escludono che vi siano state alterazioni per nascondere quello che accadde…
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altra parte gli inquirenti, una volta accertate le correzioni sui registri vogliono accertare come in effetti andarono le cose. A questo proposito forse è il caso di ricordare l’episodio che ebbe per protagonisti i due “quadristi” della diga di Levane. Interrogati su quello che accadde, e fu registrato nella notte precedente il disastro di Firenze, essi dettero versioni che non convinsero i magistrati, tanto che dopo un drammatico inter-
rogatorio furono trasferiti alla caserma dei carabinieri. Soltanto alcune ore dopo, a conclusione di un nuovo interrogatorio, risposero alla domande degli inquirenti dando una versione convincente…
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on ci sembra azzardato affermare che l’iniziativa dei magistrati indica che, in attesa del definitivo responso dei periti, per ora la versione dello sbaglio involontario non è accolta. Per quanto riguarda il reato di inondazione colposa di Ponte a Buriano, che potrebbe emergere nei confronti di alcune delle otto persone… forse l’episodio è legato al guasto o all’errata manovra che in quelle drammatiche ore bloccò le paratie della diga. La conseguenza della mancata apertura delle dighe non è difficile intuirla: non potendo scaricare l’acqua il livello del bacino di La Penna logicamente aumentò. Giuseppe Peruzzi
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È il 21 maggio del 1981
P2: l’elenco di Licio Gelli che fece tremare l’Italia Nella lista sequestrata a Castiglion Fibocchi erano quasi mille fra uomini politici, finanzieri, generali, uomini dello spettacolo e giornalisti
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ono gli anni Ottanta, un periodo di stragi e di misteri, con l’Italia ridotta a un campo di battaglia fra le spie del mondo Occidentale e quelle dell’est Europeo, l’impero russo già prossimo alla fine. Sono anni nei quali banchieri, uomini politici, esponenti di lobby più o meno segrete, tutti sembrano avere un ruolo in vicende poco chiare, con scopi che ancor oggi risultano nascosti. Unica certezza, il fatto che l’opinione pubblica si sente tradita, offesa, perfino umiliata. Non si sa chi comanda, chi vuole comandare al suo posto. Non si sa quali menti perverse guidano la “strategia della tensione”. È il momento delle incertezze. Un treno, la hall di una banca, una stazione ferroviaria. Ogni luogo affollato può diventare lo scenario di una strage.
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il marzo del 1981. Si sta indagando sul presunto rapimento di un banchiere di grido, Michele Sindona, e i suoi rapporti con la massoneria. Gli inquirenti arrivano a Castiglion Fibocchi, nella sede di una azienda che commercia in abbigliamento. Entrano negli uffici di un personaggio, aretino, del quale l’opinione pubblica non sa ancora niente ma che diverrà un protagonista delle cronache per anni: Licio Gelli.
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fficialmente Gelli è un mediatore, un procacciatore d’affari, un uomo che possiede ottime relazioni anche a livello internazionale, e che durante l’ultima guerra ha svolto un ruolo importante nei giorni che precedettero la fine del conflitto ed il crollo delle armate hitleriane. Gelli è un signore coi capelli bianchi, parla un toscano autentico, le foto lo ritraggono accanto ai potenti del mondo, in più occasioni. E dunque, nel suo ufficio viene trovata una lista di quasi mille nomi. Sono gli appartenenti alla loggia massonica P2. Anche questa sigla, nei primi giorni del tutto misteriosa, diven-
terà negli anni una protagonista delle cronache. Nei giorni che seguono al sequestro cominciano le prime indiscrezioni. Si sostiene, da più parti, che ne facciano parte almeno cinquecento personaggi del massimo rilievo, e che il suo scopo sia quello di “ridisegnare” l’Italia con obiettivi politici che all’epoca erano considerati di “estrema destra” se non addirittura eversivi. Le voci si rincorrono finchè Forlani, all’epoca presidente del consiglio dei ministri, decide di pubblicarlo per intero il 21 maggio. Per l’appunto - ma la coincidenza fu casuale? - in quello stesso giorno venivano arrestati il banchiere Calvi, Carlo Bonomi e Valeri Manera. Nella lista risultavano non 500 nomi, ma quasi mille. Per giorni fu un balletto di smentite, di precisazioni, di prese di distanza. In teoria niente si poteva imputare a chi ne faceva parte. Nei fatti, quella lista divenne una sorta di “lista di prescrizione”. Per capirne di più, sulla credibilità e gli scopi della lista, fu istituita una commissione parlamentare affidata all’onorevole democristiana Tina Anselmi.
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u avanzata dalla Commissione Anselmi l’ipotesi che la lista non fosse l’elenco completo degli aderenti, e che molti altri importanti personaggi iscritti alla P2 siano riusciti a non restare coinvolti nelle indagini successive. Nella ricostruzione della Commissione d’Inchiesta, ai circa mille nomi della lista se ne dovrebbero aggiungere altri. Lo stesso Gelli, in un’intervista del 1976, aveva parlato di più di duemilaquattrocento iscritti, comprendendo nel conteggio anche gli stranieri.
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ra i 932 iscritti vi erano i nomi di 44 parlamentari, 2 ministri dell’allora governo, un segretario di partito, 12 generali dei Carabinieri, 5 generali della Guardia di Finanza, 22 generali dell’esercito italiano, 4 dell’aeronautica militare, 8 ammiragli, vari magistrati e funzionari pubblici, i direttori e molti funzionari dei vari servizi segreti, ed anche diversi giornalisti ed imprenditori. Le vicende di Gelli, prima fuggitivo, poi arrestato e portato nel carcere di Ginevra, quindi evaso in
modo rocambolesco dal carcere (risultò al processo che Gelli era nascosto nel cofano dell’auto di un secondino, ma poiché l’auto non partiva per il freddo, altri agenti avrebbero spinto l’auto a mano fuori dai cancelli) riempiranno le prime pagine dei giornali per mesi.
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elli, dunque, fuggì di nuovo, mentre in Italia si scatenavano ulteriori polemiche. Riapparse però nel 1987, quando da Ginevra fece sapere - con una lettera rivolta a giudici che stavano indagando su di lui - di essere malato ma anche pronto a tornare in Italia e a fornire tutte le spiegazioni possibili sul suo operato. Rientrò, infatti. Stabilendosi nella nativa Arezzo, a Villa Wanda.Il parlamento italiano, nel frattempo, aveva approvato una legge per mettere al bando le associazioni segrete in Italia.
Nei tondi: Licio Gelli (in alto) che per anni dominò le cronache italiane tanto da meritare il titolo di “grande burattinaio”. Michele Sindona, (in basso) il banchiere protagonista di un colossale crollo finanziario.
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È il 2 marzo 2003
I terroristi uccidono ancora Arrestata Desdemona Lioce Un episodio di sangue fra le stazioni di Cortona e di Castiglion Fiorentino Sono gli stessi brigatisti degli omicidi Biagi e D’Antona
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o credevamo finito, il terrorismo. Una delle pagine più tristi nella storia della Repubblica, conclusa con l’arresto dei capi, la dissociazione o il pentimento dei protagonisti, mutate profondamente le condizioni politiche e sociali che avevano contribuito a farlo nascere. E invece, nel marzo del 2003, l’incubo ritorna, con tutta la sua carica di violenza, di morte, di follia. Una donna dai capelli rossi, Nadia Desdemona Lioce, nata a Foggia ma residente a Firenze finchè non aveva scelto la latitanza, viene arrestata alla stazione di Castiglion Fiorentino. Un agente della Polfer, Emanuele Petri viene ucciso. Un altro agente è ferito gravemente. Un terrorista, Mario Galesi, cade sotto i colpi dei poliziotti. E’ una mattanza. E’ anche la certezza che le Brigate Rosse sono tornate. Cos’era successo. Come era potuto accadere?
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il 2 marzo 2003 e il sovrintendente Petri, assieme a due colleghi, svolge servizio su un treno regionale sulla Roma-Firenze. Poco dopo la fermata di Cortona - Camucia i tre uomini della Polfer controllano i documenti a un uomo e
possibile ricostruire buona parte dei loro contatti.
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l termine di indagini approfondite, gli investigatori riusciranno poi a catturare, tutti gli appartenenti dell’organizzazione terroristica. Erano loro i responsabili degli omicidi di Massimo D’Antona e Marco Biagi, avvenuti rispettivamente nel 1999 e nel 2002.
una donna. È un normale accertamento di routine. Ma qualcosa non torna nelle carte d’identità che i due esibiscono. I poliziotti se ne accorgono. Chiedono chiarimenti. Allora l’uomo si alza, estrae una pistola e la punta al collo del Petri, quindi urla agli altri poliziotti di gettare via le armi. Uno dei due poliziotti obbedisce e getta l’arma sotto i sedili del convoglio, ma è teso, ha paura, e spara alla gola di Petri uccidendolo sul posto. Poi spara nuovamente contro il terzo poliziotto, quello che era ancora armato, e questi, nonostante le gravi ferite, riesce a rispondere al fuoco dell’assalitore ferendolo a sua volta mortalmente. La donna, dopo una colluttazione
con l’ultimo poliziotto, viene bloccata. Il treno si ferma alla stazione successiva, quella di Castiglion Fiorentino. Arrivano i primi soccorsi per le persone ferite. Ma per Emanuele Petri non c’è più nulla da fare, era già deceduto. L’assalitore moriva alcune ore dopo in ospedale.
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l poliziotto ferito gravemente, per giorni e giorni fra la vita e la morte, sarà salvato grazie ad una lunga operazione chirurgica. Appare subito chiaro che i due sospetti controllati dagli agenti della Polfer, erano brigatisti. Dal materiale trovato sul treno e nella borsa della donna (documenti, floppy disk e due computer palmari), è
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a intanto, l’italia tutta si stringe intorno alla famiglia Petri. Un uomo eccezionale, con un figlio che vorrà diventare a sua volta agente, prendendo così il posto del padre. Un uomo generoso, dedito al volontariato. Talmente generoso da lasciarci la vita. E infatti, il giorno della sua morte non doveva prestare servizio, ma aveva chiesto un cambio turno per assistere un ex collega dei carabinieri malato gravemente. Petri viveva a Tuoro sul Trasimeno, al confine fra le province di Arezzo e di Perugia. Alla sua memoria sarà conferita la medaglia d’oro al valor civile dal Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi. Nella stazione di Castiglion Fiorentino è stato posto, a ricordare il suo sacrificio, un monumento bronzeo. Rappresenta un cuore spezzato.
Nella foto: con una prima pagina a colori, La Nazione dava notizia del sanguinoso ritorno sulla scena delle Brigate Rosse.
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Una storia fatta di campioni I “grandi” dell’avventura amaranto Oltre ottant’anni di calcio aretino Gli alti e bassi di una società le cui sorti coincidono con quelle cittadine
di Fausto Sarrini
U Nella foto grande: è il 4 maggio 1969, il capitano dell’Arezzo Rumignani e quello della Massese, Castelletti (ex Fiorentina) si stringono la mano. La partita rappresentava uno scontro diretto per la promozione in B. Vinse l’Arezzo 1-0 con un gol di Rumignani. Nel tondo: un giovanissimo “Ciccio” Graziani .
na storia lunga 86 anni. La nascita del calcio ad Arezzo è datata 10 settembre 1923, quando un gruppo di appassionati fonda la Juventus Football Club, mentre l’Us Arezzo sorge pochi anni dopo, il 9 settembre 1930. Finita la guerra, dopo lutti e macerie, mentre in Italia e anche ad Arezzo comincia la rinascita, al termine del campionato 194748, gli amaranto conquistano la serie B, ma il salto non avviene in quanto una beffarda riforma blocca le promozioni. E come dimenticare, l’amichevole, il 3 marzo 1948, che l’Arezzo pareggia 4-4 a Firenze con la Nazionale di Pozzo? In quel periodo c’è il possente difensore Rino Ferrario, che poi militerà con Juve, Inter e in Nazionale. Gli anni successivi segnano la crisi societaria, culminata con l’amara retrocessione in promozione nel 1953.
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a rinascita avviene con Giuseppe Peruzzi alla presidenza, nel ‘56 gli amaranto si riscattano vincendo quasi tutte le partite e centrando la promozione. Il salto di qualità è degli anni Sessanta, in coincidenza con la trasformazione della città da agricola a industriale. Crescono le aziende, vari settori decollano, come quello orafo e dell’abbigliamento. Simeone Golia, un orafo appunto, gentiluomo d’altri tempi, costruisce una società forte e solida. Per qualche periodo al vertice c’è anche Mario Lebole. Nel 1961 viene inaugurato il nuovo stadio Comunale (in precedenza si giocava al Mancini). Esistono tutti i presupposti per coronare finalmente il sogno della B. E il grande giorno arriva il 15 maggio 1966. Penultima giornata, gli amaranto allenati da Cesare Meucci sbancano Carpi (2-0) seguiti da tremila tifosi. Un esodo indimenticabile: comincia una festa che continua al ritorno in
città. L’immediata retrocessione non crea traumi, perché il club è di spessore, tanto che nel 1969 c’è subito il ritorno tra i cadetti, con allenatore Omero Tognon. Di lì a poco, diviene presidente un giovane imprenditore, Luigi Montaini, che sogna un traguardo mai raggiunto, la serie A.
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a stagione buona avrebbe potuto essere quella datata 1970-71. Se non fosse partito malissimo, quell’Arezzo guidato da Ballacci sarebbe volato nella massima categoria. Vittorie, gioco spumeggiante, gol a raffica, tanto che il settimo posto finale non rende giustizia a una squadra che probabilmente è la più forte mai vista da queste parti. Benvenuto, con 14 reti, vince il premio Sportsman per il miglior cannoniere. Debutta il giovanissimo Graziani, che sarebbe salito alla ribalta a grandi livelli. Nel ‘73 verrà ceduto al Torino per 225 milioni.
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el ‘75 una retrocessione incredibile anche a causa di una squalifica del campo di cinque giornate. Seguono anni bui, poi la risalita con l’avvento di Narciso Terzia-
ni e in panchina Angelillo. Coppa Italia di serie C nell’81, promozione in B nell’82, quinto posto tra i cadetti nell’84, dopo che l’Arezzo è stato anche capolista. In quegli anni indimenticabile la grande sfida col Milan del 20 febbraio 1983, finita 2-2 davanti a 15.000 spettatori. Nell’86 sale al vertice del club Benito Butali, appoggiato da dirigenti di spessore: a livello economico una società fortissima. Ci sarebbero i pressuposti per la A e invece nell’88, la mazzata, l’incredibile retrocessione. Comincia un declino inesorabile che culmina, il 17 aprile 1993 con la pagina più nera del calcio aretino, la radiazione.
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residente, quasi come un segno del destino diventa Francesco Graziani, il più forte giocatore della storia del calcio amaranto. L’Ac Arezzo, questo il nuovo nome, riparte dalla serie D e in cinque stagioni, con due promozioni, risale in C1. Tra gli artefici l’emergente tecnico Serse Cosmi. Dopo un gran campionato con Cabrini allenatore, il primo dell’era Piero Mancini alla presidenza, due stagioni pessime, la retro-
cessione in C2. Ma come per incanto, come in una favola, l’Arezzo viene ripescato e vola in B al culmine di una stagione straordinaria, indimenticabile, forse irripetibile. Un allenatore giovane e di valore come Somma, una squadra che gira a meraviglia, dove spiccano il portiere Pagotto, il giovane esterno Pasqual, il regista Gelsi, il capitano Serafini e il bomber Abbruscato. Ma Somma non viene confermato. Un errore. Dopo una stagione sofferta, gli amaranto sfiorano ancora la A guidati dall’ottimo Gustinetti. Poi Calciopoli, i sei punti di penalizzazione, una partenza pessima, l’esonero di Antonio Conte, quindi una rimonta esaltante dopo il ritorno di Conte e una retrocessione ingiusta, con la Juventus che adotta due pesi e due misure con gli amaranto e lo Spezia. E adesso l’Arezzo cerca di risalire in B.
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