La Nazione 150 anni PONTEDERA

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150 ANNI di STORIA ATTRAVERSO LE PAGINE DEL NOSTRO QUOTIDIANO

SUPPLEMENTO AL NUMERO ODIERNO A CURA DI

Pontedera


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Pontedera Risorgimentale accolse dall’inizio La Nazione Per annettere la Lombardia Quaranta milioni di fiorini da pagare all’Austria Giorgio Batini si racconta “La mia cronaca vissuta e poi scritta” Giorgio Batini si racconta I grandi nomi del giornalismo Compagni di viaggio Giorgio Batini si racconta Le notti in via Ricasoli Un’intervista a Gastone De Anna “Ecco come feci nascere le edizioni provinciali” Un ponte che si fece città finché non arrivò la Piaggio 1902: è il primo incidente d’auto (e per poco non finisce in linciaggio) Pontedera 1973 La Vespa conquista il mondo e nasce la prima redazione Quindici giornalisti per quaranta anni I Pettinelli, una saga familiare da Fausto fino al giovane Orazio La saga dei Pettinelli Quando il Podestà evitò una strage Momenti di gloria nella boxe (ma anche nel canottaggio) La Nazione in difesa di Volterra una lotta che continua da decenni Santa Croce: la capitale del cuoio e delle pelli

Supplemento al numero odierno de LA NAZIONE a cura della SPE Direttore responsabile: Giuseppe Mascambruno

Vicedirettori: Mauro Avellini Piero Gherardeschi Antonio Lovascio (iniziative speciali)

PONTEDERA

150 anni di storia attraverso le pagine del nostro quotidiano.

Non perdere in edicola il terzo fascicolo regionale che ripercorre, attraverso le pagine de La Nazione, la storia fino ai nostri giorni e i 17 fascicoli locali con le cronache più significative delle città.

Direzione redazione e amministrazione: Via Paolieri, 3, V.le Giovine Italia, 17 (FI) Hanno collaborato: Mario Mannucci Mauro Bertini Fausto Pettinelli Giovanni Pinori

Progetto grafico: Marco Innocenti Luca Parenti Kidstudio Communications (FI) Stampa: Grafica Editoriale Printing (BO)

Pubblicità: Società Pubblicità Editoriale spa

DIREZIONE GENERALE: V.le Milanofiori Strada, 3 Palazzo B10 - 20094 Assago (MI)

Succursale di Firenze: V.le Giovine Italia, 17 - tel. 055-2499203


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PONTEDERA RISORGIMENTALE ACCOLSE DALL’INIZIO LA NAZIONE I suoi giovani avevano già partecipato alla battaglia di Curtatone e Montanara Così nacque a Firenze il quotidiano più antico d’Italia

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ontedera visse le passioni risorgimentali con l’identica partecipazione della vicina Pisa e della stessa Firenze. Per questo, quando La Nazione nacque nel 1859, c’erano già le premesse perché a Pontedera ci fossero lettori, e da Pontedera arrivassero, saltuariamente, le prime corrispondente per il foglio di Ricasoli.

Nel tondo in alto: Un gruppo di funai. Il loro era un lavoro molto duro perché si svolgeva in gran parte all’aria aperta e costringeva gli addetti ad una grande fatica fisica.

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ascere con l’Italia e accompagnarla, giorno dopo giorno, fino ad oggi. Questo era stato fin dal primo giorno, il destino del nostro quotidiano. Nessun altro giornale vanta questo primato. E infatti, se anche una testata, la Gazzetta di Parma, sicuramente è più antica di quasi 100 anni rispetto al giornale fiorentino, è anche vero che per lunghi periodi ebbe un altro nome e in ogni caso non svolse il ruolo fondamentale per l’Unità d’Italia che toccò al foglio di Bettino Ricasoli. Già, perché fu proprio lui, il “Savonarola del Risorgimento” come lo definiva Spadolini, a volere che il nostro giornale fosse in edicola alla notizia dell’armistizio di Villafranca. La storia è nota. L’11 luglio del 1859, nel pieno della seconda guerra di indipendenza all’improvviso francesi ed austriaci firmarono un armistizio ed i Savoia non ebbero la forza per opporsi. Lo fecero perché la Francia cominciava a temere un attacco da parte della Prussia. E dunque, ecco che al Piemonte veniva concessa quasi per intero la Lombardia, ma il Veneto il Trentino e la Dalmazia restavano agli austriaci, mentre in Toscana sarebbero tornati i Lorena, e in ogni caso si ipotizzava una federazione di stati del Centro Sud sotto la guida del Papa.

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lla notizia, Cavour, dopo uno scontro durissimo con Vittorio Emanuele si dimise. E l’unico a sostenere la causa dell’Italia da unire, restò in quelle ore il capo del governo toscano, Bettino Ricasoli appunto. Era la sera del 13 luglio e Ricasoli chiamò Puccioni, Fenzi e Cempini in

Palazzo Vecchio. Chiese loro di redigere e stampare il primo numero de La Nazione per l’indomani. I tre presero una carrozza e si fecero portare in via Faenza alla tipografia di Gaspero Barbera, un patriota piemontes, e qui cominciò un lavoro frenetico a redigere i testi ed a comporli. Alle cinque del mattino Ricasoli si presentò alla tipografia, lesse le bozze e dette il consenso. Alle dieci, tirate pare in tremila copie, due pagine in mezzo foglio, oggi diremmo formato tabloid, erano in vendita nel centro cittadino. Si trattava di un’edizione senza gerenza, senza il nome dello stampatore, senza il prezzo, senza pubblicità. Praticamente un numero zero. E così si andò avanti fino al 19 luglio quando, finalmente, La Nazione uscì nel suo primo numero ufficiale, con formato a tutto foglio, le indicazioni di legge, i prezzi per l’abbonamento e per la pubblicità. Così, dunque, nacque il nostro giornale. Che conobbe i giorni fausti dell’Italia Unita, e poi quelli pieni di problemi, non solo economici, in cui Firenze fu provvisoriamente capitale. Quindi la questione romana, la breccia di Porta Pia, e insomma tutte le fasi che con alterne vicende portarono alla nascita dello Stato italiano. Ma fu proprio con Roma Capitale che La Nazione dovette modificare il proprio tipo di impegno. Che fare? Seguire il governo e il mondo politico fino a Roma, là dove si sarebbero svolte da allora in poi tutte le vicende, e prese le decisioni relative all’Italia? Fu compiuta una scelta, che di certo non fu di tipo economico: restare. Restare a Firenze, accompagnare la vita della città dove era nata, e dedicare sempre di più le proprie attenzioni anche alla vita quotidiana, a quella che oggi diremmo la cronaca di ogni giorno. Insomma, da grande foglio risorgimentale carico di tensioni ideali, a

giornale come oggi lo intendiamo. Con rubriche dedicate alla moda, allo sport, con spazi dedicati alla vita musicale e teatrale. Rese possibile questa scelta di obiettivi un grande direttore, Celestino Bianchi che seppe conquistare il pubblico femminile, interessare anche la media e piccola borghesia mercantile, ma soprattutto richiamare intorno al foglio di Ricasoli le migliori firme italiane del momento. Che, del resto, già erano presenti su La Nazione, fin dai primissimi anni. E allora ecco il D’Azelio e il Tommaseo, ecco il Manzoni e il Settembrini, e poi il Collodi, il De Amicis, Alessandro Dumas, Capuana, il Carducci e in seguito anche il Pascoli, ed infinti altri. Grandi firme che sarebbero continuate durante il fascismo e nell’Italia repubblicana fino ad oggi.

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a Malaparte a Bilenchi, a Pratolini, ad Alberto Moravia, a Saviane, a Luzi. Dopo aver ospitato Papini, Prezzolini, Soffici, e gran parte dei letterati delle Giubbe Rosse nel periodo che precede e che segue la grande Guerra. Queste le scelte che permisero a La Nazione, pur dovendo affrontare momenti di crisi e di difficoltà, di battere ogni volta le testate concorrenti. Se esisteva una difficoltà di vendita o addirittura di immagine, sem-

pre riuscì a trovare le energie per risollevarsi. E ancora, quando si trattò di decidere se trasferirsi a Roma capitale, seguendo le sorti del governo e del Re, la spiegazione data ai lettori fu questa. “Noi non vogliamo che Roma attiri a sé tutta la forza intellettuale. Noi vogliamo che Napoli, Firenze, Bologna, Venezia, Milano, Torino, serbino la loro influenza legittima, portino il peso nella bilancia delle sorti politiche nazionali. Ogni regione ha elementi originali da custodire e nello stesso tempo è sentinella dell’Unità inattaccabile.”

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na prosa intelligente, modernissima, attuale ancor oggi, 140 anni dopo. Un atteggiamento che La Nazione conservò anche in epoche ben diverse. Così, durante il fascismo, pur costretta come tutte le testate a pubblicare le veline del minculpop, non per questo La Nazione si allineò mai totalmente al regime.

Nel tondo in basso: l’uscita delle operaie dallo stabilimento Cucirini Fratelli Ricci, una delle più grandi manifatture toscane con centinaia di donne al lavoro.


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Per annettere la Lombardia

Quaranta milioni di fiorini da pagare all’Austria Gli aspetti economici della pace che seguì a Villafranca Il primo supplemento nella storia de La Nazione

Il 22 ottobre del 1859 i lettori de La Nazione per la prima volta ricevono in omaggio un supplemento di particolare valore storico.

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cco il primo supplemento pubblicato a corredo de La Nazione. Fu diffuso il 22 ottobre 1859, ed andò a ruba fra i lettori. Si tratta di un dispaccio dell’Agenzia Stefani composto a tutta pagina arrivato da Parigi la sera del 21 ottobre, e contiene il trattato di pace tra Francia ed Austria. È dunque la conseguenza dell’armistizio di Villafranca, del quale riprende in gran parte le decisioni, e segna la fine della seconda guerra di Indipendenza. Colpisce, leggendolo, l’aspetto economico che solitamente viene trascurato nei libri di storia. Eppure, a guardar bene è forse la parte più rilevante della pace. Al Piemonte infatti, per avere la Lombardia, in qualche modo conquistata sul campo di battaglia, occorre versare una cifra considerevole oltre a farsi carico dei tre quinti dei debiti della banca del Lombardo Veneto. Ora, se si pensa che il Veneto restava all’Austria, appare chiaro che la gran parte dei debiti dell’Istituto finanziario

finisce proprio a carico dei Savoia. E allora, il sangue versato a Solferino dalle armate vittoriose dei patrioti? L’altro aspetto riguarda il timore che l’Italia Unita voglia in qualche modo rifarsi delle spese a scapito degli “stabilimenti religiosi” e in genere della Chiesa. Cosa che poi avvenne in qualche modo, ma che austriaci e francesi volevano evitare ad ogni costo. Così dettano una serie di regole per evitare che in Lombardia, il nuovo governo vada a far cassa confiscando le confraternite religiose. Altro aspetto, in qualche modo collegato, il ruolo che dovrà avere il Papa in una possibile confederazione di stati italiani.

IL TRATTATO DI PACE Parigi 21 ottobre sera – I fogli francesi e inglesi riproducono un dispaccio da Zurigo contenente i particolari del trattato Franco – Austriaco. L’Austria conserverà Peschiera e Mantova. Il Piemonte pagherà le pensioni accordate precedentemente dal Governo lombardo. Pagherà all’Austria 40 milioni di fiorini, assumerà tre quinti del debito del Monte Lombardo Veneto: totale del debito assunto dalla Sardegna 250 milioni di franchi. Desiderando la tranquillità della Chiesa e volendo assicurare il potere del Papa, convinte che questo oggetto potrà essere compiutamente ottenuto soltanto da un sistema che risponda ai bisogni delle popolazioni ed alle riforme di

cui il Papa già conobbe la necessità, le due parti contraenti riuniranno i loro sforzi per ottenere che il Papa faccia delle riforme nell’amministrazione dei suoi stati. I limiti dei territori degli stati indipendenti italiani che non parteciparono alla guerra non potranno essere mutati che dietro il consenso delle potenze che concorsero a formarli, garantendo la loro esistenza: i diritti dei sovrani di Toscana, Parma e Modena sono espressamente riservati alle potenze contraenti. I due imperatori daranno tutto il loro appoggio alla formazione di una Confederazione degli Stati Italiani, collo scopo di conservare all’Italia l’indipendenza e l’integrità, assicurare il benessere morale

e materiale del Paese, vegliare alla sua difesa col mezzo di un esercito federale. La Venezia resta sotto lo scettro dell’Imperatore d’Austria, farà parte della Confederazione, parteciperà ai diritti ed agli obblighi del trattato federale, quale sarà stabilito fra gli stati italiani. Un articolo apposito regola l’amnistia. Le ratifiche saranno scambiate entro 15 giorni. L’Austria restituirà i depositi in valore affidati alla Casse pubbliche ai privati. Gli stabilimenti religiosi di Lombardia potranno disporre liberamente dei loro beni di qualsiasi natura, se il possesso di questi beni fosse incompatibile colle le leggi del nuovo governo.


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Giorgio Batini si racconta

“LA MIA CRONACA VISSUTA E POI SCRITTA” Ho sempre voluto partecipare agli eventi, anziché limitarmi a raccontarli. L’alluvione, la misteriosa “Bambagia” degli Ufo, il ritorno dei Pollaiolo agli Uffizi. Così feci per il Vajont Un grande giornale dalla centenaria tradizione d’indipendenza

dal volume “la mia vita” di Giorgio Batini

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Giorgio Batini (a destra nella foto) alla stazione di Santa Maria Novella di Firenze con il professor Ugo Procaci (che tiene, felice la valigetta con i due Pollaiolo recuperati da Siviero) e il vicesindaco Enzo Enriques Agnoletti.

on sono stato un gran giornalista (pochi, del resto, sono quelli che riescono a vivere con l’autoelogio incorporato), però me la sento di dichiarare che sono stato un giornalista particolare, forse un esemplare in estinzione nell’odierna “fauna” della carta stampata, cioè un personaggio che viveva la vita piuttosto che limitarsi a raccontarla. Stiamo parlando, grosso modo, dei lontani anni CinquantaSessanta, quando io mi sentivo appassionatamente cronista fiorentino, non sognavo di andare alle Galapagos, ma correvo le mie avventure in via dell’Agnolo o in via del Drago d’Oro, non mi imbarcavo sulla bananiera diretta verso porti esotici, ma inforcavo la bicicletta, una scarcassata bicicletta che aveva ancora avvolto alla canna nera del telaio un argenteo bollo da dieci lire. E come fanno i grandi inviati di ritorno dall’Orinoco, anch’io scrissi un libro di ritorno dal viuzzo di Monteripaldi, uno dei miei libri ormai introvabili – “Uomini per Madama” – e se Beppe Pegolotti parlava inglese e il vecchio Renzo Martinelli anche il bantù, io parlavo correttamente in gergo e invece di pistola dicevo la “ribattina”, la “rabbiosa”, la “baiaffa”, invece di polizia la “giusta”, la “madama”, e invece di prigione la “buiosa”. Sapevo meglio dello Smilzo come si fa lo “sfilo”, magari il “tappeto” sotto il letto della Maresca per prendere il portafogli al cliente indaffarato, quelli della banda del buco erano come di famiglia, sapevo dei furti di Veleno quasi in tempo reale, andavo

e venivo in casa di Palle Secche (una porta d’entrata, tre possibili vie d’uscita), a volte arrivavo nel vicolo dove c’era il morto prima del brigadiere, e un giorno trovai nei boschi e caricai in macchina un pezzo d’uomo che aveva fatto a fette la moglie con la scure, lo tranquillizzai (“sono cose che succedono in tutte le famiglie”) e lo portai fino alla prima stazione dei Carabinieri; in altra occasione – per avere la foto di una vittima che la “giusta” aveva già portato via – mi feci fotografare sdraiato in terra con sopra un lenzuolo, dal quale però spuntavano le mie scarpe, mentre nelle foto dei giornali concorrenti la vittima era scalza. Indagavo come uno della “mobile” (proprio come in certi libri di detectives americani che però non leggevo), riferivo ai lettori della Nazione anche i risultati delle mie personali indagini, e poteva succedere che – domandando in questura cosa avesse confessato l’autore di un delitto – mi si rispondesse “quello che lei ha scritto ieri sul giornale...”. “Invece di scrivere la cronaca di Firenze – mi diceva un direttore (Alfio Russo), tra il corrucciato e il compiaciuto – tu fai la cronaca, insomma partecipi…”. Era vero, stavo più in giro che in ufficio, e questo accadde ancora di più quando il proprietario del giornale mi comprò la prima “Vespa”, e poi una moto Gilera, il che fece scalpore tra i colleghi, tutti ciclisti.


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Giorgio Batini si racconta

I grandi nomi del giornalismo E ro molto amico dei “grandi” come Indro e Curzio, e “amico di penna” di Prezzolini, che non ho mai visto. Lui, al tempo della “Voce”, frequentava a Firenze, alla Consuma e alla Verna, mia madre che era amica della prima moglie Dolores. Come si sa se ne andò in America per poi stabilirsi in vecchiaia a Lugano, senza più tornare a Firenze. Non voglio esagerare, ma in certi momenti mi sembrava di stare a Firenze per conto di Prezzolini che mi scriveva per sapere questo e quello, per verificare cose del lontano passato. Ricordo lettere di una scrittura minuta, tutta gettata di traverso, in diagonale sulla carta da lettere. Lusingato, consideravo ogni lettera un onore, un premio. Ero a Londra quando lessi sul Corriere della scomparsa di Enzo Grazzini, nota firma del quotidiano milanese,

che conosciutomi da ragazzo aveva previsto il mio futuro professionale. In età avanzata amava molto le storie di cani, gatti, animali, e quando veniva a Firenze mi chiedeva se per caso ne avessi una, e così gli raccontavo di quel cane lupo del cantiere comunale delle Cascine che era stato incaricato di catturare una volpe fuggita dal piccolo Zoo e che invece ci giocava tutte le notti, o di una scimmia che girava libera per San Frediano, che rubava il cibo dalle cucine, che scandalizzava le suore di un convento, che finita allo zoo muoveva una zampa con estrema rapidità tra le sbarre della gabbia e rubava gli occhiali ai visitatori. Rubò anche quelli di un prefetto. La storia che più piacque a Grazzini fu quella di un cane che tutti i giorni saliva su un treno che fermava a Campiglia Marittima, mangiava al vagone ristorante, scendeva a Livorno, prendeva un altro treno e tornava a Campiglia.

Nelle foto a sinistra: Indro Montanelli con la sua inseparabile “lettera 22” sulle ginocchia e Curzio Malaparte che fu inviato speciale de La Nazione negli anni Cinquanta.

Un momento della festa per il centenario de La Nazione. Da sinistra: Silvano Galli, Laura Griffo, Giorgio Batini, il direttore Alfio Russo, Omero Zaccherini direttore di tipografia e Paolo Bugialli.

Ringrazio il destino di avermi fatto appartenere alla Nazione, un grande giornale di centenaria tradizione di libertà e d’indipendenza, che non mi ha mai imposto alcunché, permettendomi di essere, e di restare sempre, quello che intendevo essere. E probabilmente, non avrei avuto altrove l’onore di lavorare con compagni di viaggio come Micheli, Mattei, Yambo, Taddei, Vitali, Pegolotti, Martinelli, Gigli, Poesio, De Anna, Goggioli, Paloscia, Passetti, Magi, Pizzinelli, Frosali, Mazzuoli, Della Santa, Ragionieri, Forti, Marcolin, Scelba, Silvano Galli, Bertuccelli, Apollonio, Basevi, De Carli, Chirici, Gozzini, Bucciolini, Cartoni e tanti altri, tutti laureati in coerenza ed equilibrio, in fermezza, dignità, prestigio, tutti modelli del vivere, del partecipare, dello scrivere. Tra i miei più commossi ricordi c’è quello di un giovane, intraprendente guardiacaccia maremmano che sul comodino della sua camera di Capalbio teneva a portata di mano i racconti venatori di Aldighiero, mio padre, gran cacciatore al cospetto di Dio, e poi si guadagnò i galloni di giornalista, divenne mio fraterno amico, dalle frequenti confidenze, quasi un figlioccio; e una volta mi invitò a pranzo a Macchiascandona, e vuotò tutto il sacco dicendo che lui non era andato più lontano, con la barca, delle isole dell’Arcipelago, ma questa volta doveva affrontare l’Atlantico per vedere con i propri occhi se quello che raccontava il coraggioso navigatore solitario Fogar e che lui aveva riferito, rispondesse alla verità. Una verifica che lui doveva ai lettori, a se stesso. E voler conoscere quella verità gli costò - povero Mauro Mancini - la vita, gli affetti più cari, quel suo sconfinato amore per il mare.

Archivio Giorgio Batini

Compagni di viaggio


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Giorgio Batini si racconta

Le notti in via Ricasoli

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a sempre, quel che è fatto è reso. E siccome la cronaca prendeva viva e diretta parte nella vita cittadina, la città considerava il giornale un luogo cittadino, di visite e d’incontri, e via Ricasoli, specialmente di notte, era frequentatissima: arrivava l’ambasciatore, il ministro, l’onorevole, il prefetto, il generale, che volevano parlare con il direttore, qualche pittore che andava da Paloscia a dirgli di una nuova mostra, giovanottoni della palla a nuoto in visita da Goggioli, campioni delle due ruote da Liverani, magari un capocomico da Bucciolini, spesso Mike Bongiorno che andava a chiacchierare con Paolo Bugialli e Laura Griffo.

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l proprietario di una riserva di caccia che veniva ad offrirmi un gatto selvatico per lo Zoo delle Cascine (era finito in una trappola, mangiava due piccioni al giorno: poi morì e fu imbalsamato alla Specola) incontrava per le scale Cinquino che veniva a trovarmi appena uscito dal Mastio di Volterra, un consigliere comunale che voleva una campagna contro

i rumori, un politologo che andava a discutere da Taddei, un vignettista di “Brivido” da Cartoni. Era un via vai.

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olti i nobili, perché una parte dell’aristocrazia fiorentina aveva il sonno difficile, ed uno dei passatempi notturni era quello di andare al giornale per suggerimenti e proteste. Una marchesa veniva spesso a ripetere che in piazza Indipendenza c’erano due prostitute, e un gran giro di macchine e se lei scendeva di sera nella piazza per la passeggiata diuretica del pechinese subito le offrivano quaranta lire.

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tarda notte un punto di ritrovo dell’aristocrazia era anche la stazione dove al bar ristorante facevano i tortellini più buoni della città, e a quell’ora tarda (quando c’era la Mostra Antiquaria) arrivavano con il treno i mercanti d’arte del nord che dovevano allestire gli stand a Palazzo Strozzi, e anch’essi - sapendo dei tortellini - si fermavano alla Stazione per uno spuntino: io presentavo loro quella o quell’altra contessa,

che a volte divenivano loro clienti per un fiammingo o una specchiera (fu così che nel mondo degli antiquari - anche a Delft, e a Bruxelles mi chiamavano “Giorgio delle contesse”).

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n continuo via vai di amici, i più disparati: Gino Bechi, Roberto Guicciardini, Carla Fracci, Beppe Menegatti, Enzo Tortora, Amerigo Gomez, Pier Carlo Ruffilli, Giovanni Germani... Un mondo non facilmente immaginabile, al quale mancò un Fellini.

Nella foto in alto: è il dicembre del 1924, Egidio Favi è proprietario de La Nazione ormai da dieci anni e lo stabilimento tipografico si arrichisce di una stampatrice assolutamente invidiabile in quei giorni. Èuna rotativa “a quadrupla produzione” della Casa Koenig e Bauer. Nella foto in basso: i giornali escono già contati e piegati dalla rotativa di oggi.


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Un’intervista a Gastone De Anna

“ECCO COME FECI NASCERE LE EDIZIONI PROVINCIALI” Il “fuori sacco” e i megafoni che annunciavano il ritorno in edicola del nostro giornale nel dopoguerra. I “pionieri” di una grande avventura nel racconto di colui che seppe trovarli e organizzarli

le centomila copie. De Anna ha oggi novant’anni, non uno di meno. Ma anche una memoria di ferro e una lucidità invidiabile. È capace, perfino, di divertirsi a raccontare quegli anni. Ha conservato l’ironia, la capacità di narrare e fare sintesi, che ne fece un grande giornalista. Assieme a Giorgio Batini è l’ultimo di una grande generazione di colleghi, che insegnarono a tutti noi il mestiere. Ci riceve a casa sua, splendida vista su una delle più prestigiose piazze di Firenze. E dopo pochi minuti si ricrea l’atmosfera di un tempo.

Nella foto: la consegna dei giornali alle edicole con i furgoni del nostro giornale. Oltre alla prima consegna che avviene per lo più all’alba, i giornalai possono essere riforniti anche durante il giorno in base alle necessità.

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n principio c’erano dei corrispondenti, uno per ogni capoluogo di provincia. Erano personaggi di rilievo nelle proprie realtà, ma non per questo avevano molto a che fare con il giornalismo. Un nobiluomo legato alla causa risorgimentale, un professore di liceo, un sacerdote. A Perugia, ad esempio, quando ancora era sotto il papato, e dunque fra il 1860 e il 1870, un anonimo estensore inviava notizie, per lo più di politica, rischiando le persecuzioni e l’arresto. Fu tra gli anni Trenta e Quaranta del secolo scorso, che ogni capoluogo toscano ebbe il suo corrispondente. Le notizie, battute a macchina e

spedite con un fuori sacco (si trattava di un plico che viaggiava “fuori dal sacco postale” perché ad attenderlo e a ritirarlo alla stazione, dei treni o degli autobus, per abbreviare i tempi di consegna era un usciere de La Nazione) impiegavano per lo più una notte ad arrivare a Firenze. L’indomani venivano vagliate, qualche volta riscritte, titolate e impaginate nella redazione di via Ricasoli. E per lo più ogni provincia aveva almeno un titolo al giorno, qualche volta mezza pagina. Non di più. Negli anni Quaranta la redazione delle province era formata da quattro redattori sotto la guida

Giuseppe Cartoni il cui figlio, Mario, sarebbe poi diventato un noto cronista giudiziario. Fra questi era Nicola Della Santa, almeno finché non fu richiamato sotto le armi. Fu allora che entrò in scena un personaggio destinato a organizzare le redazioni provinciali così come sono ancor oggi, sia pure con ben altra consistenza di pagine e di giornalisti. Si trattava di Gastone De Anna, figura mitica del giornale, al quale si deve – assieme a Giordano Goggioli, ad Alberto Marcolin, e ai grandi direttori Russo e Mattei – il rilancio del dopoguerra che permise a La Nazione di raggiungere negli anni Cinquanta

Come si diventava giornalisti ai suoi tempi? “Per quanto mi riguarda fu davvero un caso. Sono nato nel 1919, mio padre comandante di marina era morto nel ’20 a Trieste, con D’Annunzio, quindi ero orfano di guerra. Nel ’40 trovai un mio amico di scuola che voleva offrirmi da bere perché era entrato come correttore di bozze a La Nazione. Era felice, volevo diventarlo anch’io. Così, ci provai. Avevo buoni studi e come orfano di guerra anche qualche vantaggio. Mi chiamarono in prova perché Nicola Della Santa, che dopo una lunga prigionia sarebbe tornato a collaborare nel mio stesso ufficio, era stato richiamato in guerra”. Con chi ebbe il primo colloquio? “Con Micheli, un capo redattore leggendario che faceva tutto, conosceva tutto, anche il lavoro dei tipografi, e lo svolgeva a una velocità impressionante. Aveva un occhio di vetro, e noi dicevamo che l’unico lampo di umanità gli veniva proprio da quell’occhio”. Com’era il clima in redazione? “Scansonato, ironico, divertente. Ma lavoravamo tutta la notte senza pause. L’editore era Favi, l’amministratore Gazzo, era tutto un gioco di parole.”

L’ambiente del giornale nel primo dopoguerra era ironico, divertente scanzonato. Questo non impediva che cronisti e redattori lavorassero tutta la notte con grandissimo impegno. Impareggiabile capo redattore di quei giorni era Micheli.


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Gastone de Anna (al centro della foto, in ginocchio) tra i colleghi Rosario Poma e Paolo Marchi. Alle loro spalle circondano Wanda Lattes redattori e cronisti de La Nazione alla fine degli anni Sessanta.

Quanto rimase a La Nazione prima della guerra? “Pochissimo. Nel ’42 fui richiamato sotto le armi, poi fui fatto prigioniero. Fuggii, fui catturato e portato in Polonia, ci stetti due anni e infine mi liberarono gli americani mentre scappavo perché stavano arrivando i russi. Tornai a casa nel ’45, la feci tutta a piedi, o quasi, e trovai Firenze distrutta. Al posto de La Nazione c’erano tre giornali, La Nazione del popolo, il Nuovo Corriere e la Patria. Presi a collaborare col Nuovo Corriere, che era inizialmente il giornale degli alleati. Ma finalmente, nel ’47, a marzo, riprendemmo le pubblicazioni.” E lei? Favi mi considerava come un figlio. Mi disse: “Devi ricostruire la rete dei corrispondenti.” Mi dette un auto e un autista. Andavamo nelle varie province, e quando io ero sceso - prima no perché mi vergognavo - lui cominciava ad urlare in un megafono “La Nazione! Torna La Nazione!” Come organizzò il lavoro? “Dove era possibile contattavo i vecchi corrispondenti e riapri-

vo i vecchi locali. Altrimenti cercavo edifici e uomini nuovi. Nel ’48, quando Favi morì, tutte le redazioni dei capoluoghi di provincia erano riorganizzate.”

Qualche nome di allora, qualche collega? “Passaponti a Pisa, Chiantini a Siena, Coppini ad Arezzo e poi Dragoni e Piero Magi. A Spezia Reggio che poi passò il testimone al figlio, il conte Vitelleschi e poi Bassi a Perugia. E ancora Ciullini a Pistoia, Del Beccaro a Lucca, Valleroni e Pighini e Massa, Rossi a Grosseto. Mauro Mancini diresse la prima redazione di Prato. Poi divenne inviato speciale assieme a Piero Magi, e più tardi a Piero Paoli e Raffaele Giberti che ricordo con immenso affetto, veniva da Spezia. Intanto cresceva anche la redazione province a Firenze. Era tornato Della Santa, poi arrivarono Gianfranco Cicci, Nereo Liverani, Romolo De Martino, Enrico Mazzuoli, Aldo Satta, Giancarlo Domenichini, Tiberio Ottini, Giuseppe Mannelli, Luigi Scortegagna, Rossi, l’indimenticabile Piero Chirichigno, Franco Ignesti e una splendida segretaria, la signorina Giorni,

che divenne un po’ l’anima di quell’ufficio. Si andò avanti così sino alla fine degli anni Sessanta quando arrivarono giovani come Enrico Maria Pini, Riccardo Berti e Maurizio Naldini. Spero di non aver dimenticato nessuno.”

Come lavoravate? “Al contrario di oggi. Tutto il materiale viaggiava col fuori sacco, e in base alle ore in cui arrivava era controllato e titolato in redazione. Fu solo con il computer che le redazioni presero a organizzare le loro pagine direttamente. L’impaginazione poi partiva dalle nove di sera con la prima edizione che veniva chiamata “Nazionale”. Poi si passava alle province più lontane come Spezia, Perugia, Grosseto, e un po’ alla volta si arrivava a impaginare Prato. Quindi, alle tre di notte veniva preparata l’ultima edizione, quella che i fiorentini trovavano in edicola al mattino. Intanto i primi corrispondenti erano diventati giornalisti professionisti, accanto a loro erano vari collaboratori, poi assunti come giornalisti anche loro, mentre la rete si infittiva fino a raggiun-

gere anche i paesi più piccoli e sperduti.”

Quando fu concluso il lavoro di organizzazione? “Praticamente mai, continuava giorno dopo giorno. Però, alla fine degli anni sessanta La Nazione dominava totalmente il suo territorio di diffusione, e cominciavano anche le edizioni di Sarzana con Osvaldo Ruggeri e di Pontedera con Orazio Pettinelli. Era poi arrivato dal Nuovo Corriere un ottimo amministratore, Ivo Formigli, che già aveva collaborato con Favi negli anni Quaranta.”

Rimpianti? Lo rifarebbe quel lungo lavoro? “Subito. Credo di essere nato per svolgere quell’attività. Eravamo una grande squadra, un gruppo di amici che riuscivano a lavorar bene divertendosi. La redazione era sempre affollata di personaggi famosi che venivano a trovarci. Per segnalare notizie, per commentarle, semplicemente per scambiare due idee. Potevano essere attori o personaggi della televisione, atleti, uomini politici. Ci sentivamo forti, i lettori del resto, ci davano ragione.”


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Un ponte che si fece città finché non arrivò la Piaggio Dai giorni della malaria a quelli della industrializzazione

di Mario Mannucci

di Crespina, dove era sfollato durante il passaggio della guerra, nel 1944.

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a Pontedera del 1859, quando La Nazione nacque, era una città in piena espansione. Il suo principale problema storico, la pianura malarica che caratterizzava la paludosa confluenza dell’Era nell’Arno (di cui resta anche il moderno toponimo di Maltagliata) era superato, mentre la sua collocazione allo sbocco di tre valli (Valdera, Valdinievole e Valdarno) stava sempre più diventando l’arma vincente per attirare industrie, commerci e popolazione.

Nella foto: la nuova stazione ferroviaria in un’immagine “serena” del 1942, prima della tragedia dei bombardamenti.

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ià nel ‘500 i Medici avevano abbattuto le mura affinché Pontedera, l’antica Pons Herae, non rappresentasse più una minaccia dopo due secoli di guerre con Pisa, con l’Era a segnare il contrastato confine, provvedendo anche a rimpolpare la popolazione locale, ridotta ai minimi termini per le malattie e i continui assalti e assedi, con famiglie trasferite dalla Garfagnana e Lunigiana. Importante era stata anche la concessione, sempre medicea, di un grande mercato e una grande fiera, dedicata a San Luca.

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ino a gran parte del ‘700, Pontedera non ebbe una forte crescita e restò sotto il vicariato di Vicopisano, ma l’800 consacrò finalmente la futura città della Vespa come capoluogo naturale di un vasto circondario che arrivava ed arriva fino alle balze volterrane, alle colline livornesi, alla vetta del Serra, spingendosi anche nella piana pisana.

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el 1859, quando già Pontedera aveva dato suoi figli per l’indipendenza italiana, con vittime pontederesi nella battaglia di Curtatone e Montanara, la città aveva una attivissima stazione ferrovia, realizzata nel ‘48 insieme alla linea Firenze-Pisa. In quegli anni

stava anche costruendo il Duomo perché la “chiesa vecchia”, così ancora si chiama la chiesa del Crocifisso, non era più sufficiente per i circa 8000 abitanti. E dal periodo francese-napoleonico aveva ereditato un bel ponte di marmo bianco per traversare l’Era, tutt’altra cosa dei ponti precedenti.

ta tutti i giorni dalla fine degli anni ‘70, mentre per i cento anni precedenti erano stati i corrispondenti a inviare a Firenze le loro notizie e i loro resoconti sui fatti, belli e brutti, clamorosi o di quotidiana vita, di Pontedera, della Valdera, dei monti e delle colline pisane. E qui entrano in scena padre e figlio Pettinelli, Fausto e Orazio, le voci di Pontedera per La Nazione nell’arco, appunto, di quasi un secolo. I Pettinelli erano titolari di un grosso commercio di generi coloniali, rimasto in attività fino agli anni ‘60 del XX secolo. Importanti commercianti, dunque, ma, almeno due di loro, con la passione per il giornalismo.

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i dirà, ci si chiederà: meglio quei corrispondenti che si sentivano ed erano anche parte integrante della comunità locale o i giornalisti locali odierni che vedono presenze anche e spesso esterne? Giornalisti moderni che passano molto più tempo in redazione, lo vogliano o no, che non fra la gente? Ognuno può rispondersi secondo il suo pensiero. Quel che invece non si può cambiare radicalmente quanto è avvenuto e quanto sta avvenendo nel giornalismo contemporaneo. Anche locale.

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epoca dei corrispondenti terminò, a Pontedera, a metà degli anni ‘70 del ‘900, quando La Nazione, prima fra tutti i giornali, decise di aprire una redazione nella città resto i commercianti ormai famosa nel mondo per la chiederanno e otterranno Vespa. Un ufficio aperto al pubanche l’abbattimento della blico dove il giornalista andava roccaforte centrale per far posto a lavorare, facendo esattamente ai loro negozi, e presto (1864) il percorso contrario a quello arriveranno l’acquedotto e una fatto fino ad allora dai corrifonte per risolvere il problespondenti. Prima dell’apertura ma delle carenze idriche. Per della redazione - anche allora sul colpa delle quali, la fabbrica del piazzone ma nel bel palazzo con vetro si era dovuta trasferire a ingresso in via del Teatro - i corColle Valdelsa, mentre la metà n giornalismo che non li rispondenti cittadini tornavano del secolo censisce tre tintorie, escludeva (come succede tre conce di pelli, fabbriche di oggi) dal sentirsi, e di fatto infatti nelle loro abitazioni o nei loro luoghi di lavoro primario mattoni, pastifici. La seconda essere, esponenti attivi e signifiper scrivere gli articoli e manmetà dell’ 800 è indubbiamente cativi della borghesia cittadina, darli alla sede centrale. Tramite il periodo d’oro dal punto di vista personaggi impegnati anche in telegrammi, dettatura telefonica urbanistico e architettonico, campo politico-amministrativo, oppure tramite una busta fuoriterreno dove si incontrarono le religioso attraverso le Miserisacco che pur avendo il francopotenzialità economiche degli cordie o i comitati parrocchiani, imprenditori cittadini, fra i quali patriottico, e così via. Personaggi bollo veniva celermente (ma, i Crastan venuti dalla Svizzera, e immancabili a ogni celebrazione, ahimé, non sempre) portata a Firenze. Nel caso de La Nazione, la genialità dell’architetto Luigi inaugurazione o festa, appuntaBellincioni, autore di palazzi menti che ai cronisti di oggi, non dai capitreno o dagli autisti della Lazzi. La redazione aprì invece privati e opere pubbliche che di rado, suonano invece come ancora destano ammirazione. perdite di tempo. Ma ogni tempo il giornalismo professionale, sempre più tecnologizzato, in cui ha le sue caratteristiche. Tanto sempre più il cronista locale era l ‘900 sarà poi legato soper fare un esempio, troviamo anche un vero e proprio redatprattutto alla Piaggio, prima Fausto Pettinelli, il primo corriimpegnata nelle costruzioni spondente ufficiale de La Nazione tore del giornale. Forse meno areonautiche e poi con la Vespa a Pontedera, col quale il giornale poesia ma sicuramente maggiore incisività.Tutto non si può avere. e derivati. Ma qui si entra nella ha scavalcato il XIX secolo, nel cronaca ancora viva, quella che consiglio dirigente dell’ospedale la redazione pontederese de La Lotti, un altro degli “orgogli” ponNazione, con i suoi giornalisti, tederesi. Mentre suo figlio Orazio collaboratori e fotografi raccon- si ritrovò a “dover fare” il podestà

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Il secolo d’oro di Pontedera è stato sicuramente l’Ottocento ma già nel secolo precedente la città si era riempita di industrie manifatturiere tanto che è stata poi definita la “piccola Prato”.


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1902: è il primo incidente d’auto (e per poco non finisce in linciaggio) Un miliardario americano investe un bambino Accerchiato dalla folla estrae la pistola

Il ciclista morì per colpa di un cavallo

Nelle foto grande: Nell’epoca in cui le vignette sostituivano le fotografie il periodico francese Le Petit Jurnal raccontò così ai suoi lettori l’incidente sul Corso di Pontedera. Nella foto piccola: un barrocciaio in via della Stazione Vecchia.

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uando si dice la fortuna del cronista! Da La Nazione (1902), leggiamo: “Pontedera, 23 - Quest’oggi, il noto miliardario americano Vanderbit William, proprietario, di 27 anni, domiciliato a Nizza, investiva col proprio automobile, lanciato a grande velocità, sul Corso Vittorio Emanuele, il bambino Adolfo Battini, di cinque anni. In quel momento, la via era popolatissima. Mentre l’automobile si arrestava repentinamente, un grido di indignazione si levava dalla folla. L’americano discese come un fulmine cercando riparo nella nota tabaccheriacoloniali Pettinelli, mentre la sua signora, colta da indicibile orgasmo, fuggiva nel negozio del signore Mastalli.

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l popolo, visto che il Vanderbit aveva estratto la rivoltella, lo accerchiò nel negozio del Pettinelli, coprendolo di contumelie. Ne avvenne un corpo a corpo e infine alcuni popolani, unitamente al proprietario della tabaccheria, riuscirono a disarmarli. Sarebbero stati seri guai senza

l’intervento di autorevoli cittadini, tra i quali va notato il signor Settimo Pacchiani, il Commissario Regio, il segretario comunale avvocato Petessi, il tenente dei carabinieri signor Perfetti, che riuscirono con modi cortesi a riportare la calma, mente nel frattempo accorrevano guardie di città e carabinieri che infine riuscirono a diradare la folla. Il malcauto americano che era rimasto relegato nel retrobottega del signor Pettinelli, veniva dichiarato in arresto e ammanettato e condotto sotto buona scorta negli uffici della regia tenenza. Il bambino, per fortuna, ha riportato alcune contusioni alla testa che, per ora, non destano preoccupazioni”.

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ei giorni seguenti, altri servizi, non firmati, informavano che il bambino era fuori pericolo e che il Vanderbit era stato messo in libertà. E soprattutto che lo stesso Vanderbit aveva fatto donazioni alla famiglia del bambino e a varie associazioni umanitarie pontederesi, mentre ringraziava tramite il giornale tutti gli intervenuti in suo soccorso. A cominciare

dal Pettinelli, nel cui negozio, che oltre a generi coloniali vendeva anche tabacchi e armi, si era salvato dal linciaggio. Ebbene, il negoziante era nientemeno che di Fausto Pettinelli, corrisponde de La Nazione e di altri giornali, fra cui il Nuovo Corriere, che dunque si vide arrivare a domicilio, per così dire, il protagonista della vicenda.

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con lui, la vicenda stessa. Una fortuna “sfacciata” che consentì al corrispondente pontederese di fare un grande scoop in presa diretta, senza bisogno di chieder informazioni a nessuno. Ma la cosa non finì qui: l’investimento e il tentativo di linciaggio avvenuto a Pontedera, sull’odierno Corso Matteotti, la via-salotto della città, diventò un caso nazionale dopo che la Tribuna Illustrata ricostruì il fatto con un disegno in prima pagina, come era allora di moda anche se poi sarebbe stata la Domenica del Corriere, col suo disegnatore Achille Beltrame, a portare questa pratica di giornalismo figurato al suo massimo splendore.

Nella prima metà del secolo scorso, i morti per incidenti stradali erano ovviamente assai meno. Ma c’erano anche allora. E le cronache pontederesi de La Nazione - che non avevano una pagina propria ma spazio nelle cronache provinciali e regionali _ ne fanno testimonianza. Eccone un esempio del 1925. “Pettinelli ci telefona da Pontedera, giorno 30 (luglio) ore 12,30. In questo momento, presso Pontedera è avvenuta una gravissima disgrazia. Il signor Rinaldo Wess, di Giuseppe, di anni 31, da Firenze, ricco signore dimorante a Poggibonsi, mentre stava sopra una motocicletta è stato investito da un carro e gettato a terra. Il signor Wess è morto sul colpo. Vi manderò per la prossima edizione altri particolari”. Gli altri particolari sono infatti nel successivo articolo, dal quale si apprende che l’investimento avvenne in via Pisana, che fu causato dal cavallo imbizzarrito e che il barrocciaio si dette alla fuga. Un solo particolare differisce invece dalla prima notizia: nel secondo e più articolato “pezzo”, il motociclista viene invece definito ciclista. Un altro bruttissimo argomento era quello, anche allora, delle violenze sessuali. “In seguito alla denuncia pervenutagli - scriveva Fausto Pettinelli, sempre nel ‘25 - il nostro pretore avvocato Cherici, assistito dai carabinieri di Ponsacco, si recava nel borgo di Santo Pietro per procedere alle indagini sulla presunta violenza subita da... (seguono cognome e nome della ragazza) di 18 anni a opera di tal... (idem) di anni 22”. Si parla poi delle indagini, per arrivare alla conclusione “che la denuncia della giovane deve essere stata determinata da oltraggi veramente patiti lo si deduce dal fatto che il pretore ordinò subito l’arresto del..., che fu portato al carcere di Pontedera fra i commenti dei popolani”.


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Pontedera 1973

La Vespa conquista il mondo e nasce la prima redazione Lo stabilimento Piaggio dà lavoro a 10mila persone I primi giornalisti locali: Lando Ferretti, Lina Cioni e i Pettinelli.

di Mario Mannucci

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Ad oggi la Piaggio ha prodotto 150 modelli di Vespa. Una costante evoluzione che non ha mai tradito i concetti originali stabiliti dal’inventore: motore sempre coperto e ciclistica di concezione aeronautica.

a Nazione aveva già superato ampiamente i 100 anni di vita, e già tante volte si era occupata di Pontedera, quando decise di aprire una vera e “professionale” redazione nella città ormai della Vespa. Era il 1973. La Nazione, ormai espressione di un gruppo editoriale nazionale, fu il primo giornale a comprendere come l’importanza della città andasse ben al di là dei suoi dati anagrafici, mai arrivati a 30.000 residenti, per cui la “piazza”, per così dire, valeva l’investimento di una redazione. Nella quale avvenne idealmente e concretamente il passaggio di consegne fra i giornalismo locale fatto interamente dai corrispondenti, fino a quelli dei più piccoli paesi, al giornalismo dei redattori. Poi vennero redazioni anche di altre testate, ma La Nazione ha in vanto di aver aperto la strada, introducendo un giornalismo più adeguato ai tempi, nel quale non c’era più bisogno che i giornalisti “veri” calassero in provincia dalle sedi centrali per coprire, come inviati, i fatti più importanti.

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n quel ‘73, Pontedera si era fatta conoscere (in Italia e, non è un’esagerazione, nel mondo) da un quarto di secolo. Con la Piaggio, che apriva tutte le mattine i cancelli a 10.000 lavoratori (quello pontederese e i suoi satelliti pisani), prima fabbrica italiana dal Po alle famose cattedrali nel deserto realizzate

a sud di Napoli. Con oltre un milione di Vespe e altrettanti “Ciao” circolanti nel mondo. Col pontederese Giovanni Gronchi presidente della Repubblica e capofila di una schiera di politici pontederesi importanti, dal ministro Giuseppe Togni ai missini Lando Ferretti (ci torneremo) e Gastone Nencioni, al socialdemocratico Lami Starnuti al comunista Anselmo Pucci. Col due volte campione del mondo di pugilato, Sandro Mazzinghi, e, se volete, con la storia di Giulio Comparini, il camerieresoldatino pontederese di cui si innamorò l’inglesina dal cuore malato, una storia strappalacrime che fece il giro del globo, diventando un cavallo di battaglia delle allora (anni ‘50-60) nascenti televisioni.

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noltre, Pontedera era ormai città-capoluogo riconosciuto di una popolazione di oltre 100.000 abitanti, distribuiti in una quidicina di comuni. La redazione fu aperta sul “piazzone”, ovvero Piazza Martiri della Libertà (che soltanto l’anagrafe, le Poste e gli elenchi del telefono chiamano così, mentre i nomi ufficiali precedenti erano stati Piazza dell’Impero, Piazza Andrea e Piazza Umberto). In quelle prime due stanze con le scrivaniere e le macchine da

scrivere si trasferì Orazio Pettinelli, corrispondente da decenni ed erede del padre Fausto. E con Orazio - e qui devo forzatamente parlare di me stesso - anch’io presi possesso di quell’ufficio, praticamemente come vice di Pettinelli, rinunciando definitivamente all’insegnamento per tentare l’avventura del giornalismo professionale.

Siamo nel 1969 e la Piaggio produce il modello Sprint (foto in basso). Ormai l’Italia ha conosciuto gli impareggiabili anni del boom, ma lo scooter di Pontedera continua ad affascinare le giovani generazioni.


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Quindici giornalisti per quaranta anni Dei suoi quasi 40 anni di vita, la redazione di Pontedera de La Nazione ne ha trascorsi la prima metà sul lato nord del piazzone, con ingresso da via del Teatro, e la seconda, attuale, metà, sul lato sud, angolo via della Misericordia. E in questi quasi 40 anni vi si sono avvicendati una quindicina di giornalisti. A cominciare dai due capiservizio: Mario Mannucci, che ha retto l’ufficio per circa trent’anni, affiancato da valido pubblicista Giovanni Pinori, e, ora, Aldo Gaggini, arrivato da Pisa. All’inizio l’organico comprendeva soltanto un giornalista professionista, affiancato da collaboratori - in 40 anni ce ne sono stati almeno 50 - e dai corrispondenti “storici” dei paesi della Valdera, personaggi innamorati dei loro borghi come il maestro Ottorino Cremonini da Santo Pietro, Sergio Stacchini da Peccioli, Franco Gabrielli da Palaia, Ivo Giuntini da Terricciola. I professionisti passati dalla redazione sul piazzone sono stati:Gianni Bechelli, Federico Cortesi (ora a Pisa), Marina Marenna (ora caposervizio a Livorno), Gabriele Nuti, Francesco Dragoni, Federico D’Ascoli (ad Arezzo) Francesco Meucci (a Siena), Fausto Cruschelli (ora caposervizio a Carrara), Manuela Del Mauro, Letizia Leviti (ora a Sky), la pontederese Paola Zerboni (cresciuta ‘sul piazzone’ e ora a Pisa) fino agli attuali Nicola Pasquinucci (pontederese doc, come dice il suo cognome, cresciuto in redazione ma con esperienze anche al Resto del Carlino e al Giorno) e Luca Boldrini (arrivato da Prato).

Nella foto in alto: il giovane Presidente della Piaggio, Umberto Agnelli brinda (1967) con l’ingegner Corradino D’Ascanio, inventore della Vespa, alla fulminea ripresa dello stabilimento dopo la tragedia dell’alluvione.

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rofessionista, previo praticato ed esame di stato, lo sarei diventato qualche anno dopo, ma la strada per diventare il primo giornalista “prof” operante a Pontedera, era aperta. Attenzione, però: non il primo giornalista professionista “di Pontedera”. Anche in questo campo, la città che si porta nel nome la prima ragione della sua nascita, il ponte sul fiume, aveva infatti un’importante tradizione. A partire dal già ricordato onorevole Lando Ferretti, deputato missino nel dopoguerra dopo esser stato direttore della Gazzetta dello Sport e di altri giornali sportivi e di cinema negli anni ‘20, fondatore e primo presidente del Coni e, per due anni a cavallo degli anni ‘30, capo ufficio stampa del Duce. Si, proprio lui, Benito Mussolini.

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ex studente liceale pontederese, promotore del fascismo locale, Lando Ferretti lavorava nella stanza di Palazzo Venezia accanto a quella del Duce. E chi sa di quanti segreti fu testimone... Ferretti cadde poi in disgrazia anche per contrasti col gerarca pisano Buffarini Guidi - i rapporti fra Pontedera e Pisa

sono ricchi di questi contrasti provinciali - ma a Ferretti, poi conte della Valdera, Pontedera deve molto. A cominciare dal riconoscimento di città: in un albergo di Pistoia, dove il Duce era in visita, Ferretti convinse infatti Mussolini a chiedere al Re di firmare il decreto - 17 maggio 1930 - con cui Pontedera veniva riconosciuta città. Ma negli anni del regime, quando nacque l’ordine dei giornalisti, una ragazza pontederese, Rina Cioni, assunta dall’agenzia Stefani, l’odierna Ansa, diventò la prima donna iscritta all’ordine.

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eguì il regime fino a Salò, poi emigrò in Sudamerica fondandovi un giornale italiano. Nel dopoguerra, pubblicisti importanti della Valdera sono stati anche Augusto Gotti Lega e Bino Sanminiatelli, entrambi nobili e proprietari terrieri di grande cultura. Poi i professionisti Nello Chetoni, che ha lavorato al Carlino e alla Tribuna Illustrata, Giancarlo Ferretti che dall’ Unità è diventato un nome importante dell’editoria, e Fausto Pettinelli. Il terzo dei Pettinelli,

con lo stesso nome del nonno, giornalista parlamentare, oggi in pensione, dell’Ansa e della Rai. Al quale la gente di Pontedera e della Valdera si rivolgeva spesso per raccomandazioni ai politici, (che Fausto non poteva fare) dato che ogni giorno lo vedevano in Tv, col microfono in mano, accanto a Craxi, Andreotti e tutti gli altri big della prima repubblica.

Nel tondo: L’ingegner Enrico Piaggio fondatore dello stabilimento di Pontedera.


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I Pettinelli, una saga familiare da Fausto fino al giovane Orazio Di corsa sui taxi nei luoghi delle notizie. I rapporti con il mondo dello sport e dello spettacolo di Fausto Pettinelli

pretura e dell’ospedale, vere miniere di notizie. Gli amici di Fausto Pettinelli, già redattomio zio erano i fratelli Angiolino re parlamentare dell’Ansa e e Alfio Susini, corrispondenRai, si chiama come il nonno, ti (il primo) del Mattino e (il primo corrispondente de La secondo) del Telegrafo, il dottor Nazione da Pontedera. Ma da Bruno Pasquinucci, detto “Osso” ragazzo, negli anni ’50, fu aiu- per la sua magrezza, insuperabitante-collaboratore dello zio le maestro di vernacolo, l’avvoOrazio, corrisponde de La Na- cato Mario Braccini, biografo zione da Pontedera per mezzo del campione di pugilato Sandro secolo. E così Fausto Pettinelli Mazzinghi, don Luigi Bracci, capricorda il «mitico» zio. pellano dell’ospedale, il dottor Emilio Zoli, l’avvocato Domenico razio Pettinelli era mio Pandolfi, Astutillo Pasquinucci zio, fratello maggiore di e Luigi Mannucci, l’affezionaGiovanni, il mio babbo, tissimo Gigi, il suo autista. Ma sicché per ricordarlo compiuta- non autista nel senso servile del mente bisogna che torni alla mia termine. Autista, semplicemente adolescenza. Quando lui, senza perché Orazio non volle mai figli, mi portava sempre con sé. “pilotare” un automezzo e rifiutò Da qui la necessità di scrivere in sempre di prendere la patente. prima persona. Eppoi fu lui che Dunque per correre sul posto mosse i miei primi, traballanti, di fatti e fattacci bisognava che passi nelle stanze dei carabiGigi, antico tassista di piazza, nieri, del commissariato, della fosse sempre a sua disposizione. Giorno e notte.

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Gigi, per anni e anni, fu una sorta di alter ego di Orazio. Il delitto di Toiano con l’uccisione della Bella Elvira, il brillamento delle mine per l’apertura della strada sul Monte Serra dove arrivò il grande ripetitore Rai, l’uccisione di Don Bardotti, parroco di Cevoli, il pasticciaccio della santona di Monte Vaso, l’assassinio del fattore di Spedaletto, le sparatorie fra i carabinieri e la banda dei sardi alla Sterza e a Molino d’Era, sono soltanto alcuni fatti che mi vengono alla mente. Orazio fu l’animatore di un’infinità di iniziative, umanitarie, culturali, sociali, religiose e anche sportive. Politiche, mai più. Ne aveva le tasche piene dopo esser stato fascista e aver avuto dei problemi per questo. Riceveva di continuo visite di molte personalità di spicco del

mondo del teatro, del giornalismo, della musica.

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si beava di queste sue frequentazioni che lo gratificavano e lo facevano sentire al centro della vita di una Pontedera che stava risorgendo dalle rovine. Ricordo il popolarissimo giornalista sportivo Beppe Pegolotti, che mi faceva ridere perché balbettava, l’attrice pirandelliana Marta Abba, Rina Cioni, la prima donna iscritta nell’albo dei giornalisti professionisti, Riccardo Marchi, scrittore e filosofo comunista livornese, suo amico ed estimatore, il pittore futurista viareggino Krimer, il tenore Mario Filippeschi di Montefoscoli, e tantissimi altri dei quali ora mi sfuggono i nomi, con i quali era sempre in contatto epistolare o telefonico.

Nella foto: ritratto di famiglia di inizio Novecento. In seconda fila a sinistra il capofamiglia Fausto (primo corrispondente de La Nazione da Pontedera) e, in seconda fila con il papillon, il giovane Orazio che lo affiancò e poi gli succedette negli anni Trenta.


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La saga dei Pettinelli

Quando il Podestà evitò una strage Così il giornalista Orazio riuscì ad evitare una rappresaglia delle SS a Crespina

Nella foto accanto: è il 1969, un aereo militare tedesco compie un atterraggio di emergenza all’Aeroporto di Pontedera. Orazio Pettinelli (a destra) accorre come cronista de La Nazione e stringe la mano al pilota.

di Giovanni Pinori

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razio Pettinelli, non lo ha mai negato, era iscritto al Partito Nazionale Fascista. Un semplice iscritto come allora decine di milioni di italiani. Fu designato a fare il podestà di Crespina. Per rifiutare ci voleva una buona scusa, e così accettò ben sapendo che presto sarebbe finito tutto. Ma fare il podestà di Crespina si rivelò compito non facile. Il paese era pieno di sfollati, nelle ville erano alloggiati diversi comandi tedeschi e c’era un continuo via

vai di truppe. Un giorno nel bosco fu trovato ucciso un soldato tedesco.

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l podestà Pettinelli fu convocato al comando e un maggiore delle SS gli disse: «Presto, dieci nomi e indirizzi di uomini di questo paese da tenere in ostaggio. Se entro 24 ore non si presenterà chi ha ammazzato a tradimento il mio soldato, saranno fucilati in piazza». Orazio,

argomentatore abile, fecondo, intelligente e all’occorrenza anche sfrontato, rispose che non era possibile che qualcuno del paese avesse commesso un simile misfatto. Si trattava certamente di partigiani venuti da lontano, forse da Cecina o da Volterra. Bel colpo assegnarli ad una provenienza così plausibile e ormai lontana per i tedeschi in ritirata. Vai a cercarli laggiù in mezzo agli americani se ci riesci, pensò dentro di sè. Fu un dialogo lungo, concitato e drammatico, ma alla fine Orazio riuscì ad ammansire il furibondo maggiore che, privo di argomenti, disse che avrebbe sospeso l’ordine. «E va bene Podestà, voglio crederti. Però ricordalo e fallo sapere in paese, ancora un incidente e i fucilati saranno venti e il primo sarai tu. Da domani, tutti i giorni alle cinque del pomeriggio, dovrai venire a rapporto qui, al comando».

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on successe niente, perché Dio non volle, Orazio me lo spiegò così. Ma che paura in quei dieci giorni! Finalmente una sera i tedeschi

abbandonarono Crespina e l’indomani arrivarono gli americani. Fu la liberazione. Orazio Pettinelli, podestà rimasto al suo posto fino all’ultimo, fu arrestato e portato nel campo di concentramento di Coltano dove c’era anche Ezra Pound.

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u processato come fascista. E anche se né lui né altri pensò a tirar fuori la storia della rappresaglia evitata a Crespina, fu rimesso in libertà perché nessuno poté accusarlo del benché minimo crimine di regime. Orazio riprese la sua vita di sempre e il suo lavoro appassionato. Della vicenda crespinese non parlò più. La raccontò a me quasi per caso, pochi anni prima della sua immatura scomparsa. Ma dal tono distaccato con cui mi raccontò quell’episodio ebbi l’impressione che non volesse assolutamente esibirsi nel ruolo di eroe. Sottolineò la paura, questa sì, e ostinatamente si rifiutò di ammettere che, in sostanza, aveva messo a repentaglio la sua vita per salvare degli estranei».

I “morti” sulla strada e il grazie di Buzzati «Mio zio Orazio amava anche combinare le goliardate che qualche volta pubblicava sul giornale. Un giorno, a Fornacette, un camion travolse e uccise due operai che lavoravano allo smantellamento della vecchia linea ferrata del tram Pontedera-Pisa, ’lo strasciapoveri’, come lo chiamavano i pontederesi. Partimmo con l’autista Gigi ma sul luogo della sciagura trovammo soltanto il camion di traverso alla strada e un po’ di gente affranta. I due morti erano già stati portati via. Orazio non si perse d’animo e con la massima disinvoltura ordinò a Gigi e a me di sdraiarci fra le ruote del camion; ci fece quindi coprire con un lenzuolo e un fotografo ci sparò a raffica un rullino. Quelle foto raccapriccianti, furono pubblicate a corredo del suo pezzo sulla “Nazione” del giorno dopo, e Angiolino Susini, corrispondente del Telegrafo, che insieme ad altri colleghi si era fiondato a Fornacette arrivando addirittura prima di noi, ci restò di stucco. Ma come avrà fatto La Nazione ad avere quelle foto? Si cambia scenario: il grande scrittore-giornalista Dino Buzzati fu inviato a pontedera dal Corriere della Sera per un reportage sul celebre ipnotizzatore pontederese Cesare Gabrielli che furoreggiò nei teatri di mezzo mondo negli anni Venti-Trenta. E per avere notizie, Buzzati si rivolse, inevitabilmente, a Orazio, «Che - gli dissero - è sempre informato di tutti su tutto». L’aneddoto è raccontato da Buzzati (a sinistra nella foto insieme a Rolly Marchi) nelle bellissime pagine di Cronache Terrestri (Mondadori, 1972) in cui lo scrittore, col suo stile di ammiccante verismo, descrive l’incontro col ’gentilissimo collega corrispondente della Nazione’».

Nel tondo: una insolita immagine di Orazio Pettinelli versione telecronista. Una troupe Rai, nel 1960 si installò in città alla ricerca del vincitore di una favolosa somma al Totocalcio. Il corrispondente de La Nazione collaborò ai servizi quotidiani messi in onda.


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Momenti di gloria nella boxe (ma anche nel canottaggio) Sandro Mazzinghi fu due volte compione del mondo di pugilato Lorenzo Pattinari capofila di una scuderia di canottieri che ha raccolto ori ed argenti

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Nella foto: è il 7 dicembre 1963, Sandro Mazzinghi torna a Pontedera con il titolo di Campione del Mondo conquistato allo stadio di San Siro a Milano contro Dupas. La folla lo accoglie trionfalmente in piazza del Comune.

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lessandro Mazzinghi, detto Sandro, è la maggiore gloria sportiva di Pontedera. I suoi anni migliori furono nel decennio ‘60 del secolo scorso. Conquistatore di “mille” ring, due volte campione del mondo, due volte sconfitto da Nino Benvenuti ma con verdetti che ancora lo fanno soffrire e gridare all’ingiustizia, e che larga parte della critica e

dell’opione pubblica condannò, Alessandro Mazzinghi è anche l’unico pontederese vivente immortalato in un monumento pubblico. Dedicato, però, a entrambi i fratelli Mazzinghi: oltre a Sandro, l’altro intestatario è Guido, anche lui pugile fortissimo ma con la carriera stroncata da una malattia e morto anche prematuramente.

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l monumento ai Mazzinghi è stato inaugurato il 31 gennaio scorso ed è il secondo monumento pubblico a un personaggio pontederese dopo quello inaugurato 1908 in onore di Andrea. Grande scultore che nelle storie dell’arte tutti chiamano Andrea Pisano ma che ebbe invece i natali a Pontedera.

el campo sportivo è una gloria pontederese anche il pluricampione del mondo di canottagio Lorenzo Pettinari, capofila di una scuderia di canottieri che annovera anche Lorenzo Bertini e altri conquistatori di ori e argenti. Nel campo calcistico, con la squadra granata dell’Us Pontedera 1912, il momento di maggior gloria assoluta fu 15 anni or sono, quando alla vittoria del campionato fu accoppiata addirittura la vittoria - in amichevole a Coverciano - sulla nazionale azzurra di Sacchi e di Baggio che poi arrivò seconda (ai rigori) nei campionati mondiali in America.

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u una vittoria meritata e che portò il Pontedera nelle prime pagine di tutti i giornali. E La Nazione dedicò a quel successo il titolo altisonante ma meritato di “Momenti di gloria”.

Nella lunga storia del calcio pontederese, che nel 2012 compierà 100 anni, c’è anche una vittoria sulla nazionale azzurra. Fu conquistata in amichevole a Coverciano nell’aprile del 1994 alla vigilia dei Mondiali negli Stati Uniti. La partita finì 2 a 1.

Quando il “tifo” era violento anche per la “filarmonica” Sembra spesso che la violenza tra tifoserie o i furti siano un fenomeno di questi ultimi anni. Non è così. Purtroppo. Già nelle corrispondenza di Fausto Pettinelli, che dopo una prima esperienza al Corriere di Toscana passò a La Nazione e all’agenzia di stampa Stefani, ci sono numerosi esempi e cronache di incidenti causati dal tifo e di imprese ladresche. Addirittura, il tifo violento poteva essere “musicale”, come quando i popolani di Navacchio presero d’assalto, fermandone il percorso con fuochi accesi sulle rotaie, il tram che da Pontedera viaggiava per Pisa, con molti pontederesi a bordo. Era una ritorsione alla vittoria della filarmonica Volere è Potere (nella foto in un’immagine del 1928) di Pontedera nel regio concorso nazionale musicale di Torino, dove la banda di Navacchio si era invece classificata soltanto settima. Fu un vero e proprio assalto alla diligenza, con tafferugli che non sfociarono in feriti, o peggio, “soltanto perché i passeggeridi Pontedera non reagirono”, sottolinea il corrispondente Pettinelli. Ve l’immaginate lo scalpore se oggi succedesse ancora un episodio del genere? Capitolo ladri. A Pontedera si era fermata una famiglia di nomadi, composta da genitori e tre figli. I genitori furono sorpresi in flagrante furto e arrestati, ma la polizia ebbe il sospetto che avessero nascosto da qualche parte la refurtiva di molti precedenti colpi. Intuito giusto, come confermò lo stratagemma di un poliziotto che, fingendosi nomade anch’esso, avvicinò i tre figli dicendosi disposto a collaborare con loro per mettere al sicuro il “tesoro” di casa fino a quando babbo e mamma, di origine algerina, non fossero stati scarcerati.


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La Nazione in difesa di Volterra una lotta che continua da decenni di Mauro Bertini

Nella foto: Giulio Piccini, che si firmava Jarro, ricoprì infiniti ruoli ne La Nazione a cavallo tra i due secoli. Fra questi, con particolare impegno, fu critico teatrale. Fra i suoi “eredi” della grande tradizione letteraria di Volterra Franco Porretti, corrispondente de La Nazione cultore delle tradizioni locali.

N

ei suoi centocinquanta anni, La Nazione ha seguito i fatti grandi - ce ne sono stati tanti perché Volterra è una grande realtà, storica, culturale e geografica - e quotidiani di una città conosciuta nel mondo. Partendo proprio dall’unità d’Italia, la storia ricorda che Volterra diventò sede di circoscrizione comprendente vari comuni. Già sede di un vescovado tra i più estesi e più antichi della Toscana, di sottoprefettura e tribunale, Volterra possedeva anche istituzioni religiose, amministrative, sanitarie e giudiziarie da capoluogo di provincia. Ed era capitale dell’industria degli alabastri, a carattere spiccatamente di esportazione (grazie al fenomeno dei viaggiatori dell’alabastro di cui c’è testimonianza nel Palazzo Viti). Poi iniziò il declino amministrativo: nell’ottobre 1923 perse il tribunale e nel 1927 la sottoprefettura. La

linea ferroviaria a cremagliera Saline-Volterra, inaugurata nel 1912 in virtù dell’interessamento del principe Piero Ginori Conti (1860-1930), venne tagliata nel novembre 1958. L’ospedale psichiatrico realizzato con l’opera di Luigi Scabia tra il 1930 ed il 1950 non esiste più per la legge che ha abolito queste strutture.

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a popolazione era di 20.000 abitanti nel 1920, scesi ora a 11.172. E le cronache e pagina locali de La Nazione sono state all’avanguardia nella battaglia in difesa di Volterra, che continua con la difesa dell’ospedale e delle scuole. Ma torniamo indietro. Volterra ha ospitato re, papi, artisti e uomini molto importanti. Vittorio Emanuele salì sul colle etrusco il 2 ottobre 1861, solenne e trionfale era stata quattro anni prima la visita del papa Pio IX. Un altro illustre pontefice, Papa Wojtyla, coinvolse ed entusiasmò Volterra il 24 settembre 1989, e La Nazione seguì l’avvenimento mobilitando un «esercito» di 8 fra inviati e cronisti locali e pisani. Commovente fu la visita al carcere. Torniamo ancora indietro: nella seconda metà dell’ottocento, Volterra ebbe importanti istituti scolastici, tra cui il liceo-ginnasio gestito dai padri

Scolopi, il conservatorio di S. Pietro ed il convitto S. Michele. Il mondo culturale ed artistico si fondava sull’accademia dei Sepolti, sul museo e biblioteca Guarnacci, accademia dei Riuniti proprietaria del Regio Teatro Persio Flacco, opere del Duomo e delle principali chiese della città. Importante la sede vescovile che ricalcava i confini del Municipio Romano. Il respiro culturale era vivace grazie ai circoli di musica, teatro, studio. Molti erano gli organi di stampa locale. Niccolò Maffei, liberale, fu dominatore della sfera politica, risultando il primo volterrano eletto in parlamento nel 1874. Un altro importante uomo politico, Arnaldo Dello Sbarba (1873-1958), socialista, fu ministro del lavoro nel 1922. Negli anni ’30 ci fu la terribile crisi del settore dell’alabastro e molte industrie chiusero i battenti. Una ripresa si ebbe nel 1960, ma oggi gli addetti sono soltanto un centinaio (nel 1969 erano mille). Nel secondo dopoguerra, figura rappresentativa nella scena politica dal 1946 al 1989 è stato il sindaco Mario Giustarini, dal 1953 al 1958 senatore.

N

egli ultimi anni è fiorita l’industria del turismo culturale, molte le attività teatrali (Volterra-teatro ed il festival del Teatro Romano). Il

teatro Romano, riportato alla luce per merito dello studioso Enrico Fiumi nel 1950, è meta di molti turisti. Fiumi è stato a lungo direttore del Museo Guarnacci; molte sono le sue pubblicazioni di carattere archeologico e medievale su Volterra e sulla Toscana. Molte le personalità che hanno scritto su Volterra, tra cui Corrado Ricci, Gabriele D’Annunzio — ospite della città e ricordato da una targa — Carlo Cassola, che incentra su Volterra diversi suoi romanzi. Ed è del 1964 il film «Vaghe stelle dell’Orsa», di Luchino Visconti che portò Volterra sulla scena mondiale. Putroppo, Volterra finì sulle cronache anche per il sequestro (23 gennaio 1991) del piccolo Augusto De Megni, che fu tenuto prigioniero in una grotta-priogione a poche centinaia di metri da Piazza dei Priori, da cui fu liberato con un clamoroso blitz dei Nocs e della Criminalpol. Ed è rimasto nella storia di Volterra e d’Italia la foto del piccolo Augusto affacciato alla finestra del commissariato e applaudito dall’intera piazza dei Priori, popolata di folla. Anche in quell’occasione, La Nazione mobilitò su Volterra un nutrito gruppo di giornalisti, con dieci pagine di cronaca sull’avvenimento.

Gabriele D’Annunzio, Luchino Visconti, Carlo Cassola sono alcuni dei grandi nomi che in varie forme artistiche hanno celebrato le bellezze della città, famosa nel mondo anche per la misteriosa statuetta etrusca “L’Ombra della Sera”.

La patria di Giulio Piccini, il famoso Jarro Volterra è la patria, e tuttora ne conserva e rinnova la memoria con premi annuali dedicati nel suo nome sia al teatro che all’arte della gastronomia, di uno dei giornalisti, una delle firme, che hanno fatto la storia de La Nazione a cavallo fra l’ 800 e il ‘900. È Giulio Piccini, nome che non dice molto, o comunque dice assai meno rispetto a quello di Jarro. Già, Jarro. Pseudonimo che sicuramente contribuì alle fortune del volterrano, trasferitosi a Firenze e approdato al giornale fondato da Ricasoli, perchè squillante, emozionante, sintetico e facilmente riconoscibile. Deriva dalle frequentazioni spagnole del Puccini, nato nel 1951 nella città etrusca, allora sede di Tribunale, dove il padre era magistrato, e che a Volterra trascorse la prima giovinezza e l’adolescenza, studiando al locale ginnasio. Jarro si sentì orgogliosamente volterrano per tutta la vita; fu per trent’anni - morì improvvisamente nel 1915 mentre rientrava a casa - il critico teatrale e letterario de La Nazione, ma questa collocazione va stretta a un personaggio dai multiformi interessi e dagli infiniti campi di impegno. Partendo da Dante e dagli stilnovisti, passando per il genere “giallo” e per le grandi inchieste sociali, Jarrò arrivò all’enogastronomia. Settore che oggi impazza in tutte le televisioni, nei cui palinsesti ci sono ore e ore di trasmissioni giornaliere sull’arte culinaria, ma che Jarro per primo lanciò come nobile arte anche letteraria, pubblicando guide enogastronomiche di successo. Anche un’amicizia fece conoscere Jarro in italia e all’estero, quella col Vate, l’Immaginifico. Insomma, Gabriele D’Annunzio. Il quale fu amico e spesso commensale di Jarro durante il suo peridio fiorentino trascorso con Eleonora Duse nella famosa villa sulle colline. E a quei tempi, l’amicizia di D’Annunzio era un viatico di successo. Proprio a Jarro, Volterra deve la presenza di D’Annunzio, che soggiornò all’Hotel Nazionale dove lavorò alla nuova stesura di “Forse che si, forse che no”. Jarro nacque soltanto otto anni prima de La Nazione, il giornale che per primo e più di ogni altro mezzo gli dette il successo, avendone in contraccambio altro successo. “Volterra è orgogliosa di questo suo figlio - dice Simone Migliorini, direttore artistico del festival internazionale del teatro romano - quantomeno come orgoglioso lui era di Volterra”.


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Santa Croce: la capitale del cuoio e delle pelli

Un comprensorio di settantamila persone. Mario Lepri, per trent’anni, l’insuperabile giornalista del Comprensorio

Nella foto: Mauro Lepri, livornese di nascità, trasferito a Santa Croce fu per decenni il corrispondente del nostro giornale ma anche l’interprete dell’identità, culturale e sociale, del Comprensorio del cuoio.

di Firenze. Ma le influenze fiorentine sono ancora ben visibili, soprattutto a San Miniato, come scriveva e sottolineava spesso Mario Lepri.

di Mario Mannucci

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n tempo fu la storia a lanciare i suoi centri collinari. Oggi sono le pelli e il cuoio a fare dei cinque comuni dell’omonimo comprensorio una capitale mondiale. La capitale mondiale, appunto, del cuoio e delle pelli. Santa Croce, San Miniato, Montopoli, Castelfranco e Santa Maria a Monte (che però fa ponte anche con la Valdera), tutti più o meno uguali come peso anagrafico e nel complesso popolati da 70 mila persone, almeno metà delle quali strettamente legate alle concerie, calzaturifici, e simili, sono una potenza. E pur se la crisi pesa molto anche qui, anzi, più qui che da altre parti, il “comprensorio” resta una grande quanto unica realtà. La Nazione lo sa da tempo, tanto che dagli anni ’80

vi opera attraverso un ufficio di corrispondenza, unico giornale ad averlo, con sede a Santa Croce, considerata a sua volta la capitale comprensoriale.

F

ino agli anni ’30 del secolo scorso, questa zona, traversata dall’Arno e dominata dalla rocca federiciana di San Miniato al Tedesco (l’imperatore Federico II scelse San Miniato come capitale del regno italico del nord) e da quella montopolese di Matilde di Canossa, era nella provincia di Firenze e gravitava su Empoli. Poi Mussolini fu costretto a ridisegnare la geopolitica delle province di Livorno, Pisa e Firenze per allargare il territorio labronico (come voleva la famiglia Ciano) per cui diversi comuni costieri pisani passarono a Livorno, con Pisa compensata a scapito

U

n personaggio di primissimo piano, Mario Lepri, per oltre trent’anni - dal dopoguerra alla sua morte corrispondente de La Nazione da Santa Croce e comprensorio del cuoio. Di origine livornese, approdò a Santa Croce come impiegato comunale, dividendosi fra gli uffici municipali (la mattina) e le corrispondenze a La Nazione (pomeriggio e sera) fino al giorno della pensione dal comune.

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er dedicarsi interamente al giornalismo, ormai in un vero e proprio ufficio di corrispondenza. Da lui inaugurato e che ha poi visto la presenza di Cristina Privitera, Federico Cortesi, Piero Fogli e Gabriele Nuti, con la collaborazione del sanminiatese Carlo Baroni. Gli avvenimenti più importanti del comprensorio del cuoio e delle pelli sono legati proprio alla sua economia. Mille concerie rappresentavano infatti una grande ricchezza ma anche un grande problema ecologico, fino ai drammatici giorni (anni ‘70-80) dell’ordinanza di chiu-

sura emessa dalla magistratura pisana. Infine arrivò il grande depuratore, il più grande depuratore del mondo per quanto riguarda le lavorazioni chimiche, e il problema si risolse, pur con la burrascosa coda di dover trovare siti e discariche per i fanghi di resulta dell’impianto ecologico. Su questi temi, La Nazione è stata molto presente, con Mario Lepri, con i suoi collaboratori e successori, con gli inviati da Firenze.

I

l “comprensorio” è una delle zone più ricche d’Italia - lo dicono le statistiche economiche - e la battaglia è ora per superare la crisi senza uscirne con le ossa troppo rotte.

Nei tondi: Il boom delle concerie e dei calzaturifici ha fatto di Santa Croce e del Comprensorio una capitale mondiale delle pelli con grandi problemi, anche ecologici, oggi risolti.


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