150 anni di pubblicità - La Nazione

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www.lanazione.it

150 ANNI di STORIA ATTRAVERSO LE PAGINE DEL NOSTRO QUOTIDIANO

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QUARTA PARTE • La pubblicità:

dai primi annunci alle grandi campagne

SUPPLEMENTO AL NUMERO ODIERNO A CURA DI


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sommario 5 6 9

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Un secolo e mezzo di storia della pubblicità su La Nazione Timida, ingenua, in punta di piedi così la réclame entrò nei giornali Il successo di una rubrica di moda aprì le porte alla pubblicità griffata Lirica, teatro di prosa e cabaret Così Firenze viveva la sua notte E finalmente su La Nazione arrivano le “case in affitto” C’è una nuova rubrica sul giornale È quella degli “annunci economici” Sportivi, fatevi un velocipede: ma che sia Raleigh, il migliore Gli italiani scoprono le “vacanze” E la réclame li aiuta a scegliere Tanti disegni su ogni argomento La pubblicità è inarrestabile Così il giornale imparò a promuovere se stesso Magnesia, acqua minerale, alberghi Così si vendeva nel periodo fascista Annunci economici e grandi marchi Così le promozioni nel dopoguerra Così si invitavano i lettori ad acquistare un prodotto Anni Sessanta, ormai è un “boom” E la pubblicità non è più artigianale L’inserzione non è più “isolata” Nasce la campagna pubblicitaria Che lingua parla la pubblicità? Ecco come farsi capire da tutti Arriva il colore anche nei quotidiani Gli annunci pubblicitari sono ovunque Ma quanti possono essere gli annunci nelle pagine? La pubblicità conta più dei lettori? Se ne discute negli anni Novanta Ma cos’è davvero la pubblicità (e soprattutto a che cosa serve?) Tutti i segreti di un pubblicitario: “così vendo attraverso gli slogan”

In edicola iI volume celebrativo Esaurito in pochi giorni nella sua prima edizione, è in edicola la ristampa del volume edito in occasione dei 150 anni de La Nazione. Il libro, curato dal giornalista e scrittore Maurizio Naldini, rappresenta un’opera senza precedenti. Anche solo sfogliandola, infatti, permette di ripercorrere attraverso le cronache quotidiane la storia di un giornale, di una regione, dell’Italia e del mondo. Il volume, di 400 pagine, contiene oltre 200 articoli originali – dalle cronache del Collodi per l’annessione della Toscana al Piemonte fino all’elezione del presidente Obama - introdotti dall’autore. La pubblicazione è arricchita da 15 tavole illustrate originali realizzate da Luca Parenti, l’impaginazione è stata curata da Marco Innocenti dell’agenzia Kidstudio. Storici del livello di Zeffiro Ciuffoletti, Cosimo Ceccuti e Sandro Rogari hanno introdotto le tre parti nelle quali si articola, cronologicamente, l’opera.

Supplemento al numero odierno de LA NAZIONE a cura della SPE Direttore responsabile: Giuseppe Mascambruno Vicedirettori: Mauro Avellini Piero Gherardeschi

QUARTA PARTE • La pubblicità:

dai primi annunci alle grandi campagne I tre fascicoli regionali e i 17 locali con le cronache più significative delle città sono sfogliabili on line su www.lanazione.it nelle sezioni locali del portale.

Direzione redazione e amministrazione: Via Paolieri, 3, V.le Giovine Italia, 17 (FI) Consulenza storica: Aurora Curzio

Progetto grafico: Marco Innocenti Luca Parenti Kidstudio Communications (FI) Stampa: Grafica Editoriale Printing (BO)

Pubblicità: Società Pubblicità Editoriale spa DIREZIONE GENERALE: V.le Milanofiori Strada, 3 Palazzo B10 - 20094 Assago (MI)

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Un secolo e mezzo di storia della pubblicità su La Nazione Dal 1859 ad oggi, come si è modificato l’annuncio economico nelle pagine del nostro giornale

Agli inizi le inserzioni pubblicitarie ricostruivano semplicemente fatti e situazioni di vita quotidiana.

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a pubblicità e i giornali, chi nacque prima fra i due, e in quale modo l’una permise lo sviluppo degli altri? Già a Pompei si trova la pubblicità, insegne di negozi e lupanari, scritte sui muri. Ma d’altra parte gli autori latini già si dilettavano con i loro diari, acta diurna, una sorta di cronaca quotidiana degli avvenimenti.

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dunque vien da dire che per strade diverse, ma non troppo, la stampa o comunque la scrittura destinata a un grande pubblico, e la “reclame”, come si diceva una volta, muovono insieme i primi passi, e reciprocamente si sostengono. Infatti, a guardar bene, cos’è un giornale se non una forma di pubblicità, per idee e fatti che si vogliono far conoscere? Nascono con questo intento, quello di comunicare ad un pubblico sempre più vasto. Sono dunque un mezzo, uno strumento per certi aspetti insostituibile. Naturale che se ne servano anche gli uo-

mini d’affari, per far conoscere le loro merci ed i prodotti.

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dunque, la pubblicità come oggi la intendiamo nasce proprio con i quotidiani. E poiché i quotidiani come oggi li intendiamo nascono in Italia nella seconda metà dell’Ottocento, ecco che attraverso i 150 anni de La Nazione – il più antico quotidiano d’Italia, fra quanti non hanno mai interrotto le pubblicazioni fino ad oggi - si può ricostruire una piccola storia del messaggio pubblicitario, curiosa, divertente perfino, ma non per questo meno rilevante, e utile perfino agli studiosi.

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a pubblicità, infatti, non è solo un sostegno indispensabile alla sopravvivenza economica del giornale quotidiano. Né un insieme di annunci inseriti quasi a forza nelle pagine, e subite dai giornalisti loro malgrado. E’ questo, sicuramente, ma ancor più è un elemento di costante evoluzione grafica, un

metro di paragone per chi impagina, e perfino insegna un nuovo tipo di linguaggio, sempre più conciso e penetrante. Gli slogan della pubblicità, per esempio, hanno aperto la strada ai metodi più moderni di titolazione.

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quelle che vengono definite le “frasi forza”, ovvero frasi che riescono a riassumere il più brevemente possibile anche concetti complessi. La pubblicità è dunque una sorta di banco di prova e di sperimentazione, di laboratorio grafico e di linguaggio, al quale il giornalismo si rifà costantemente, anche se non ama ammetterlo.

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n esempio? Gli annunci di una rappresentazione teatrale, già negli anni Settanta dell’Ottocento sono bellissimi, e in qualche modo anticipano le soluzioni grafiche

alle quali ricorrerà il giornalismo un secolo dopo, già, negli anni Settanta del Novecento. Una piccola storia della pubblicità letta e rivisitata attraverso i quotidiani, ecco dunque quello che vogliamo offrire con questo fascicolo.

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ttraverso la riproduzione di una messe di annunci, cercheremo di riflettere su come, e su quanto, la grafica pubblicitaria abbia influenzato il linguaggio dei giornali. Sia nel disegno che nelle parole, stimolando costantemente verso un miglioramento tecnico, non ultimo l’adozione del colore che è ormai una realtà per tutti i quotidiani del mondo. E dunque, i giornali non avrebbero potuto esistere senza il sostegno economico che deriva loro dalla pubblicità, ma se anche ci fossero riusciti, sarebbero stati diversi da come sono oggi e non certamente migliori.

Per 5 giorni, fino al numero del 19 luglio 1859, La Nazione uscì senza aver definito i prezzi degli annunci economici.


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Gli esordi

Timida, ingenua, in punta di piedi così la réclame entrò nei giornali I primi annunci riguardavano la salute. E poi i rimedi miracolosi, le Terme, un po’ alla volta la moda e gli svaghi

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scì col suo primo numero, La Nazione del 14 luglio, senza l’indicazione dello stampatore, e tanto meno i prezzi degli annunci pubblicitari. Ma era il 1859 e già allora, giornalismo di metà Ottocento, le inserzioni avevano un ruolo fondamentale per la vita dei quotidiani. Così, appena possibile, ovvero nel numero del 19 luglio, il giornale voluto da Ricasoli presentava i prezzi a rigo per gli inserzionisti. Prezzi accessibili, come si conviene a una pubblicazione agli inizi, ma comunque dignitosi. Sapevano fin da allora, gli stampatori, che solo con un buon numero di abbonamenti, e un numero altrettanto cospicuo di inserzioni, La Nazione avrebbe avuto un bilancio attivo, quindi un futuro.

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a pubblicità, dunque, entrò nel nostro quotidiano in punta di piedi, ma nello stesso tempo con decisione. E se veniva per lo più relegata in quarta ed ultima pagina, non per questo venne trascurata, al contrario. Fino all’ultimo istante, quello nel quale le pagine andavano in macchina, la si poteva accettare. Un tipografo aveva come unico compito quello di comporla, con gusto, con la massima attenzione.

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d era un tipografo bravo, anzi il migliore, perché gli inserzionisti andavano trattati con i “guanti bianchi”, e non erano sopportabili errori,

refusi, inversioni di lettere, quando si aveva a che fare con loro. E infatti, i grandi obiettivi risorgimentali erano una cosa seria. Quindi i commenti, le informazioni dal Piemonte e da Parigi dove si giocavano i destini dell’Italia Unita erano indispensabili. Ma un annuncio pubblicitario rappresentava denaro, denaro per i salari e per gli stipendi, per la carta, per l’inchiostro. Si potevano avere tutte le grandi idealità di questo mondo, ma senza i soldi, e quindi i mezzi per divulgarle, erano inutili.

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dunque, percorrere i 150 anni del nostro giornale, significa per molti aspetti osservare anche come la pubblicità si è andata evolvendo dalla metà dell’Ottocento fino ad oggi. Come si è modificato il suo linguaggio, quali slogan si sono creati un po’ alla volta, in che misura la pubblicità ha risentito del clima politico ed economico generale, ma soprattutto, che ruolo ha avuto nel giornale, e quali spazi e quanti le sono stati concessi, in quel rapporto di “amore – odio” che da sempre collega i giornalisti ai pubblicitari, convinti – gli uni e gli altri – di essere indispensabili al giornale stesso.

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dunque, già nel 1860, La Nazione proponeva i suoi consigli per gli acquisti. Erano “spazzole di saggina” che oggi diremmo semplicemente “granate”, oppure carbone Coke, per cucinare e per riscaldare, al

I primi avvisi servivano a promuovere oggetti e prodotti di uso comune, come granate e stadere, oppure promettevano rimedi per la salute, dalla tisi agli stati febbrili.


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prezzo tutt’altro che modesto di 6,60 lire a quintale.

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er mettere in evidenza gli annunci, il tipografo si ingegnava ricorrendo ai trucchi del mestiere. E dunque metteva in un riquadro l’annuncio (ovvero lo circondava con un rigo talvolta nero, una cornice), alternava il chiaro al grassetto dei caratteri, evidenziava le parole chiave aumentando il corpo del carattere stesso. Il tutto senza una regola precisa, ma solo guardando all’insieme, al risultato finale, e comunque seguendo le indicazioni del cliente che mai, come in questi casi, aveva “sempre ragione”.

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ranate, dunque, carbone da riscaldamento, cose pratiche e delle quali non si poteva fare a meno. Ma quasi subito La Nazione prese ad ospitare anche annunci di diverso tenore. E infatti, i primi a scoprire quali enormi vantaggi poteva venir loro dalla pubblicità furono gli “imbonitori”, i venditori di “rimedi contro ogni male”, coloro che fino ad allora avevano dovuto accontentarsi di fiere e di mercati, urlando come ossessi per radunare una folla, promettendo miracoli con filtri e pozioni.

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urono loro, venditori per lo più ambulanti, a capire quale mezzo di divulgazione offriva il quotidiano. Così che invece di assatanarsi nelle piazze, potevano anche permettersi i lusso di restare a casa,

e qui aspettare gli ordini che arrivavano tramite le inserzioni sul giornale, per poi spedire la merce tramite le Regie poste.

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a medicina, così come oggi la intendiamo, era là da venire. Ci si basava sui sintomi, perché non era certamente facile una diagnosi mancando del tutto gli strumenti per farla. Si andava, per così dire, a “occhio”. E i rimedi , ugualmente, erano approssimativi, se non addirittura miracolosi. Ecco allora fare la loro comparsa sul giornale gli “Specifici” ovvero medicinali o presunti tali, in grado di far passare febbri e dolori.

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ra primi, su La Nazione, apparve lo “Specifico del chimico farmacista Onesti infallibile contro le febbri Terzane e Quartane”, ma anche “L’olio di fegato di merluzzo chiaro e di grato sapore” messo in vendita da un venditore prestigioso, la Farmacia Britannica di via Tornabuoni. I balsami abbondavano, ed era molto pubblicizzato quello del Professor Gerolamo Pagliano, il proprietario del Teatro Verdi, “Balsamo per iniezione per la guarigione pronta e radicale della gonorrea.”

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en presto, dalla medicina o presunta tale, si passò all’igiene personale, e di conseguenza a ritrovati capaci di rendere più belli, o per le meno attraenti. Così ecco la”Pasta corallina” per i denti, che li rendeva bianchi, ovviamente, così come la “Midolla

di bove in vasetti”, prometteva miracoli nel fortificare i capelli. Altri generi erano abbastanza rari, e comunque apparivano saltuariamente fra le pubblicità de La Nazione degli inizi. Così per i turaccioli di sughero, che venivano spediti franchi in tutta Italia e tappavano come niente altro, ma anche le prime pubblicità di luoghi turistici, a cominciare dai mitici Bagni Pancaldi di Livorno, dove uomini e donne si bagnavano in settori ben distinti e separati, luogo di ritrovo della migliore aristocrazia europea, che nel periodo estivo ricordavano ai loro affezionati clienti le comodità marine, e non solo, che erano capaci di offrire. E dunque, dalle panacee si passò ai prodotti di igiene personale, poi a quelli che oggi diremmo “estetici”, quindi ai luoghi turistici. E infine, sempre nei primi anni Sessanta dell’Ottocento, all’annuncio degli spettacoli. Che potevano essere opere ed operette, spettacoli di cabaret di locali notturni, un settore che avrebbe insegnato molto alla pubblicità, perché richiedeva grafiche accurate, disegni, quanto era possibile riproduzioni di scene.

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ltre all’elenco dei cantanti o degli attori, tutti scritti con caratteri che variavano a seconda del ruolo e dell’importanza dell’attore stesso. Regole che ancor oggi sono valide, e che venivano scrupolosamente imposte dagli impresari.


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Il successo di una rubrica di moda aprì le porte alla pubblicità griffata Finiti i giorni delle grandi idealità risorgimentali La Nazione si aprì alla rubriche di costume dedicate alle donne

Per superare un momento di crisi La Nazione inaugurò una rubrica dedicata alle donne. Il successo dell’iniziativa aprì le porte alla pubblicità di sartorie, stoffe e accessori dell’abbigliamento femminile.

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ell’Ottocento, con la metà degli anni Settanta, per reagire ad una crisi di vendite e di credibilità, La Nazione aprì le sue pagine a rubriche che erano per certi aspetti anticipatrici di un modo moderno di concepire il giornale. Fra queste ebbe grande successo il “Corriere della moda”, che usciva il primo e il terzo sabato di ogni mese a firma Maria di G…

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on si trattava, soltanto, di soffermarsi su aspetti considerati “minori” della vita quotidiana e della società di quel tempo. Si trattava, piuttosto, di aprire al pubblico femminile, di invitare le signore a leggere il quotidiano. E se difficilmente una donna si sarebbe presentata all’edicola per farlo in prima persona, quanto meno una moglie avrebbe sollecitato il marito – due sabati ogni mese – all’acquisto del giornale. Di certo i consigli che Maria di G... dava alle sue lettrici, sulle calzature, i cappelli, le borse, le acconciature, ma anche i profumi ed i colori di moda a ogni stagione, furono apprezzati dai lettori fiorentini e toscani. La Nazione, con questa ed altre iniziative, ritrovò il pieno consenso di quel pubblico borghese e moderato che la sosteneva da sempre. E se i giorni delle grandi idealità risorgimentali erano lontani, (la capitale era ormai a Roma, e Firenze si apprestava alle grandi opere urbanistiche che ne avrebbero totalmente modificato l’aspetto) quanto meno la città poteva ancora vantare la sua supremazia sulla cultura, l’arte, e perché no l’eleganza.

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bbene, come era logico accadesse, la pubblicità non si fece sfuggire l’occasione. E trainata dalla rubrica giornalistica – almeno in questo caso si invertì una tendenza – prese ad occuparsi di vesti, di vestiti, di trine, e di quant’altro.

Le modiste, le sarte, i calzolai, le profumerie, presero così a farsi notare coi loro avvisi sulle pagine del quotidiano fiorentino. E mescolate a quelle del “guano del Perù” che rendeva la pelle liscia e senza rughe, o a quelle delle lotterie a estrazione che cominciavano a moltiplicarsi in tutta Italia – la lotteria di Verona nel 1880, divideva premi per l’incredibile cifra di due milioni e mezzo – diventarono esse stesse un richiamo per le lettrici femminili. Il giornale in qualche modo si faceva garante della professionalità, della creatività degli stilisti. E questo non era cosa da poco, se si pensa che le prime proposte pubblicitarie erano state “elisir di lunga vita” e simili.

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errebbe da chiedersi, in che misura Maria di G… e attraverso di lei la direzione e l’amministrazione del giornale, traessero vantaggio dal fatto di citare un negozio, una sartoria invece di un’ altra. E infatti, se ai giorni d’oggi – e non da oggi – queste tipo di connivenza, se non di “complicità” è evitato grazie a una serie di norme sulle quali vigilano il sindacato e l’ordine dei giornalisti, all’epoca le commistioni fra pubblicità e informazione erano lasciate alla “libera iniziativa”. Ma d’altra parte, se il pubblico non avesse riconosciuto la validità dei consigli forniti dalla redattrice di moda, di certo la rubrica sarebbe stata soppressa.

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invece continuò, anche con nuove firme, e La Nazione avrà sempre – fino ai giorni d’oggi – un’attenzione particolare per questo aspetto della vita sociale. Fino a quando, grazie al Giorgini, nell’immediato dopoguerra si inaugurarono prima a villa Torrigiani poi nella mitica sala Bianca di Palazzo Pitti, le sfilate fiorentine di Alta Moda.


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Ancora in epoca granducale Firenze aveva un gran numero di teatri soprattutto dedicati alle attività musicali. Il pubblico fiorentino, esperto e raffinatissimo, era temuto da tutti i compositori, Verdi (nell’illustrazione satirica) compreso.

Lirica, teatro di prosa e cabaret Così Firenze viveva la sua notte La pubblicità degli spettacoli e dei luoghi di ritrovo sulle pagine de La Nazione, già alla fine dell’Ottocento, era più ricca e raffinata che in altri quotidiani

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irenze capitale arrivò al punto di tenere aperti, contemporaneamente, sette teatri. Che ogni sera, o quasi, offrivano a una popolazione di 150mila abitanti spettacoli lirici, concerti, prosa, cabaret. Per questo motivo i critici teatrali de La Nazione furono sempre personaggi del massimo rilievo, e hanno continuato ad esserlo fino ai tempi nostri.

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i conseguenza, il pubblico fiorentino fu considerato fra i più preparati in ambito musicale, tanto che il successo o l’insuccesso di un’opera poteva essere consacrato dalla sua risposta. Verdi, ad esempio, che altrove mieteva soltanto successi, più volte ebbe a Firenze tiepide accoglienze, e i critici de La Nazione non gli regalarono niente, pur considerandolo uno dei maggiori compositori del momento. E

dunque, la frequente pubblicazione sul giornale di articoli teatrali, portò fin dagli inizi allo sviluppo di un tipo di pubblicità fra le più importanti e le più redditizie. Si trattava, appunto , di annunciare gli spettacoli. E se nei primissimi anni tutto si limitava ad un breve annuncio, fosse pure scritto con corpi fuori del consueto, e i nomi del primo attore riportati in neretto, un po’ alla volta nelle pagine del giornale apparvero anche le prime illustrazioni, disegni, fino alla riproduzione del manifesto che annunciava, all’ingresso del teatro, lo spettacolo in programma.

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na volta che la pubblicità teatrale ebbe raggiunto questa dimensione e questa qualità, il gioco era fatto. I teatri concorrenti non potevano fare da meno, e così la quarta pagina de La Nazione, fin dalla fine degli anni Settanta

dell’Ottocento, fu invasa anche per metà dagli annunci teatrali. A consentirlo, furono anche le nuove tecniche di riproduzione, e in particolare le prime rotative che, una volta superata la stampa con il torchio, il giornale fiorentino potè permettersi. Ma ben al di là degli aspetti tecnici, questo tipo di “reclame” introdusse nelle grigie pagine del quotidiano note di fantasia, e un gusto grafico che non passarono inosservati ai lettori.

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i trattasse di un’opera verdiana, o di una recita con i più grandi attori del momento, o perché no di uno spettacolo di Fregoli, il trasformista noto in tutta Europa, o perfino della “donna volante”, grandi spazi erano dedicati all’avvenimento, e pur mancando il colore, quasi lo si intuiva nel gioco raffinatissimo delle tonalità dei grigi, e dei neri, contrapposti ai bianchi. A com-

piere l’ultimo passo verso una pubblicità teatrale sempre più raffinata, furono i cabaret che, sull’esempio di Parigi, Firenze inaugurò alla fine dell’Ottocento, ed in particolare nella nuova, nuovissima piazza della Repubblica che aveva preso il posto del ghetto dopo la distruzione. Qui si cantavano canzoni “licenziose” e le soubrette, arrivarono al punto di cimentarsi in scatenati “can can”. Ebbene, con molta attenzione a non offendere la moralità borghese di quei giorni, anche simili spettacoli trovarono posto nella pubblicità de La Nazione. E per certi aspetti, dunque, contribuirono ad un lento ma costante cambiamento dei costumi cittadini.

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a pubblicità dunque, non solo vendeva oggetti, merci, spettacoli, ma anche un nuovo modo di vedere le cose perfino sotto il profilo morale.

Con le ristrutturazioni di fine Ottocento nella nuova Piazza, oggi della Repubblica, furono inaugurati numerosi locali per il cabaret sull’esempio di Parigi.


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Nuovi mercati

E finalmente su La Nazione arrivano le “case in affitto” Ormai gli annunci pubblicitari propongono anche buoni affari Si cercano soci, si compra e si vende

Una nuova parola viene coniata dalla pubblicità, si tratta di appigionansi ovvero si affitta. Il mercato immobiliare si rivolge alla pubblicità per superare la crisi collegata allo spostamento a Roma della Capitale.

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a pubblicità allargò i suoi interessi con il diffondersi, nella società di fine Ottocento, di nuove mode, nuovi oggetti, nuovi interessi, semplicemente una nuova realtà. Le ristrutturazioni, anzi la distruzione del centro storico e quella delle antiche mura, per lasciar posto ai grandi viali e alle grandi piazze, inaugurò infatti un tipo di proposta commerciale che fino ad allora non era mai apparsa sui giornali. Furono coniate nuove parole, come appigionansi, formula sotto la quale gli inserzionisti proponevano l’affitto di “nuovi quartieri in piazza Vittorio Emanuele” ma anche locali per negozi, magazzini e simili. Il grande impegno edilizio di quegli anni, aveva dunque una ricaduta in varie forme sulla vita economica cittadina. E il giornale, la pubblicità ne La Nazione, sembrò il modo migliore per diffondere una proposta commerciale che fino ad allora si era svolta soltanto con il “passa parola” o al massimo con dei cartelli sistemati negli edifici destinati all’affitto o alla vendita.

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on si trattò di una cosa da poco. Stava a significare, quell’appigionansi scritto in neretto, e per lo più impaginato a metà della prima colonna di una qualsiasi pagina, che ormai si riconosceva al giornale un ruolo di divulgazione delle proprie necessità, delle proprie offerte, insomma un veicolo per allargare le potenzialità dei propri affari. Ma, soprattutto, gli si riconosceva una sorta di “ruolo di garanzia”. Come se un affare proposto sul giornale avesse più credibilità, e possibilità di successo. Il giornale, dunque,

stava diventando qualcosa di più che un semplice mezzo per diffondere le proprie offerte. In qualche modo le rendeva più interessanti, ne alzava il livello di qualità.

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i trattò, dunque, di un passaggio di assoluto rilievo nel percorso che stava facendo la pubblicità in quegli anni. Tanto che La Nazione, ma anche altri giornali, ne trassero le conseguenze. Se la pubblicità considerava così rilevante un avviso posto su un quotidiano, il quotidiano non poteva che reagire con lo stesso entusiasmo e la stessa fiducia. Così le inserzioni, che fino agli anni Ottanta dell’Ottocento erano relegate negli spazi della quarta ed ultima pagina, cominciarono a risalire verso posizioni sempre più dignitose. Furono accolte nella terza, poi nella seconda pagina, e solo la prima – dove ovviamente venivano ospitati gli articoli e i commenti di maggior

prestigio – restarono privi di “reclame” e tali resteranno per molto tempo, ben oltre la metà del Novecento.

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a pubblicità, dunque, un po’ alla volta veniva ad occupare tutti gli spazi offerti dalle quattro – ben presto diverranno sei – pagine del quotidiano. Non c’era più alcuna forma di preconcetto, di “ghettizzazione”. Un avviso pubblicitario valeva quanto una buona notizia. Anzi, sotto il profilo economico, era anche più interessante.

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on la fine dell’Ottocento si inaugura, dunque, quel “circuito virtuoso” che da un lato renderà sempre più numerosa e ben accetta la pubblicità sui giornali e dall’altro, attraverso i giornali, renderà l’annuncio pubblicitario sempre più credibile. Lontani, dunque, i giorni nei quali si promettevano miracolose pozioni per

ogni tipo di malattia, lontani gli anni nei quali gli elisir erano i più diffusi tra i prodotti reclamizzati. Ormai nel giornale si proponevano affari, comprevendite, affitti, si cercavano soci per una società, o piuttosto persone qualificate da assumere. Con prepotenza, il quotidiano entrava nella società civile ed economica. Si erano così create le premesse per un cambiamento radicale, anche grafico, nella proposta pubblicitaria.


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C’è una nuova rubrica sul giornale È quella degli “annunci economici” La Nazione è il primo giornale italiano che dedica uno spazio apposito alle piccole inserzioni che permettono di fare ottimi affari

Ormai la pubblicità è aperta a tutti. A basso costo, dedicata perfino agli scambi di oggetti quotidiani, composta con caratteri di piccole dimensioni vengono pubblicati su intere colonne gli annunci economici.

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urono i grandi lavori urbanistici nella Firenze di fine Ottocento a moltiplicare gli annunci destinati alla vendita, l’affitto, la permuta di locali, appartamenti e negozi. Fu così che gli amministratori del giornale pensarono bene di raccogliere questo tipo di annunci in una sola rubrica che prese il nome di “annunci economici”. E per favorirne l’espansione si pensò bene di ridurre i prezzi delle inserzioni, mentre nello stesso tempo diminuiva il corpo del carattere usato. E dunque, tutta la piccola economia cittadina trovava uno spazio a lei destinato nella pagine del giornale. Ben presto dalla vendita di case si passò alla ricerca di personale qualificato per locali o case patrizie, poi all’offerta di lavoro da parte di cuochi e maggiordomi, quindi alla vendita di mobili, finchè si affacciarono alla pubblicità perfino gli artigiani, ovvero la parte più rilevante e specifica di Firenze, che aveva nelle botteghe – commerciali o artigiane che fossero – la sua forza economica.

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n pochi anni, tra la fine dell’Ottocento e gli inizi del Novecento, la rubrica degli annunci economici, proposta più volte la settimana, arrivò a coprire un’intera colonna di giornale. E di per se stessa, oltre a portare un notevole beneficio economico all’editore, venne a rappresentare un appuntamento obbligato per i lettori, che la scorrevano con interesse, nella speranza di imbattersi in un buon affare, o anche solo per tenersi informato sull’andamen-

to dei prezzi nel settore immobiliare. Era successo, così, che la pubblicità diventava di per se stessa “notizia”. Era successo che il mondo della pubblicità e quello giornalistico, che agli inizi avevano trovato utile, ma non esaltante la convivenza nelle stesse pagine, erano diventati simili, per certi aspetti intercambiabili.

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u un passaggio importantissimo, e forse la vera ragione che permise al quotidiano fiorentino di superare le ricorrenti crisi legate alla concorrenza, al cambiamento di umori politici, alle mode di quegli anni. La rubrica “annunci economici” ben presto divenne uno spaccato della società alla quale si rivolgeva. Si arrivò ad ospitarvi le proposte di matrimonio, la vendita di oggetti usati – dai gioielli ai mobili – e

perfino la permuta di biciclette, fucili, anelli per ginnastica. Era un mondo che si rivelava attraverso la pagine del giornale. Rivelava i suoi interessi, le sue ambizioni, i cambiamenti in atto nella società di quei giorni.

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a rubrica “annunci economici” de La Nazione ebbe un particolare sviluppo nel periodo fra le due guerre, ma continuò anche nella seconda parte del Novecento, fino agli anni Ottanta, quando ormai le proposte di acquisto e di affitto per abitazioni arrivarono a coprire da sole tre e perfino quattro pagine, per lo più raccolte in una sola edizione, quella della domenica.

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on è possibile calcolare quanti lettori acquistassero La Nazione con l’unico scopo di leggere gli annunci,

ma è certo che essi contribuirono non solo a moltiplicare gli introiti, ma anche i lettori. E per questo motivi, i piccoli annunci ebbero sempre un “percorso facilitato”. Fino all’ultimo istante, poco prima di andare in rotativa, essi venivano accettati, direttamente in tipografia. E per quanto i direttori storcessero il naso, il posto per loro doveva sempre essere trovato, anche a costo di ridurre, se non rimandare, articoli e commenti di rilievo.


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Nuove tendenze

Sportivi, fatevi un velocipede: ma che sia Raleigh, il migliore Esplode la moda della bicicletta e la pubblicità scopre i pedali

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dunque, il velocipede rappresentò una vera rivoluzione sociale. Ma ancor più una rivoluzione nel mondo dello sport. E infatti, se fino ad allora le uniche competizioni possibili erano quelle ippiche, o il tiro al piccione, di certo riservate a chi poteva permettersele, e dunque all’aristocrazia o alla ricca borghesia mercantile, la bicicletta era raggiungibile da tutti o quasi. Il suo costo non era modestissimo ma anche le classi meno abbienti potevano aspirare a comprarla. E dunque lo sport, da elitario che fu, grazie al velocipede divenne popolare. Non è dunque un caso che già con l’inizio del Novecento le folle si appassionarono alle corse ciclistiche e dopo pochi anni ebbero in Binda e Girardengo i loro primi campioni.

Le prime corse ciclistiche si svolsero in Italia senza che fosse deciso il diametro delle ruote. Alcuni lo preferivano di un metro altri di un metro e mezzo altri ancora usavano una ruota di due metri davanti e l’altra di venti centimentri.

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aramente un oggetto sarebbe riuscito, nell’arco di pochissimi anni, a modificare il modo stesso di intendere lo spazio e per conseguenza il tempo, a scatenare masse di entusiasti praticanti, a cambiare il costume della gente. Eppure questo avvenne con il velocipede, antenato della moderna bicicletta. Giovani atletici, che fino ad allora avevano avuto come unico modo per manifestare la propria forza virile gli anelli e le pertiche, il “cavallo” e le funi di palestre attrezzate, all’improvviso presero a sciamare per le strade, felici di conoscere un qualcosa, la velocità, fino ad allora possibile soltanto con una corsa al galoppo su un cavallo di razza. Alle Cascine, tutte le

domeniche e non solo, i velocipedisti presero a darsi appuntamento e a sfidarsi fra loro. Tanto che Firenze divenne una delle città dove i “campioni” erano più numerosi che altrove. E da Firenze, non a caso, partì la prima corsa ciclistica italiana, che dal capoluogo arrivava a Pistoia. La Nazione, che non era di certo assente rispetto a quanto avveniva in città, attenta alle nuove mode e ai nuovi interessi, organizzò così una corsa che ancor oggi esiste ed è una “classica del ciclismo” la Firenze – Viareggio. E per dare notizia ai propri lettori usò i “piccioni viaggiatori”. Mentre sindaci accompagnati da assessori e consiglieri, uscivano per strada ad applaudire, e fu davvero una festa di popolo.

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li inizi, però, per il velocipede sportivo non furono facili. Prima di tutto non era affatto definito quale diametro doveva avere la ruota, in specie quella anteriore. Per alcuni doveva essere il più grande possibile, raggiungere perfino il metro e mezzo, per altri, invece, era meglio che non superasse gli ottanta, ottanta-

cinque centimetri. Così, in una stessa gara, si avevano biciclette di ogni tipo e ruote di ogni grandezza. E non era facile, con ruote grandissime, prendere l’avvio. Spesso gli atleti cadevano prima ancora di cominciare a pedalare . E le caviglie rotte erano all’ordine del giorno. Tutto ciò, finchè non si imposero le marche migliori. Fra queste la Raleigh, che veniva usata da Zimmerman il campione del mondo. Costava non poco, costava 500 lire, e veniva venduta da Alberti in via dei Pucci al numero 6, l’agente generale per l’Italia.

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a nel prezzo erano inserite “lezioni di velocipede gratuite”, e questo rendeva l’offerta interessante. E dunque, la velocità era a portata di mano per uomini e donne. E la pubblicità lo rendeva noto al grande pubblico. Era il progresso, erano le prime pedalate verso quella euforia collettiva che col Novecento avrebbe trovato la sua consacrazione nel ballo Excelsior.

Era più difficile che mai imparare a pedalare con i velocipedi dell’epoca. Per questo i venditori offrivano anche: “lezione di velocipede gratuite”.


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Gli italiani scoprono le “vacanze” E la réclame li aiuta a scegliere Lidi marini, località termali e di montagna fanno a gara nell’annunciare le proprie offerte l’Ottocento delle grandi idealità e il Novecento che ne dimostrò l’inconsistenza - scoprirono dunque la vacanza, ovvero quel surrogato della villeggiatura che risaliva all’epoca romana e forse ancor prima.

La vittoria dell’Italia nella Grande Guerra, e la conseguente annessione delle valli dolomitiche, ridimensionò drasticamente il turismo montano negli Appennini.

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n origine furono i Lidi, quelli di Livorno (Bagni Pancaldi in primissima fila) e quelli di Viareggio e del Forte dei Marmi. Ma ben presto vennero anche i soggiorni “montani”, a Vallombrosa, all’Abetone, nella Montagna Pistoiese. Il tutto, mentre continuavano ad avere un gran fascino le Terme, da Montecatini a Chianciano, da Cascina a Porretta, fino a Saturnia. Gli italiani a cavallo fra i due secoli –

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infatti, se l’andare in villa (villeggiare appunto) era stato per secoli una caratteristica della nobiltà, che approfittava dei mesi estivi per rinfrescarsi in campagna ma anche per controllare da vicino fattori e contadini durante i raccolti, la vacanza consisteva nel dare un senso, nel riempire un periodo “vuoto”, (vacuum appunto) durante il quale anche i borghesi, che non possedevano le ville in campagna, andavano a riposarsi in luoghi ameni, o presunti tali.

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gli inizi del Novecento, in Toscana, erano ormai numerose le località che si erano attrezzate per ospitare i turisti e che vantavano spettacoli serali, spesso un casinò, di certo alberghi attrezzati e, quasi sempre, vantaggi indiscutibili per la

salute. Quest’ultimo aspetto non era da sottovalutare. Era infatti l’alibi dietro il quale si nascondeva sempre, e comunque, la voglia di svago e di divertimento delle classi borghesi. Così si andava al mare perché “ i bagni di sole e di sabbia” facevano bene alla pelle, senza parlare dello iodio che favoriva la respirazione dei bambini. Si andava in montagna, a maggior ragione, perché migliorava l’appetito, l’aria era salubre, e i boschi fornivano ossigeno in quantità per chi era cagionevole di polmoni.

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maggior ragione si andava alle Terme per risolvere problemi di digestione, o per riacquistare la purezza della pelle, o per dare un ritmo regolare all’intestino. Perché tutti questi proclamati vantaggi per la salute degli ospiti? Perché la morale di quei giorni non consentiva di dire che si andava semplicemente a divertirsi. A cercare avventure galanti, a sperperare quattrini al casinò, a rimettere in discussione il gioco delle coppie, a ballare, a mangiare oltre misura e così via. E dunque la vacanza, sia pure mascherata da “percorso salutare” o poco più,

scoppia in questo periodo, e la pubblicità non resta certamente a guardare. Con gli inizi del secolo, da Pasqua a poi, si moltiplicano gli annunci di alberghi, di stabilimenti marini e termali, di associazioni turistiche e Pro Loco che promettono un soggiorno signorile e riposante.

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allombrosa, per esempio, fa sapere con grandi annunci che è stato messo in funzione un trenino che la collega alla valle, con ciò evitando un viaggio di “Quattro ore in carrozza”. Ebbene, quanto durò questo tipo di pubblicità? Praticamente non si è mai esaurito, anzi. Semmai si è esaurito il fascino di certe mete toscane, che dovettero piegare la testa di fronte a montagne di ben altro fascino. Quali? Le Dolomiti e Cortina d’Ampezzo ad esempio, che con la guerra del 15-18 tornarono finalmente all’Italia, e ben presto presero il posto di località come Vallombrosa, Abetone e la montagna pistoiese in genere.

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nche se, in verità, non ci riuscirono mai completamente e almeno fino agli anni Settanta del Novecento, in parte ancora oggi, molte famiglie continuarono a trascorrere parte della loro estate fra Maresca e Gavinana, Pracchia e San Marcello.

Le vacanze al mare venivano giustificate per motivi di salute. Si era convinti che i bagni di sole e di sabbia facessero bene alla pelle.


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Innovazione

Tanti disegni su ogni argomento La pubblicità è inarrestabile

Con gli inizi del Novecento anche gli ultimì tabù vengono infranti. Gli annunci per le ditte di onoranza funebri fanno il loro ingresso nelle pagine del giornale.

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u con il terremoto di Messina del 1908 che finalmente, e in modo costante, il giornale potè pubblicare le foto. Ormai la tecnica di impaginazione e di stampa permetteva di farlo con relativa facilità e costi contenuti. Fu per questo che la pubblicità nel primo decennio del secolo scorso cambiò quasi totalmente il suo aspetto. Se fino ad allora era rappresentata quasi unicamente da un annuncio scritto – salvo la pubblicità degli spettacoli – all’improvviso divenne “figurata” arricchita da ottimi disegni, una somma di testo e di indagine, proprio com’è arrivata fino ad oggi. Si pubblicizzavano ormai le macchine da cucire, le novità di editori come Sonzogno, ma ormai erano scesi in campo inserzionisti che appartengono alla prestigiosa storia della reclame, il Cognac Stock, l’Olio Sasso, la pastiglia del Re Sole. La quale, per prima, si servì di prestigiosi “testimo-

nial”. In un’intera pagina del 1920 il grande attore Ermete Zacconi si rivolge al pubblico per dire che anche lui usa quella Pasticca. Ma in certi casi i testimonial sono tre, perfino quattro, tutti arrivati dal mondo dello spettacolo e tutti ad esibire la loro immancabile Pasticca.

te superi i problemi di alimentazione, in pratica la fame, perché diventi gradevole ostentare la propria magrezza. E del resto non è accaduto così anche con le abbronzature? Erano aborrite fino agli anni Cinquanta, quando ad essere raggiunti dal sole erano soprattutto i contadini e in genere gli operai costretti a orprende, nella pubblicità lavorare all’aperto. Per questo di quegli anni, leggere ansi vantava di una donna “la pelle nunci che rivelano quanto bianchissima come il latte”. Poi, diversi da oggi fossero i gusti finita la mezzadria, e ridotta al estetici dominanti. Si legge in lumicino la presenza dei contauna pubblicità di quei giorni dini, le stesse donne che voleva“La magrezza nuoce all’estetica no la pelle bianca, si accorsero di una persona. Ma la cura del che era meglio l’abbronzatura, il Proton può risolverla”. E dunque, “color bronzeo”. si reclamizzava un medicamento che avrebbe fatto ingrassare. Il a le novità degli anni motivo? Beh, è semplice. In quei Venti sono anche altre. giorni non tutti potevano perSi trova fra gli annunci mettersi di mettere insieme il economici anche una pubblicità pranzo con la cena, essere grassi, di questo tipo “ Signora seguidunque, significava anche essere ta insistentemente fin noto abbienti, avere possibilità econo- negozio giovane ufficiale del miche. È un concetto ancor oggi quale conobbe arma è pregata diffusissimo nei paesi del Terzo estimarle vivissima immensa Mondo. Occorrerà che l’Occiden- simpatia”. E dunque, un giova-

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ne ufficiale dell’esercito dopo aver seguito fino ad un negozio di Firenze una signora , cerca attraverso questa inserzione di entrare in contatto con lei per esprimerle, appunto “vivissima immensa simpatia”. Non si capisce, però, il significato – si spera non ambiguo – nascosto nella formula “del quale conobbe arma”.

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rmai la pubblicità raggiunge tutti i settori della vita. E della morte. Così la ditta Gustavo Paletti “si impegna a trasportare le salme, con il suo carro funebre, in qualsiasi località”. E dunque, con i primi decenni del Novecento la pubblicità ormai dilaga, va dagli affari ai sentimenti, dalle località termali alla cultura. È un giornale nel giornale. E per molti aspetti, volendo ricostruire quegli anni, le notizie che ci offre non sono inferiori a quelle proposte dai giornalisti.

L’abilità degli illustratori - è ancora difficile e rara la riproduzione di foto - si misura su ogni argomento ed oggetto.


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Così il giornale imparò a promuovere se stesso Le locandine, le campagne per gli abbonamenti, i regali per i lettori più fedeli, così si inaugura il secolo Ventesimo

zava nelle occasioni particolari, quando la notizia era tale che meritava di essere “strillata” in ogni modo.

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osì per una edizione straordinaria, per una pace o una guerra, un successo sportivo che colpiva la fantasia della gente, un disastro ambientale e così via. Un po’ alla volta, però, le occasioni “straordinarie” sembrarono moltiplicarsi. E la locandina apparve quasi ogni giorno, tanto che alcuni redattori si dovettero specializzare nello stenderne i testi.

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e nell’Ottocento il giornale aveva imparato a convivere con le inserzioni pubblicitarie, e un po’ alla volta le aveva accettate nelle pagine più “nobili”, negli spazi più “attraenti”, fino a mescolare l’informazione pubblicitaria con quella giornalistica, arrivando a farle coincidere attraverso gli “annunci economici”, col nuovo secolo il rapporto fra pubblicità e giornalismo divenne ancora

più stretto. Il giornale, infatti, imparò a pubblicizzare se stesso. Ovvero a utilizzare tecniche prettamente pubblicitarie per aumentare il numero dei suoi lettori e dei suoi abbonati. La “locandina”, o “sommario”, in pratica un foglio che riassumeva le notizie più importanti di giornata e che veniva esposto accanto all’edicola – come accade ancor oggi – era nato col giornale stesso. Ma lo si utiliz-

infatti, non solo si trattava di scegliere le notizie degne di apparire in locandina, ma anche si saperle esporre in modo tale che invitassero i lettori all’acquisto, ma senza informarli del tutto di quanto era accaduto. E infatti, in una eventualità del genere, la gente avrebbe letto sulla locandina quanto le interessava, ne avrebbe preso atto e sarebbe andata per la propria strada senza comprare. Fu così che si cominciarono ad usare espressioni – sospese appunto fra pubblicità e giornalismo – sul tipo “Clamoroso risultato elettorale alle politiche”, “Giallo in via dei Malcontenti” e così via. In pratica un

invito a informarsi, e niente più. Perché se avessero scritto “La vittoria elettorale della sinistra” o piuttosto “Uccide moglie e figlia in via Malcontenti” molti lettori si sarebbero accontentati di leggere il “sommario”.

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uesto sistema, questo modo di lanciare le notizie - ammiccante, criptico, capace di incuriosire e niente più – durerà praticamente per tutto il Novecento. E solo negli ultimi anni del secolo scorso verrà abbandonato, perché la concorrenza delle televisioni, ma anche di internet, delle radio locali, e di quant’altro, renderebbe ridicolo nascondere quanto sicuramente è già conosciuto, talvolta fin dalla sera prima. Il giornale , dunque, non ha bisogno di incuriosire, annuncia pari pari la notizia nella sua interezza, lasciando inteso che all’interno si troveranno commenti e particolari di quel fatto, capaci di soddisfare ogni tipo di curiosità.

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lla pubblicità che otteneva attraverso la locandina, il giornale aggiungeva il ruolo mai sufficientemente sottolineato degli strilloni. Che appostati nei punti strategici del centro cittadino, portando in braccio decine di copie, urlavano la notizia del giorno quale era stata loro indicata dal capo della promozione. Espressioni come “tutti i particolari in cronaca” nacquero in quegli anni. Ma talvolta si avvicinavano i lettori anche attraverso le firme più illustri del quotidiano. Ancora negli anni Cinquanta, si potevano sentire gli strilloni in piazza Signoria che invitavano a comprare La Nazione per “Grande impresa di Coppi al Tour, raccontata da Beppe Pegolotti”.

La campagna abbonamenti continuava per tutto dicembre, e il gennaio successivo, con grandi annunci in apertura della prima pagina.


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nelle foto: due manifesti per le campagne abbonamenti de La Nazione, rispettivamente del 1899 e del 1903.

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iù raffinate, più studiate a tavolino, le campagne con le quali La Nazione invitava i suoi lettori ad abbonarsi. Si cominciava la campagna ai primi di dicembre, e si continuava anche nel gennaio dell’anno dopo.

Agli abbonati il giornale regalava pubblicazioni storiche e artistiche di grande prestigio.

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abbonamento era la vera forza del quotidiano, perché permetteva di contare su un numero di copie in ogni caso diffuse, di far pagare la pubblicità anche in base a questo parametro, e di evitare grossi problemi di “rese” nella distribuzione, ma soprattutto di intascare anticipatamente, così da garantirsi la tranquillità finanziaria per l’anno in arrivo.

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i solito era possibile sottoscrivere l’abbonamento per sei mesi oltreché per un anno, un modo per “rateizzare” la spesa a renderla più accessibile. Ma in certi periodi di crisi economica – così durante la prima guerra mondiale ad esempio – si arrivò anche a proporre l’abbonamento trimestrale. Per tutti coloro che sottoscrivevano c’era comunque

un regalo, di solito un calendario, più o meno raffinato, che in certi casi arrivò ad essere una litografia firmata da un artista di successo.

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a il successo di una campagna abbonamenti era soprattutto negli “optional” che La Nazione proponeva i chi avesse sottoscritto un abbonamento “speciale”, o “straordinario” o più banalmente “con premi” . Aumentando la cifra di sottoscrizione, arrivando perfino a raddoppiarla (15 lire l’abbonamento ordinario, 30 quello con premi) si aveva diritto ad una serie di pubblicazioni di assoluto livello, in qualche modo complementari alla lettura del quotidiano.

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el nostro caso per la campagna abbonamenti di inizio del secolo Ventesimo, si proponeva un abbonamento a “La scena illustrata” una rivista che aveva il pregio di essere elegante, artistica, ma soprattutto “illustrata” in un periodo in cui, con molta fatica, le foto cominciavano ad apparire nelle pagine a stampa.

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i offriva poi un abbonamento al fiorentinissimo settimanale di arte e letteratura Il Marzocco, quindi alla Roma letteraria che dava un quadro nazionale delle novità letterarie ed era stata perfino premiata dal Ministero della pubblica Istruzione, quindi un Almanacco della fiorentina Bemporad, una sorta di “enciclopedia popolare”, e infine la Rivista teatrale italiana. Il giornale si faceva dunque “vettore” di una serie di pubblicazioni di arte, cultura, letteratura, ma anche di un sapere enciclopedico, e per molti aspetti aiutava al crearsi di una biblioteca di famiglia, cosa fino ad allora concessa solo alle famiglie aristocratiche.

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ttraverso la campagna abbonamenti, dunque, il quotidiano abitua il lettore al piacere della lettura, ne fa una persona colta, i cui interessi vanno ben al di là della cronaca quotidiana. È un aspetto che non è mai stato sufficientemente sottolineato. Ma è proprio attraverso i quotidiani che l’Italia da poco Unita si fa più consapevole, più colta. E colpisce anche un

altro aspetto. Se oggi, e non da oggi, per invogliare i lettori i quotidiani e ancor più le riviste offrono gadget, all’epoca i “gadget” ugualmente esistevano ma tutti appartenevano al settore della carta stampata. Non si sarebbe mai pensato di poter unire al quotidiano qualcosa che non fosse passato attraverso il torchio, o piuttosto la rotativa, di uno stampatore.

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iù tardi, nel corso dei decenni a venire, l’abbonamento fu collegato a riviste per bambini, per donne, per sportivi. Ma lo spirito era sempre lo stesso. Con il giornale entravano nelle case degli italiani anche altre pubblicazioni, più specifiche, perfino tecniche, ma pur sempre pubblicazioni. E così sarà finché le Regie poste poterono garantire agli abbonati l’arrivo ogni mattina del quotidiano scelto. Quando ciò non sarà più possibile, in pratica nel secondo dopoguerra, anche gli abbonamenti annuali diverranno meno attraenti fino a scomparire progressivamente.


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Magnesia, acqua minerale, alberghi Così si vendeva nel periodo fascista Gli italiani devono curare la salute e l’aspetto fisico. E chi può, vada pure in vacanza

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on cambia granchè la pubblicità dei quotidiani durante il periodo fascista. Semmai si moltiplicano le inserzioni destinate alla salute, al benessere, e anche all’igiene personale. Mentre diminuiscono gli annunci di aziende straniere e si moltiplicano quelli nazionali.

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ppaiono così marchi destinati ad accompagnarci per decenni, ben oltre il dopoguerra, alcuni arrivati fino ad oggi. Ed è divertente leggere i testi, tavolta lunghissimi, che accompagnano un logo e una

proposta. Per esempio, la Magnesia Bisurata della San Pellegrino, in una pubblicità del 1936 viene presentata sotto un titolo “ Marito taciturno”, con la foto di un uomo elegante ma scorbutico che siede a tavola con moglie e figlia, e un lungo testo nel quale si dice che “ se vostro marito s’irrita per un nonnulla, se non ha appetito e si lagna della vostra cucina…” se insomma non è riconoscibile, probabilmente ha mal di stomaco e allora, ecco la Magnesia Bisurata, “ prodotto di fabbricazione italiana”.

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a San Pellegrino, con il suo marchio esagonale che racchiude la figura del Santo, si propone anche come Acqua, la “migliore da tavola”. Si fanno largo anche le prime polveri effervescenti, ed ecco dunque la Vichy – état, alla quale seguirà ben presto l’Idrolitina, mentre una azienda fiorentina, l’Istituto Montanari, propone una non meglio identificata “Nutrizione ricostruttiva”, che prevede un trattamento “senza privazioni”, e un istituto milanese annuncia

che a Firenze, da Pegna come alla Manetti e Roberts e in molti altri negozi si può acquistare un prodotto che rende belli e folti i capelli e che evita il prurito. Intanto si affaccia sulla scena l’azienda Bertelli, che propone la Vellutina Venus, una cipria “favorita”, che ha come marchio una ragazza davvero sensuale, che stringe fra le mani un piumino come se fosse il suo innamorato. E sempre la Bertelli propone il dentifricio Avoriolina, che rende sana anche la bocca e lo stomaco.

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empre per la salute e affini, ecco in offerta anche un non meglio identificato Ischirogeno, ricostituente di fama mondiale che ridona le forze alle ossa, ai nervi al sangue, e a tutto il resto. O la “regina delle creme”, detta la “Neve del Monte rosa” prodotta dalla Molteni. Mentre il solito Alberti, in via dei Pucci 6, lo stesso che vendeva biciclette fin dall’inizio del secolo, adesso propone una macchina da cucire Naumann, che “in nessuna casa deve mancare”.

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empre più numerose, nel periodo, anche le pubblicità di alberghi e ristoranti. Dall’Hotel Savoia di Fiesole, alle Lune di Firenze che offrono pensione completa, ma ancor meglio la pubblicità di Castiglioncello indicata come “stazione balneare sovrana”, o l’Albergo Paradiso a Pontepetri, a sei chilometri dalla stazione di Pracchia.

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a quello che colpisce, ormai, è la lista delle programmazioni cinematografiche alla quale ogni giorno è dedicata mezza colonna. Si tratta di un servizio ai lettori e quindi di notizia o piuttosto di pubblicità? Si tratta dell’una e dell’altra cosa, quindi il giornale riporterà comunque la programmazione di un determinato locale cinematografico, ma ne aumenterà il corpo del carattere, ricorrerà a neretti e ai riquadri, arriverà anche a pubblicare il manifesto del film in programmazione, quando il gestore della sala cinematografica, pagando, ne farà richiesta.

È tempo di autarchia, di femmine fatali e di ricostituenti. Questo non impedisce che le macchine da cucire, così desiderate dalla donna italiana, siano la Singer e la Naumann.


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Annunci economici e grandi marchi Così le promozioni nel dopoguerra Nasce anche la rubrica dei necrologi, apprezzatissima, mentre vengono messi all’asta i residuati bellici

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ermina il periodo fascista, e quindi gli anni durissimi della guerra, con l’affermazione di un buon numero di marchi che ritroveremo anche alla ripresa delle pubblicazioni de La Nazione, nel 1947. Fra questi è la Fiat, che aveva già la sua sede fiorentina dove erano in vendita anche veicoli usati, la China Martini, raccomandata soprattutto agli sportivi, e ancora il Liquore Strega, e tantissimi altri. Ma è nel dopoguerra che la pubblicità viene organizzata all’interno del giornale in modo più razionale, e in qualche modo “accorpata” così che sia più facile riconoscerla per genere e tipo di offerta.

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rima di tutto vengono raccolti in una apposita rubrica gli annunci mortuari. Può sembrare un argomento da poco, ma visti i costi altissimi di questo tipo di inserzioni, ben presto la rubrica diverrà uno dei pilastri economici del giornale stesso. E infatti, non solo la famiglia dell’estinto sente come un proprio dovere sociale, e di rispetto verso il defunto, quello di dare l’annuncio della scomparsa, ma per molti decenni, e in parte ancora oggi, le famiglie di amici e conoscenti vedranno con un obbligo quello di esprimere pubblicamente il proprio cordoglio e la propria vicinanza al lutto dei familiari. Per la scomparsa di personaggi rilevanti, si arriverà al punto di superare un’intera pagina di necrologi. E per molti aspetti diverrà consuetudine calcolare l’importanza dell’estinto, proprio dal numero di inserzioni che lo ricordano.

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empre di più viene perfezionata la rubrica degli annunci economici. Composta con caratteri minuscoli, e quasi illeggibili, può essere


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Riparte l’economia e anche la pubblicità si fa più raffinata. Si notino in particolare le inserzioni della Cirio e quella della Gilette.

venduta a prezzi accessibili e quindi ospitare varie categorie di inserzionisti. Per ognuna delle quali è un apposito titolino di riferimento. Troveremo così, già nel 1948, annunci che vanno sotto il titolo di Medici, Smarrimenti, Occasioni, Auto – moto sport, Concorsi – Aste, Commerciali, Rappresentanze, Capitali – Società, Cess. Rilievi aziende, Compravendita beni, Affitti, Bagni e villeggiature, Domande di impiego, Offerte di impiego, Artigianato, e sotto la voce Varie, ecco apparire i primi “astrochiromante” reggitori di carte, veggenti e simili. Attraverso la rubrica degli annunci economici si ha dunque uno spaccato dell’Italia di quei giorni e del suo sempre maggiore dinamismo dopo la tragedia della guerra civile.

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ppaiono nel frattempo marchi destinati a rimanere impressi per decenni nella mente dei consumatori. Ecco, con il suo logo in corsivo le caramelle Ambrosoli, al miele come alla menta. Ecco la Tisana Kelemata, che rinfresca, depura e disintossica, ed è soprattutto consigliata nella stagione calda. Ecco le lame Gilette, presentate da un giovane in pigiama che salta di gioia perché “ ha ritrovato la sua lama, la sua preferita – così è scritto nel testo - che lo raderà alla perfezione rendendogli lieto l’inizio d’ogni giornata.” Ma soprattutto ecco

arrivare Neocid D.D.T. ovvero il ritrovato portato fin qui dagli americani, che si pensava, allora, avrebbe risolto una volta per tutte il problema delle mosche e degli scarafaggi.

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egnano profondamente la specificità di quei giorni, annunci di vendite all’asta di residuati bellici promosse dall’Arar (Azienda rilievo Alienazione Residuati). Con queste vendite non solo alcuni industriali fecero la loro fortuna, ma anche si andò ad alimentare un indotto che coinvolse interi quartieri, se non intere città, a cominciare da Livorno. Si trattava, infatti, del materiale che gli eserciti, ma soprattutto l’esercito americano avevano trasportato in Italia e non trovavano affatto conveniente riportare di nuovo negli Stati Uniti.

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bbene, fu da situazioni ed aste come queste che gli italiani – fino ad allora avevano a disposizione soltanto trattorini Fiat della forza di 150 cavalli al massimo – poterono disporre di caterpillar per movimento terra capaci di esprimere una forza quattro o cinque volte superiore. Fu grazie ad aste come queste che si diffusero i frigoriferi industriali, e le macchine per fare il ghiaccio, che fra l’altro permisero di avvicinarsi alla produzione industriale la Sammontana di Empoli. E insomma, sul commercio dei

residuati bellici si cominciò a ricostruire l’Italia. E basta scorrere le offerte che l’Arar faceva su La Nazione il 18 luglio del 1948, per capire come ciò fu possibile.

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ppaiono intanto fra le pubblicità de La Nazione, nomi di aziende fondamentali all’economia del Paese come la Finsider, e ancora le confezioni Cirio. Mentre si fanno strada i primi “preparatori” di motori, come l’Officina Ermini del viale Matteotti che promette di raggiungere i 130 chilometri all’ora con una Fiat 1000 normale. Riprende anche la navigazione civile, e il Lloyd triestino fa sapere che la Motonave Caboto in due giorni collega Genova a Napoli e poi continua verso Colombo, Melbourne e Sidney.

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ncora pochi anni e la Lazzi propone i suoi primi viaggi all’estero ( Londra, Parigi, la Spagna) con i suoi pullman express. Si moltiplicano le offerte dei cinti per l’ernia, le soluzioni miracolose per le emorroidi e le vene varicose, ma anche le liquidazioni e le vendite fallimentari annunciate dal tribunale. Appare quindi, siamo agli inizi degli anni Cinquanta, un’apposita rubrica per i dancing e i night club, segno che i fiorentini sono tornati anche a divertirsi. Ed ecco nomi che faranno la storia della Firenze di notte, come il Pozzo di Beatrice, Chez-moi, e ancora il Club Assi

Giglio Rosso, il Parterre, il Baglioni, il tabarin Grande Italia.

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opo che per anni si erano bevute miscele a base di orzo, ecco finalmente la pubblicità del Caffè Hag, che “salva il cuore, consente il sonno e non agita i nervi” e insomma non crea i disturbi degli altri caffè ma in compenso ha un sapore degno del suo nome. Frattanto si impongono nomi di negozi del Centro che accompagneranno la rinascita post bellica. Da Nannucci radio (che offre rateazioni fino a due anni) al Giachi per l’abbigliamento. E ancora Neuber di via Strozzi e la Casa dello sport di via Tosinghi.

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on i primi anni Cinquanta appare una rubrica seguitissima dai lettori. E’ quella ricavata all’anagrafe che annuncia le nascite, le morti e i matrimoni. Per decenni infatti, i lettori de La Nazione ammetteranno che quella rubrica era la prima ad essere letta. Un modo sobrio per sapere cosa accadeva nelle case di vicini e conoscenti. La pubblicità delle Lanerossi, della benzina Erg, del cognac Renè Briand, delle pastiglie Valda, del Burro Soresina e del Caffè Mingo, ci diranno che ormai il boom economico è alle porte e che gli anni peggiori sono alle spalle.

Un largo seguito fra i lettori ebbe in questo periodo la rubrica dedicata alle nascite, le morti e i matrimoni.


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Anni Cinquanta

Così si invitavano i lettori ad acquistare un prodotto La pubblicità in questi anni è discorsiva e ingenua anche se si moltiplicano i disegni e le frasi ad effetto

sono messi in buone mani, mani esperte, e quel poco o tanto di mistero che trapela dal messaggio serve a dare spessore e credibilità al prodotto stesso. Il terzo periodo “Formitrol piace ai bambini per il suo gradevole sapore aromatico” utilizza invece i due protagonisti dei periodi precedenti (il bambino malato ed il prodotto) e dimostra che un collegamento piacevole fra i due si può e si deve fare. E infatti, la pastiglia piace, ha un buon sapore, quindi, si sottintende, mentre cura offre anche piacere.

Alla vigilia del boom economico appaiono i primi slogan ed è più stretto il collegamento tra testo ed immagine.

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ono passati dieci anni dalla guerra e nel mondo commerciale si è imposto lo slogan che “la pubblicità è l’anima del commercio”. Ma quale pubblicità, o meglio quale linguaggio pubblicitario è prevalente in quegli anni? Prendiamo una reclame del mitico Formitrol degli anni Cinquanta. C’è un ragazzino a letto, sofferente, come dimostra una pezza bagnata sulla fronte. Si tratta di un buon disegno, ma senza spunti creativi particolari. Subito sotto la figura, una frase in neretto esprime tutto il rammarico per una situazione che si poteva evitare. “Ah… se avesse preso il Formitrol !” c’è scritto. E quella Ah seguita dai puntolini, quel punto esclamativo finale, vorrebbero creare una tensione, quasi un rimpianto, che a dire il vero stentiamo a percepire.

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a l’aspetto più interessante dell’annuncio pubblicitario è il testo, o meglio, l’assoluta mancanza di

incisività del testo che segue. Si tratta di tre periodi, scritti con un linguaggio tutt’altro che incisivo, che suonano testualmente. Il primo: “ Avrebbe evitato quel brutto mal di gola che lo tiene a letto” fa chiaro riferimento al disegno del bambino malato, e vorrebbe accentuare ancor più il rammarico per non aver acquistato il Formitrol. Il secondo periodo “Formitrol energico antisettico a base di formaldeide attiva è un’efficace difesa per le vie respiratorie” dimentica il bambino malato del disegno, cambia decisamente soggetto e passa alla descrizione del prodotto.

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l tono, da familiare, diventa così professionale. Si parla di antisettico, e fin qui forse gli acquirenti possono capire, poi di “formaldeide attiva”e sicuramente la grandissima parte degli italiani non sanno di cosa si tratta. Ma è proprio questo che interessa all’estensore del messaggio, far capire che si

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bbene, questa pubblicità un esempio fra i tanti, dimostra come ormai si crede alla pubblicità, ma nello stesso tempo non si è capaci di utilizzarne appieno le possibilità. I testi improvvisati, ma nello stesso tempo i disegni banali, fanno sì che la pubblicità sia prima di tutto descrittiva, con-

vincente, con toni familiari che talvolta sembrano materni. Ecco ad esempio il purgante Rim, da usare quando fa caldo, “che regola e rinfresca l’intestino senza irritarlo e senza dare disturbi”. O il linimento Sloan, un balsamo che risolve o dovrebbe farlo i problemi di lombaggine e in genere i dolori muscolari. “Potente, rapido , duraturo” è garantito dal fatto che “i raggi infrarossi” dimostrano la sua azione ed efficacia.

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ulla confezione, l’immagine seriosa di un signore coi baffi, ottocentesco all’aspetto, si presume un medico, dovrebbe fare piazza pulita di un qualsiasi dubbio.

Il linguaggio pubblicitario resta per lo più descrittivo ancora per tutti gli anni Cinquanta.


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Anni Sessanta, ormai è un “boom” E la pubblicità non è più artigianale Cominciano ad entrare sulla scena le agenzie, i copywriter, gli art director. Il rapporto fra testo e immagine. Sorprendere più che informare

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coi primi anni Sessanta che l’Italia comincia ad importare dagli Stati Uniti non solo i prodotti ma anche il modo per farli conoscere e reclamizzarli. La pubblicità, che fino ad allora si era limitata a descrivere, più o meno banalmente, le qualità di un marchio, adesso cerca un proprio linguaggio, autonomo, che tende a sorprendere più che ad informare. È una rivoluzione che nell’arco di una decina di anni cambierà profondamente il settore, e arriverà a interessare anche gli studiosi del costume. Un fenomeno che sarà studiato perfino nelle università, quando ormai ci si accorge che i lettori non sono più soltanto dei possibili clienti, ma piuttosto dei consumatori.

L’ironia e l’assurdo fanno il loro ingresso nelle proposte pubblicitarie.

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erché sorprendere, perché non basta più far conoscere il proprio marchio e in qualche modo descriverne le qualità? Vogliono alcuni che la pubblicità non debba tanto dare risposta ad un reale bisogno, ma piuttosto sollevare una necessità che non esisteva prima. E dunque, non si tratta soltanto di far sapere che esiste una merce capace di alleviare un tipo di dolore, o togliere i fastidi di un qualche problema estetico, o perché no lavare come più bianco non si può. Occorre, piuttosto, far capire che esistono “problemi” o piuttosto “traguardi da raggiungere” dei quali fino a quel giorno non conoscevamo neppure l’esistenza, figuriamoci la necessità, e che acquistando un determinato prodotto

diventano a portata di mano. Si prenda, ad esempio, la mitica pubblicità del sapone Cadum. Non si trattava soltanto di pulirsi, con ottimi risultati la faccia e il corpo, si trattava di diventare una bella donna, così come quel girotondo di donne bellissime che lo reclamizzavano.

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a non è tutto. La pubblicità ormai viene a trovarsi all’interno di riviste dalle molte pagine, nei giornali quotidiani che escono regolarmente ad almeno sedici pagine, e dunque non è possibile soffermarsi a leggere un lungo avviso. Deve colpire l’attenzione di un lettore piuttosto distratto, che sta sfogliando pagina dopo pagina, come se si trattasse di un catalogo. La pubblicità,

dunque, deve combattere una dura concorrenza anche al suo interno: un messaggio deve diventare leggibile e interessante, proprio distinguendosi da decine di altri che hanno lo stesso scopo.

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allora, come attrezzarsi? Le prime agenzie pubblicitarie, di stampo anglosassone, cominciarono a praticare una precisa divisione di compiti fra il copywriter, al quale spettava la responsabilità dei testi, e l’art director al quale toccava invece il compito di curare le immagini, sia si trattasse di foto che disegni. Il rapporto fra queste due figure di autentici professionisti era ed è basilare alla riuscita di una pubblicità. Talvolta il testo deve

È più importante stupire che non spiegare. Attrarre l’attenzione è il modo migliore per convincere all’acquisto.


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contrastare, fino a risultare stridente, l’immagine. Talvolta può accadere il contrario e si ricerca una totale armonia fra segno e parola.

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l copywriter cercava per i suoi slogan delle assonanze, perfino delle rime, delle allitterazioni (ovvero il ripetersi in modo esplicito di singole lettere). Si costruiva il suo bagaglio semplicemente attingendo ai propri ricordi, alle emozioni e sensazioni provate nel passato, giocava talvolta con ironia nel settore del nonsense. In apparenza tutto questo era facile, perché facile doveva apparire il risultato finale, proprio per essere compreso e fatto proprio dal grosso pubblico.

Ogni azienda si impegna nella ricerca di un “logo” che sia facilmente riconoscibile.

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a per arrivare a quella freschezza di slogan e di proposte, occorreva una buona cultura, per esempio la conoscenza della metrica latina, anche se poi l’ultima cosa da fare era ostentare le proprie raffinate conoscenze. “Bassetti: il corredo che arreda”, giocato sulle erre di corredo e di arredare, ecco un modo per costruire uno slogan facilmente memorizzabile e riconoscibile. La parte visiva dell’annuncio, abbiamo detto, spettava invece all’art director.

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uesti proveniva da scuole di disegno, di grafica, aveva una naturale propensione a rendere gradevoli i bianchi e i neri, i pieni e i vuoti, gli spazi e ciò che doveva occupare gli spazi stessi. Ma “rendere gradevole” non significava affatto rendere armonico, piuttosto era preferibile giocare sui contrasti, perché la pubblicità doveva apparire e non certo finire nella massa anonima delle tante pubblicità non riuscite.

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l lavoro complementare del copywriter e dell’art director era dunque alla base del successo di un’agenzia pubblicitaria, le prime delle quali nacquero a Milano e a Firenze. Nel primo caso perché era più utile lavorare avendo sede nella capitale dell’economia italiana, nell’altro perché a Firenze e in Toscana l’attenzione verso la parola scritta, e nello stesso tempo una naturale propensione verso l’immagine, artistica e non solo, era più facile da coltivare vivendo nella capitale dell’arte.

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ominciarono a circolare, negli anni Sessanta, manuali di ogni tipo che spiegavano come “scrivere uno slogan efficace” o come “scrivere annunci pubblicitari che vendono”. Ma questo tipo di manuali in realtà servivano a poco, se non forse a ricostruire la storia della pubblicità. E infatti, se il segreto di un annuncio è nella sua capacità di colpire il lettore, di sorprenderlo almeno, una volta che certe regole erano ratificate in qualche modo erano anche consunte. In pratica, avevano già esaurito la loro capacità di risultare nuove. Fu per questo motivo che ben presto nacquero agenzie di pubblicità totalmente italiane, composte cioè da creativi di casa nostra, che pur partendo in ritardo seppero imporsi nel mercato molto meglio dei loro ex maestri americani. La creatività del nostro copywriter si impose, infatti, in beve tempo, tanto da rappresentare – così come era stato per il design degli anni Cinquanta – una delle scuole più qualificate al mondo.

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e La Nazione, questo modo diverso, ben più professionale di fare

pubblicità, cominciò a rivelarsi negli anni Sessanta. Fino ad allora, avevano una propria capacità propositiva originale solo le “locandine” che annunciavano la proiezione di film e ciò perché a curarle era la stessa casa produttrice del film che vi si impegnava con i migliori grafici del momento.

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a già nel 1962, troviamo soluzioni grafiche più dinamiche a attraenti anche negli annunci “locali, come la “Fiera del bianco”

proposta da Grezzi, o l’esordio nel mercato fiorentino del concessionario Scotti della Fiat. Cominciavano anche le raffigurazioni stilizzate – come ad esempio i bruciatori Oertli Sant’Andreama per poter apprezzare il lavoro congiunto di un copywriter e di un art director occorre arrivare al 1963, quando appare su La Nazione la pubblicità della lampada Tungsram, dove in una sorta di fumetto rettangolare è la lampadina stessa che si rivolge al potenziale compratore.

Con il boom degli acquisti anni Sessanta si diffonde anche la politica delle rate e degli sconti ad effetto.


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L’inserzione non è più “isolata” Nasce la campagna pubblicitaria In base a quali regole ci si rivolge al tipo di pubblico adatto al prodotto da lanciare. I segreti delle “agenzie”

Messaggi pubblicitari su radio, televisione, manifesti e carta stampata vengono coordinati per lanciare uno stesso prodotto. Con la fine degli anni Sessanta nascono le campagne pubblicitarie.

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lla fine degli anni Sessanta, la pubblicità si arricchisce di un ulteriore elemento che la rende ancora più complessa e, per certi aspetti, più attraente. È la “campagna pubblicitaria”, il che significa inserire il messaggio affidato ai giornali in un contesto dove anche i manifesti affissi per le strade, la radio e la televisione, sono chiamati a fare la loro parte. Il messaggio stampato è dunque parte di un insieme, per costruire il quale le agenzie hanno lavorato a lungo, studiando a quale tipo di pubblico rivolgersi. Così se si tratta di un oggetto destinato alla pulizia e alla casa, l’obiettivo sarà la massaia, o altrimenti un uomo adulto, o un giovane, e così via per le fasce di età e per le possibilità economiche dei potenziali acquirenti.

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i volta in volta il linguaggio sarà adatto al tipo di persone alle quali ci si rivolge, alla sua cultura, al suo livello sociale. Per far questo, dunque, occorre che le agenzie pubblicitarie siano organizzate in modo da poter reperire dati, pressoché continui, sui loro acquirenti ed in particolare sugli acquirenti potenziali. Cominciano così i sondaggi, la raccolta di opinioni su un determinato prodotto prima che sia messo in commercio ed anche dopo. Ma anche i sondaggi sulla riuscita o meno della campagna pubbli-

non può non restare impressa nella memoria delle person. Più raramente, almeno nei primi anni, si ricorre all’umorismo, o più sottilmente all’ironia. In Italia si preferisce, solitamente, sfruttare come presentatore o piuttosto come testimonial un personaggio famoso, così che il potenziale cliente, sognando di essere come il suo beniamino, è portato a copiarne gli atteggiamenti e quindi gli acquisti e le preferenze. In alcuni casi, specie per alcuni prodotti legati al superfluo, diventa consueto inserire il prodotto da vendere in un contesto esotico, in modo da provincializzare l’immagine del prodotto stesso.

citaria stessa. A questo punto, il semplice messaggio pubblicitario in quanto tale non vale molto, se non inserito nel contesto della campagna all’interno della quale viene a trovarsi.

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i arriva al punto di creare artificialmente delle attese, di un qualcosa che sarà rivelato solo dopo diversi giorni, in un momento nel quale radio, televisioni, manifesti murari e pubblicità sulla carta stampata, insieme riveleranno il nome di un prodotto, più o meno miracoloso, che nei giorni precedenti era stato annunciato. O, al contrario, avendo già conosciuto il nome fin dall’inizio della “campagna “ ma non il tipo di prodotto ed il suo

scopo, finalmente sapranno se, il misterioso “signor X” , è uno sturalavandini, un detergente per lavatrici, una merendina o piuttosto un elettrodomestico di ultima generazione.

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er rendere più convincente una campagna pubblicitaria si ricorre così, a seconda dei casi, a varie soluzioni “tecniche”. La prima, la più facile ma anche la meno interessante – a meno che non ci si rivolga ad un pubblico assolutamente modesto socialmente, economicamente e culturalmente – è il semplice esporre in modo piatto e comprensibilissimo le caratteristiche del prodotto. In altri casi si ricorre ad un’immagine che

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l contrario, se si tratta di oggetti di uso quotidiano, se ne accentua – con una campagna realistica –la necessità di portarlo sempre appresso in casa come in viaggio. E ancora, un prodotto può essere presentato come la soluzione al problema – per esempio un problema estetico, o di salute – o ancora come un’aspirazione che è giusto avere e perseguire perché ce la meritiamo. La scelta di un metodo invece di un altro non sarà mai casuale ma legata al tipo di pubblico che si vuole raggiungere. Così come di volta in volta l’azienda si rivolgerà ai potenziali clienti dando del tu, del lei, o addirittura preferendo un coinvolgente “noi”.

Alla creazione di una campagna pubblicitaria concorrono varie figure professionali. C’è chi si occupa dell’immagine, chi del testo, chi infine coordina il lavoro dei creativi.


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Che lingua parla la pubblicità? Ecco come farsi capire da tutti Gli aggettivi per indicare le qualità di un prodotto non sono mai casuali, la loro scelta varia dal tipo di pubblico che si vuole raggiungere e dalle scelte fatte dai concorrenti

In base al tipo di clienti che si vuole raggiungere la pubblicità sceglie il proprio linguaggio, i testimonial, le immagini.

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allora, come indicare le qualità di un prodotto? Se si tratta di un oggetto da sempre sulla scena e sul mercato, la gamma di aggettivi da usare può essere relativamente facile. Ma se si tratta di un prodotto innovativo, sia alimentare che meccanico, di quali aggettivi servirsi? Ognuno di questi, infatti, non solo deve essere comprensibile da tutti, ma anche segnare una specificità del prodotto in questione, una sua assoluta originalità.

È

per questo motivo che fra gli anni Sessanta e i Settanta, nascono autentici vocabolari ai quali i creativi delle agenzie pubblicitarie, e in particolare i copywriter ricorrono normalmente. Prendiamo un prodotto alimentare. Gli aspetti da sottolineare sono, anzi, pos-

sono essere: il gusto, l’aroma, il profumo, la leggerezza, la capacità nutritiva, la tradizionalità, la croccantezza, le tenerezza, la cremosità, la morbidezza, la genuinità, il colore, la naturalità, la friabilità, la fragranza, la freschezza, la ricchezza, la facilità di preparazione, la purezza, la semplicità, il prezzo, il rapporto qualità – prezzo. Ai quali andranno ad aggiungersi negli anni Ottanta elementi come l’assenza di grassi, la scarsità di elementi ingrassanti, la naturalità biologica ed altro. Ebbene, quali elementi scegliere fra questi?

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a prima cernita il “creativo” la farà in base alle effettive caratteristiche del prodotto che, se cremoso, di certo non può essere anche croccante. Poi tenderà ad escludere quelli che sono i punti di forza di un even-

tuale concorrente analogo già presente sul mercato. Quindi cercherà di sapere, attraverso appositi sondaggi a quale fascia economica, culturale e di età appartiene il potenziale cliente. Infine si chiederà quale primo obiettivo ci si propone con la campagna pubblicitaria che gli è stata affidata. La scelta di un aspetto al posto di un altro, dunque, sarà finalizzata al tipo di compratore possibile. Ma alla base di tutto c’è la perfetta conoscenza di tutti gli elementi che, ormai testati in cento occasioni, possono attrarre il consumatore verso uno determinato acquisto.

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e per i generi alimentari l’elencazione delle qualità in qualche modo si è costruita in un lungo arco di

tempo, più difficile è stato costruire un “vocabolario” destinato in breve tempo a indicare le qualità e le specificità di un elettrodomestico. Alla fine degli anni Settanta, questo era per lo più l’elenco delle caratteristiche fra le quali scegliere ciò che faceva più comodo: la durata, la maneggevolezza, l’ingombro limitato, la facilità d’uso, la leggerezza, il colore, l’economicità d’esercizio, l’affidabilità, il disegno, il rapporto qualità – prezzo, il livello delle prestazioni, la robustezza, l’avanzatezza tecnologica, la rete di distribuzione, la rete di assistenza, eventuali formule di pagamento, ed in particolare le forme di rateizzazione.

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utte queste qualità, ovviamente, non venivano citate come tali, ma rivelate attraverso scenette o slogan, o immagini più che eloquenti. Per indicare la facilità d’uso, per esempio, spesso si ricorreva alla formula “la usi con un dito”, oppure per indicare l’economicità d’esercizio, si ricorreva a formule sul tipo “spendi all’inizio e poi te ne dimentichi”. Come risultato, appositi sondaggi dimostrarono che, già negli anni Ottanta, gli italiani conoscevano perfettamente anche le varie sfumature del linguaggio pubblicitario e, anzi, avevano preso ad usarle anche nel parlare comune.

C’è chi preferisce dare del “tu“ al potenziale acquirente, chi del “lei” chi infine sceglie un coinvolgente “noi”.


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Anni Ottanta

Arriva il colore anche nei quotidiani Gli annunci pubblicitari sono ovunque Dalla prima all’ultima pagina le inserzioni in quadricromia seguono soltanto schemi di visibilità

nazionale si ripete. In alto, accanto alla testata di cronaca sono due annunci dello stesso cliente. In basso, due altri annunci, di misura maggiore, che reclamizzano altri due diversi prodotti.

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Due annunci in prima pagina accanto alla testata perfino nelle edizioni straordinarie. È un traguardo che la pubblicità raggiunge in questo periodo su La Nazione e su gli altri quotidiani.

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on gli anni Ottanta la pubblicità non ha più confini all’interno del giornale, e ogni pagina può ospitare gli annunci. Già da tempo, accanto alla testata La Nazione, quindi nella prima pagina, vi erano due riquadri (le cosiddette manchette), quasi due sentinelle che reclamizzano uno stesso prodotto. Adesso, a queste due proposte commerciali se ne aggiungono altre due a fondo pagina, una a destra e una a sinistra, di ampiezza maggiore rispetto a quelle in alto, e per lo più diverse l’una dall’altra. Anche la mitica terza pagina non è più un tabù, e se all’inizio ospita

annunci di pubblicazioni, libri e riviste, un po’ alla volta i temi si ampliano fino a comprendere la cancelleria, ma anche i viaggi, le mostre, i vernissage di artisti importanti e così via.

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erfino le pagine di cronaca diventano un contenitore disinvolto della pubblicità locale. E quando con gli anni Ottanta La Nazione comincia a dar vita ad un progetto molto ambizioso, quello che farà di ogni edizione locale una sorta di giornale nel giornale, un fascicolo a sé con tanto di prima pagina e pagine interne, lo schema già adottato nella prima pagina

e pagine dello sport, ugualmente accettano la pubblicità, ma inizialmente mirata all’argomento. E quindi attrezzi ginnici, abbigliamento sportivo, viaggi, vacanze, per poi ampliare sempre di più la loro offerta fino a non porre più confini di sorta. Perfino la pagina degli esteri, che inizialmente accettava solo pubblicità collegata ai temi trattati, si libera di ogni ostacolo, e già alla fine degli anni Ottanta si apre a qualsiasi tipo di proposta.

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provocare questa pressoché totale liberalizzazione degli spazi, sono due elementi fra loro collegati. Il primo, basilare, è il passaggio dalla stampa a piombo alla stampa detta “a freddo” che utilizza cioè il computer per la composizione e la stampa stessa. Questa semplificazione

dei procedimenti, fa sì che i giornali escano con un numero di pagine molto più ampio, e che cominci – prima timidamente poi in modo sempre più deciso e qualitativamente apprezzabile a introdursi il colore.

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bbene, a spingere in questa direzione è proprio il mercato pubblicitario, che ormai ha bisogno, anche nei quotidiani, di veder riprodotti dei marchi e delle scritte così come sono state pensate dai creativi di una determinata azienda. Così come il pittore quando si stampano le sue litografie controlla la stampa, perché non venga tradito il disegno originale, così i grandi inserzionisti pretendono l’assoluta fedeltà di riproduzione dei loro annunci. È per questo motivo che la pubblicità può essere sistemata in ogni pagina, perché lo scopo non è tanto quello di amalgamare le notizie e i consigli per gli acquisti, quanto di porre quest’ultimi nel giusto risalto. Con gli anni Novanta, La Nazione propone già un buon numero di pagine a colori e dunque è in quelle pagine – non tutte – che si possono accettare le inserzioni a colori, che per l’appunto costano di più, perché sono più visibile e danno più prestigio.

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ltro elemento che prende ad imporsi in questo periodo è la preferenza per la pubblicità disposta sulle pagine di destra, perché qui si posa prevalentemente lo sguardo del lettore. Si arriverà così al punto che la pubblicità destinata alle pagine pari costerà di meno di quella penotata sulle pagine destre.

Cominciano a metà degli anni Ottanta le prime pagine a colori. Ben presto appariranno anche i primi annunci pubblicitari in quadricromia.


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Anni Ottanta

Ma quanti possono essere gli annunci nelle pagine? Con gli anni Ottanta comincia il confronto quotidiano fra inserzionisti e giornalisti che si contendono lo spazio

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l massiccio arrivo di inserzioni pubblicitarie negli anni Ottanta, porta ad una serie di problemi con la componente giornalistica dei quotidiani. I giornalisti si pongono il problema che il loro specifico lavoro venga stravolto e non umiliato da proposte commerciali sempre più grandi, sempre più numerose, tanto che in certi casi la grafica delle pagine ne viene stravolta. Ma non solo, come far conciliare la cronaca drammatica di un alluvione, di un terremoto, di una guerra o simili, con la vendita di prodotti per lo svago, per il benefit, insomma pubblicità dal tono gioioso se non addirittura festaiolo?

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alla parte degli inserzionisti sono ovviamente gli editori che ben sanno come il gettito proveniente dalla pubblicità è sempre più rilevante, e quindi, necessario per poter sopportare i costi enormi di un quotidiano. Ma dalla parte dei giornalisti solo in rari casi sono i direttori, che in qualche modo si trovano costretti a mediare fra le necessità economiche della testata e quelle smaccatamente giornalistiche.

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così che in questo periodo si hanno confronti continui e in certi casi scontri fra le due diverse necessità del quotidiano. Perfino nei contratti di lavoro, i giornalisti cercano di introdurre regole che permettano di tenere a freno quella che è definita l’invasione pubblicitaria. E i comitati di redazione, ovvero le rappresentanze sindacali interne presenti in tutte le testate, vigilano continuamente perché le regole e gli accordi di settore vengano rispettati. Quali sono, dunque, queste regole? La prima, accettata a livello nazio-

nale prevede che la pubblicità nei quotidiani non superi il 25 per cento dello spazio totale a disposizione.

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on è una regola difficile da rispettare, perché in effetti con i quotidiani che arrivano a pubblicare ormai anche 32 pagine per edizione, è difficile che se ne possano avere più di otto dedicate unicamente agli annunci. Il problema si pone piuttosto su quanta pubblicità deve sopportare una singola pagina, così che una testata giornalistica – ad esempio esteri, economia, cultura eccetera – non venga del tutto falcidiata dalla presenza di annunci.

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su questo tema che quasi ogni giorno si scatena il confronto fra comitato di redazione e direzione, e il motivo è semplice. Il caposervizio di un determinato settore, se le sue pagine vengono invase di pubblicità si sente offeso in prima persona, è convinto che si tratti di una umiliazione – se non necessariamente personale – per il tipo di notizie che è chiamato a raccogliere e presentare. Insomma, si sente un capo servizio di serie B, e a questo si ribella come può. E dunque, se anche i problemi sono all’ordine del giorno, attraverso un continuo lavoro di mediazione di solito si riesce ad evitare la rottura. Che pure ci fu, in più occasioni, arrivando perfi-

Ormai la pubblicità è sempre più abbondante tanto da creare reazioni da parte dei giornalisti che vedono ridurre lo spazio a loro disposizione.

no allo sciopero improvviso contro un eccesso di pubblicità in determinati numeri. Fu proprio per evitare tutto questo, e offrire più larghi margini alle mediazioni, che in alcuni casi la pubblicità prevista in uscita in determinati giorni potè anche slittare di 24 o 48 ore, di fronte a impellenti necessità giornalistiche. Se infatti un evento clamoroso richiedeva un numero adeguato di articoli e commenti, poteva anche accadere che la pubblicità fosse del tutto tolta dalle pagine e rinviata.

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piuttosto, fossero aumentate le pagine stesse dell’edizione di quel giorno, il che rappresentava sì la soluzione più facile, ma anche la più dispendiosa, e tecnicamente la più complessa, soprattutto se veniva presa a tarda sera, quando ormai le rotative erano state calibrate su un determinato numero di pagine.


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La pubblicità conta più dei lettori? Se ne discute negli anni Novanta Ormai le inserzioni rendono oltre il cinquanta per cento degli introiti di una testata giornalistica

delle inserzioni. La pubblicità era dunque indispensabile, in qualche modo entrava a far parte essa stessa della dimensione giornalistica, e in effetti si poteva indicare come il mezzo comunicativo per eccellenza.

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Qual’è il potere che gli insersionisti hanno sulla redazione del giornale che gli ospita? Negli anni Novanta la questione diventa un caso di rilevanza politica.

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uale ruolo svolge la pubblicità nei bilanci di un azienda giornalistica? Perché la sua importanza diventa sempre maggiore col passare degli anni, e quale diritto possono vantare i clienti pubblicitari nei confronti della parte giornalistica di un quotidiano?

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i questi temi, dagli anni Settanta in poi, si fa un gran parlare nell’opinione pubblica, nell’ambiente politico e perfino nel mondo universitario. Vengono date cifre non sempre corrispondenti al vero, vengono indicati dei rapporti di forza fra inserzionisti e giornalisti molto discutibili, cercando di interpretarli, perfino, in chiave politica. E dunque, qual è l’incidenza sui bilanci delle inserzioni pubblicitarie? In origine, e per

molto tempo, la pubblicità non rappresentava più del dieci per cento degli introiti. Ma dopo gli anni Sessanta, e dunque con il primo boom economico italiano, questa percentuale prese a lievitare costantemente, fino ad assestarsi sul 15 – 20 per cento alla fine degli anni Settanta. Sembrava un livello massimo possibile, ma invece eravamo appena agli inizi: negli Stati Uniti, la nascita di agenzie pubblicitarie e in genere il raffinarsi del messaggio pubblicitario, che ormai era capace di esprimere un proprio linguaggio sia di parole che di immagini, fecero sì che con gli anni Ottanta la proposta commerciale diventasse una necessità, anche visiva, così che era impensabile un quotidiano che non avesse, in tutte le sue pagine o quasi, anche

utto questo faceva sì che fra i vari concorrenti, aziende cioè che commercializzavano prodotti analoghi, nascesse una concorrenza anche sotto il profilo della quantità e della qualità di pubblicità prodotta. Fu questo che fece la fortuna di riviste di settore, in specie quelle della moda. Riviste americane, ma anche italianissime, dedicate all’abbigliamento, sapevano che poter ospitare tre o quattro pagine dello stilista X, automaticamente significava averne almeno altrettante dallo stilista Y e così via. Si arrivò così, negli anni Ottanta, a capovolgere il concetto stesso di domanda e di offerta. E infatti non erano le riviste che andavano a cercarsi i clienti, ma i clienti che facevano di tutto per apparire in una determinata rivista, e addirittura arrivavano al punto di vedersi negare degli spazi.

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utto ciò non accadeva, né poteva accadere nei quotidiani, però fece sì che anche nella stampa dei giornali si avessero continue richieste di pubblicazione di annunci, e che i bilanci lievitassero costantemente. Ebbene, pur con qualche periodo di leggera crisi, la crescita del gettito pubblicitario crebbe costantemente, fino a raggiungere il trenta,

il quaranta, il cinquanta per cento del prodotto lordo. La soglia del cinquanta per cento era impensabile solo dieci anni prima ma si raggiunse alle soglie del Duemila, e tutto questo provocò una sorta di ubriacatura complessiva. Da un lato le aziende che facevano pubblicità erano costrette a mettere a bilancio, anno dopo anno, budget sempre alti sotto la voce “promozione”. Dall’altro i prodotti rincaravano di conseguenza.

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iò era particolarmente vero per i prodotti di lusso, o comunque di una qualità tale dove non tanto il costo reale di fabbricazione ma il nome, l’immagine, il plus valore legato alla griffe erano l’elemento primo per la determinazione del prezzo. Già dagli anni Novanta, e con l’esplodere del Made in Italy, questo aspetto assunse un valore ancora


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maggiore, così che il senso stesso del denaro rischiò di perdersi definitivamente. allora, quale incidenza arrivarono ad avere gli inserzionisti pubblicitari rispetto alle scelte del giornale del quale erano clienti? Per quanto fornissero oltre la metà degli introiti sui quali potevano contare gli editori, in teoria il loro potere non si era per niente modificato. Erano “ospiti”, graditi quanto si vuole ma pur sempre “ospiti”. Certo, poteva accadere che un inserzionista importante avesse una grana di qualsiasi tipo, e che arrivasse una cortese richiesta da parte degli uffici pubblicitari per avere “ un occhio d riguardo”. Ma quest’occhio di riguardo difficilmente i giornalisti lo avevano, per il semplice fatto che era proprio in situazioni del genere che potevano rivendicare il loro diritto a perseguire l’oggettività dell’informazione. Ma se tutto

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questo avveniva, non c’è dubbio, nei grandi quotidiani, quelli nei quali era anche più forte la rappresentanza sindacale, più difficile era ottenerlo nelle piccole testate di provincia, dove era chiaro a tutti che la situazione economica non poteva permettere grandi battaglie ideali.

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a non è tutto. Poiché lo scopo della pubblicità era, ed è, quello di raggiungere il maggior numero di lettori possibili, il costo era ed è collegato alla tiratura del quotidiano che la ospita. Per questo, circa vent’anni fa, i quotidiani più accreditati presero a pubblicare in ogni edizione il numero delle copie tirate ed accertate da un’apposita società. Avere una importante tiratura, permetteva infatti non solo di aumentare i costi per le inserzioni pubblicitarie, ma anche di accedere alla pubblicità più importante, quella così detta “nazionale e

internazionale” che all’interno delle proprie “campagne” destinava cifre considerevoli agli annunci sulla carta stampata.

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bbene, che cosa accadde pur di tenere alta la tiratura? Accadde che la singola copia – per la quale, dopo un certo numero, gli unici costi sono quelli della carta - venne a costare meno di quanto si poteva ottenere dalla pubblicità sotto forma di maggior tiratura. In pratica, se 1000 copie costavano all’editore 1000 lire, l’aumento di 1000 copie in tiratura permetteva di ricavare in gettito pubblicitario decisamente di più. Fu così che le tirature dei giornali aumentarono anche quando i lettori diminuivano. E poiché alla pubblicità non interessa come una copia finisce in mano ad lettore, se cioè sia stata pagata o no, sempre più spesso, sotto forma di “campagne pubblicitarie” i quotidiani, e in particolare

quelli di maggior prestigio, presero ad essere letteralmente regalati nei treni e negli aerei, negli alberghi e nei bar, nelle palestre, nelle scuole, e ovunque avesse un senso distribuire gratuitamente una copia sotto forma di “promozione”.

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cco, siamo a questo punto oggi. E non è un caso che si sia già arrivati - anche se il sistema è oggi in grave crisi – alla free press. Ovvero, a regalare il giornale che non è più un contenitore di idee e di fatti, ma un vettore per arrivare ad un pubblico più vasto possibile. La pubblicità è quella che paga, ed il vero scopo dell’oggetto stampato, le notizie sono il mezzo attraverso il quale si arriva al grosso pubblico che avrà un rapporto “mordi e fuggi” con il suo quotidiano. Ben lontani i tempi nei quali la copia del proprio giornale era l’amica più fedele di una intera giornata.

Due immagini di recenti campagne pubblicitarie de La Nazione. Lo scopo evidente è quello di dimostrare che persone di varia età e condizione sociale leggono il nostro quotidiano.


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Ma cos’è davvero la pubblicità (e soprattutto a che cosa serve?) La capacità degli inserzionisti di adeguare il proprio linguaggio alla situazione politica ed economica del Paese

e l’immagine. Per esempio, per reclamizzare una importante testata giornalistica, presentò una serie di foto importanti di uomini politici ripresi in momenti di stanchezza, quando sembravano perfino sonnecchiare, e li commentò con la scritta “Il giornale X dà la sveglia ai potenti”.

Per quanto la pubblicità abbia un suo autonomo linguaggio deve fare i conti con la sensibilità comune e il mutare delle situazioni politiche ed ecomoniche.

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iceva Agnelli “Sono assolutamente convinto che la metà dei soldi spesi in pubblicità è assolutamente inutile, ma purtroppo non mi è affatto chiaro quale sia la metà che invece serve.” E dunque cos’è un messaggio pubblicitario, come si fa a calcolarne la qualità e l’incidenza positiva sulle vendite?

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er quanto ci siano sondaggi sull’efficienza di una “campagna”, e continui rilevamenti, quando si tratta di calcolare se uno slogan è riuscito o meno siamo nel campo della più assoluta incertezza. Ci può essere uno slogan che resta in mente a tutti, ma non

per questo viene collegato al prodotto e dunque è inutile se non controproducente. Ci può essere un prodotto collegato ad uno slogan volgare se non addirittura blasfemo, che ugualmente è ricordato da tutti ma con fastidio, e dunque provoca un rifiuto, invece che una spinta all’acquisto. Il numero delle persone che hanno notato un messaggio pubblicitario, dunque, di per se stesso non significa nulla. Di certo fra un prodotto noto ed uno sconosciuto l’immediata reazione, davanti a uno scaffale di supermercato è quella di prendere l’oggetto dal nome noto. Ma si tratta per lo più di un gesto inconscio, se solo interviene un momento di

razionalità, subito l’acquirente va a guardare il prezzo, poi il rapporto fra prezzo e peso, e insomma, se è educato all’acquisto –e nei momenti di crisi come quello attuale sempre più gli acquirenti lo sono – il compratore non si lascia poi tanto facilmente convincere dalle proposte pubblicitarie.

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per questo motivo che il pubblicitario deve saper dosare il suo linguaggio in base al momento economico, politico e sociale del momento. E infatti, come sostiene un copywriter di successo, Emanuele Pirella, con la fine degli anni Sessanta e gli inizi degli anni Settanta, quando cioè università e piazze di tutta Italia erano invase dagli studenti in “lotta contro il sistema”, la semplice esaltazione di un prodotto da consumare non era opportuna. La pubblicità doveva per forza cambiare il proprio linguaggio, e fu allora che si affidò alla satira, usando l’ironia, la caricatura, il gioco di parole e lo stretto collegamento tra il testo

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bbene, chi vinse il confronto fra contestatori del sistema e del consumismo, e i pubblicitari che invece quel sistema rappresentavano a tutti gli effetti? I secondi, non c’è dubbio. Tanto è vero che lo stile di abbigliamento casual, che nel ’68 doveva rappresentare la libertà assoluta e creativa rispetto alle proposte delle case di moda, nell’arco di due anni era diventato un modo di produrre industriale, ed era finito nei grandi magazzini.

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a pubblicità, dunque, ha sette vite. È capace di modificarsi in base alle necessità del momento, di trasformare se stessa, la propria stessa immagine. E oggi che si vive la crisi, ecco si assiste quasi ad un ritorno alle origini. Il prodotto non è più urlato, legato a un’emozione, a un lampo che acceca. Si torna a descriverne i pregi ed i vantaggi. Si torna a spiegare in modo piatto perché meglio usare un tipo di detergente invece di un altro. E niente vieta, se l’esperienza insegna, che una volta lasciata la crisi dietro le spalle, si tornino a privilegiare le emozioni rispetto alla ragione.

“Chi mi ama mi segua” : fu una pubblicità che fece epoca e scandalo per il suo confondere sacro e profano.


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Tutti i segreti di un pubblicitario: “così vendo attraverso gli slogan” Quali sono le tecniche che permettono a un copywriter di arrivare al grosso pubblico dei consumatori

“Q Scrive Emanuele Pirella: “le parole di una canzone e le immagini di Tex Willer, un quadro visto in un libro, un saggio di Longhi su Masaccio, la mamma di Proust e la tua, una barzelletta” tutto serve a costruire uno slogan.\

uello che era normale cinquant’anni fa, può essere visto oggi come creativo, nuovo e dirompente” E dunque, quale linguaggio deve privilegiare un pubblicitario? Quello della novità, non c’è dubbio, ma ancor più quello della sorpresa, in modo da richiamare l’attenzione. E quell’effetto lo si può ottenere anche riponendo, a sorpresa appunto, scene di vita e situazioni che appartengono al nostro passato, giocando sui toni dolci della memoria, se non della nostalgia.

T

utto, dunque, può essere utile al raggiungimento dello scopo. E il pubblicitario ama definirsi come un viaggiatore che porta sulle spalle una bisaccia, dove sono elementi della più stretta attualità, ma anche odori e memorie dell’infanzia, film visti nell’adolescenza, paesaggi scoperti durante i suoi giri intorno al mondo. Un tutto nel quale non esistono gerarchie. Al momento opportuno si infila la mano nella bisaccia se ne estraggono – come in un antico baule riposto nel solaio – gli oggetti più imprevedibili e più strani. Molti si scartano, uno ci abbaglia. È

questo che servirà per costruire uno slogan, o un’immagine vincente, o addirittura tutta la campagna pubblicitaria.

E

dunque, il pubblicitario è un uomo saldamente coi piedi nel presente, ma che non ha mai gettato via nulla del passato. È un creativo che cerca – e per lo più ci riesce - di dare un’anima al prodotto che deve reclamizzare. “Per questo – scriverà Emanuele Pirella, uno dei pubblicitari italiani più noti - le parole di una canzone e le immagini di Tex Willer, un quadro visto in un libro, un saggio di Longhi su Masaccio, la mamma di Proust e la tua, una barzelletta e un gesto visto l’altro ieri, Mantova

nel dopoguerra e uno spot visto a Cannes, un supermercato di via Papiniano e un dialogo di un film di Tarantino, le teorie e le campagne dei maestri e una vecchia foto sfuocata, il professore delle medie e la foto di Gigi Riva in una figurina. L’urto fra ciò che è sintesi razionale e il lago di immagini affastellate fa schizzare in alto parole, brandelli di elementi visivi, suggestioni. Bisogna saperle infilzare al volo, come con una fiocina e lì di nuovo, il processo di selezione torna ad essere consapevole, razionale.”

E

dunque, il copywriter è tutt’altro che cinico, al contrario, è una persona che senza schemi precostituiti,

liberamente naviga nel gioco delle sensazioni, le accumula, le mantiene in vita, e al momento opportuno le estrae e le mette in bella vista perché utili allo scopo.

S

i può insegnare tutto questo? Si può raccontare, spiegare forse, ma certo per poter fare un lavoro del genere occorre avere una natura creativa non ovvia, non banale, e sentire la propria libertà di pensiero e di azione come la regola prima del vivere ogni giorno. Ma tutto questo non basta. Poiché la comunicazione esiste solo quando siamo per lo meno in due, il comunicatore e il comunicato, non serve a niente in pubblicità avere un’idea folgorante che non è compresa da chi deve riceverla. Quindi, perché ciò accada, il pubblicitario deve avere ben presente quale momento storico sta vivendo. E in pratica, quali sono le attese, le capacità di stupirsi, le nostalgie, le voglie, i valori o non valori nei quali vive la società alla quale deve rivolgersi. Per tutto questo il pubblicitario deve essere anche un uomo colto. Non di una cultura accademica, stantia. Ma di una cultura dinamica che ogni volta sa trasferire una sintesi e una teoria nel quotidiano agire.

La “valigia” dalla quale il copywriter estrae i propri testi è fatta di memorie, odori, sensazioni, immagini accantonate nel corso di una vita.


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