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www.lanazione.it
SUPPLEMENTO AL NUMERO ODIERNO A CURA DI
150 ANNI di STORIA ATTRAVERSO LE PAGINE DEL NOSTRO QUOTIDIANO
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TERZA PARTE • Dal 1960 ad oggi
Le firme prestigiose e i grandi eventi in Italia e nel Mondo
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1959: La Nazione festeggia un secolo di vita e di successi Da Poesio a Pinzauti e Frosali I critici, gli inviati, i collaboratori Grandi opere e grandi idee: nasce l’A1, si apre il Concilio La natura sconfigge l’uomo Ma l’uomo domina lo spazio La Nazione ha una nuova sede e un nuovo editore: Attilio Monti 4 novembre del 1966 L’Arno straripa a Firenze invasa dalle acque La Nazione Benvenuti campione del mondo Mazzinghi finisce al tappeto 1967: i colonnelli al potere In Grecia finisce la democrazia Hanno ucciso Luther King Neri in rivolta a Washington Ormai è un Sessantotto Studenti e operai in rivolta Quella primavera di Praga che illuse i popoli dell’Est “Fu così che superammo il traguardo delle 200mila copie” Un’industria a Pomegliano d’Arco e tutti gli italiani diventano “alfisti” Watergate, l’America nella bufera Nixon annuncia in Tv le dimissioni Paolo VI, era il “Papa della ragione” Papa Luciani, quello della speranza Irpinia: un terremoto da 3mila morti E dalle rovine nasce la Protezione Civile Anni Ottanta: quando le “tute blu” furono sostituite dai computer Lo Shuttle esplode in cielo Una tragedia in diretta Tv Chernobyl: cronaca di un disastro Anche sull’Italia la nube nucleare Il mondo cambia, ormai è globale e La Nazione sbarca su Internet
In edicola iI volume celebrativo Esaurito in pochi giorni nella sua prima edizione, è in edicola la ristampa del volume edito in occasione dei 150 anni de La Nazione. Il libro, curato dal giornalista e scrittore Maurizio Naldini, rappresenta un’opera senza precedenti. Anche solo sfogliandola, infatti, permette di ripercorrere, attraverso le cronache quotidiane, la storia di un giornale, di una regione, dell’Italia e del mondo. Il volume, di 400 pagine, contiene oltre 200 articoli originali – dalle cronache del Collodi per l’annessione della Toscana al Piemonte fino all’elezione del presidente Obama - introdotti dall’autore. La pubblicazione è arricchita da 15 tavole illustrate originali realizzate da Luca Parenti, l’impaginazione è stata curata da Marco Innocenti dell’agenzia Kidstudio. Storici del livello di Zeffiro Ciuffoletti, Cosimo Ceccuti e Sandro Rogari hanno introdotto le tre parti nelle quali si articola, cronologicamente, l’opera. Gli eventi di cronaca riportati in questo fascicolo sono volutamente diversi, e complementari, a quelli trattati nel volume sui 150 anni.
Supplemento al numero odierno de LA NAZIONE a cura della SPE Direttore responsabile: Giuseppe Mascambruno Vicedirettori: Mauro Avellini Piero Gherardeschi
TERZA PARTE • Dalle 1960 ad oggi
Le firme prestigiose e i grandi eventi in Italia e nel Mondo I tre fascicoli regionali e i 17 locali con le cronache più significative delle città sono sfogliabili on line su www.lanazione.it nelle sezioni locali del portale.
Direzione redazione e amministrazione: Via Paolieri, 3, V.le Giovine Italia, 17 (FI) Consulenza storica: Aurora Curzio
Progetto grafico: Marco Innocenti Luca Parenti Kidstudio Communications (FI)
Stampa: Grafica Editoriale Printing (BO)
Pubblicità: Società Pubblicità Editoriale spa DIREZIONE GENERALE: V.le Milanofiori Strada, 3 Palazzo B10 - 20094 Assago (MI)
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La storia degli editori
1959: LA NAZIONE FESTEGGIA UN SECOLO DI VITA E DI SUCCESSI Un volume e un numero speciale di 112 pagine, le visite del Capo dello Stato e del presidente del consiglio L’elicottero e i mobili antichi. Entra nel consiglio di amministrazione Attilio Monti
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i avvicinò ai favolosi anni Sessanta, La Nazione, anticipando il boom che di lì a poco, sarebbe diventato patrimonio comune agli italiani. Le vendite aumentavano giorno dopo giorno, c’era ancora il grande direttore Alfio Russo che nel ‘61, passato al Corriere della Sera, lascerà il posto ad Enrico Mattei. La squadra impareggiabile, che avrebbe reso La Nazione uno dei primissimi quotidiani italiani (da Marcello Taddei ad Albeto Marcolin, da Luciano Satta a Giordano Goggioli, e ancora Gastone De Anna, Elvio Bertuccelli, Piero Magi e Pierfrancesco Listri, Laura Griffo e Mauro Mancini) già si era formata o lo sarebbe stata di lì a poco. Di grande rilievo le presenze di Ivo Formigli, per tutti il “commendatore” a capo dell’amministrazione, e Omero Zaccherini come capo della tipografia. Questi uomini, seppero traghettare il giornale dalla dimensione della italietta postbellica a quella europea. Investendo nelle tecnologie, negli impianti, nella organizzazione, fino a diventare un esempio per tutta la realtà editoriale italiana.
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nche l’assetto societario cambiava radicalmente. Era entrato nella Società La Nazione il fondatore di una grande impresa di pubblicità, Oscar Maestro. E fu lui ad introdurre nel consiglio di amministrazione il cavaliere del lavoro Attilio Monti, petroliere e finanziere ravennate, uno dei grandi del mondo industriale di allora. E dunque, il giornale di
Ricasoli acquistava credibilità, certezza economica e finanziaria, era pronto per affrontare le sfide di qualsiasi tipo.
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occasione per dimostrare all’Italia tutta la forza di questa realtà fiorentina e toscana, furono i festeggiamenti per il centenario del giornale. Fu preparato un numero speciale, tirato in oltre trecentomila copie e composto da 112 pagine. E poiché la rotativa non poteva piegare un fascicolo così grande, gran parte del lavoro fu fatto a mano. Furono chiamati da Marradi, luogo di origine del capo di tipografia Omero, tutti coloro che erano disposti a passare una notte in bianco per svolgere quel lavoro. Ne vennero a decine, e il giornale uscì. Una pellicola di carta – raccontavano fino a qualche anno fa i vecchi tipografi - capace di coprire la distanza fra la Terra e la Luna.
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li eventi del centenario furono molteplici e coinvolsero l’Italia intera. Segni, presidente del consiglio, venne e parlò a tipografi e giornalisti nella redazione di via Ricasoli dove ancora era la sede del quotidiano. Venne il Capo dello Stato, vennero attori e attrici, personaggi dello sport e della letteratura. Ci furono a Firenze grandi fuochi di artificio, e si racconta che Ivo Formigli chiamasse l’azienda che aveva curato lo spettacolo pirotecnico per San Giovanni a Firenze e così esordisse: - Avete fatto un bel lavoro per la festa del patrono. Quanto vi hanno dato?
Nelle foto: Il volume e lo speciale di 112 pagine realizzati in occasione del centenario de La Nazione Nel tondo in alto: madre e figlia sfogliano negli anni Cinquanta La Nazione. Nel tondo in basso: l’avvocato Giorgio Barbieri presidente della Società Editoriale La Nazione nel 1959.
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“Un milione. - risposero gli artificieri- , ma si può fare con meno.” -Io ve ne do due, ma voglio l’impossibile. “La un si preoccupi – replicarono – per due milioni si dà fuoco a Firenze”.
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così fu, lo spettacolo pirotecnico del 14 luglio 1959, fu il migliore che Firenze avesse visto dai tempi del Granduca.
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urono organizzate grandi partite di calcio. Quelle giocate a Roncobilaccio fra i giornalisti e tipografi de La Nazione contro i colleghi bolognesi del Carlino. Quelle di ben altro livello fra la Fiorentina e il Real Madrid. E ancora caccie al tesoro, feste alle Panteraie di Montecatini, uno spettacolo lirico al giardino di Boboli, uno splendido volume che raccoglieva saggi di storici e giornalisti e raccontava i cento anni del giornale curato da Giovanni Spadolini.
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er l’occasione fu anche “provvisoriamente” cambiato tutto l’arredamento della redazione di via Ricasoli. Via le scrivanie pencolanti, i manifesti al muro, le sedie girevoli che non giravano più, le pile di libri e di giornali. Ivo Formigli chiese ed ottenne che gli antiquari fiorentini prestassero a La Nazione i loro pezzi, e per qualche settimana la sede di via Ricasoli fu simile ad una casa patrizia fiorentina con mobili raffinatissimi. Cosa che fu apprezzata da tutti ma non
particolarmente dai giornalisti abituati a trattare i mobili senza troppa attenzione o troppa cura. Tanto che Romano Bilenchi – all’epoca il noto scrittore curava la Terza Pagina – si affacciò alla porta del commendator Formigli e gli disse: -Ivo, ma che hai combinato? “Abbiamo rifatto i mobili, ti piace?” -Mah – rispose Bilenchi bofonchiando – qua dentro l’era sempre stato un casino. Ora mi pare un casino di lusso.
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a Nazione in quei giorni fece un gran numero di regali ai suoi lettori. Ed in particolare alle autorità. Per esempio, fu preparato un contenitore in pelle con scritte in oro e tanto di coccarda tricolore in alto a sinistra, che conteneva il numero del centenario, la prima storica pagina, e insomma celebrava l’avvenimento in modo consono. Questo era il regalo per tutti i sindaci delle zone dove era diffusa La Nazione. E per consegnarlo fu usato un elicottero, che scendeva nelle piazze principali di città e paesi, dove avveniva la cerimonia. La folla si faceva d’intorno, non fosse altro che per vedere l’elicottero scendere in città. La Nazione, a quell’epoca voleva stupire, e ci riusciva. Ma il regalo forse più bello, La Nazione non lo fece, lo ricevette. E infatti, alla ripresa delle pubblicazioni, nel marzo del 1947, le era stato imposto di modificare la testata originale, aggiungendo l’aggettivo “italiana”. Era un modo per dare uno stacco, in qualche modo tangibile rispetto
al periodo fascista. Ma col 1959, questa imposizione decadde e il giornale potè uscire chiamandosi semplicemente La Nazione, proprio come cento anni prima.
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Italia di Ladri di biciclette aveva lasciato il posto a quella della Dolce Vita, dalle canottiere si era passati alle T shirt, dai cappotti militari ridipinti in casa alle sfilate di moda in Palazzo Pitti. Firenze intanto conosceva la stagione di La Pira, si scopriva la nuova Atene, si apriva a tutto il Mediterraneo, mentre a Roma i governanti lavoravano per costruire l’Europa. In quegli anni fu organizzata la capillare diffusione nelle province toscane, e La Nazione cominciò a diffondersi anche in Umbria e a La Spezia. Ma, soprattutto, si cominciò a pensare ad un nuovo stabilimento che prendesse il posto dello storico e centralissimo edificio di via Ricasoli. Fu identificata un’area fra Santa Croce e piazza Beccaria, nei luoghi dove era stato fin dopo la guerra, un locale da ballo molto conosciuto. Il progetto fu
affidato all’architetto Spadolini che lo concepì con le forme e i materiali più avanzati per quegli anni.
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a la cosa più incredibile è che tutto il disegno e le dimensioni dello stabilimento partirono da un dato di fatto: la lunghezza della rotativa. Ovvero, un autentico mostro di efficienza che era stato acquistato dopo che Ivo Formigli ed i tecnici avevano attraversato in lungo e largo tutta l’Europa alla ricerca del pezzo migliore. Una rotativa lunga 54 metri, e che si ergeva per ben tre piani (due erano interrati) sorniona come una balena a fior d’acqua, autentica regina del nuovo stabilimento in via Paolieri. I soldi c’erano.
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come se non bastasse, poco prima dell’inaugurazione fu reso ufficiale l’ingresso nel consiglio di amministrazione di Attilio Monti, che di lì a poco sarebbe diventato il nuovo indiscusso proprietario del giornale.
Nella foto: viene ripiegato e interfogliato a mano lo speciale del centenario del nostro gionale. Al centro della foto il commendator Ivo Formigli, direttore amministrativo de La Nazione e di fianco la sua più fedele collaboratrice, Mariquita Fontani. Nelle immagini: una tessera di collaboratore de La Nazione anni Sessanta firmata dal direttore Enrico Mattei e una busta paga dello stesso periodo.
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Le grandi firme
Da Poesio a Pinzauti e Frosali I critici, gli inviati, i collaboratori La Terza Pagina de La Nazione come modello per il giornalismo italiano Il fatto e “l’emozione del fatto”. Il ruolo della Toscana nel panorama culturale
La Nazione, fin dagli anni Trenta, fu tra i primissimi quotidiani a “disegnare” la terza pagina (nelle immagini a destra) secondo uno schema che sarebbe diventato convenzionale.
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è da ricostruire una Italia nuova, c’è da guardare avanti e La Nazione, dai primi anni Sessanta, sempre più valorizza gli uomini di lettere e cultura. Così entrano a far parte del ricchissimo giro dei collaboratori, Fosco Maranini e Mario Luzi, Piero Bargellini, Carlo Ludovico Raggianti, Italo de Feo, Giacomo Devoto e Piero Bigongiari, Giorgio Saviane, Alessandro Parrochi, Giovanni Commisso. Arrivano dalla Cesare Alfieri acuti osservatori della realtà, politica e non solo, come Di Nolfo, Margiotta Broglio, più tardi Giovanni Bechelloni.
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a critica teatrale, che nell’immediato dopoguerra era stata affidata a Giulio Bucciolini, passa a Paolo Emilio Poesio, che la terrà fino al giorno della pensione. Poesio, autore di saggi e traduzioni dal francese, colto e appassionato, ex regista, diverrà una volta lasciato il giornale direttore artistico del Teatro Regionale Toscano. Al suo posto Paolo Lucchesini ed Enrico Mazzuoli, quest’ultimo collezionista di testi teatrali al punto da possedere una biblioteca invidiata da tutti nell’ambiente teatrale. Nel cinema, sono invece gli anni di un critico raffinato e quotatissimo nel panorama nazionale. È Sergio Frosali, al quale si aggiungerà alla fine degli anni Sessanta come vice, un giovanissimo Claudio Carabba, poi diventato critico in prima persona, attivo ancora oggi, dopo che la sua firma è apparsa su quotidiani e riviste di altissimo livello.
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a musica è invece affidata a Leonardo Pinzauti. Autore di infiniti saggi, conosciuto in tutta Europa, terrà alto il livello di questo settore al quale La Nazione, fin dagli inizi, ha sempre riservato la massima attenzione e firme di enorme prestigio. A curare la Terza Pagina, è invece Romano Bilenchi e poi lo stesso vice direttore e poi
condirettore Marcello Taddei. Una terza pagina classica, composta da un elzeviro – continua fino alla morte a collaborare con noi Giuseppe Prezzolini – un titolo e un grande articolo di spalla, un taglio centrale ed eventualmente un taglio basso. La Terza pagina de La Nazione è portata ad esempio per sobrietà, eleganza di grafica e di scrittura, e tale si mantiene fino a che verrà conservata. Il fiore all’occhiello dei giornali italiani, fra i quali La Nazione è in prima fila, specie quando si scrive di cultura.
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a ormai anche la cronaca richiede firme illustri e capaci di far intravedere oltre il fatto anche riflessioni più approfondite, secondo uno schema tutto italiano che riesce in uno stesso articolo ad unire tre elementi in apparenza inconciliabili. Si tratta di raccontare il fatto, ovviamente, ma anche le emozioni che il fatto è capace di suscitare in chi ne è testimone, e lasciare infine intravedere, attraverso un gioco di collegamenti “orizzontali”, o storici, la contestualizzazione del fatto stesso e i suoi possibili sviluppi. Come è possibile tutto questo nel breve spazio di un articolo? Le emozioni non vanno mai esplicitate – pena il diventare retorici e illeggibili – sarà invece il ritmo della frase, l’uso accorto della punteggiatura a provocarle. E per far questo occorre avere a che fare con scrittori autentici, dotati però di una conoscenza delle tecniche giornalistiche che gli “scrittori puri” di solito non conoscono o non vogliono apprendere. Batini, Magi, Mancini, Griffo, Listri, e quanti verranno dopo di loro, cresciuti alla loro scuola, come Naldini, Cecchi e tanti altri, seppero farlo. Nello sport, oltre a Pegolotti, ecco Giampiero Masieri, Raffaello Paloscia, e poi Sandro Picchi e Saverio Ciattini, capaci di andare ben oltre il semplice racconto del fatto sportivo.
Nei tondi: Mario Luzi e Francesco Margiotta Broglio, due prestigiosi collaboratori di questo periodo.
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Grandi opere e grandi idee: nasce l’A1, si apre il Concilio L’Italia si appresta a costruire il proprio futuro e come si conviene crea prima di tutto le grandi infrastrutture. Ma anche la Chiesa ha bisogno di rinnovarsi ed ecco che ha inizio il Concilio Vaticano Secondo. Ecco come La Nazione dette la notizia del superamento della barriera appenninica, quindi della inaugurazione totale dell’A1 e dell’apertura del Concilio.
La Nazione 4 dicembre 1960
Il dopoguerra lascia spazio alla rinascita economica. L’Italia riorganizza le infrastrutture e nasce l’autostrada Milano-Reggio Calabria, mentre la Chiesa ripensa al suo ruolo nella società con il Concilio Vaticano II.
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el momento in cui il Presidente del consiglio onorevole Fanfani ha tagliato il nastro inaugurale del tratto appenninico dell’Autostrada del Sole, è idealmente caduta, insieme alle due sezioni del nastro tricolore, la barriera che finora aveva sempre tenuto il nord separato dal resto del Paese. Erano le dieci di ieri mattina. Splendeva il sole e il vento agitava le bandiere lassù, al valico di Citerna, il punto più alto dell’autostrada dell’unità geografica d’Italia, dove si è svolta la cerimonia. C’erano alte autorità, c’erano invitati, curiosi, c’erano i tecnici che hanno progettato le opere dell’imponente complesso (ventisette ingegneri e professori di università) c’erano rappresentanze dei cinquemila operai che tali stupefacenti opere hanno realizzato… “i risultati dell’opera dei tecnici e dei lavoratori italiani – ha detto l’onorevole Fanfani – hanno stamani fatto crescere in tutti noi la fierezza di sentirci membri di una comunità capace di così ardite e fruttuose imprese”. Al valico di Citerna il sacerdote, benedicendo quest’opera, nel latino liturgico, la definiva una via di pace e di progresso: tale essa è, assurgendo a simbolo di tutte le vie che l’Italia vuole percorrere, con la lungimiranza, la tenacia, il sacrificio, di cui ci hanno dato esempio anche quanti hanno atteso a questa costruzione…
La Nazione 5 ottobre 1964
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utta l’Autostrada del Sole è aperta oggi al traffico… fra poche ore, i 755 chilometri dell’arteria vitale che consente le più rapide comunicazioni tra il Nord ed il Sud d’Italia saranno operanti. Celebrato stamattina alle undici e mezzo il “Te Deum” di ringraziamento – officerà l’arcivescovo di Firenze monsignor Florit – nella chiesa di San Giovanni Battista, sul piazzale antistante gli uffici logistici dell’Autostrada del Sole, avremo subito dopo la cerimonia dell’inaugurazione durante la quale sarà dato ordine alla stazione autostradale di Orvieto di aprire il traffico verso Nord e a quella di Chiusi di aprirlo verso Sud…
La Nazione 11 ottobre 1962
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i fronte a un grandioso avvenimento come quello che aduna oggi attorno al Pontefice poco meno che tremila vescovi e arcivescovi per discutere i problemi della Chiesa nel mondo moderno, la curiosità dei laici si volge a un triplice ordine di attesa. Il primo investe i rapporti tra le Chiese cristiane, il secondo investe l’ordinamento interno della Chiesa cattolica, il terzo investe il rapporto fra la Chiesa e gli Stati. Dalla Chiesa è partito, per quanto riguarda il primo punto, un autorevole monito contro le troppo facili illusioni degli orecchianti. Questo non sarà il Concilio della riunificazione delle chiese cristiane... All’interno della Chiesa non sono neppure da attendersi grandi riforme, se mai è da prevedere che il concilio ecumenico concluderà e consoliderà un lento progresso di rinnovamento già in atto da decenni. Non è sfuggito a nessun osservatore lo sforzo sistematico compiuto da Pio XII (nella foto) per inserire la Chiesa nella vita moderna, alleggerendo i vincoli formali che rendevano così rigido e pesante ai credenti l’adempimento dei propri doveri…
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La natura sconfigge l’uomo Ma l’uomo domina lo spazio È l’11 ottobre 1963. Nel Vajont una “atomica” di acqua e fango fa tremila morti Ma poco dopo Yuri Gagarin arriva in una capsula a trecento chilometri dalla Terra È cominciata la corsa alla Luna
Per la prima volta con il disastro del Vajont si pose drammaticamente il problema del rapporto tra l’uomo e l’ambiente. Intanto comincia la corsa alla Luna.
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n disastro immane. Una sciagura apocalittica nella notte. La terrificante fiumana precipitata dalla diga del Vajont – una gigantesca atomica di acqua e fango – ha cancellato dalla faccia della terra l’abitato del comune di Longarone e intere borgate, ha spianato le case come un rullo compressore, ha ucciso la gente nel sonno, ha riempito ospedali di corpi doloranti, ha terrorizzato due vallate delle province di Belluno e di Udine, ha travolto e distrutto brutalmente, con furia cieca e inaudita violenza, tutto ciò che ha trovato sul suo cammino.
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a colossale ondata ha devastato, oltre Longarone, i paesi di Castellavazzo, Erto e Casso… una zona dove vivevano circa diecimila persone, duemilaottocento delle quali nel solo centro di Longarone che, quasi totalmente raso al suolo, si teme abbia pagato alla catastrofe un tributo di duemila vittime.
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lle 21 di stasera erano stati recuperati seicento cadaveri. Ma nessuno è ancora capace di fare un bilancio delle vittime. C’è chi avanza l’ipotesi che siamo tremila, e anche di più: tremila persone perite in una catastrofe di gigantesche proporzioni, in una tragedia paragonabile solo a un disastroso terremoto.
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al terremoto, infatti, hanno pensato tutti. Così diranno nell’allucinato e confuso balbettio i superstiti, ricordando il momento in cui, intorno alle undici di ieri sera, la vallata del Piave, da Longarone al Ponte delle Alpi a Belluno è stata sconvolta dall’enorme massa d’acqua precipitata dalla diga di Vajont. Si è sentito fra le gole dei monti un boato da fine del mondo che ha fatto tremare la terra, le case, i cuori degli uomini, svegliati di soprassalto. Poi c’è stato uno schianto, ed era lo schianto di un’ondata più di terra che di fango: la valle per un tratto di quattro, cinque chilometri veniva spogliata, rasa al suolo… Giorgio Batini
La Nazione 13 aprile 1961
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uri Alexeievic Gagarin, un uomo di questo secolo, il ventesimo dopo Cristo, è salito nello spazio fino a trecento chilometri e ne è tornato vivo. Tocca alla nostra generazione salutare questo avvenimento, tocca a noi togliere dal vocabolario la parola “miracolo” per i voli nello spazio. Ne siamo fieri, ma trepidanti. Misuriamo il tempo che ci divide dai primi esperimenti di volo, quando sembrò sacrilegio e follia sfidare la natura; e misuriamo i decenni che ci dividono dall’Ottocento, ingiustamente malfamato perché alimentò il mito del progresso. In pochissimi anni la scienza e la tecnica hanno fatto un balzo in avanti che fino a ieri poteva sembrare prodigioso. In brevissimo tempo, calcolandolo nella secolare prospettiva della storia, la fantasia è diventata realtà. Chi può ancora fissare dei limiti alle future conquiste dell’uomo? Chi può mettere in dubbio che arriveremo presto nella Luna e i nostri nipoti potranno raggiungere i più lontani corpi celesti? Ce ne rallegriamo benché forse a tutti noi sfugga il preciso significato di questa data: 12 aprile 1961, le conseguenze pratiche, oltre quelle filosofiche e morali che comporta il volo di Yuri Gagarin, che allarga di tanto i confini dell’umanità e della conoscenza. Ne siamo orgogliosi perché questa è una vittoria dell’uomo e della sua intelligenza: lo stesso che abitò nelle caverne e lottò a colpi di pietra contro le fiere. Una riaffermazione, su un palcoscenico grandioso, della nostra superiorità sulla natura…
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È la primavera–estate del 1966
La Nazione ha una nuova sede e un nuovo editore: Attilio Monti L’addio alla storica sede di via Ricasoli e l’inaugurazione dello stabilimento di via Paolieri È il più avanzato d’Europa. Chi è il petroliere di Ravenna che ha deciso di impegnarsi nei giornali del Centro Italia
D Un nuovo stabilimento editoriale (nel tondo in basso) nella cerchia dei Viale fiorentini. Una prestigiosa rotativa e grandi locali “open space”. La proprietà del giornale passa nel frattempo al Cavalier Attilio Monti (nel tondo in alto).
al 24 giugno 1966, non a caso fu scelto il giorno del Santo Patrono di Firenze, La Nazione lasciò la storica sede di via Ricasoli per trasferirsi in via Ferdinando Paolieri. Un impianto industriale avveniristico, sicuramente il più avanzato d’Europa dal punto di vista tecnico, ma anche bello esteticamente ed inserito in modo geniale nel quartiere delle carceri fiorentine. A realizzarlo, nell’area che aveva occupato per decenni l’Alhambra, luogo di ricreazione e di spettacoli a due passi da piazza Beccaria, l’architetto Spadolini. E sarà proprio lui, in un lungo articolo su La Nazione, a spiegare il perché delle scelte architettoniche, il disegno dell’edificio e le sue piccole finestre, quasi feritoie medievali, ma soprattutto le divisioni interne, con pareti in metallo assolutamente mobili, così che per la prima volta in Firenze veniva realizzato il concetto di spazio aperto, che si poteva poi delimitare a piacimento, ridisegnare, spostando in breve tempo le componenti essenziali: porte, pareti, finestre.
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o stabilimento consiste in tre edifici separati, anzi, a onor del vero sono quattro considerando il primo affacciato sui viali. Qui ha sede la portineria, collegata a un edificio destinato alle agenzie, a cominciare da quelle fotografiche e pubblicitarie. Poi un tratto di giardino, e quindi, separato, un grande auditorium per le occasioni di incontro, per gli eventi aperti alla città. L’auditorium a sua volta risulta collegato all’edificio della redazione. Un sottosuolo destinato all’archivio del giornale, un piano terra con ampio salone d’ingresso, un primo piano destinato ad uffici tecnici, un secondo e terzo piano per le redazioni, un quarto piano, infine, per gli uffici amministra-
tivi. Collegato al precedente, ma con ingressi autonomi, un altro edificio che ospitò inizialmente la rotativa nel sottosuolo e al primo piano, poi una grandissima sala di composizione dove trovarono posto 60 linotipes e i banchi per l’impaginazione a piombo. Dal lato di piazza Ghiberti, infine, lo spazio per le spedizioni, da dove ogni notte partiranno i camion per le consegne ai distributori. Dalle stanze del direttore e del direttore amministrativo, il Cupolone sembra a portata di mano e comunque Firenze è lì, ai piedi di chi, scrivendo le cronache quotidiane, viene chiamato ogni giorno a raccontarla.
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arà in questo edificio che negli anni Ottanta il giornale passerà dalla composizione a piombo a quella detta “a freddo” e quindi alla totale composizione e grafica affidata ai computer. Nascerà quindi un nuovo stabilimento industriale a Capalle, lasciando in via Paolieri solo la redazione e gli uffici tecnici.
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ttilio Monti, che arrivò a La Nazione assieme al nuovo stabilimento, era già proprietario del Carlino di Bologna e del quotidiano sportivo Stadio. Era stato in origine agente dell’Agip, quindi importatore di petrolio. La guerra gli aveva distrutto gli impianti ma era riuscito a ripartire e già nel 1950 aveva una raffineria con 300 addetti. Un po’ alla volta aveva cominciato a lavorare e poi a costruire in proprio le grandi petroliere e per consentirne l’attracco aveva costruito un’isola nell’Adriatico e poi un parco “boe” collegato alla terra ferma.
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er la sua capacità di fare impresa il presidente Gronchi lo aveva nominato cavaliere del lavoro, il più giovane in Italia. Raggiunto il successo nelle raffinerie, aveva costruito a Milano il più alto grattacielo della città per farne la sede del suo impero economico. Arrivato a Firenze come editore, dimostrò nei fatti, e già nei giorni dell’alluvione, quanto seguisse da vicino la sua nuova attività che lo portò sempre a considerare i giornali come “i miei gioielli”.
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4 novembre 1966
L’ARNO STRARIPA A FIRENZE INVASA DALLE ACQUE LA NAZIONE Mezza Toscana colpita dall’inondazione. Danni incalcolabili alle opere d’arte e alle aziende commerciali Gli “angeli del fango” e l’aiuto dall’estero. Dalla sede del nostro giornale parte la ripresa
risalire le scale dei condomini e chiedere ospitalità ai vicini dei piani più alti. La ottennero, eccome sè la ottennero. Mai c’era stata nella storia della città, neppure durante la guerra, una solidarietà così diffusa, una partecipazione collettiva al dramma che colpiva tutti ma alcuni, indubbiamente, più di altri.
Nei tondi: così si presentava l’ingresso de La Nazione da Piazza Ghiberti. Il garage dello stabilimento era stato totalmente coperto dalla piena dell’Arno.
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emevano per il Ponte Vecchio quella notte. Per i detriti, le barche, gli alberi che la corrente trasportava a valle e che battevano furiosamente contro le arcate. Ma il Ponte Vecchio, ricostruito in quel luogo nel 1333 dopo che un’alluvione ne aveva fatto scempio resistette. E resistettero anche gli argini, senonchè la massa d’acqua era tale che li scavalcò, e un po’ alla volta – prima lentamente tanto da sembrare quasi contenibile – poi come un’autentica cascata, si diresse verso il quartiere di Santa Croce, raggiunse il centro storico, e al mattino del 5 novembre aveva già coperto un’area corrispondente alla cerchia dei viali. Al giornale era ar-
ntanto la rotativa del giornale era finita sott’acqua. Nuovissima, appena inaugurata, la migliore d’Europa. Arrivò il direttore Mattei, la mattina del 5 novembre, e come aveva già detto Ricasoli, tanti anni prima, disse semplicemente “per domattina voglio il giornale”. “Già - gli fecero notare i redattori, molti dei quali non erano neppure tornati a casa quella notte, alluvionati come gli altri – dove si stampa?” Mattei aveva la soluzione: “stamperemo a Bologna, ci ospita il Carlino”.
rivata verso l’alba, e inizialmente i rotativisti avevano cercato di fermarla, costruendo argini con tutto quanto potevano. Avevano infatti già stampato una prima edizione - “L’Arno straripa a Firenze” c’era scritto - e l’avevano distribuita alle edicole. Così che esistono delle foto che hanno dell’incredibile. Si vedono dei sommari con quella scritta che vengono trascinati via dalla corrente. Ancora una volta La Nazione era stata capace di raccontare l’evento mentre si stava verificando, e del quale sarebbe stata anche vittima.
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dunque, l’Arno si gettò fra le strade e le chiese, entrò dentro i musei, nelle case dei privati che furono costretti a
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u così che dopo aver raccolto le notizie e averle scritte al lume di candela, una decina di giornalisti, guidati dal condirettore Marcello Taddei, salirono su due auto – era novembre, alle otto era già buio da un pezzo – e si avventurarono verso Bologna. La strada era interrotta, crollati alcuni ponti, inutilmente i carabinieri si provarono a fermarli. Firenze doveva avere il suo giornale, la gente doveva essere informata, la rinascita non poteva esserci senza un quotidiano che la guidasse: il nostro. Arrivarono dunque a Bologna e qui li accolse il direttore, Giovanni Spadolini, che più fiorentino non poteva essere. E quando i colleghi bolognesi ebbero concluso con le loro edizioni, partirono quelle
del giornale gemello fiorentino. Al mattino, quando finalmente la tiratura era conclusa, tornarono a Firenze con un camion. Che trasportava loro, i giornalisti, ma anche le copie del giornale, La Nazione.
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ià, ma com’era ridotta la loro Firenze? I commercianti, una buona metà, non sapevano da dove cominciare per vuotare negozi e magazzini dalle merci distrutte e coperte di un fango intriso di gasolio. Le spallette del fiume erano crollate in più punti. E il tutto mentre Roma sembrava non accorgersi di quanto era accaduto. Così che ci vollero i veementi articoli di Enrico Mattei per svegliare dal loro sonno
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aveva scommesso con se stessa di “riaccendere” le luci e le comete. Ci riuscì. E per l’Epifania, a dimostrare come i fiorentini avessero la forza di sostituire le lacrime con l’ironia, prepararono un’immensa “calza”, come quelle che i bambini attaccavano alla cappa del camino, la riempirono di carbone, e la fecero penzolare sul fiume dalle spallette del Ponte Vecchio.
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Nella foto grande: auto accartocciate, negozi distrutti ma i fiorentini non si arrendono. Alcune donne, eroicamente, cercano di ripulire la strada.
i governanti romani. E quando finalmente, su un carro armato, il presidente Saragat venne a Firenze, e chiese dall’alto del suo cingolato “Cosa posso fare per voi?” si sentì rispondere dalle gente armata soltanto di scope e buona volontà “Scendi da codesto trabiccolo e spala come noi!”.
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La Nazione? Continuava come il primo giorno a raccogliere di giorno le notizie ed ogni notte a portarle a Bologna dove venivano stampate. Ma Attilio Monti, il nuovo editore, dimostrò coi fatti quanto teneva al giornale. Fece arrivare con un aereo speciale dalla Germania, tecnici e pezzi di ricambio, così che la rotativa fu smontata pezzo per pezzo
e rimontata. E finalmente, per l’Epifania, il nuovo stabilimento di via Paolieri riprese a funzionare. Come nuovo.
E
ancora, Firenze? Era arrivato l’esercito a dare una mano, erano arrivati anche giovani da tutto il mondo, i famosi “angeli” del fango. Giovani che venivano ospitati un po’ dovunque, anche dentro i vagoni dei treni alla stazione. Erano venuti perché era passato un messaggio, che proprio La Nazione aveva diffuso. Non si trattava di salvare una città fra le tante. Piuttosto si trattava di togliere dal fango la sorgente della civiltà occidentale, Firenze, città simbolo del nostro sapere e delle nostre arti. Fantastico, fu davvero, il risultato. Mai prima
di allora, se non per le olimpiadi dell’antica Grecia, un’intera generazione si era raccolta intorno ad un simbolo, in pace invece che in guerra. All’epoca non tutti se lo ricordavano, ma la generazione dei loro padri, arrivata a quella stessa età, si era trovata a combattere la guerra peggiore della storia, e per fortuna l’ultima fra paesi europei.
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a Cassa di Risparmio con i suoi prestiti più che agevolati, la Fiat che offrì di rinnovare il parco macchine fiorentino pressoché tutto alluvionato, ma soprattutto gli americani che vollero intervenire a favore del patrimonio culturale, fecero il resto. Firenze a Natale, quando venne a dir messa in una città ancora provata, il Papa Paolo VI,
utta qui l’alluvione? Certo, una prova che Firenze, guidata dagli articoli di Mattei e dalle eroiche gesta del sindaco Bargellini, seppe superare in un paio di mesi. In apparenza. Nella realtà, alcune delle ferite richiesero anni ed anni prima di cicatrizzarsi, e alcune non ci riuscirono mai. Così per il recupero dei dipinti finiti sott’acqua, per i libri incunaboli compresi – che non si poterono salvare, così per quel tessuto sociale che andò disgregandosi progressivamente proprio nei quartieri più colpiti: Santa Croce e San Frediano.
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a qui se ne andarono in molti gli artigiani, se ne andarono gli antichi abitanti, e si perse per sempre una Firenze popolare e genuina. Così come finì la vita sull’Arno. Che fino a quel giorno era stato capace di dare lavoro e sostentamento ai renaioli, ai traghettatori, ai pescatori. Ed era stato anche un luogo di divertimento per i ragazzi, che vi imparavano a nuotare, sotto l’occhio vigile della madri che si ritrovavano sul fiume, nei pomeriggi d’estate, a sferruzzare, guardando i loro mocciosi che, in mutande, sguazzavano nel fiume proprio davanti a loro.
Nelle immagini: così La Nazione titolava nei giorni che seguirono la catastrofe. Il presidente Saragat arrivò in città a bordo di un carro armato.
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L’Italia si divide per la boxe
Benvenuti campione del mondo Mazzinghi finisce al tappeto Il toscano K.O. alla sesta ripresa quando era leggermente in vantaggio ai punti Quarantamila spettatori a San Siro. Probabile una rivincita
Nel tondo in alto: Sandro Mazzinghi. Il pugile di Pontedera era in vantaggio quando Benvenuti con un montante lo mise K.O.
Un pugile triestino e uno toscano. Uno dichiaratamente di destra e l’altro di sinistra. Cosa c’era di meglio per dividere una volta di più le schiere dei tifosi? L’incontro fra Benvenuti e Mazzinghi fu seguito da tutta l’Italia, con le radio a transistor ma La Nazione, che sempre aveva dedicato alla boxe uno spazio particolare – Manlio Gazzo, l’esperto del settore, era quotatissimo nelle cronache del pugilato – questa volta superò se stessa, e il 19 giugno del 1965, a poche ore dalla fine dell’incontro, riuscì ad uscire in edicola con un resoconto esteso e particolareggiato. Ecco, qui di seguito, alcuni brani dal pezzo dell’inviato Manlio Gazzo.
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ino Benvenuti di Trieste è il nuovo campione mondiale dei medi junior per aver messo K.O. a 2’ e 40’’ della sesta ripresa il detentore del titolo Sandro Mazzinghi di Pontedera. L’epilogo del grande match di San Siro è stato sconcertante come del resto il suo stesso andamento.
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el cielo di questa splendida notte milanese è caduta la stella di Sandro Mazzinghi. Un K.O. ineccepibile,
quasi pauroso. L’orgoglioso Mazzinghi che aveva improntato della sua forza e aveva animato della sua accesa combattività la contesa con il suo irriducibile avversario è crollato per la prima volta nella sua carriera per non più rialzarsi, quando aveva dato l’illusione di poter disporre di un Benvenuti che è risultato pari alla sua fama unicamente nel momento decisivo del combattimento. Piuttosto nervoso, lo sfidante aveva impostato la sua tattica sulla risoluzione a tutti i costi e quando nel mezzo della sesta ripresa ha fatto prevalere la fallosità sulle azioni utili e quando nel mezzo della sesta ripresa ha piegato le ginocchia sotto le scariche al corpo di Mazzinghi ed è sembrato abdicare alla sua quasi irriducibile baldanza, si poteva intravedere una vittoria alla distanza a beneficio del suo avversario.
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a classe di Benvenuti, il suo meraviglioso istinto, sono emersi nel momento del pericolo: si è raccolto davanti all’ennesimo attacco a valanga del rivale, ha spostato indietro il busto roteando verso destra, ed ha proiettato il suo violento montante destro. Tutto nello spazio di un secondo: Mazzinghi centrato in piena avanzata sulla punta del mento si è rovesciato piombando al tappeto con le spalle. Al 57° incontro, ancora imbattuto, Nino Benvenuti si è guadagnato il riconoscimento al miglior pugile italiano in senso assoluto.
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tamani al peso si era verificata una sorpresa. Mentre lo sfidante aveva fato registrare 69 chili e 600, Mazzinghi era stato costretto a compiere esercizi supplementari per rien-
trare preciso al milligrammo nel limite riservato ai medi junior. Il pubblico, nonostante il clima di una giornata estremamente favorevole non ha corrisposto in pieno alle aspettative degli organizzatori: esauriti i posti numerati sono rimasti scoperti settori della curva e della Maratona. I presenti sono circa quarantamila…
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l primo a raggiungere il ring è Benvenuti che riceve i primi consensi. Quando Mazzinghi fa la sua comparsa i sostenitori scandiscono il suo nome a lungo. Nello stadio gli incitamenti per i protagonisti dell’avvenimento di pugilato si equivalgono con un vigore dichiaratamente polemico. Sandro Mazzinghi è assistito dal fratello Guido e dal procuratore Sconcerti. Nell’angolo opposto sono il procuratore Amaduzzi e l’istruttore italo – brasiliano Golinelli. Mazzinghi è come al solito chiuso in se stesso, Benvenuti si dà invece un’aria disinvolta... Nino Benvenuti (nella foto grande) si impose sul ring per la sua grande tecnica e la determinazione dei colpi. Diventerà campione del mondo dei pesi medi.
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1967: i colonnelli al potere In Grecia finisce la democrazia Re Costantino ha firmato il decreto che affida i pieni poteri all’esercito Numerose personalità arrestate. Coprifuoco dal tramonto all’alba e censura sulla stampa
Comincia l’epoca dei Golpe. Se ne parlerà spesso anche in Italia dove, negli anni Sessanta e Settanta, per tre volte si tentò di organizzare un colpo di stato.
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n’altra democrazia muore? È questa l’accorata domanda che la presa del potere da parte dei militari in Grecia solleva nelle coscienze europee a conclusione di una lunga, estenuante crisi nella quale l’intera classe politica, quella al governo e quella all’opposizione, si è dimostrata inferiore ai suoi compiti, alle sue responsabilità.
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é, d’altronde, è facile prevedere lo sviluppo degli eventi, tanto più in quanto mancano precise informazioni sul volgere dei fatti: la legge marziale è stata imposta su tutto il territorio del regno e le comunicazioni sono state interrotte. Non possibile per ora accertare nemmeno quale parte abbia avuto re Costantino nelle drammatiche decisioni della notte scorsa, e se ne sia stato lui l’ispiratore, o se i generali gli abbiano preso la mano. Ufficialmente da palazzo reale ci si limita a negare che l’operazione equivalga ad un colpo di Stato e ci si riconduce a
quando Costantino salì al trono per la morte del padre. L’articolo 91 della costituzione il quale dà facoltà al sovrano di adottare misure di emergenza quando la nazione versi in grave pericolo interno. Ma è difficile definire diversamente da un colpo di Stato un’operazione che impone la censura, abolisce le organizzazioni sindacali, instaura tribunali straordinari e sostituisce al potere civile quello militare.
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e cronache degli ultimi giorni parlavano di un minaccioso fermento anti – monarchico ispirato da Papandreu. Propenso a trasformare le prossime elezioni del 28 maggio in un vero e proprio referendum istituzionale. Ma in realtà la crisi ha radici più profonde. Volendo, si potrebbe farne risalire l’origine all’immediato dopoguerra quando i comunisti scatenarono un conflitto civile per rovesciare la monarchia e conquistare il potere. Comunque la crisi si è approfondita negli anni per innegabili insufficienze amministrative e un crescente malcostume politico, ai quali si sono accompagnati conseguen-
temente i fenomeni dell’inflazione, della disoccupazione e della miseria.
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on è stato difficile agli oppositori addebitare la responsabilità primaria della situazione in continuo deterioramento alla Corte, in seno alla quale la regina Federica veniva additata come un’eminenza grigia. In questo clima tre anni or sono, e precisamente il 6 marzo 1964, Costantino saliva al trono per la morte del padre. Parve in un primo momento che una tregua potesse realizzarsi intorno al giovanissimo re, caro all’opinione pubblica per i suoi meriti sportivi di olimpionico della vela.
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a la pace degli animi fu di breve durata, perchè nel luglio 1965 fu scoperto un complotto contro la monarchia. Le fila della congiura venivano tirate dalla “aspida” una società segreta cui facevano capo filocomunisti, repubblicani estremisti e alcuni giovani ufficiali di marca “nasseriana”… Per molti giorni il trono sembrò sul punto di crollare. Lo salvò
una provvidenziale scissione del partito di Papandreu, la quale rese possibile la formazione di una nuova Maggioranza capace di sorreggere un altro governo. Tuttavia le crisi ministeriali si ripeterono più volte fino al settembre 1965 quando l’incarico fu affidato all’ex papandreista Stefanopulos. Il suo gabinetto rimase in vita fino al dicembre scorso...
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oi l’estrema instabilità della situazione indusse i due maggiori partiti… a pensare a nuove elezioni che si sarebbero dovute svolgere con una ripristinata proporzione pura (senza cioè il premio di maggioranza spettante in base alla legge in vigore al partito più forte. Il compito di preparare le elezioni fu affidato a un “governo d’affari” presieduto dal governatore della banca di Grecia Paraskevopulos e la data della consultazione popolare fu fissata al 28 di maggio… Sergio Galli
Nelle foto da sinistra: Re Costantino di Grecia, il leader dell’Unione di Centro Papandreu e il capo del governo greco Canellopulos.
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da La Nazione del 6 aprile 1968
Hanno ucciso Luther King Neri in rivolta a Washington Mezzo milione di uomini di colore, armati di fucili e di coltelli hanno invaso le strade della capitale Svaligiati i negozi e appiccati numerosi incendi. Ordine alle truppe federali di entrare in città
Nella foto: “I have a dream”. Il leader nero quando pronunciò, davanti ad una folla immensa, il famoso discorso sulla parità raziale negli Stati Uniti.
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ashington, la capitale degli Stati Uniti, è dalle cinque di questa sera nelle mani di oltre mezzo milione di negri che costituiscono il settanta per cento della popolazione. È la prima terrificante reazione della popolazione di colore all’assassinio del leader integrazionista Martin Luther King avvenuto ieri sera a Memphis, nel Tennessee. Nella città è stato imposto il coprifuoco.
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a strade di gran parte del centro sono invase da una moltitudine eccitata, che attacca i negozi, rompe le vetrine, e saccheggia. I marciapiedi sono coperti di abiti, apparecchi radio, scarpe, cappelli, mercanzia di ogni genere. Decine di incendi si alzano da ogni parte dell’immensa città e una pesante nube di fumo copre l’intero distretto di Columbia. Colonne di persone cariche di grosse scatole, casse di bottiglie, apparecchi ed elettrodomestici di ogni genere, le ragazze
e le donne colle braccia cariche fino all’incredibile di grosse pile di abiti invadono le strade. Non c’è un solo bianco in giro. Neanche in Pennsylvania avenue, neanche davanti alla Casa Bianca. Negri armati di lunghi coltelli, pistole, carabine, fucili, circolano indisturbati, guidando gruppi di ragazzi, spesso di sei – sette anni all’assalto di negozi deserti e chiusi sin dalle prime ore del pomeriggio.
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egri che guidano lussuose automobili, reggendo con la sinistra il volante e con la destra bottiglie di whisky, attraversano il centro senza curarsi dei semafori. Immensi ingorghi stradali bloccano il traffico, impediscono alle auto dei vigili del fuoco ogni movimento. Altissime fiamme si vedono su tutto l’orizzonte della Capitale. L’aria è percorsa da ululati di sirene delle forze della polizia e della guardia nazionale del distretto di Columbia, mobilitata verso le tre del pomeriggio.
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a città è nel terrore, alla mercè di una moltitudine scatenata spinta da un odio secolare, in cerca di vendetta. Alle cinque e un quarto Johnson, su richiesta della amministrazione della città, ha ordinato alle truppe federali di entrare nella città e di prenderne il controllo. Autoblinde e carri armati stanno attraversando il Potomac mentre trasmettiamo, e hanno circondato la Casa Bianca e il Congresso.
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l coprifuoco è stato ordinato dalle 17,30 di questa sera alle 6,30 di domani mattina. Potranno circolare nelle vie soltanto gli agenti di polizia, i pompieri, i medici, gli infermieri e il personale della nettezza urbana. L’ordine che istituisce il coprifuoco vieta il porto di qualsiasi arma, munizione, esplosivo e materiale infiammabile. Sono inoltre vietati la vendita delle armi da fuoco, munizioni e scambio di armi. I negozi che vendono liquori e alcolici dovranno rimanere chiu-
si. Sarà inoltre vietato vendere benzina in recipienti.
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orme di ragazzi passano davanti alla Casa Bianca, gridando agli agenti del servizio segreto di guardia ai cancelli: “Sparami, uccidimi se ne hai il coraggio”. Intere strade del centro commerciale sono in fiamme. Fra le settima strada e la prima un intero blocco composto da quattro enormi isolati è un unico rogo. Il fumo acre entra in tutte le finestre. Neppure i negozi che appartenevano ai negri e che avevano esposto il caratteristico cartello “Soul brothers” sono stati risparmiati. Sulla Quattordicesima Strada a un passo dal ministero del tesoro e a due isolati dalla Casa Bianca, fiamme altissime divampano da un magazzino e minacciano un grosso edificio. Un ragazzino che avrà sette anni esce da un negozio portando una piramide di cappelli sulle braccia e gridando: “Sono un maniaco sessuale”. Nessuno gli dà ascolto...
Negli anni Sessanta il termine “negri” non era ancora considerato “politicamente scorretto”. Così lo utilizzarono La Nazione e gli altri giornali per dare notizia dell’assassinio.
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Ormai è un Sessantotto Studenti e operai in rivolta Chiusa l’università toscana, assalto all’ambasciata di Francia Tumulti a Milano: muore un agente di P.S.
I fatti della Bussola, per la notte di San Silvestro del 1968, fanno capire che l’Italia del boom delle grandi speranze e della ripresa post bellica deve ormai fare i conti con la protesta sociale. Ma già nel 1969 con la strage di piazza Fontana, appare chiaro che esiste anche una strategia di matrice fascista, probabilmente con l’intento di avvallare la tesi degli opposti estremismi. La strage di Brescia negli anni ‘70 l’attentato all’ltalicus, il fallito attentato nel quale troverà la morte nel 1972 l’editore Giangiacomo Feltrinelli, e ancora il rapimento del giudice Sossi avvenuto nel ‘74 ad opera delle Brigate Rosse, dimostrano che dalla rivolta studentesca ormai si è passati a quelli che prenderanno il nome di anni di piombo.
La Nazione 14 febbraio 1968
La contestazione studentesca era cominciata nei campus americani e si allargò quindi all’Europa. In Italia e in Germania negli anni Settanta nascerà il fenomeno del terrorismo.
L
a facoltà di lettere e filosofia dell’università di Pisa è chiusa a tempo indeterminato. Il preside professor Francesco Barone lo ha annunciato stamani agli studenti con queste parole: “In seguito ai disordini che avete provocato e in base alle deliberazioni del consiglio di facoltà prese il 19 gennaio, si sospende a tempo indeterminato l’attività didattica”. Saltano così non solo le lezioni ma forse anche gli esami. In facoltà, sempre nella mattinata, si era registrato un episodio piuttosto grave: un gruppo di studenti, durante un’assemblea che volevano tenere in un’aula impegnata dai turni di lezione avevano gridato ricattatore a un professore e questi reagiva colpendo con uno schiaffo uno dei giovani. È il professore di glottologia Tristano Borelli e lo schiaffeggiato è lo studente Pompeo Rocco, presidente dell’assemblea. Per domani alle 9,30 in assemblea generale sono convocati gli studenti di tutte le facoltà...
La Nazione 1 giugno 1968
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ssalto all’ambasciata di Francia. Al grido “Roma come Parigi” tre o quattromila studenti hanno tentato, con ripetuti assalti, fino a tardissima notte di raggiungere palazzo Farnese. Durissimi scontri si sono accesi e la polizia, praticamente colta di sorpresa, per una prima fase ha dovuto subire l’iniziativa dei dimostranti che erano condotti da una perfetta organizzazione e seguivano uno schema preciso di attacco. Poi, lentamente, la zona ha potuto essere sgomberata: anzi, diremmo, addirittura riconquistata. La polizia ha compiuto cinquantaquattro fermi tra gli aderenti al movimento studentesco e si sa che alcuni di questi fermi saranno tradotti in arresti… L’azione del movimento studentesco è cominciata con l’occupazione totale dell’ateneo romano. Dalle 13,30 tutti i cancelli della città universitaria erano stati sbarrati e soltanto gli studenti e quanti avevano validi motivi di lavoro potevano entrare attraverso un cancello aperto a metà e attentamente sorvegliato da un picchetto.
La Nazione 20 novembre 1969
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n agente di pubblica sicurezza è stato ucciso questa mattina nel corso di violenti tumulti scoppiati a Milano, in pieno centro, al termine del comizio al teatro Lirico per lo sciopero generale. I reparti di polizia stavano ripiegando, non si sa bene se per una manovra tattica o per un improvviso ordine superiore. Le squadre di assalto hanno creduto di avere avuto la meglio sulle forze dell’ordine. Al grido di “vittoria, vittoria” si sono lanciate sugli agenti appiedati e sulle macchine militari intrappolate fra la folla… Nel corso degli scontri gli assalitori hanno tra l’altro tentato di fermare alcune ambulanze che portavano gli agenti feriti davanti al Teatro Lirico, le hanno colpite, hanno infranto i vetri, hanno cercato di tirar giù gli autisti dalla cabina di guida. I delinquenti volevano il ferito per finirlo a bastonate. I feriti sono sessanta agenti o carabinieri. Fra i diciassette ricoverati un agente di P.S. è grave: prognosi riservata.
Nella foto: studenti in corteo durante le manifestazioni del ‘68.
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Quella primavera di Praga che illuse i popoli dell’Est Come era accaduto in Ungheria dodici anni prima, i carri armati sovietici intervennero contro la folla disarmata che chiedeva soltanto libertà Il sacrificio di Jan Palach: un rogo umano in piazza Vencislao
Nella civilissima Praga, erano i primi mesi del ‘68, un gruppo di uomini politici guidati da Dubcek, sperò, illudendosi, di poter coniugare la democrazia con il potere sovietico. Fu così, fra mille speranze ed altrettanti ostacoli, che si andò avanti fino all’agosto, quando i carri armati sovietici entrarono a Praga a distrussero con la violenza più ottusa il grande sogno. Uno studente – altri poi seguirono il suo esempio – quando fu chiaro che il regime rosso aveva vinto, non trovarono altro modo per denunciare il sopruso che uccidersi. Lo fecero in modo clamoroso, dandosi fuoco nella piazza Vencislao. Fu questo il loro Sessantotto. Anche questo era il Sessantotto.
La Nazione 21 agosto 1968
La speranza di un percorso democratico verso la libertà. L’avevano coltivata gli ungheresi nel 1956, questa è la volta dei cecoslovacchi. Ecco come “Nazione Sera”, l’edizione pomeridiana del quotidiano fiorentino, pubblicava la notizia della deportazione di Dubcek.
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adio Praga ha annunciato questa notte che truppe dell’Unione Sovietica, della Polonia e della Germania Orientale hanno attraversato i confini della Cecoslovacchia. Il presidium del partito comunista cecoslovacco ha rivolto un appello al popolo perché resista alle truppe che avanzano… ”Questo comportamento dell’Urss, della Polonia e della Germania Orientale va contro i diritti fondamentali degli Stati e contro le relazioni fra i paesi socialisti” ha detto radio Praga…
La Nazione 22 agosto 1968
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onostante la prova di forza, le truppe d’occupazione sovietiche sembrano incontrare non poche difficoltà nell’insediare in Cecoslovacchia un regime politico gradito al Cremlino. A ventiquattro ore dall’inizio dell’invasione continuano a funzionare stazioni radio favorevoli alla linea Dubcek. La stessa radio Praga dopo l’occupazione della sede ufficiale ha continuato a trasmettere da una località clandestina. Ma l’episodio più sconcertante, perché per ora misterioso, è la trasmissione, sempre durante la notte, di un radio – discorso del presidente della Repubblica. Svoboda, che si riteneva prigioniero nel castello Hradcany, contro il quale i russi stanno sparando da ieri sera. Nel suo discorso Svoboda ha dichiarato che “l’occupazione della Cecoslovacchia è illegale ed è stata intrapresa senza il consenso delle autorità costituzionali cecoslovacche...
La Nazione 27 giugno 1970
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lexander Dubcek, l’uomo che incarnò lo spirito della “Primavera praghese” è stato espulso dal partito comunista, privato del mandato parlamentare e rimosso dalla carica di ambasciatore ad Ankara. Non essendosi piegato né a lusinghe né a minacce, non avendo accettato di pronunciare alcun genere di autocritica, anzi, avendo continuato a sostenere coraggiosamente la validità della via intrapresa nel 1968, è stato condannato alla morte civile…
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Anni Sessanta
“Fu così che superammo il traguardo delle 200mila copie” L’organizzazione della tipografia, l’amministrazione, la diffusione I tecnici raccontano come funzionava, 24 ore su 24, la grande macchina de La Nazione Due personaggi: Omero Zaccherini e Ivo Formigli di Maurizio Naldini
Nella foto grande: ispettori de La Nazione. A sinistra Piero Brunori. In seconda fila Benito Monsecchi, Alfio Granchi, Giancarlo Sorelli. A destra Stelio Tavanti.
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grandi direttori, certamente, le grandi firme e l’autorevolezza dei commenti. Ma il giornale anni Settanta non avrebbe raggiunto i suoi grandi obiettivi, fino a superare le duecentomila copie vendute ogni mattina, senza una squadra di poligrafici e amministrativi che non aveva confronti nel resto d’Italia. Si sentivano parte di una squadra. E lo erano. Con gli straordinari guadagnavano cifre notevoli ma non conoscevano la differenza fra il giorno e la notte.
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a famiglia, quando ce l’avevano, veniva dopo il lavoro. Lavoravano ininterrottamente anche per 48 ore, ma quasi sembrava che si divertissero. Così, alla fine della prima edizione, verso le tre di notte, all’improvviso dai banconi del piombo, dalle linotipes, dai cassetti di ferro che contenevano i caratteri, usciva un po’ di tutto. Aringhe affumicate – o più spesso da “affumicare” nei fornelli dove fondeva il piombo - fiaschi di vino, il pane ed il prosciutto, qualche primizia raccolta nell’orto. La tipografia diventava un luogo di pic nic. Fra scherzi
di ogni tipo, i poligrafici festeggiavano il miracolo che si ripeteva ogni notte: l’uscita del giornale. E masticando, si preparavano alle edizioni seguenti.
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ue i personaggi che quel mondo avevano saputo crearlo, organizzarlo, e lo tenevano insieme. Erano il capo di tipografia Omero Zaccherini e l’amministratore Ivo Formigli. Accanto a lui il capo della diffusione Lamberto Migliori e quello della contabilità Roberto Sottani. Silvano Galli guidava invece l’agguerrita squadra dei giornalisti-stenografi che
raccoglieva gli articoli di corrispondenti e inviati. Tutti questi dirigenti sapevano di dover dare ai dipendenti tutto il possibile. Sapevano, per contro, di poter chiedere anche l’impossibile. E lo ottenevano. A dare entusiasmo, a dare orgoglio, il collante che teneva tutti uniti era semplicemente “il giornale”. Che ovviamente, madre, sposa ed amante, era La Nazione.
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mero aveva inventato un modo per far presto. Semplicemente metteva avanti di dieci minuti, anche di un quarto d’ora il grande orolo-
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gio della tipografia. Lo sapevano tutti ma tutti fingevano di non saperlo. E lavoravano come se l’ora giusta fosse quella. Era capace, quando il tempo stringeva, di dividere un articolo fra quattro, anche cinque linotipisti, per poi rimettere insieme i righi di piombo, a blocchi lunghi anche trenta centimetri, tenuti insieme con la semplice forza delle mani. Certo, poteva accadere che le parti si invertissero, che il lettore si trovasse la mattina a leggere un articolo dove la sequenza delle righe era invertita.
La diffusione del nostro giornale era particolarmente accurata. In base all’importanza delle notizie veniva modificato il numero di copie da inviare ad ogni singola edicola.
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a era raro, rarissimo. Per miracoloso che sembrasse, quel sistema ripetuto mille volte per notte, quasi sempre riusciva. “Io entravo a lavorare alle 13,30 – ci ricorda Luciano Rossi, un compositore che fu a La Nazione dal ’62 all’87 – e componevo a mano la pubblicità. Ce n’era tanta, anche troppa. Era tutto un litigare perché i giornalisti ne volevano meno per non rinunciare alle notizie. Cominciavo, e non sapevo quando avrei finito. Ricordo che Omero in piena notte o piuttosto all’alba mi urlava: quanto hai fatto? Ed io rispondevo: bene, bene, sei ore di turno e
otto di straordinario. In pratica ero lì da quattordici ore.”
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li fa eco Alberto Buzzichelli, storico capo delle rotative, entrato nella tipografia de La Nazione a 18 anni, nel 1945, quando il giornale non era pubblicato per la guerra ma ne stampava altri, ed uscito nell’87, dopo 42 anni. “Che dici, mi sarò divertito? Mia zia mi portava a vedere le rotative in via Ricasoli ed io, bambino, impazzivo davanti agli ingranaggi che muovevano macchine grandi come case. Lo volli fare anch’io, quel mestiere, e divenni capo rotativista. Si entrava a mezzanotte e mezzo e avanti finchè c’era bisogno. Qualche volta arrivavano notizie importanti a metà tiratura e si buttava via tutto. Anche centomila copie. E si ricominciava senza battere ciglio. Il nostro record? Trecentottantamila copie per lo scudetto viola del 1956. Quando morì Pio XII avevo due giornali. Uno lo dava per morto ed uno lo dava per vivo. Siamo stati lì per quarant’otto ore. Poi ci hanno dato il via: era morto. Sì c’erano anche degli incidenti, qualcuno ci rimise il braccio destro fra i rulli.” “Ma proprio uno di questi, mi sembra di vederlo davanti, si
arrampicava su per le scala della rotativa con un braccio solo e gli attrezzi fra i denti. Un giorno Omero mi disse: siamo una grande famiglia ma siamo diventati troppo grandi. Ci vuole qualcosa per legare fra loro i vari reparti. E allora fu inventato il torneo di calcio aziendale. Così che le poche ore che avevamo di libero le trascorremmo a giocare al calcio. Ricordo la prima volta che stampammo in quadricromia, era il Cristo di Cimabue, quello dell’alluvione, e i colori erano azzeccati.
E
anzi, quando il pittore Guarnieri fece una pittura per lo sbarco dell’uomo sulla Luna, e la pubblicammo a quattro colori, dall’America ci arrivò un telegramma. “Bravi - c’era scritto - l’avete azzeccata. Gli astronauti dicono che i colori della Luna sono proprio quelli che avete stampato voi.” Sai perché s’era sempre su di giri e pronti a darci daffare? Perché noi uscivamo per primi con tutte le notizie. Le agenzie aspettavano La Nazione, copiavano quello che potevano e lo mandavano agli altri. Allora i giornalisti aggiornavano la notizia per le nuove edizioni, ci scrivevano quello che la prima volta avevano sì e no accennato,
e noi si ristampava tutto. Era lunga la notte, e succedeva di tutto: una battaglia”.
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ariquita Fontani, entrò nell’agosto del ‘40, aveva 17 anni. Lavorò sempre accanto ad Ivo Formigli – il commendatore lo chiama - in amministrazione, e ci rimase fino all’82. “Io sono testimone – dice commossa – di quello che faceva il commendatore. Sempre a pensarne una per migliorare il giornale, la sua immagine, l’organizzazione interna. Fu lui a volere decine di eventi per festeggiare i cento anni nel 1959”.
“E
non si fermava davanti a nulla. Un giorno che c’era uno spettacolo in Boboli e le ragazze che dovevano consegnare i fiori alle signore non arrivavano, prese i suoi impiegati e li mise a fare quel lavoro. Ma se uno aveva un problema di famiglia, un figlio da sistemare, un prestito da ottenere, lui con una telefonata risolveva la questione. La Nazione era una potenza, e non solo economica Gli altri giornali avevano rese, cioè le copie delle edicole che non >
Per non perdere i treni, che avebbero portato La Nazione in tutto il centro Italia, gli autisti del giornale ricorrevano a ogni mezzo. Riuscivano perfino a far rinviare la partenza dei convogli.
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venivano vendute, fino al venti per cento. Noi eravamo al sette, otto per cento. Perché i nostri ispettori e l’ufficio diffusione funzionavano come orologi.”
Nella foto grande: i rotativisti controllano l’inchiostrazione delle pagine. A pieno regime il nastro di carta della rotativa correva a 36 chilometri all’ora.
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iancarlo Sorelli, prima alla diffusione e poi come ispettore, a La Nazione ha lavorato dal ‘47 al ‘87. “Ci chiamavano ‘copia più copia meno’, perché ogni sera, alla diffusione si telefonava ai capi pagina per sapere le notizie del giorno. Su quella base si calcolavano eventuali aumenti, anche di poche copie, per tutte le edicole della zona interessata. Si faceva in base all’esperienza, ai precedenti.
E
quasi sempre ci si azzeccava. Ma il momento più delicato era quello della spedizione. C’era un treno che non si poteva perdere, l’804 per Pisa. Se saltava quello era finita, bisognava mandare macchine e macchine a giro per l’Italia, e gli autisti rischiavano la pelle. Allora, quando erano in ritardo, per andare dal giornale alla stazione, gli autisti dei camion cominciavano a clacsonare, e il capotreno sentiva quel frastuono in piena notte, e li aspettava.
M
a altre volte si faceva anche di peggio. Il treno parte – è cosa nota – quando il semaforo è verde, ma nello stesso tempo è verde la luce del capostazione, piazzata a terra alla fine del treno. Renzo Ceccherini guidava il gruppo degli spedizionieri, arrivava per primo a Santa Maria Novella, e se vedeva che il capostazione aveva sistemato la luce verde in fondo al treno e si avviava verso il macchinista, con un piede gli girava la lampada sul rosso.
U
na, due, anche tre volte di seguito. Rischiava l’arresto, ma nel frattempo arrivavano altri camion e buttavano a braccia i pacchi dei giornali nel vagone. Gli ispettori? Non c’erano negli altri giornali o almeno non lavoravano come noi.
Q
uando mi nominarono ispettore io chiesi: e che devo fare? Mi fu risposto “Sei l’occhio e l’orecchio del giornale”. Bene, risposi, e quando ho visto e sentito? “Apri bocca e diventi la voce del giornale”. Insomma eravamo dei p.r., che prendevano iniziative con le realtà locali. Indicavamo pos-
sibili aumenti di pagine in zone fino ad allora non raggiunte, in accordo con i giornalisti si prendevano iniziative speciali.
P
er esempio, quando si trattò di lanciare l’edizione di Spezia, il giorno delle elezioni feci mettere un cartello alla terrazza della redazione che aggiornava sui risultati elettorali. A mezzanotte vennero i vigili urbani e mi supplicarono: “Sorelli – dissero – butti via quel cartello che la folla non si contiene più. Sono troppi, è pericoloso”. Il segreto del nostro impegno? Nessuno ci diceva cosa fare.
T
utti venivamo giudicati sui risultati. Ecco perché la squadra funzionava. L’azienda aveva fiducia in noi, e noi la ripagavamo con una fedeltà assoluta. Ricordo un sindaca-
lista, comunista di ferro, uomo vecchio stampo. Quando c’era lo sciopero nessuno doveva sgarrare. Subito dopo, quando era finito, correva dai linotipisti, dagli impaginatori, dai compositori, e urlava di correre, correre, correre. Insomma, voleva riprendere il tempo perduto. Perché lo sciopero lo faceva, ma La Nazione doveva comunque uscire al meglio. La sentiva, lui come tutti gli altri, come una cosa sua.”
Nel tondo: l’inaugurazione del nuovo stabilimento in via Paolieri il 24 giugno 1966. Si riconosce, al centro con il vestito chiaro, il caporedattore di allora Alberto Marcolin.
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È il giugno del 1972
Un’industria a Pomigliano d’Arco e tutti gli italiani diventano “alfisti” Un grande marchio formato popolare, ecco il segreto dell’Alfasud Trazione anteriore, 150 chilometri all’ora e un prezzo ragionevole
Per la prima volta l’industria dell’auto si trasferisce nel Meridione. Dopo un periodo di difficoltà l’Alfa Sud si impose nel mercato italiano.
Un’Italia diversa, un’Italia che ormai poteva permettersi il lusso di viaggiare in Alfa Romeo. Ma, soprattutto, un’Italia che invertiva una tendenza, quella dell’immediato dopoguerra, e che voleva la gente del Sud costretta ad emigrare, verso Milano e Torino, per lavorare in fabbrica. Ecco, quasi per discolparsi di quanto accadeva negli anni Cinquanta, e che rappresentò una vera e propria diaspora dalle campagne del mezzogiorno, venti anni dopo nasceva nel Sud uno stabilimento destinato alla costruzione di auto. Nasceva nell’entusiasmo dei politici e nello scetticismo dei più snob fra gli alfisti. In effetti, l’Alfasud ebbe agli inizi qualche problema, in specie per le carrozzerie che venivano divorate dalla ruggine, ma poi, quell’auto dal motore rombante, un’Alfa vera e propria, conquistò il cuore degli italiani. Nell’articolo che segue, ecco come l’arrivo dell’Alfasud fu annunciato da La Nazione ai suoi lettori, il 18 giugno del 1972.
Q
uattro anni fa le prime ruspe cominciarono a tracciare il terreno nella grande pianura di Pomigliano d’Arco dove avrebbe dovuto nascere il grande complesso Alfasud. Ora gli stabilimenti sono già completati; la fabbrica è stata costruita su un’area di quasi due milioni e mezzo di metri quadrati, la superficie coperta supera i quattrocentomila metri quadrati, le officine principali di produzione sono cinque, mentre in edifici separati sono stati sistemati gli impianti ausiliari…
sono nate le Alfasud, le prime vetture progettate e costruite negli stabilimenti di Pomigliano d’Arco. Prodotte attualmente al ritmo di oltre ottanta unità al giorno, sono destinate a raddoppiare entro agosto per raggiungere quota mille quando l’organico sarà completato e la fabbrica funzionerà secondo il ciclo previsto...
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isegnata dallo stilista Giorgetto Giugiaro, la carrozzeria dell’Alfasud ripete in parte i motivi che caratterizzano le altre Alfa Romeo di maggiore cilindrata. Il frontale, questa volta ealizzata con i capitali con due grandi fari rettangolari, Alfa Romeo, Iri e Finmecporta al centro lo scudetto della canica, l’Alfasud occupa casa milanese, il cofano è basso, il attualmente seimila dipendenti parabrezza inclinato, la coda tronche saranno portati a diecimila ca… grandi porte controventate, prima della fine dell’anno per linea di cintura bassa, luci laterali salire a quindicimila entro il e lunotto molto grandi, profili 1973. L’ottantacinque per cento dei finestrini e paraurti in acciaio di questi sono di estrazione locale inossidabile… manca il contagiri istruiti e addestrati in speciali che quasi sicuramente troveremo scuole che l’Alfa Romeo ha creato nelle versioni sportive, il coupè e prima ancora che la fabbrica fosse lo spider previsti in un secondo sviluppata. Contemporaneamente tempo e mancano un cassetto por-
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taoggetti e le tasche ai pannelli delle porte…
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stremamente compatta è lunga tre metri e 384, larga un metro e 590, alta un metro e 370. L’Alfasud pesa in ordine di marcia ottocentotrenta chili, ha un vano bagagli di quattrocento decimetri cubi che può essere ulteriormente ampliato togliendo lo schienale del divano posteriore...
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l motore ha una voce diversa dalle altre Alfa Romeo, il timbro è più basso, meno vivace forse, ma indubbiamente più sopportabile alle alte velocità… In compenso si può raggiungere il chilometro da fermi in trentasette secondi e la velocità massima è sensibilmente superiore ai centocinquanta chilometri indicati dal costruttore… Meno convincenti i freni che richiedono una notevole pressione sul pedale… Saverio Ciattini
Nella foto: l’Alfa Sud Sprint 1500cc. Il modello sportivo della casa automobilistica di Pomigliano D’Arco diventò il simbolo della velocità negli anni Settanta.
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È l’agosto del 1974
Watergate, l’America nella bufera Nixon annuncia in Tv le dimissioni È il previsto epilogo di una vicenda che ha coinvolto la stessa idea di democrazia negli Stati Uniti Il successore è Gerald Rudolph Ford. Il ruolo dei servizi segreti nello scandalo
Uno scandalo o un segno di democrazia? Il Watergate dimostrò al modo quanto potere potevano avere i media negli Stati Uniti.
I
l dramma di Richard Nixon è un dramma della libertà. La catena di avvenimenti che ha investito e travolto il Presidente degli Stati Uniti non potrebbe neppure essere immaginato senza la pienezza della libertà politica e il principio che sempre ad essa deve accompagnarsi, quello del rule of law, o dominio della legge, versione anglosassone e perciò praticamente efficace dello Stato di diritto disegnato nelle elaborazioni teoriche dei grandi giuristi tedeschi. È un dramma veramente americano, il frutto di un paese violento, estroverso, abituato a discutere tutto in piazza, teatro di tragedie senza fine.
È
un regicidio, ha scritto giorni fa il collega Bettiza su Il Giornale. E non è il primo ma il terzo nel giro di poco più di dieci anni: Kennedy assassinato, Johnson convinto dalle polemiche sulla guerra vietnamita ad annunciare che non si ripresenterà come candidato alle successive elezioni presidenziali, e ora Nixon, rovesciato dagli scandali, dalle pressioni convergenti di una stampa scatenata, di una giustizia inflessibile, di un Parlamento deciso a piegare la volontà del Presidente (e anche a limitare
che il presidente ha dovuto ammettere il proprio torto nella questione dei nastri che solo le ripetute intimazioni della magistratura e alla fine della stessa corte suprema, erano riusciti a strappargli.
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rrivano quando non solo l’incriminazione da parte della Camera dei rappresentanti ma anche la destituzione da parte del senato erano sicure. Nonostante questo, la decisione di Nixon deve essere accolta con favore, anzi con sollievo, perché fa uscire l’America e con essa il mondo occidentale da una gravissima crisi…
l’immenso potere che la carica suprema ha concentrato fin dai tempi di Roosevelt).
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li altri due drammi presidenziali furono brevi e nobili. Kennedy uscì di scena in un attimo, e il mondo fu commosso dalla sua morte. Johnson meritò il rispetto di tutti per aver voluto disgiungere le vicende tumultuose del Vietnam dalla campagna elettorale che, poco dopo, avrebbe dovuto affrontare, se non avesse rinunciato dignitosamente a ripresentarsi. Il ritiro di Nixon avviene in circostanze assai diverse. Mesi fa il gesto avrebbe potuto giovare alla sua fama e mettere in ombra le pieghe più sgradevoli dell’episodio: la condanna
dei collaboratori che erano stati coinvolti in azioni delittuose compiute per il servizio del presidente (foss’anche a sua insaputa), le tortuose manovre consegnate per coprire queste azioni, l’abitudine di registrare qualunque conversazione negli uffici della Casa Bianca, le infinite reticenze e ambiguità, i mutevoli atteggiamenti sulla faccenda dei nastri registrati, le disinvolte pratiche fiscali e tutto il resto.
L
e dimissioni, dunque, arrivano troppo tardi per poter essere giudicate come un gesto veramente dignitoso, una rinuncia dettata soprattutto dal proposito di evitare una crisi al Paese. Arrivano dopo
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igura complessa Richard Nixon, superiore certo per intelligenza e per carattere alla fama che aveva prima della sua stentata elezione del ’68… Il numero dei successi in politica estera è imponente… Si spiega che i capi sovietici, come si vede dalle note ufficiose, vedano con rammarico e preoccupazione il tramonto di Nixon. Un dramma della libertà è incomprensibile per loro. L’avvenire della distenzione, sulla quale Breznev ha puntato non meno di Nixon, può sembrare meno sicuro… Domenico Bartoli
Nella foto: Il presidente Richard Nixon lascia la Casa Bianca dopo aver rassegnato le dimissioni. Così, in prima pagina, lo ritrasse La Nazione il 9 agosto del 1974.
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Per due volte in due mesi in lutto il Vaticano
Paolo VI, era il “Papa della ragione” Papa Luciani, quello della speranza Il primo si era spento in agosto a Castel Gandolfo: Firenze ricordava la sua visita nel fango dell’alluvione. Il secondo si è spento a Roma, all’improvviso, alla fine di settembre
“L
o conosco molto bene – mi disse un anno fa esatto conversando il cardinale Benelli – sbaglia chi lo definisce un Papa amletico. Io credo che la serenità, una grande serenità sia il tratto saliente del suo carattere. Perché parla così spesso della sua morte? È quando è più felice che cristianamente gli torna in mente quel pensiero”.
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orse Benelli ha ragione. Paolo VI non era amletico per ambiguità di psicologia, né d’intelletto, ma perché era un uomo della ragione costretto ad esercitarla dalla più alta cattedra della fede e a metterla in pratica in tempi che ostinatamente la rifiutano.
N
ella confusa somma di pensieri che ci assalgono alla notizia improvvisa della sua morte, ci pare proprio che dopo Giovanni, Papa della speranza, la Chiesa abbia avuto con Paolo un Papa della ragione. Nella Chiesa egli ha cercato l’unità difficile a conservarsi in tempi di strenuo rinnovamento: presso i fratelli separati l’ha dispiegata ponendo il dialogo a supremo modello d’incontro: sulla modernità distratta e insanguinata e mediamente indifferente alla religione, l’ha impiegata come strumento di meditazione.
H
a tentato in ogni modo di legare il nuovo incerto e tumultuante al vecchio di una tradizione millenaria, ha cercato di rinnovare la Chiesa senza farle perdere, non diremmo il lievito del suo primo messaggio, ma anche la sua memoria storica carica di esperienze (e di errori) incancellabili. Ebbe dunque di lui un’immagine ingenua o impaziente che ne prefigurò il pontificato come una rivoluzione portata da un uomo geniale e predestinato che aveva bruciato tutte le tappe e che entrava in conclave già Papa: ne fu eletto in trentasei ore… Pier Francesco Listri
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Nella foto accanto: Giovanni Paolo II in una immagine degli ultimi anni di pontificato. Il Papa erà già gravemente malato e aveva difficoltà anche a parlare.
IL PAPA POLACCO
Tre Papi in tre mesi. Dopo la morte di Paolo VI e il breve pontificato di Papa Luciani, arriva finalmente in Vaticano Popa Wojtyla. Sarà lui ad accompagnare la Chiesa nel nuovo millennio.
C
ome nell’intimo di una famiglia la morte precoce di qualcuno dei suoi membri, così la fine imprevista e rapidissima di un pontificato risveglia e sottolinea il senso della precarietà e di incompletezza cui l’uomo normalmente rifugge, per paura e tristezza. E si resta attoniti e interdetti. Tanto più che qui, nel caso cioè di Giovanni Paolo, il segreto restava ancora da scoprire. C’era cioè da vedere se un’indole così umanamente prorompente e per ciò stesso innovativa, poteva assurgere a grande strategia ecclesiale, se il vissuto – direbbe maldestramente un commentatore alla moda – potesse diventare politico.
S
iamo freschi di una caterva di investigazioni, di indagini sottili, di analisi soppesate su ogni gesto, ogni parola del fugace papa Albino Luciani dall’eterno sorriso. Pochi si erano espressi, molti erano rimasti interdetti. Quasi tutti avevano accolto con sollievo che la fine
del pontificato paolino non avesse condotto a cupi travagli, a risse settarie, a argomentate fratture.
È
con incredulità che cento vecchi cardinali provenienti da ogni parte del mondo, in poche ore si fossero accordati – sopiti o risolti i mille problemi politici, diplomatici, squisitamente religiosi – sul nuovo reggitore della cattolicità. Ma i primi gesti del nuovo Papa – credo bisogni dirlo con franchezza se si osserva (unica cosa che può oggi fare il commentatore) la cronaca psicologica di questo mese – avevano diviso i fedeli fra loro e l’opinione pubblica nel suo insieme. Un Papa inedito, certo. Diversissimo dal precedente, ma anche da Giovanni XXIII la cui singolarità risultava a confronto. Un Papa dal linguaggio aperto, imprevisto, coniatore perfino di espressioni gergali, privo di ogni pompa e di differente dignità, sbrigativo nel rinnovare le forme… Pier Francesco Listri
La morte di Paolo VI, stroncato da un infarto in poche ore, il 6 agosto del 1978. Poi l’elezione di Giovanni Paolo I, papa Albino Luciani, che morirà a sua volta dopo 33 giorni. Ma ecco, il 16 ottobre l’elezione di un Papa che regnerà sulla Chiesa per molti anni, e lascerà dietro di sé un vuoto incolmabile. È papa Wojtyla, Giovanni Paolo II, un papa straniero dopo un periodo durato 455 anni che si presenta dicendo, quasi a scusarsi «Mi hanno chiamato da un paese lontano». Il suo pontificato sarà lunghissimo e denso di avvenimenti come pochi. Papa Wojtyla diverrà infatti il punto di riferimento – e non solo – per la Polonia impegnata in un processo di democratizzazione che la porterà a liberarsi dal giogo sovietico. E attraverso la Polonia, un po’ alla volta tutti i paesi dell’Est europeo, nell’arco di dieci anni o poco più, rinnegheranno il comunismo. Solo la storia ci saprà dire sino in fondo il ruolo che papa Wojtyla svolse in questa fase. Ma appare certo che l’attentato in piazza San Pietro, quando cercarono di ucciderlo, va collegato a questa vicenda. Giovanni Paolo II fu però, soprattutto, l’uomo della comunicazione, il primo pontefice che ebbe chiara l’importanza dei media anche in un pontificato. Seppe conquistare i mezzi televisivi, seppe diventare un idolo delle folle anche attraverso la stampa. I suoi viaggi intorno al mondo, divennero così “eventi mediatici”. Ed un “evento mediatico” senza precedenti, furono anche la sua malattia e quindi la sua morte. Papa Wojtyla non nascose, neppure alle televisioni il suo tremore, la sempre maggiore difficoltà a parlare. Portò la croce della sua decadenza fisica davanti al mondo, e per questo fu amato come pochi. E quando morì, per giorni e giorni la folla fece la coda in piazza San Pietro, così da tributargli l’estremo saluto.
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da La Nazione del 24 novembre 1980
Irpinia: un terremoto da 3mila morti E dalle rovine nasce la Protezione Civile Una scossa del decimo grado della Scala Mercalli. Gravi danni anche a Napoli, Avellino, Salerno e Benevento. I soccorsi da tutta Italia
vittime, che purtroppo cresce di momento in momento, vanno aggiunte le migliaia di feriti e le migliaia di senza tetto. Squadre di soccorso stanno convergendo da tutta la penisola nella zona, vastissima, del disastro. Si parla di interi paesi rasi al suolo, soprattutto nell’Irpinia, nel Napoletano, nel Salernitano, nel Potentino.
S
Lioni e Sant’Angelo dei Lombardi furono i paesi più colpiti dal sisma. La ricostruzione dell’Irpinia durerà decenni fra scandali e polemiche.
Si sperava, nelle primissime ore, che il terremoto avesse provocato qualche centinaio di vittime. Ma col passare delle ore, apparve in tutta la sua gravità la situazione. Lioni, Sant’Angelo de Lombardi, interi paesi distrutti. Tremila i morti, migliaia i feriti, decine di migliaia i senza tetto. Intervenne l’esercito intervennero da ogni regione i volontari. Ma i soccorsi furono un disastro. E il Presidente Pertini lo disse a chiare note durante un drammatico e coraggioso messaggio in Tv. Per fortuna la lezione servì. E da quel giorno, cominciò quel cammino di
organizzazione capillare della Protezione Civile, che oggi la rende – senza ombra di dubbio – la più efficiente d’Europa e forse del mondo. Il terremoto colpì una domenica sera verso le 19,30. L’indomani, con le prime frammentarie notizie, La Nazione usciva con l’articolo del quale, qui di seguito, riportiamo alcuni brani.
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ecine, anzi centinaia di morti. Sono le prime tragiche cifre del catastrofico terremoto che ieri sera ha colpito tutta l’Italia meridionale, ma in particolare la Campania e la Basilicata. Al numero delle
econdo i dati degli osservatori sismologici il terremoto, che colpisce così duramente il nostro apese a soli quattro anni dalla tragedia del Friuli e dal disastro della Valnerina nel 1978, è classificato tra il nono e il decimo grado della scala Percalli. L’epicentro si troverebbe a una trentina di chilometri a ovest di potenza.
L
a scossa più violenta è stata registrata alle 19,36. Da quel momento la terra ha continuato a tremare a intervalli quasi regolari, anche se con intensità minore, aggiungendo panico al panico.
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ra i centri più colpiti vi è Napoli, dove sono crollati numerosi edifici e dove la gente, in preda alla paura, si è riversata per le strade cercando di fuggire verso la campagna. Difficile ovunque l’opera di soccorso. Le linee elettriche e telefoniche sono saltate da Roma fino alla Calabria, rendendo impossibili le comunicazioni
con le zone terremotate e la sala operativa del Vicinale a Roma.
L
a protezione civile ha mobilitato uomini e mezzi. Autocolonne sono partite nella notte anche da Firenze e da Bologna, mentre nella capitale i vigili del fuoco, reparti dell’esercito e tutti i battaglioni mobili dei carabinieri e della polizia sono stati trasferiti verso la Campania e la Basilicata.
L
e notizie che provengono dalla zone disastrate sono ancora frammentarie. L’unico elemento certo è che ovunque sono crollati palazzi, addirittura edifici costruiti in cemento armato. “È una tragedia” hanno detto per telefono i funzionari della protezione civile che da Roma cercavano di avere un quadro più preciso dell’entità del disastro...
A
Napoli nella popolosa zona di Poggioreale un palazzo di via Stadera di nove piani si è accartocciato su se stesso. Vi abitavano venti famiglie… scene di panico nella metropolitana. I treni sono rimasti bloccati... A Poggioreale nel carcere dove sono rinchiusi circa duemila detenuti il terremoto ha scatenato la rivolta. I reclusi hanno tentato di fuggire, disarmando gli agenti di custodia. Sono arrivati i carabinieri che alla fine hanno potuto sedare il tumulto lanciando numerosi candelotti lacrimogeni…
Fu con questa tregedia che finalmente fu organizzata la Protezione Civile. Il presidente Pertini, in un drammatico discorso televisivo, disse che i soccorsi non erano stati all’altezza del loro compito.
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Anni Ottanta: quando le “tute blu” furono sostituite dai computer Una rivoluzione tecnica, che ben presto divenne anche sociale ed economica A La Nazione il passaggio dalla composizione in linotype a quella “a freddo” E la carta, divenne sempre meno rilevante
quasi a diventare quell’elettrodomestico - per magico e misterioso che rimanga - quale viene considerato ai tempi nostri. Il computer trasformava il modo di lavorare. Sempre di più le “tute blu” simbolo della aristocrazia operaia, si trasformavano in “camici bianchi”, quelli dei tecnici che si trovavano ad operare in stanze asettiche, spesso su tavoli luminosi, in un silenzio incredibile rispetto alla macchine di un tempo. E questo avveniva soprattutto nel mondo dell’editoria, che per prima aveva abbracciato, con entusiasmo, le nuove tecnologie.
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a Nazione introdusse i nuovi sistemi di composizione e di stampa proprio in quegli anni. Non poteva essere diversamente, visto che il giornale che era stato di Ricasoli sempre aveva fatto delle innovazioni tecniche una sua precisa forza, una precisa scelta editoriale. La quadricromia che era stata già negli anni Settanta, anzi alla fine degli anni Sessanta un tentativo, una esperienza dichiarata possibile, diventava adesso una realtà. I tempi di composizione e di stampa si riducevano enormemente.
Nei tondo in alto: un gruppo di poligrafici. Al centro, con gli occhiali e la cravatta, il capo della tipografia Omero Zaccherini. Nel tondo in basso: una rotativa in azione.
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nni da bere, li chiamarono. E questo perché dopo le follie del massimalismo, della rivoluzione ad ogni costo, del “tutto e subito”, delle eterne assemblee, dei “cioè”, delle logorroiche disquisizioni “a monte e a valle”, della totale mancanza del senso del ridicolo espresso in nome di una “partecipazione dal basso”, sognando una “democrazia totale” che portasse la “fantasia al potere”, e la violenza come “giustificazione proletaria”, finalmente si tornò ad agire, concretamente, per risolvere i problemi del Paese. Anni da bere, perché l’Italia tornò a produrre a buon ritmo,
divenne una delle prime cinque potenze mondiali, fu credibile, in varie occasioni, nel confronto con gli altri paesi occidentali, affermò la sua indipendenza anche rispetto agli Americani, sembrò ritrovare un po’ di orgoglio.
A
vveniva, il tutto, mentre la rivoluzione tecnologica modificava nel profondo i sistemi di lavoro, ma anche le abitudini della gente comune. Entrava sulla scena il computer, agli inizi come un oggetto da temere e rispettare, patrimonio di pochi eletti, poi con sempre maggiore dimestichezza, fin
E
così era possibile produrre, nello stesso tempo, un numero di pagine enorme, mentre diminuivano considerevolmente i costi. Eppure, tutto questo, creò anche dei problemi. Non da poco, venne a mancare, quasi all’improvviso, quel rapporto fra giornalisti e poligrafici che era stato da sempre, fin dalla famosa notte di quel 13 – 14 luglio del 1859, la forza de La Nazione. Diminuì in parte il senso di “squadra”, lo sforzo anche eroico di poligrafici e giornalisti disposti a lavorare 24 ore di seguito pur di portare a termine il giornale. E insomma, finiva una stagione degli individui chiamati a fare squadra, per lasciare il posto a quella dei manager,
delle decisioni prese a “tavolino” con la freddezza che richiedeva una tecnica sempre più raffinata di lavoro.
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l passaggio dalla linotype alla composizione su una tastiera che produceva strisce di carta da incollare su cartoni, e quindi la scomparsa del piombo e dei telai di ferro, avvenne nel 1982. Il sistema si perfezionò progressivamente, prima con la composizione “a blocchi” che in pratica era già una forma di impaginazione nel momento stesso che gli articoli venivano battuti alle tastiere, poi con il computer che permise di lavorare, già al giornalista, in una pagina in precedenza disegnata dal grafico in accordo col capo servizio. E dunque, scompariva del tutto il reparto di composizione, e quanto era fatto in origine dai poligrafici nei fatti era
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Nelle foto a sinistra: Un gruppo di rotativisti negli anni Ottanta. Il primo a sinistra, con la camicia bianca, è il capo rotativista Alberto Buzzichelli. Nella foto accanto: i tavoli luminosi per l’impaginazione utilizzati negli anni Ottanta con il sistema “a freddo”.
diventato di competenza dei giornalisti stessi. Guidarono la trasformazione tecnologica vari ingegneri, e finì dunque l’epoca del mitico Omero, il capo di tipografia che aveva permesso a La Nazione di diventare uno dei più efficienti giornali italiani.
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enne, da Roma, Antonio Colonna, un supertecnico. Quando si voleva sottolineare un evento di particolare importanza si ricorreva al colore, in prima pagina ovviamente. Ma la preparazione era stressante. Richiedeva ore e ore, per uscire la domenica con una foto in quadricromia occorreva consegnarla ai tipografi più di 24 ore prima. E dunque, si trattava di una raffinatezza, ma andava a discapito della immediatezza nel comunicare. La totale computerizzazione del sistema si ebbe all’inizio degli
anni Novanta. E la grande sala che aveva ospitato le linotype, il salone affacciato su piazza Ghiberti, con il Cupolone sullo sfondo, divenne all’improvviso silenzioso, in gran parte vuoto, salvo il ticchettio di qualche residua macchina da scrivere, o il ronzio delle fotocopiatrici. Il giornale andava molto bene, per vendite e per pubblicità. E infatti, erano ancora anni nei quali la concorrenza della televisione esisteva, era notevole, ma non ancora invasiva più di tanto. In qualche modo il piccolo schermo e il quotidiano si sostenevano a vicenda, facevano reciprocamente da tramite verso il grande pubblico.
L
e rassegne delle prime pagine dei giornali, inizialmente nei notiziari televisivi del mattino, poi addirittura in quelli della tarda
notte, lanciavano i quotidiani del giorno dopo che, a loro volta, destinavano intere pagine alle trasmissioni tv. Era dunque un momento favorevole, e fu allora, metà degli anni ottanta, che i quotidiani arrivarono a vendere in tutta Italia, oltre sei milioni di copie al giorno.
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n record, che ci avvicinò alle vendite già da tempo raggiunte nel resto d’Europa, nel mondo occidentale, ed in particolare nei paesi anglosassoni. Fu anche l’epoca – resa possibile dalla semplificazione delle tecniche di composizione e stampa – dei grandi inserti. Quasi ogni giorno La Nazione, ma anche altri quotidiani lo facevano, dedicava pagine speciali ai giovani, alla donna, al turismo, alla scuola e ovviamente allo sport. Inserti che divennero sempre più raffinati, ottimi contenitori di pubbli-
cità, fino ad assumere l’aspetto anche esteriore di veri e propri magazine, o riviste. La Nazione fu tra i primissimi quotidiani a proporre una sua rivista settimanale, strada che poi fu intrapresa anche dagli altri maggiori giornali italiani.
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ello stesso tempo, facevano la loro apparizione sulla scena i primi concorsi, la tombola o Bingo sulla scia dei giornali inglesi, i primi gadget. Tutte novità che fecero storcere il naso ai “puristi” ai convinti sostenitori di un giornalismo paludato, letterario e di approfondimento politico, secondo la migliore tradizione italiana dall’Ottocento in poi. Ma è anche vero che quelle iniziative portarono copie, aumentarono la diffusione, permisero di inaugurare una stagione dell’editoria nella quale il giornale era davvero “di tutti e per tutti”.
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da La Nazione del 29 gennaio 1986
Lo Shuttle esplode in cielo Una tragedia in diretta Tv Una immensa palla di fuoco lo ha avvolto a due minuti dal decollo Morti i sette membri dell’equipaggio fra i quali due donne Reagan parla alla nazione: Andremo avanti
Fu un drammatico ritorno alla realtà. Sette astronauti (nella foto) morirono all’inizio di una missione che ormai era considerata di routine.
L
a decima missione spaziale di Challenger è durata due minuti esatti. Erano le 11,40 ore della Florida. Nel cielo azzurrissimo si è accesa una palla arancione. Davanti ai monitor di controllo i tecnici si sono messi le mani sugli occhi. Sulle tribune allestite all’esterno della base spaziale Kennedy, la gente piangeva. Nella sala ovale della casa Bianca, dove Reagan stava parlando con un gruppo di senatori repubblicani, si sono precipitati per portare la notizia il vice presidente Gorge Bush e il consigliere per la sicurezza Pointdexter.
L’
America piange la più grave tragedia della sua giovane storia di potenza spaziale. Vent’anni e un giorno dopo un’altra esplosione che distrusse la Capsula Apollo pronta a partire per la Luna. Quelli del “Challenger” non dovevano andare sulla Luna, ma semplicemente in orbita per una di quelle missioni che ormai sono considerate di routine e che quasi non fanno più notizia. Sarebbe stato
il venticinquesimo viaggio di una navetta. L’equipaggio avrebbe svolto le “solite” ricerche, i “soliti” esperimenti, sarebbe dovuto rientrare a terra come su un qualsiasi aereo di linea. I giornali ne avrebbero parlato nelle loro pagine interne e i tecnici della Nasa avrebbero preparato la missione numero 26.
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nvece la 26 non ci sarà per un periodo di tempo prevedibilmente lungo. Prima bisogna scoprire cosa non ha funzionato, il perchè di molti rinvii ( due solo ieri mattina, sei in totale) della partenza. Bisogna accertare se effettivamente è stato il ghiaccio, alcune banali incrostazioni sul rivestimento antitermico dei razzi, a provocare la tragedia.
P
er il momento il paese intero è sotto choc, come dice con voce rotta il vice presidente Bush. Il presidente ha annullato il messaggio sullo stato dell’Unione. Esperti hanno azzardato spiegazioni: l’esplosione è avvenuta sulla destra dello Shuttle proteso verso l’alto. Per
gli astronauti non c’è stato scampo, non è previsto un sistema di salvataggio come quello degli aerei militari, con i seggiolini catapultabili. La morte dei sette membri dell’equipaggio, cinque uomini e due donne, deve essere stata istantanea.
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er un attimo, solo per un attimo, la folla raccolta a terra e i telespettatori hanno avuto l’impressione che qualcuno si fosse salvato... È stato quando fra le scie di fumo che accompagnavano la caduta sull’oceano dei frammenti dello Challenger è stato intravisto un paracadute. Era quello di un medico, lanciatosi nell’impossibile speranza di poter essere d’aiuto, il medico era a bordo di uno degli aerei della Nasa che sorvegliavano dall’alto le prime fasi del lancio… Al momento dell’esplosione il “Challenger” volava a una velocità tripla a quella del suono. Lo spingevano in orbita i tre serbatoi pieni di ossigeno e di idrogeno liqui-
di. Dalla cabina il comandante Scobee aveva trasmesso: “Tutto bene, saliamo”. Sono state le sue ultime parole.
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lla base Kennedy, il portavoce della Nasa Steven Nesbitt affermava: “Non c’era alcuna indicazione di qualcosa che non funzionasse durante il conto alla rovescia. Non sappiamo che dire.”… In serata, alla stessa ora del previsto e annullato messaggio sullo stato dell’Unione, il Presidente Reagan ha parlato dagli schermi della televisione. Poche commosse parole sulla falsariga di quanto anticipato dal suo portavoce Larry Speakes: “Sette coraggiosi americani sono morti. Non faremo e diremo mai abbastanza per rendere loro onore. Vogliamo sapere perché sono morti, ma noi andremo vanti col nostro programma spaziale.” Cesare De Carlo
Dopo questo incidente la Nasa perse granparte del suo mito. Il governo americano diminuì drasticamente i fondi per le missioni spaziali.
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da La Nazione del 1° maggio 1986
Chernobyl: cronaca di un disastro Anche sull’Italia la nube nucleare Mosca parla di 197 ricoverati ma rassicura: il reattore è stato bloccato Secondo gli osservatori internazionali il pericolo è invece ancora incombente I satelliti Usa rilevano “enormi perdite di vite umane”
Per giorni fu impossibile conoscere la reale dimensione della catastrofe. La nube radioattiva arrivò a sfiorare anche il nostro Paese.
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na agenzia americana ha comunicato che anche un secondo reattore della centrale nucleare di Chernobyl è seriamente danneggiato. Dalla Svezia è venuta una conferma. Una compagnia di telecomunicazioni ha reso noto di aver individuato “due punti rosso vivo” sotto una cappa di fumo bluastro in una foto del complesso nucleare scattata dal satellite artificiale statunitense “Landsat”. Gli esperti non escludono che ci si trovi in presenza di due fusioni.
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e avanguardie della massa d’aria radioattiva provenienti dalla centrale nucleare sovietica hanno cominciato a sfiorare il nostro paese. Le correnti stanno spingendo la nube radioattiva verso l’Europa centro – settentrionale. Lo stesso servizio meteorologico degli Stati Uniti, secondo il quale la nube sta ritornando verso la Russia, dichiara di non essere assolutamente in grado di fare
previsioni precise in questo senso. In Unione Sovietica intanto si continua a sdrammatizzare: fonti normalmente autorizzate a parlare tacciono. Il governo sovietico ha annunciato ieri sera che 197 persone sono state ricoverate in ospedale… i satelliti spia hanno dimostrato anche, attraverso foto da loro scattate, che gli altri reattori non sono in pericolo, e che decine di elicotteri continuano a trasferire la popolazione…
Sapremo, a distanza di anni, quali terribili conseguenze genetiche ebbe, sui bambini, la tragedia di Chernobyl.
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econdo gli esperti la catastrofe nucleare di Chernobyl avrà effetti disastrosi sulla salute della gente e, fra la gente, i più esposti sono i bambini. Infatti lo iodio radioattivo attacca immediatamente la tiroide e quella dei ragazzi accumula un più alto tasso di questa sostanza… Piero Paoli
L’incubo della nube radioattiva sulla festa dei lavoratori In questo I° maggio 1986 l’allegria della festa e l’orgoglio delle conquiste sociali sono velati dall’incubo della nube radioattiva che si è sprigionata, e forse si sprigiona ancora, dal reattore di Chenobyl in Ucraina, e che spinta dai venti minaccia i cieli d’Europa… un giorno infausto, un momento di sconfitta di quella tecnologia che rappresenta la frontiera più avanzata del lavoro umano. Altre sconfitte e altri disastri hanno conosciuto le generazioni che ci hanno consentito il benessere di oggi, quelle generazioni che hanno costruito le ferrovie nei deserti, aperto gallerie nelle montagne, eretto dighe per i bacini idroelettrici. La catastrofe del Vaiont, per citarne una, è ricordo vicino e ancora turba molte coscienze. Ma le sciagure e i disastri di un tempo, che pure nella maggior parte potevano essere evitati, avevano dimensioni locali: i lutti e il sangue erano circoscritti, soltanto i sentimenti, commozione e pietà, sdegno e solidarietà, percorrevano più o meno intensi paesi e continenti. Oggi, invece,i paesi e i continenti rischiano
in prima persona, vivono nella paura dei pericoli per i disastri accaduti a centinaia e forse migliaia di chilometri di distanza. La nuova frontiera della scienza e della tecnologia ha infatti superato nel bene e nel male i confini e le barriere che tenacemente resistono fra Stato e Stato. Ed è proprio questo il problema che l’esplosione della centrale nucleare sovietica pone in tutta la sua angosciosa drammaticità ai popoli e soprattutto a coloro che li governano. L’occasione fortuita del 1° Maggio è la più adatta a far riflettere. Non si tratta, a nostro modesto parere di fermarsi sulle strade delle tecnologie più sofisticate e di abbandonare programmi di sviluppo energetico. Non ci si è fermati in cento anni di cammino non deve arrestarsi ora. Ma occorre che scienza, tecnologie e politica internazionale sappiano trovare rapidamente gli strumenti per rimediare a quelle che nel disastro di Chernobyl si rivelano colpe inaudite. Tino Neirotti
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Cronache del Terzo Millennio
Il mondo cambia, ormai è globale e La Nazione sbarca su Internet Si modifica l’idea stessa di stampa quotidiana ed il lavoro del giornalista Dal formato ridotto alla rivoluzione del colore I convegni di Borgo La Bagnaia e il nuovo stabilimento industriale di Capalle
zo editoriale senza precedenti, venivano potenziate le edizioni provinciali fino a presentare ognuna in un fascicolo a se stante. In pratica i lettori si trovano ad avere, oltre al fascicolo che contiene le notizie nazionali ed estere, un secondo giornale nel quale si possono trovare diffusamente le notizie della propria città e della propria zona. Uno sforzo economico e organizzativo eccezionale, secondo lo schema socio – economico dell’oggi, che ci chiede di guardare nello stesso tempo, e con pari intensità, alla dimensione locale e a quella globale.
Così si presentava il sito internet de La Nazione nel settembre del 2004. Attualmente ogni edizione locale ha la sua pagina web.
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er dominare un mercato sempre più aggressivo, con le televisioni che assediano l’idea stessa della carta stampata, Internet che produce a valanga informazioni, il moltiplicarsi delle notizie battute dalla agenzie di stampa (dalle 500 al giorno dei primi anni Ottanta, si raggiungono oggi le seimila) i quotidiani degli ultimi vent’anni si sono adattati ad un radicale cambiamento. Per certi aspetti è cambiata anche la loro più intima natura, e quindi, è cambiato anche il modo di essere e di fare il giornalista. E infatti, se tradizionalmente il cronista cercava le notizie, le scriveva e le titolava, oggi il suo compito è principalmente un altro. Si tratta di dar loro una “gerarchia”, di selezionare e proporre in base a criteri che si presume siano quelli desiderati dal pubblico al quale ci si riferisce.
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comparso nel 1994, all’età di 88 anni, il cavaliere Attilio Monti, ad affrontare le sfide del presente alla guida dei giornali del gruppo si è trovato un giovanissimo editore, il nipote Andrea Riffeser. Un editore puro, forse l’unico nel panorama nazionale, che ha saputo coraggiosamente affrontare i cambiamenti necessari per far fronte alla sfide del mercato editoriale.
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ndrea Riffeser ha progressivamente avvicinato le testate di sua proprietà, finchè La Nazione, Il Resto del Carlino e il Giorno, pur mantenendo la loro specificità hanno contribuito alla creazione di una nuova testata nazionale, il QN (Quotidiano Nazionale) che dal 2000 ad oggi si è imposto come uno dei grandi quotidiani del Paese. Nello stesso tempo, mentre La Nazione si diffondeva a livello nazionale, con uno sfor-
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ello stesso tempo, fino dagli anni Ottanta, ecco la vendita assieme al quotidiano di inserti, riviste, nuove testate giornalistiche, Cd e Dvd, di volta in volta dedicati ai giovani, alla donna, allo sport, ai viaggi, agli approfondimenti di cronaca. E ancora, ecco La Nazione su Internet, con portali per tutte le edizioni che vengono aggiornati in tempo reale, ora dopo ora Il giornale che fu di Ricasoli è dunque diventato, negli ultimi decenni, una realtà multimediale, capace di testimoniare la società dell’oggi ma anche di contribuire a crearla. Un ruolo attivo e nello steso tempo un ruolo critico, che si rivela durante i prestigiosi convegni al Borgo La Bagnaia, dove la presidente della Poligrafici Marisa Monti Riffeser riceve annualmente i protagonisti del mondo politico e di quello dell’informazione, e nello stesso tempo accoglie giovani selezionati ai quali è offerto di incontrare e di misurarsi con chi ha realmente il potere della comunicazione. Convegni e incontri, che rappresentano l’unico scenario del genere in Italia e ai quali, comprensibilmente, tutta la stampa nazionale e le tv, danno il massimo risalto. Uno sforzo notevole è stato profu-
so dall’editore de La Nazione anche per la costruzione di un nuovo stabilimento industriale nell’area di Capalle, alla estrema periferia di Firenze. Entrato in produzione nel giugno del 1997, e dotato di modernissimi impianti di composizione e di stampa, lo stabilimento di Capalle ha permesso di liberare la sede di via Paolieri dalla presenza di tir e carichi industriali e rendere più agevole la distribuzione delle copie.
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l prestigioso impianto di via Paolieri, infatti, trent’anni dopo la sua inaugurazione, si rivelava troppo centrale per poter accogliere i rotoli di carta, le manovre dei grandi camion e tutto quanto comporta tenere in attività una grande tipografia editoriale. La città, che nel 1966 sembrava “lontana”, nei fatti si era ampliata fino a circondare, con le sue necessità varie ed urbanistiche, l’edificio progettato a suo tempo dall’architetto Spadolini.
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edificio di via Paolieri non per questo è stato abbandonato. È rimasto ad ospitare le redazioni, alcuni servizi tecnici, continua ad aprire ai lettori il suo prestigioso auditorium. Il potenziamento tecnico che è seguito alla entrata in funzione del nuovo stabilimento, ha permesso l’arrivo di nuove rotative per il colore, ma anche la stampa di inserti, riviste settimanali e mensili. Inoltre La Nazione, che alla metà degli anni Novanta aveva cominciato a stampare la prima pagina a colori, è stata fra i primi quotidiani italiani a concludere il percorso ed oggi si presenta del tutto in quadricromia. Questo ha comportato una totale rivoluzione grafica, e nell’ultimo periodo anche l’adozione di un formato tabloid. Una scelta che sembrò coraggiosa i primi tempi, ma che i lettori hanno dimostrato di gradire particolarmente.
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