Pellegrino Artusi: il tempo e le opere

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il tempo e le opere

mostra bibliografica e documentaria

Firenze 31 marzo-30 aprile 2011 Biblioteca Nazionale Centrale Sala Dante


Accademia della Crusca, Firenze Biblioteca Nazionale Centrale, Firenze Comune di Firenze Comune di Forlimpopoli Casa Artusi, Forlimpopoli Università per Stranieri di Siena Ideazione: Giovanna Frosini Elisabetta Benucci A cura di: Silvia Alessandri Elisabetta Benucci Francesca Filippeschi Giovanna Frosini Sergio Marchini Paola Pirolo Piero Scapecchi Comitato Scientifico delle manifestazioni per il Centenario Artusiano Per Casa Artusi di Forlimpopoli Massimo Montanari, Presidente Alberto Capatti, Piero Meldini, Rosaria Campioni, Marco Dalla Rosa, Franco Mambelli, Ettore Casadei. Per l’Accademia della Crusca di Firenze Nicoletta Maraschio, Presidente Giovanna Frosini La Mostra rientra nelle manifestazioni per il Centenario Artusiano (www.pellegrinoartusi.it, www.casartusi.it). Coordinamento delle Celebrazioni per il Centenario: Laila Tentoni Si ringraziano: la signora Gianna Salvadori (Doney Ricevimenti Firenze), la dottoressa Maria Gloria Roselli (Museo di antropologia ed etnologia Firenze). Per la sorveglianza: Amici dei Musei, Amici della BNCF


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ono particolarmente lieta che la prima mostra della Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze dopo il mio arrivo sia dedicata alla celebrazione dei 100 anni dalla morte di Pellegrino Artusi, celebrazioni coincidenti con i 150 anni dell’Unità d’Italia ma anche con il centocinquantesimo compleanno del nostro Istituto, che con questa mostra apre le celebrazioni destinate a concludersi il 22 dicembre con l’inaugurazione di una Mostra dedicata alla sua storia. Come il Comitato delle Celebrazioni artusiane ha più volte sottolineato, l’opera di Artusi ha contribuito in maniera sostanziale all’unificazione dell’Italia proponendo di sostituire alla cucina regionale e municipale una nuova cucina, borghese e allo stesso tempo in sintonia con le teorie del positivismo ottocentesco, che amalgamasse ingredienti e sapori dell’intera penisola. I materiali esposti provengono, ancora una volta, dalla ricchezza delle nostre raccolte – sono infatti presenti le principali edizioni della Scienza in cucina e l’arte di mangiar bene, dalla prima del 1891 alla recentissima curata da Alberto Capatti e uscita nel 2010 per i tipi della Biblioteca Universale Rizzoli – completate con il ricco materiale documentario proveninete da Forlimpopoli e dell’Accademia della Crusca, consueto partner delle nostre iniziative. Accanto all’Accademia della Crusca, al Comune di Firenze e al Comune di Forlimpopoli, vorrei ricordare il contributo della signora Gianna Salvatori di Doney Ricevimenti che permetterà ai visitatori della Mostra di ammirare la mise en place di un tavolo imbandito con stoviglie d’epoca fra le quali spicca in modo particolare il primo bicchiere da Brunello, di un bel colore verde. Ancora una volta, quindi, la collaborazione fra istituzioni pubbliche, autorità territoriali e privati ha creato un’ iniziativa di alto livello culturale e al tempo stesso di grande fruibilità. I miei ringraziamenti vanno quindi a tutti e in particolare al personale della Biblioteca Nazionale che continua a considerare fra i compiti dell’Istituto la promozione del proprio patrimonio. Maria Letizia Sebastiani Direttore Biblioteca Nazionale Centrale

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dizioni e studi recenti hanno rinnovato l’interesse intorno alla figura di Pellegrino Artusi, alla sua accurata e documentata formazione linguistica e letteraria, alla complessa operazione editoriale che dette origine alla Scienza in cucina. Artusi è autore di un libro che ha avuto una storia e una fortuna d’eccezione, veicolo nelle case degli italiani di un ideale di lingua scritta e parlata scorrevole e appropriato; la Mostra che si svolge alla Biblioteca Nazionale permette di ripercorrerne il percorso biografico e intellettuale, attraverso l’esposizione di molte delle innumerevoli edizioni della Scienza, dei libri della biblioteca privata, dei vocabolari assiduamente consultati, delle carte autografe che testimoniano l’apprendistato linguistico. Molti di questi materiali tornano ora a Firenze e sono visibili per la prima volta, grazie alla collaborazione con la Biblioteca «Pellegrino Artusi» di Forlimpopoli, che custodisce il legato del prestigioso concittadino. La Mostra si deve alla proficua collaborazione dell’Accademia con la Biblioteca Nazionale, con la Direttrice Maria Letizia Sebastiani e il personale dell’Istituto, che si è generosamente impegnato; e accompagna il Convegno che l’Accademia e Casa Artusi, con i Comuni di Firenze e di Forlimpopoli, dedicano ad Artusi. A distanza di cento anni dalla morte, l’autore della Scienza torna ad essere studiato nella città che lo ospitò per sessanta anni, da cui il suo libro, ancora letto e consultato con amore, si diffuse in tutta Italia.

Nicoletta Maraschio Presidente dell’Accademia della Crusca

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rtusi arriva a Firenze nel 1851, e lascia alle spalle una delle terre più povere della penisola italica. Inseguito dai fantasmi delle violenze fisiche e morali subite dalla famiglia, forse tenta, oltre alla lingua, di sciacquare in Arno anche i ricordi. Nella terra dove il vento liberale sembrava soffiare più forte, uno spirito laico, liberale, moderatamente gaudente, ma sinceramente patriottico come Artusi cerca anche un posto quieto, sicuro, dove cominciare una nuova vita. E Firenze non delude, sa offrire serenità, agiatezza e, come egli stesso scriverà nell’Autobiografia «musei, gallerie, istituti a profusione di scienze, lettere e d’arte, una bellissima lingua, culla dell’italiana». All’età di 45 anni può impegnarsi appieno ai suoi interessi culturali e la morte lo troverà, all’età di 91 anni, ancora in piena «lucidità e franchezza di mente», quando, racconta in un intervista la fedele Marietta «stavamo leggendo l’Eneide». Nel testamento si era ricordato di tutti, dei fedeli servitori, Marietta e Francesco, e soprattutto della città natale. Forse il distacco da Forlimpopoli e dalla Romagna fu più doloroso di quanto si possa immaginare, di sicuro l’acqua limpida dell’Arno non fu sufficiente a recidere il cordone ombelicale. Forlimpopoli, città natale, da anni gliene rende merito. In questo anno dalle cifre tonde (centesimo della morte, centocinquantesimo della nazione, centoventesimo della prima edizione del manuale), l’Italia intera vuole ricordare un uomo che ha contribuito con una bella lingua e delle ricette a costruirne l’identità. A Firenze, città di adozione di Artusi, nella splendida Biblioteca Nazionale, questa importante e autorevole mostra ne vuole ricordare a tutti il tempo e le opere. Finalmente. Di sicuro Artusi, che dorme il sonno dei giusti, sotto i baffi granducali, mentre sta «rincalzando i cavoli», ci osserva e sorride.

Laila Tentoni Coordinatore del Centenario Artusiano

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14a edizione (1910)

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i incredibile attualità, Pellegrino Artusi. Non solo per i contenuti del suo libro, che oggi verrebbe definito senza ombra di dubbio un best seller, ma anche nella filosofia che ne è alla base. Filiera corta, prodotti di stagione, niente sprechi, materiali di alta qualità: principi solidi di economia prima ancora che di semplice cucina, a cui stiamo finalmente tornando con il buonsenso dei padri. E poi le riedizioni, che nascono anche sulla base delle correzioni e dei suggerimenti dei lettori: un lavoro collettivo e condiviso, come da migliore tradizione democratica, un altro assioma fondamentale che stiamo cercando di recuperare un po’ tutti nella conduzione delle cose. Un esempio insomma di eccellenza con cui le generazioni future si trovano a confrontarsi, da cui trarre ispirazione per la cucina ma non solo. La mostra documentaria allestita alla Biblioteca Nazionale in occasione del centenario della morte dell’Artusi assume dunque un significato più esteso e rappresentativo: non a caso è stata inserita tra le celebrazioni dei 150 anni dell’Unità d’Italia a Firenze. Perché se questo nostro paese è ora una cosa sola per davvero, nella lingua, nei modi e nello spirito – nonostante le sfumature differenti che qualcuno vorrebbe rendere invece accese – lo dobbiamo non semplicemente alle armi della conquista, ma direi soprattutto alla lingua, alle tradizioni, a quella cultura unitaria che l’Artusi ha contribuito a diffondere con il suo lavoro.

Matteo Renzi Sindaco di Firenze

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Pellegrino Artusi Una vita tra lo studio e la cucina di Giovanna Frosini

Pietro Fanfani, Voci e maniere del parlar fiorentino, Firenze, 1870 (Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze) 8

Pellegrino Artusi nacque a Forlimpopoli il 4 agosto 1820, unico maschio con molte sorelle, figlio di un commerciante che lo avviò alla stessa professione e lo indusse a molti viaggi fino a Trieste, verso nord, fino a Napoli, verso sud. La famiglia si trasferì in Toscana nel 1851, dopo l’assalto nottetempo del bandito Passatore, che per la ferocia con cui avvenne lasciò tracce indelebili nella vita familiare, e in particolare sullo stato di salute di una delle sorelle. Per Artusi Firenze fu «buon porto», come lo era stata per altri esuli di riguardo. In città, in via Calzaiuoli, la famiglia acquista un banco e inizia a commerciare in sete. Costituito un solido patrimonio, mantenuto e accresciuto con un’oculatezza e quasi un’avarizia tutta borghese, a quarantacinque anni Artusi si ritira a vita privata, e si dedica agli studi, alle letture, alla frequentazione della società intellettuale fiorentina. Nella bella casa di Piazza D’Azeglio in cui intanto si è trasferito trova posto una biblioteca che via via si arricchisce, fino a cinquecento, seicento volumi, che testimoniano la vastità e l’eterogeneità dei suoi interessi. Tre appaiono i nuclei portanti: le opere della tradizione classica, con una presenza significativa dei testi letterari dalle Origini all’Ottocento, in rilevante continuità cronologica; la letteratura toscana e fiorentina; le opere di lingua e i dizionari, intesi sia alla conoscenza della tradizione e a un uso rigoroso e corretto della lingua, sia all’apertura verso i neologismi, i linguaggi settoriali, l’uso contemporaneo di Firenze. Artusi legge e studia, affina l’orecchio alla lingua dei libri e alla lingua viva della sua città; spoglia e annota pazientemente le opere di grammatica e i vocabolari, scrive di letteratura: compone una Vita di Ugo Foscolo e le Osservazioni in appendi-


ce a trenta lettere di Giuseppe Giusti che l’editore Barbèra stampa fra il 1878 e il 1881. Curioso e attento, è – anche al di là delle sue stesse aspettative – ormai pronto a scrivere un libro che dalla sua casa entrerà nelle case degli italiani, che finirà nelle mani delle italiane, sui tavoli di cucina e sui tavolini di lettura. Nel 1891 pubblica la prima edizione della Scienza in cucina e l’Arte di mangiar bene: come racconta Marietta Sabatini, la fedele cameriera e cuoca, «l’unico suo divertimento era lo scrivere. Il libro lo cominciò quasi per ischerzo. Poi vide che gli veniva bene e vi si appassionò. A poco a poco venne ad avere una corrispondenza con persone d’ogni ceto e d’ogni parte d’Italia. Scriveva sempre. Si alzava la mattina alle otto e si metteva a tavolino fino all’ora del pranzo. Poi riprendeva a scrivere per qualche ora. Ed era un continuo alternarsi fra lo studio e la cucina, la penna e le pentole. Si provavano le ricette, tutte, una ad una. Accanto a lui instancabile era sempre il suo cuoco che gli voleva tanto bene. Io pure non lo lasciavo mai. Altri compagni fedeli gli erano i due gatti ai quali dedicò la prima edizione del suo libro. […] La cucina era per lui un campo d’azione. Un luogo di studio. Io ho ancora e tengo come fossero gioielli le sue bilance, i suoi arnesi, tutto quanto gli era necessario ed egli adoperava sempre. Mi pare ancora di vederlo!».

conferirle a farne la fortuna, ma l’attrezzatura della lingua e della scrittura si erano già da tempo venute definendo. Artusi è un fiorentino ‘di importazione’; ma quando si accinge a scrivere la Scienza vive a Firenze ormai da vari decenni, e la prossimità al fiorentino dell’uso non è in lui mai disgiunta da una notevole attenzione per la componente letteraria e tradizionale della lingua. Così la sua lingua poté riuscire – entro limiti accettabili – naturale e controllata, lontana dagli esiti grotteschi di molti imitatori e manzonisti incauti e meno provveduti di lui. Morì il 30 marzo 1911, quasi novantunenne, lasciando uno dei pochi libri che hanno davvero contribuito, e dal profondo della quotidianità, a ‘fare’ gli italiani. Per testamento, i diritti d’autore del suo manuale furono lasciati, insieme ad alcuni oggetti di casa, a Marietta Sabatini e a Francesco Ruffilli, l’altro cuoco, originario di Forlimpopoli: ossia alle persone che più di tutte lo avevano aiutato nella realizzazione della sua grande opera.

Per quest’uomo coltissimo, che leggeva molti classici e pochi romanzi, l’opera destinata a renderlo famoso non ebbe dunque una genesi isolata e casuale, ma fu il frutto di un coerente impegno, apparve dotata di un retroterra considerevole di studi letterari e linguistici; fu l’argomento della Scienza e il tono che l’autore seppe 9


Illustrazione contenuta nell’edizione pirata Salani del 1940 (Proprietà privata)

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La Scienza degli italiani Storia di un libro fortunato di Giovanna Frosini

Una tipica ricetta dell’Artusi

Nel 1891, Pellegrino Artusi, nel suo elegante appartamento del centro di Firenze dove viveva con due domestici e due gatti, realizzò per la prima volta con la penna e le pentole quella vera e propria impresa culinaria e editoriale che fu l’ideazione, la stesura e la diffusione della Scienza in cucina e l’Arte di mangiar bene. Manuale pratico per le famiglie. La prima edizione uscì con 475 ricette; il successo, insperato e imprevisto, che ne conseguì, determinò un progressivo e inarrestabile lavoro di arricchimento, che portò l’ultima edizione curata dall’autore e uscita quando era ancora in vita, la quattordicesima (1910), a contenere 790 articoli (e in Appendice La cucina per gli stomachi deboli). Completato dal ritratto autorevole e paterno dello scrittore, quel libro, sempre indicato col suo nome: l’Artusi, divenne familiare a generazioni di italiani e soprattutto di italiane, fu una presenza preziosa e amica, spesso una delle poche letture domestiche. Superate le difficoltà iniziali per trovare uno stampatore, quel libro si avviò a diventare uno dei pochi e veri best-sellers e long-sellers dell’editoria italiana, destinato a un pubblico più largo di quello generazionale o letterariamente connotato di Pinocchio o dei Promessi Sposi: straordinario esempio di opera dinamica e aperta, che cresce come raccolta comunitaria e condivisa, non solo con i due domestici ma col pubblico che attivamente partecipa, suggerisce, critica, accompagna il libro con la pratica e l’affetto. La possibilità di un contatto diretto con l’autore conferì al libro un tratto notevole di compartecipazione e quasi di co-autorialità, realizzando modalità di condivisione certamente non ovvie e non scontate (che richiamano alla memoria – non casualmente – la partecipazione dei lettori alla sorte di Pinocchio durante la pubblicazione a puntate dell’opera). 11


A 71 anni, un anziano gentiluomo che in gioventù era stato commerciante e imprenditore, ma che da tempo ormai si è dedicato agli studi e a molte altre galanterie, dà dunque alle stampe il risultato della sua passione per la gastronomia ma anche per la corretta organizzazione e l’economia domestica, strutturata secondo i principi dell’igiene e della modernità. Negli anni precedenti si è fatto le ossa sulla lingua, leggendo, studiando le opere di grammatica e i vocabolari, scrivendo di letteratura: curioso e attento, partecipe della vita culturale fiorentina, è – anche al di là delle sue stesse aspettative – pronto a scrivere un libro che dalla sua casa entrerà nelle case degli italiani, che finirà nelle mani delle italiane, sui tavoli di cucina e sui tavolini di lettura. La Scienza viene stampata per la prima volta a Firenze nel 1891 a spese dell’autore, in mille esemplari. E si presenta a noi appunto con la veste che le dà il tipografo Salvatore Landi, con la celebre copertina che porta l’immagine del leprotto ‘guizzante’: nessun autografo, nessun materiale preparatorio, nessun brogliaccio tipografico del libro sembra essere giunto fino a noi. All’alba del nuovo secolo, si era ormai affiancato l’editore Bemporad per la distribuzione delle copie. Si stabilì così un ‘triangolo’ fiorentino, delimitato da tre luoghi: la Piazza D’Azeglio, dove Artusi viveva con Marietta Sabatini, pistoiese di Massa e Cozzile, e con Francesco Ruffilli, di Forlimpopoli, al n° 25, la via del Proconsolo, dove aveva sede, al n° 7, la ditta R. Bemporad & Figlio, e l’appena più distante via Santa Caterina, dove si trovava, al n° 12, la Tipografia L’Arte della Stampa. Prende vita qui il «formidabile romanzo (di ricette non elencative o tecniche ma raccontate) per il rito quotidiano della buona tavola, non per palati sopraffini ma per oneste mense familiari» (Gino Tellini). 12

Il ricettario di Artusi fonda il codice alimentare e culinario della nascente Italia borghese: basato sulle tradizioni romagnolo-bolognese e toscano-fiorentina, individua il nucleo essenziale della cucina della nazione appena unita, facendo appello alla conoscenza diretta piuttosto che alla letteratura precedente. Sono le esperienze proprie e altrui, i viaggi, le soste nelle trattorie, carichi di ricordi personali sullo sfondo di un lungo arco temporale che va dal Risorgimento all’Unità all’Italia umbertina, che forniscono le ricette a Artusi, non i libri di cucina, in cui l’autore mostra di avere scarsa fiducia. La rete ferroviaria permette a Artusi di conoscere le località d’Italia e al tempo stesso disegna il perimetro della sua penisola gastronomica, da Torino alla Lombardia a Trieste, verso sud fino a Roma ma non oltre Napoli; la rete postale – di una efficienza che forse oggi, sbagliando, esiteremmo a sospettare – permette la comunicazione delle ricette e lo scambio delle esperienze, fa sì che la Scienza acquisti progressivamente il carattere di opera collettiva, frutto di una rete di conoscenze sempre più diffuse. E questo nonostante la fortissima personalità dell’autore, che rimane il nodo centripeto di un’esperienza e di una pratica che riunisce in sé forze tendenzialmente centrifughe e le catalizza nella moderna cucina di Piazza D’Azeglio, affidandole alle mani capaci di Francesco Ruffilli e di Marietta Sabatini, fedeli esecutori senz’altro, ma più ancora (almeno nel caso di Marietta) creatori e artefici. La cucina di Artusi è dunque una cucina biografica, disposta sull’asse Romagna-Toscana, cui si uniscono le altre località conosciute; è una cucina di casa e di trattoria; è una cucina di mercato e di approvvigionamento diretto di materie prime di alta qualità; è una cucina realizzata con spirito di economicità, attenta al calcolo dei costi; è una cucina di invenzione propria e altrui, provata


Lettera di Pellegrino Artusi a Piero Barbèra, 4 dicembre 1880 (Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze)

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e riprovata, non di derivazione dai ricettari precedenti; e con essa si misurerà, più o meno rispettosamente, tutta la produzione successiva. A confronto della tradizione gastronomica e dei libri di ricette, Artusi si trova a operare in un contesto linguistico altamente compromesso: la concomitanza di diversi elementi (la frammentazione dialettale, la caratterizzazione fortemente letteraria del modello di lingua scritta, la mancanza o forse meglio la forte limitatezza di una lingua unitaria dell’uso parlato, la pressione del francese) aveva determinato una situazione di vischiosità e di resistenza, che rendeva particolarmente difficile un qualunque intervento teso a modernizzare la lingua, a semplificare e uniformare la terminologia. Tanto più notevole appare dunque il tentativo di Artusi, vero Manzoni della lingua gastronomica italiana, non toscano, non fiorentino, largamente autodidatta, che basandosi sullo studio, sulla naturale immersione nel contesto cittadino e anche, possiamo supporre, giovandosi della consulenza domestica e immediata di Marietta, una piccola Emilia Luti, ha realizzato un’operazione indubbiamente ardua e meritoria. Per questo si è potuto parlare di una vera e propria rivoluzione linguistica che si compie nella Scienza: questo libro rovescia la nomenclatura codificata della tradizione culinaria, e cerca di portare ordine e chiarezza nella varietà talora quasi non razionalizzabile delle denominazioni locali. Nella misurata sensibilità per la lingua, duttilmente aderente alla variabilità del reale, nell’affabilità dell’autore, nell’ammirevole buon gusto e senso dell’equilibrio che ispirano ogni sua scelta risiede il vero segreto di questo libro, che ne fece veicolo importante nelle case degli italiani dell’ideale man14

zoniano di una lingua parlata e scritta scorrevole e naturale: con Pinocchio e Cuore, non casualmente suoi contemporanei. Nel lessico e nella sintassi della Scienza emergono con forza la ricchezza, la vivacità, la scorrevolezza del linguaggio di Artusi, che mette a frutto conoscenze letterarie, frequentazione di opere e vocabolari intesi a raccogliere la lingua d’uso, una naturale attenzione e curiosità, per scrivere una lingua della cucina chiara, comprensibile, familiarmente colloquiale, in modo che al contenuto possa corrispondere una forma capace di raggiungere un vero pubblico di lettori, che all’inizio si potevano temere di piccolo numero, che si trasformarono poi in una presenza massiva. Così, il suo libro, letto, tradotto in pratica quotidiana, compulsato, amato, formò lo straordinario romanzo della cucina, che ha dato sapore ai giorni di una nazione intera.


Vita di Ugo Foscolo. Note al carme dei Sepolcri. Ristampa del Viaggio sentimentale di Yorick tradotto da Didimo Chierico, Firenze, Tipografia di G. Barbèra, 1878 (Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze)

Osservazioni in appendice a trenta lettere di Giuseppe Giusti, Firenze, Tipografia di G. Barbèra, 1881 (Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze)

Spogli linguistici autografi di Pellegrino Artusi (Archivio Storico del Comune di Forlimpopoli).

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Pellegrino Artusi Il tempo e le opere di Elisabetta Benucci

Vocabolario RomagnoloItaliano di Antonio Morri, Faenza, dai tipi di Pietro Conti all’Apollo, 1840. Esemplare appartenuto a Pellegrino Artusi (Biblioteca “Pellegrino Artusi”di Forlimpopoli).

Vocabolario RomagnoloItaliano di Antonio Morri, Faenza, dai tipi di Pietro Conti all’Apollo, 1840. Esemplare appartenuto a Pellegrino Artusi (Biblioteca “Pellegrino Artusi”di Forlimpopoli).

Vocabolario Romagnolo-Italiano di Antonio Morri, Faenza, dai tipi di Pietro Conti all’Apollo, 1840. (Biblioteca Nazionale Centrale Firenze).

La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene, che rende ancora oggi Pellegrino Artusi noto a un vasto pubblico, è opera della maturità e arriva dopo un lungo percorso di formazione culturale e di vita sociale. La mostra, nelle sue diverse articolazioni, cerca di ricostruire questo percorso. Dagli interessi letterari, concretizzatisi nelle due opere di scarso successo Vita di Ugo Foscolo. Note al carme dei Sepolcri. Ristampa del Viaggio sentimentale di Yorick tradotto da Didimo Chierico (1878) e Osservazioni in appendice a trenta lettere di Giuseppe Giusti (1881), al rigoroso e attento apprendistato sulla lingua italiana, con la consultazione di testi grammaticali e vocabolari. Fanno parte della sua biblioteca, oltre le opere dei classici (da Dante e Petrarca a Ariosto e Tasso, con una forte predilezione per la letteratura toscana e fiorentina, anche di più viva matrice popolare e teatrale, come il Piovano Arlotto, la Vita di Cellini, le Poesie di Redi, il Malmantile di Lippi, le Cene del Lasca, le Commedie di Giovanni Maria Cecchi), un nucleo molto importante di testi relativi alla lingua, fra cui la tradizionale grammatica di Corticelli e diversi vocabolari, come il Vocabolario della lingua italiana di Pietro Fanfani (1865), il Vocabolario di parole e modi errati che sono comunemente in uso di Filippo Ugolini (1880), il Vocabolario italiano domestico di Giacinto Carena (1859), cui si aggiungono libri dedicati a settori specifici, come I neologismi buoni e cattivi più frequenti nell’uso odierno di Giuseppe Rigutini (1886). Dalla consultazione quotidiana di questi testi, Artusi forma la sua lingua, individuando e annotando alcune espressioni, usate poi nella Scienza, come rincalzare i cavoli (‘essere sottoterra’) e non me ne importa un fischio (‘non me ne importa nulla’), che diventerà non me ne importa un fico, 17


a testimonianza del progressivo aggiustamento e dell’attenta valutazione delle varie possibilità linguistiche*. La sua passione per lo studio e per la gastronomia trovano un perfetto rifugio nella bella abitazione di Piazza d’Azeglio, dove Artusi vive con i fidati domestici Marietta Sabatini e Francesco Ruffilli, a lui sinceramente affezionati, come mostrano i biglietti e le cartoline che i due gli spedivano nei momenti di lontananza. Purtroppo non sono ancora noti nuclei cospicui di carteggi di Artusi, ma la lettera del gentiluomo di Forlimpopoli spedita a Paolo Mantegazza il 25 aprile 1890, pubblicata più oltre, contiene in nuce gli elementi per capire il legame sincero che accomunò le due personalità, complice anche la contessa Maria Fantoni sposata Mantegazza, che era una delle tante ammiratrici di Artusi. In questo contesto e ambiente, Artusi dà vita al suo capolavoro: le numerosissime ristampe, anche pirata, della Scienza in cucina (oggi tradotta in inglese, tedesco, olandese, spagnolo, catalano e portoghese) documentano la grande fortuna di quest’opera, che fu recensita su vari periodici e che mise direttamente in contatto l’autore con una schiera di lettrici, desiderose di ricevere consigli o di proporre ricette inedite al famoso gentiluomo.

* Le informazioni sulla Biblioteca di Artusi, sugli strumenti linguistici consultati e sulle forme linguistiche annotate sono tratte da G. Frosini, Lo studio e la cucina, la penna e le pentole. La prassi linguistica della «Scienza in cucina» di Pellegrino Artusi, in Storia della lingua e storia della cucina, Atti del vi Convegno Internazionale dell’Associazione per la Storia della Lingua Italiana ASLI, Modena 20-22 settembre 2007, a cura di C. Robustelli e G. Frosini, Firenze, Franco Cesati Editore, 2009, pp. 311-330. 18

Regole ed Osservazioni della Lingua Toscana, di Salvatore Corticelli, Firenze, Stamperia Reale, 1869. (Biblioteca Nazionale Centrale Firenze).


Passeggiata nel Parco delle Cascine (Foto Alinari, Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze)

Il Mercato vecchio di Firenze (Foto Alinari, Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze) 19


Geltrude Tra Pellegrino e Stefano di Sergio Marchini Il 25 gennaio 1851 segna una divisione fondamentale nella vita di Pellegrino Artusi e della sua famiglia e segna anche l’incontro, tragico e violento, tra due miti della Romagna, il gastronomo e il bandito. La notte del 25 gennaio, infatti, una masnada di briganti guidati da Stefano Pelloni, detto il Passatore, sulla cui testa grava una taglia di ben 3000 scudi, si impadronisce di Forlimpopoli, allora città murata, chiudendo le tre porte di accesso e per più di tre ore imperversa, terrorizza e deruba i cittadini. Dopo aver catturato i pochi gendarmi rimasti in caserma, la banda occupa il teatro, dove numerose persone assistono allo spettacolo La morte di Sisara e, in base ad un elenco compilato su suggerimento degli informatori convoca uno ad uno tredici possidenti ritenuti tra i più ricchi, imponendo loro una taglia in denaro riscossa recandosi di casa in casa accompagnati dalle loro vittime. Anche la famiglia Artusi è nell’elenco, ma non è a teatro, quindi i banditi costringono ad accompagnarli l’avvocato Ricci, amico di famiglia, che con un pretesto si fa aprire: all’irruzione dei banditi, Agostino Artusi, padre di Pellegrino, sviene per lo spavento e appena si riprende fugge. In casa restano Pellegrino, all’epoca trentenne, e le sue tre sorelle. I briganti fanno razzia, minacciando di morte il giovane e, alle grida delle sorelle, Rosa, Maria e Geltrude, sfondano la porta della loro camera e colpiscono le ragazze per farle tacere, Maria sarà ferita alla nuca da una pugnalata, Geltrude fuggirà sull’abbaino aggirandosi terrorizzata per i tetti. La madre consegna ai banditi anche un sacchetto di monete d’oro e d’argento, l’incasso 20

quindicinale del negozio. Terminato il saccheggio, i banditi lasciano la casa. L’estorsione è stata ingente: su 6000 scudi di bottino complessivo, circa 1200 provengono dalla rapina alla famiglia Artusi. Qualche tempo dopo, Pellegrino decide di lasciare Forlimpopoli per Firenze, città che già conosce e che gli è cara, invitando la famiglia ad accompagnarlo. Non lo distoglierà dall’intento né la morte del Passatore, ucciso in uno scontro il 23 marzo vicino a Russi, né la fucilazione pubblica, nella piazza di fronte al teatro, il 26 aprile, di quattro informatori della banda: dopo un’affrettata conclusione degli affari in sospeso ed un rapido trasloco, nel maggio 1851 tutta la famiglia si trasferisce a Firenze. Ricca borghesia commerciante, la famiglia Artusi, nonostante l’impegno nel lavoro quotidiano, la compiacenza nei confronti dei concittadini, la beneficenza fatta senza parsimonia, non è ascritta tra i maggiorenti, tanto che il capo famiglia non farà mai parte del consiglio comunale: secondo Pellegrino Artusi, nella propria Autobiografia, perché “benché religioso... forse non creduto papalone abbastanza”. Sembra quasi che, nella situazione ormai senza controllo delle Romagne di quegli anni, la famiglia Artusi, ritenuta dalla voce popolare ancor più ricca di quanto in effetti fosse, ma non adeguatamente investita di rappresentazione sociale abbia perso anche di pubblico prestigio. Il Passatore, invece, diventerà ben presto una leggenda, trasformandosi da brigante spietato e crudele, in bandito gentiluomo: i versi di Arnaldo Fusinato e quelli di Francesco Dall’Ongaro, un’ingente e praticamente contemporanea produzione di canzoni e di romanzi popolari, la definizione di Giovanni Pascoli in “Romagna” – “il Passator cortese” – trasformeranno il brigante in mito: ancor oggi basta consultare la rete per accorgersi di quanto la sua figura sia esaltata e quanto sia trascurata la lettura dei docu-


menti reali che pure sono numerosi, grazie al buon funzionamento della burocrazia pontificia. Ma se a Firenze inizia per Pellegrino Artusi una nuova vita, ricca di soddisfazioni, di interessi, per sua sorella Geltrude inizia un calvario che la porterà a una tragica fine. Geltrude infatti non si riprende da quella notte e passa dalla catatonia all’agitazione: non vuole uscire, si chiude in camera, non mangia, oppure bestemmia e dice “parolacce” in pubblico. Gli psichiatri fiorentini consigliano di farla tornare “all’aria natia” e, poiché è impensabile che una giovane donna, da sola, possa tornare in Romagna, viene rapidamente maritata, per procura, con un contadino benestante che, si badi bene, non vive a Forlimpopoli, ma in campagna. Il matrimonio non riesce: sono incomprensioni, percosse subite, ingiurie ed offese non solo del marito, ma anche del cognato sacerdote che portano la giovane a restare per giorni chiusa in camera o a vagare per la campagna. Il medico curante, dottor Domenico Forti di Bertinoro, consiglia quindi, per sottrarla alla violenta situazione coniugale e per curarla, il ricovero nel manicomio di Pesaro, dove il 16 luglio 1855, a ventisei anni, sarà ammessa come pagante; la sua retta, fino alla morte, sarà sempre pagata da Pellegrino. Per il dottor Forti Geltrude non è pazza: ha sì problemi, è taciturna, ma non parla a sproposito, se interrogata risponde alle domande in modo adeguato. Un mese dopo il ricovero, però, si ammala di colera e, una volta guarita, sviluppa una demenza che progredirà inesorabile fino alla morte, il 12 gennaio 1876. Nei lunghi anni del suo ricovero, Pellegrino, come narra nella sua Autobiografia, continua ad andare a trovarla, anche se Geltrude, alla fine, non lo riconosceva più. Alla sua morte il fratello la farà seppellire in “luogo separato e distinto nel Camposanto comune con sopra un’iscrizione marmorea che rammentasse ai posteri il suo luttuoso caso”. Pochi anni dopo, però, per l’allargamento della stazione ferroviaria

di Pesaro il cimitero sarà praticamente distrutto e di Geltrude non rimarrà nemmeno la tomba. Forse in quella notte di terrore la povera Geltrude subì violenza, anche se non risulta nessuna denuncia in tal senso, ma raramente lo stupro di donne di buona famiglia veniva denunciato: era una sfera dell’onore di pertinenza del capofamiglia. Nella sua Autobiografia, infatti, Pellegrino, che ben conosce l’italiano, afferma che Geltrude ricevette un “barbaro oltraggio” che l’aveva “manomessa e contaminata”: tutti termini che sono forse generali ma che ,all’epoca, attingevano senz’altro alla sfera sessuale. Se questo è vero, il repentino abbandono di Forlimpopoli acquista una luce ben diversa: per la famiglia Artusi era divenuto impossibile restare nella cittadina, era necessario trovare una nuova sede, un luogo nuovo dove ricostruire la rispettabilità, l’onore compromessi.* L’intervento della famiglia su Gertrude può ricordare le figure di Adele Hugo, o Camille Claudel, ma in entrambi i casi l’intervento familiare di segregazione in manicomio è la violenta risposta alla cosciente rivendicazione di un ruolo e di una sessualità diverse da quelle sancite per le donne tra al fine del XIX e l’inizio del XX secolo. Nel caso di Geltrude non c’è accenno di rivolta, c’è solo dolore, tragedia: quasi un’innocente vittima che la morale borghese dell’epoca sacrifica per un nuovo inizio, una nuova fortuna. Ancora affannata nell’accumulazione primaria, la borghesia ottocentesca inserisce tutti in caselle rigide: i contadini nei campi, i borghesi in negozio o nello studio, gli operai in fabbrica, le donne a casa, la prostitute nei postriboli. Per chi non trova la propria casella restano la prigione, o il manicomio. Del resto, a pensarci bene, sono ricette anche queste. * Le informazioni sulle vicende di Gertrude sono tratte da Dino Mengozzi, Gli Artusi, il Passatore e la follia in Sicurezza e criminalità 1796-1861. Milano, F. Angeli, 1999 21



È la lettera con la quale il tipografo Salvatore Landi comunica ad Artusi il costo «ristrettissimo e senza riduzione» per l’inserimento del suo ritratto nella Scienza in cucina. Il ritratto, che raffigura un Artusi bonario e autorevole ma non più giovane, è purtroppo l’unico che di lui si conosca e apparve davvero a cominciare da quell’edizione del 1909 (la tredicesima), nonostante il costo elevato. La stampa, infatti, «su buona carta patinata» e l’applicazione del ritratto con foglio di carta velina sulle seimila copie della tiratura ebbero un costo di 65 lire (oltre alle 10 del cliché). Raffinato stampatore, Salvatore Landi (Firenze 1831 - ivi 1911) fu il tipografo della Scienza, come anche dei fortunati Manuali Hoepli; dalla sua officina fiorentina, «L’arte della stampa», uscirono moltissimi libri impressi per commissione dei migliori editori del tempo. Artusi rimase fedele al suo primo stampatore, anche se dai primi del Novecento ai due si affiancherà l’editore Bemporad, incaricato della distribuzione delle copie della Scienza.

Memorandum della Tipografia Landi, Via Santa Caterina, 12. Firenze, li 27 del 1909 (Archivio Storico Comunale di Forlimpopoli).

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Il Nuovo Dizionario Italiano-Francese è uno dei libri della Biblioteca di Artusi e uno degli strumenti che egli utilizza per perfezionare la sua lingua e la sua scrittura. Dopo la fine dell’esperienza mercantile, che gli consente una certa agiatezza economica, Artusi può dedicarsi «più liberamente ai suoi studi geniali e frequentar lezioni che allora erano pubbliche», come scrive nell’Autobiografia. I suoi interessi comprendono la letteratura e si dedica a scrivere, con una ricca documentazione bibliografica alla mano, due opere: Vita di Ugo Foscolo. Note al carme dei Sepolcri. Ristampa del Viaggio sentimentale di Yorick tradotto da Didimo Chierico (Firenze, Barbèra, 1878) e Osservazioni in appendice a trenta lettere di Giuseppe Giusti (Firenze, Barbèra, 1881). I due libri, preparati con grande cura e applicazione, saranno stampati a spese dell’Autore e non avranno alcun successo di pubblico. Parallelamente Artusi si rivolge allo studio attento e rigoroso della lingua italiana, leggendo e consultando le opere di grammatica e i vocabolari. È la sua Biblioteca a restituirci in parte gli strumenti più frequentemente utilizzati. Accanto alle opere della tradizione classica, con una presenza davvero significativa dei testi letterari dalle Origini all’Ottocento e della letteratura toscana e fiorentina, spiccano le opere di lingua e i dizionari, intesi sia alla conoscenza della tradizione e a un uso rigoroso e corretto della lingua, sia all’apertura verso i neologismi, i linguaggi settoriali, l’uso contemporaneo di Firenze. Ci sono le grammatiche come quella tradizionale di Corticelli (Regole ed osservazioni della lingua toscana, ridotte a metodo ed in tre libri distribuite da Salvadore Corticelli Bolognese, Nuovamente rivedute ad uso delle Scuole, RomaTorino-Milano-Firenze, Stamperia Reale di Torino di G.B. Paravia E C., 1878), i vari prontuari di buona scrittura (fra cui: Vocabolario di parole e modi 24

errati che sono comunemente in uso, compilato da Filippo Ugolini, Quarta edizione totalmente riveduta e corretta, Firenze, G. Barbèra Editore, 1880). Non poteva certo mancare l’importante Vocabolario di Fanfani (Vocabolario della lingua italiana compilato da Pietro Fanfani per uso delle scuole, Seconda Edizione accresciuta più che di un terzo, e quasi tutta rifatta, Firenze, Felice Le Monnier Editore, 1865), e il Vocabolario italiano domestico di Giacinto Carena (Quarta Edizione Napoletana con molte aggiunte, Napoli, Giuseppe Marghieri–C. Boutteaux e M. Aubry coeditori, 1859). Presenti anche libri dedicati a settori specifici come Il parlare degli artigiani di Firenze. Dialoghi ed altri scritti di Girolamo Gargiolli (Firenze, Sansoni, 1876) e I neologismi buoni e cattivi più frequenti nell’uso odierno. Libro compilato pei giovani italiani da Giuseppe Rigutini (Roma, Libreria Editrice Carlo Verdesi, 1886).


Nuovo Dizionario Italiano-Francese composto sui Dizionarj dell’Accademia di Francia e della Crusca, ed arricchito di tutti i termini proprj delle scienze e delle arti dell’abate Francesco D’Alberti di Villanova. Nuova Edizione [...] Tomo Secondo, Milano, per G. Truffi e Comp., 1835. Esemplare appartenuto a Pellegrino Artusi (Biblioteca “Pellegrino Artusi”di Forlimpopoli). 25


Cartolina del cuoco Francesco a Pellegrino Artusi (Archivio Storico del Comune di Forlimpopoli)

Cartolina della domestica Marietta a Pellegrino Artusi (Archivio Storico del Comune di Forlimpopoli)

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È un rapporto davvero speciale quello che lega Artusi ai suoi due domestici, i fidati Marietta Sabatini e Francesco Ruffilli, con i quali condivideva la bella ed elegante abitazione di Piazza d’Azeglio al n° 25. Marietta, la cameriera, era originaria di Massa e Cozzile, un piccolo paese collinare della provincia di Pistoia, dove era nata nel 1860; fu presa a servizio da Artusi verso la fine degli anni Ottanta (molte erano le ragazze di quella zona del pistoiese che si trasferivano per lavoro a Firenze), e gli rimase vicino, discreta efficiente fedele, fino alla fine. Cameriera e cuoca (è lei la titolare della ricetta del Panettone Marietta, alla quale Artusi non volle mai sostituire la ricetta del dolce milanese), ma anche accompagnatrice nei soggiorni estivi sulla montagna pistoiese, ai Bagni di Montecatini o a Viareggio, è lei a rivelarci le abitudini quotidiane del riverito padrone, le sue frequentazioni, le sue passioni, e in particolare l’amore per i libri. Francesco, nativo di Forlimpopoli, era il cuoco di Artusi ma anche un valido aiuto nelle spedizioni e nell’amministrazione delle vendite della Scienza in cucina. Le due cartoline qui riprodotte sono particolarmente esemplificative del legame di amicizia, di affetto, ma anche inerente agli affari, che legava i due domestici ad Artusi.

a tutto compreso il teatro ieri sera. Il più che mi sia piaciuto è stato la conferenza di Pansacchi, quante volte mi auguravo ci fosse Lei pure. Tranne questi due giorni non mi sono mai mossa da casa mia, e sempre assediata da visite, che ne ero davvero seccata. Mi scriva e mi dia sue notizie. La saluto Marietta. Di tenore diverso la lettera scritta da Francesco Ruffilli ad Artusi (in villeggiatura ai Bagni di Montecatini) da Firenze il 4 luglio 1906, che ci introduce perfettamente nel meccanismo di promozione e diffusione della Scienza in cucina: Pregiatissimo Sig.r Padrone, Sono per dirle che ora ho ricevuto una cartolina vaglia di lire venti di Achille […]acutte cartolaro libraio della marina, per dieci copie del suo libro, franco di porto, di Spezia. Io non sapendo se lei le può dare, ho pensato di avvisarla, e aspetto una sua risposta. Qui in casa sua nulla di nuovo, ho già fatto della conserva di albicocche. È giunto un giornale, La Domenica del Cor[r]iere di Milano. Ho guardato ed ho visto degli elogi del suo libro, altro non mi resta che salutarlo distintamente come pure Marietta e tutta la famiglia di Baldassarre. Mi dico suo servo Francesco Ruffilli.

Così scriveva Marietta da Firenze l’8 luglio 1901 ad Artusi che si trovava a Porretta Terme: Pregiatissimo Sig.re Artusi, Dirrà che son morta, ma invece son viva e sono giunta qui questa mattina sana e salva. E Lei come sta, come se la passa, io sarei ritornata qui sabato, ma giunta ai Bagni, non mi vollero far partire perché assistessi alla grande festa per Verdi; e per verità mi sono divertita, perché ho potuto assistere 27


Lettera di Pellegrino Artusi a Paolo Mantegazza del 25 aprile 1890 (Archivio Storico del Museo di antropologia ed etnologia di Firenze)

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Artusi fu legato da sincera amicizia e ammirazione all’illustre medico e antropologo darwiniano Paolo Mantegazza (1831-1910), le cui ricerche contribuirono all’affermazione dell’antropologia intesa come «storia naturale dell’uomo». Titolare della prima cattedra di Antropologia in Italia, istituita nell’Istituto di Studi Superiori di Firenze, Mantegazza fondò il Museo di Antropologia e Etnologia di Firenze e la «Società Italiana di Antropologia e Etnologia»; fra il 1870 e il 1890 compì varie spedizioni scientifiche in regioni allora poco conosciute. Non si deve dimenticare quanto la Scienza in cucina debba agli studi scientifici positivistici, dagli scritti dello stesso Mantegazza a Il gatto di Luciano Rajberti del 1845, che ha per sottotitolo Cenni fisiologici e Morali, alla Fisiologia del digiuno del naturalista Luigi Luciani del 1889. Ma sono gli studi di Mantegazza a interessare particolarmente Artusi: dalla Fisiologia del piacere del 1854, al romanzo Un giorno a Madera - Una pagina dell’igiene dell’amore del 1876. Nel 1886 Mantegazza aveva pubblicato da Barbèra L’arte di esser felici, e fra il 1892 e il 1894 avrebbe scritto per Treves di Milano L’arte di prender moglie e L’arte di prender marito. Immediatamente a ridosso della prima edizione della Scienza, un volume dell’Almanacco igienico popolare è dedicato da Mantegazza all’Arte di conservare gli alimenti e le bevande (1887). E non è un caso se nel 1891 la Scienza in cucina esce con il patrocinio di Paolo Mantegazza, che viene anche ricordato così nella prefazione (pp. 7-8): «Finalmente dopo tante bastonature, sorse spontaneamente un uomo di genio a perorar la mia causa. Il professor Paolo Mantegazza, con quell’intuito pronto e sicuro che lo distingue, conobbe subito che quel mio lavoro qualche merito lo aveva, potendo esser utile alle famiglie; e, rallegrandosi meco, disse: “Col darci questo libro

voi avete fatto un’opera buona e perciò vi auguro cento edizioni”». Oltre Paolo, anche sua moglie, la contessa Maria Fantoni Mantegazza, apprezzava le qualità di Artusi e ammirava le sue squisite ricette: lo mostrano le varie lettere speditegli fra cui quella del 14 novembre 1897, pubblicata nell’introduzione alla Scienza (quarta edizione, 1899), dove la gentildonna raccontava di aver preparato la «gelatina di cotogne» alla maniera d’Artusi per inviarla al figliastro a Buenos Aires; d’altronde, concludeva la signora, «lei scrive e descrive così chiaramente che il mettere in esecuzione le sue ricette è un vero piacere e io ne provo soddisfazione». Proponiamo qui una lettera scritta da Artusi all’amico Paolo Mantegazza il 25 aprile 1890, con la quale rifiuta, con dispiacere e con tono di profondo rispetto, un incarico propostogli all’interno della «Società Italiana di Antropologia e Etnologia»: Di Casa 25 Aprile 1890 Stimatis[sim]o Sig. Professore, Ancora in letto! Me ne rincresce davvero poiché la ritenevo già ristabilita da un pezzo. Mi creda signor Professore che fo uno sforzo incredibile a ricusare l’onore che ella vorrebbe farmi richiedendo il dovere che io mi rendessi grato sì a lei che alla nostra Società; ma sento che quell’ufficio mi sarebbe di grave peso perché ho perduto la lucidità e franchezza di mente che richiedono simili incarichi sebbene quello propostomi non sia di grave impegno. La prego quindi scusarmi ed augurandomi altra occasione per mostrarmi buono a qualcosa me le professo Dev[otissi]mo Pell[egrin]o Artusi.

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La grande fortuna della Scienza in cucina creò un rapporto privilegiato fra Artusi e le sue lettrici. Lo dimostrano le tante lettere che il gentiluomo riceveva e che sono conservate presso l’Archivio Storico del Comune di Forlimpopoli. Si va dalla richiesta di consigli per la preparazione di una pietanza all’offerta del testo di una ricetta. La signora Rosalia che scrive da Siena all’inizio del Novecento, nella lettera qui raffigurata, chiede inizialmente la ricetta di quei «deliziosi datteri ripieni di quella robina verde, una specie di marzapane» insistendo, qualora ne venisse in possesso, sui consigli per la cottura: «Le raccomando dirmi esattamente la cottura (suppongo ce ne voglia una per il ripieno e un’altra per la caramella). Confesso che casco sempre alla cottura». Ma la signora Rosalia sente anche il dovere di contraccambiare alla gentilezza che Artusi le farà spedendole l’ambita ricetta; per questo lo informa, nell’ultima parte della sua lettera, circa «una ricetta per i ricciarelli che non ho ancora provata. Se mi riescono bene, se Lei la gradisce gliela mando con piacere». Infine la signora Rosalia non può esimersi da un consiglio importante: «E in un’altra edizione del Suo libro prezioso ammetterebbe il trita-carne, mio valido ajuto per tutti gli sformati battuti e passati?». E in effetti il tritacarne fu ammesso nella Scienza, a cominciare dall’edizione undicesima, del 1907 (nella Spiegazione di voci iniziale Artusi scrive: «Ho adottato anch’io, nella mia cucina, questo strumento che risparmia la fatica di tritare col coltello e pestar nel mortaio la carne»). Le proposte e i consigli di Rosalia, insieme ai tanti altri contenuti nella corrispondenza dei lettori e delle lettrici di Artusi, testimoniano ampiamente 30

che la Scienza è un’ opera evolutiva e collettiva, sempre in progress, dalla prima edizione all’ultima, dalle iniziali 475 ricette alle 790 finali. La possibilità di un contatto diretto con l’autore conferì al libro un tratto notevole di compartecipazione e quasi di co-autorialità, realizzando modalità di condivisione certamente non ovvie e non scontate.


Lettera di alcune lettrici a Pellegrino Artusi (Archivio Storico del Comune di Forlimpopoli)

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Rina Simonetta Parliamo di Pellegrino Artusi trascrizione di Giovanna Frosini

La Cucina Italiana. Giornale di Gastronomia per le famiglie e per i buongustai Milano, Società Anonima Notari (Istituto Editoriale Italiano) n. 2 anno IV – 15 febbraio 1932, p. 1

Una figura alta, slanciata; figura giovanile nonostante i capelli bianchi; figura distinta e signorile, mi accoglie nel salotto, con un sorriso. L’intima stanza dove la signora mi riceve è tutta una festa di sole, di fiori, di piante verdi, di luce. – Si accomodi signora, e mi permetta di offrirle un caffè. Con una tazza davanti, stando sedute attorno al tavolo, si discorre meglio. – È vero. Ciò dà subito un senso di intima affettuosità, anche a due persone che si conoscono poco... – Ma che hanno subito simpatizzato fra loro. Probabilmente perchè in quest’epoca di finzioni, di frivolità, di leggerezze, le loro anime si sono incontrate immediatamente. E lei, nonostante la sua giovinezza e il suo viso di bambina, ha la sentimentalità del nostro ottocento! – Cara signora, com’è buona, e so io sola, quanto è stata buona con me. Ora poi sono venuta per chiederle un altro favore! – Dica pure... – Vorrei parlare con Lei un poco della vita di Pellegrino Artusi. Di questo Dante della cucina, di quest’uomo di cui tanto si parla sempre. C’è chi dice che fosse un cuoco, chi sostiene trattarsi di un gran signore e chi invece sostiene trattarsi di uno scrittore di professione. Un letterato lo era certamente perchè il suo libro è quanto di più perfetto, più utile e divertente si possa trovare in tal materia. Era Fiorentino o Bolognese? Le due città se lo disputano... insomma di lui si sono dette tante cose, ma realmente nessuno ne sa la vera storia. – L’accontenterò, signora, sebbene io sia sempre restìa a parlare del signor Artusi. Perchè egli era tanto modesto, tanto semplice che voleva rimanere nell’ombra. – E invece il suo libro ne ha fatto l’uomo più conosciuto che esista... 33


– Già. Ma egli non l’aveva scritto a questo scopo. Egli scriveva soltanto perchè ciò gli piaceva, perchè la cucina lo appassionava e per avere un’occupazione che gli fosse di distrazione... – Come mai gli venne quest’idea? – L’Artusi nacque in un piccolo paese della Romagna. La sua famiglia era agiata, il padre commerciava in seta, il figliolo studiava e le sorelle accudivano alla casa. – Aveva delle sorelle? – Sì, due. Un giorno una terribile tragedia si abbattè su di lui. Era l’epoca in cui il «Passatore» faceva strage in quei luoghi. Una notte penetrato in casa dell’Artusi con i suoi uomini ne fece scempio. Pellegrino che era giovanissimo cercò di difendere la sua casa, i suoi cari. Ma non gli fu possibile. Accerchiato d’uomini, dopo una forte lotta fu sopraffatto da quei banditi. Ad un tratto, mentre egli veniva trattenuto a viva forza, alcuni briganti si impadronirono di una delle sorelle e dinnanzi ai suoi stessi occhi, tenendolo legato... – Dio mio! che orrore! – La povera fanciulla fuggì. Fu ritrovata l’indomani, mentre camminava sui tetti delle case. Era impazzita. – È una tragedia terribile! – Artusi non volle più rimanere nel paese natìo. Partì. Partì per Firenze dove cercò un impiego. Assillato dall’orrendo ricordo di quella notte, cercava di distrarsi scrivendo. Spesso, perfino negli ultimi anni, era preso da un tremito convulso, che lo scuoteva sempre, ogni qualvolta rammentava la terribile notte. – Quanto deve aver sofferto! – Spaventosamente. Quando io lo conobbi, prese a volermi un gran bene. Mi trattava come una figlia. Mi teneva al corrente di tutte le sue cose, ed io, umile donnina, lo aiutavo come e più che potevo. 34

– E il libro? – Le ho già detto che l’unico suo divertimento era lo scrivere. Il libro lo cominciò quasi per ischerzo. Poi vide che gli veniva bene e vi si appassionò. A poco a poco venne ad avere una corrispondenza con persone d’ogni ceto e d’ogni parte d’Italia. Scriveva sempre. Si alzava la mattina alle otto e si metteva a tavolino fino all’ora del pranzo. Poi riprendeva a scrivere per qualche ora. Ed era un continuo alternarsi fra lo studio e la cucina, la penna e le pentole. Si provavano le ricette, tutte, una ad una. Accanto a lui instancabile era sempre il suo cuoco che gli voleva tanto bene. Io pure non lo lasciavo mai. Altri compagni fedeli gli erano i due gatti ai quali dedicò la prima edizione del suo libro. – I suoi gatti? – Sì. Nella prima edizione c’è una prefazione, una dedica, per questi suoi fedeli amici, che sempre vicini a lui in cucina gli tenevano compagnia e guardavano estatici il gioco delle sue bilance. – Provava tutte le ricette? – Tutte! E talvolta riuscivano, talvolta no. Per il cappone in vescica, per esempio, sciupò 8 capponi! Finchè un piatto non risultava quale egli lo voleva, lo manipolava, provava riprovava, senza mai rinunziare. Ed alla fine ne conseguiva il premio desiderato: la nuova ricetta. – Erano prove costose! – Sì molto. Ma le soddisfazioni che provava lo ricompensavano. La cucina era per lui un campo d’azione. Un luogo di studio. Io ho ancora e tengo come fossero gioielli le sue bilance, i suoi arnesi, tutto quanto gli era necessario ed egli adoperava sempre. Mi pare ancora di vederlo! – A parte la cucina e lo scrivere, che vita faceva? – Leggeva molto... Aveva pochi amici, ma buoni. Il commendatore Bemporad è stato uno dei mi-


gliori. Accettava qualche invito a pranzo, ma assai di rado. Era un terribile giudice delle pietanze sapeva al solo assaggio riconoscere gli ingredienti e trovare qualsiasi difetto, immediatamente. A parte la cucina gli piaceva leggere. Invecchiato però, gli si era molto indebolita la vista e per non farlo stancare ero io che leggevo per lui. – Non le era fastidioso leggere ad alta voce? – No. Per lui nulla poteva essermi di peso. E poi lèggere mi piaceva. Ma mi ci sono logorata gli occhi. Quando morì stavamo leggendo l’Eneide... – Libri classici dunque? – Sì. Ma anche altri. Romanzi no. Non gli piacevano. Era un uomo coltissimo, ed amava istruire anche me. Ed io gli ero tanto riconoscente per questo. – Ed il suo cuoco? – Lo nominò suo erede come me. Ma ora è morto. Il signor Artusi lasciò un gran patrimonio che divise tutto in opere di beneficenza. Il libro invece lo lasciò a noi che lo avevamo assistito ed aiutato, ed ai quali voleva tanto bene... La signora Sabatini si interrompe. La sua voce trema un poco. Ho abusato della sua bontà. Tutti i ricordi più cari le tornano alla memoria e le danno una emozione che può appena contenere. È tanto cara, ha un tale dolce aspetto di nonna buona ch’io a stento trattengo lo slancio di gettarle le braccia al collo. Il sole che sta per tramontare in questo stupendo inverno fiorentino, dora le cime delle piante nei giardini, bacia le erbe odorose che crescono copiosissime sul grazioso terrazzo, si posa come una striscia d’oro su un tavolo d’ebano intarsiato d’avorio. È ora di andarmene. Mentre prendo commiato, promettendo di tornare, sento una punta di nostalgia per quella casa così serena, così buona, così raccolta, nella quale abita una donna dalla voce soave e riposante. Con tristezza discendo le scale di

quell’intimo luogo che è stato come un faro luminoso di guida e d’aiuto per tante donnine inesperte di tutto il nostro paese... E penso a chi le guida oggi... cui spedisco queste note affrettate. Rina Simonetta

Una tipica ricetta dell’Artusi 35


Accademia della Crusca

Comune di Forlimpopoli

Università per Stranieri di Siena

il tempo e le opere Orario lunedì-venerdì 10.30-12.30 e 15.30-17.30 sabato 10-12.30 Ingresso libero Info: tel. 055.24919257-322 manifestazioni.culturali@bncf.firenze.sbn.it


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