La Nazione 150 anni parte 1

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SUPPLEMENTO AL NUMERO ODIERNO A CURA DI

150 ANNI di STORIA ATTRAVERSO LE PAGINE DEL NOSTRO QUOTIDIANO

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PRIMA PARTE • Dalle origini al 1909

Le firme prestigiose e i grandi eventi in Italia e nel Mondo


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sommario 150 anni di fatti, di idee, di grandi firme 14 luglio 1859 Così, per volontà di Ricasoli nacque in una notte La Nazione Il Granduca lascia Firenze e si festeggia la libertà Villafranca: il Veneto resta all’Austria Il Savonarola del Risorgimento Lo stemma sabaudo sulla testata Biaggi: il critico musicale che bocciò Giuseppe Verdi Le grandi firme Collodi, Yorik, Carducci, De Amicis: ecco chi furono i primi giornalisti 27 luglio 1868 Così De Amicis esordì su La Nazione La pubblicità Il balsamo per la gonorrea e il guano originale del Perù Economia Un paese agricolo senza risorse Le ceramiche a doccia Piombino, arriva la Magona Incendi? Ci pensano le Assicurazioni Fondiaria L’Italia è fatta, cominciano i problemi Cronache dall’Aspromonte Il voto alle donne? Mai Un esercito di bambini lavora 13 ore al giorno Muoiono i grandi uomini che hanno fatto l’Italia Bettino Ricasoli «Non credevamo possibile...» Sotto processo l’ammiraglio sconfitto nelle acque di Lissa Tutti al mare! Tutti al mare! Siamo un popolo di analfabeti... ... ma intanto viene abolita la pena di morte Calendario eventi

PRIMA PARTE • Dalle origini al 1909

Le firme prestigiose e i grandi eventi in Italia e nel Mondo Non perdere in edicola gli altri 2 fascicoli regionali che ripercorreranno, attraverso le pagine de La Nazione, la storia fino ai nostri giorni e i 15 fascicoli locali con le cronache più significative della tua città.

Supplemento al numero odierno de LA NAZIONE a cura della SPE Direttore responsabile: Giuseppe Mascambruno

Vicedirettori: Mauro Avelllini Piero Gherardeschi Antonio Lovascio (iniziative speciali) Direzione redazione e amministrazione: Via Paolieri, 3, V.le Giovine Italia, 17 (FI) Consulenza storica: Aurora Curzio

Progetto grafico: Marco Innocenti, Luca Parenti Kidstudio Communications (FI)

Stampa: Grafica Editoriale Printing (BO)

Pubblicità: Società Pubblicità Editoriale spa DIREZIONE GENERALE: V.le Milanofiori Strada, 3 Palazzo B10 - 20094 Assago (MI)

Succursale di Firenze: V.le Giovine Italia, 17 - tel. 055-2499203


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150 anni di fatti, di idee, di grandi firme Come la pubblicità ha reso possibile questo prestigioso anniversario

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ompie 150 anni La Nazione, il quotidiano che fu testimone e protagonista del Risorgimento, ad oggi la più antica testata italiana. Per tutto il 2009 sono previste mostre, pubblicazioni, eventi per festeggiare questo avvenimento che va ben al di là della dimensione editoriale. La Società Pubblicità Editoriale, non poteva non sentirsi coinvolta e quindi partecipa all’evento con una serie di fascicoli. Questo numero, dunque, è il primo di una serie che riguarderà anche le singole edizioni del giornale fiorentino, che oltre ad essere il quotidiano più venduto in Toscana è anche diffuso in Umbria ed in Liguria. Del resto, La Nazione, non avrebbe potuto raggiungere i 150 di vita senza il costante apporto dei suoi inserzionisti. Che fin dai primi numeri dettero adesione e supporto all’editore, e quindi al foglio che contribuì più di qualsiasi altro all’obiettivo dell’Italia Unita. Anzi, il rapporto fra La Nazione e i suoi inserzionisti fin dall’inizio fu di esplicito e scambievole vantaggio. E infatti, mentre La Nazione anno dopo anno perfezionava la sua veste grafica, il modo di scrivere gli articoli e di illustrarli, di pari passo si raffinava la proposta pubblicitaria, fino ad assumere un proprio originale linguaggio, una propria veste anche formale. Appare certo che mentre La Nazione aiuta il giornalismo italiano a diventare adulto, di pari passo, nelle sue stesse pagine, cresce ed acquista dignità il messaggio promozionale. La Nazione è dunque la palestra attraverso la quale si esperimenta un modo di fare pubblicità. Concretamente, giorno dopo giorno, è la realtà editoriale dove si contribuisce a scrivere una vera e propria storia della pubblicità in Italia. E infatti, fin dall’inizio, fu chiaro ai direttori del giornale che la pubblicità altro non era se non un modo per comunicare. Con tutta la dignità che la comunicazione possiede, anche se rivolta a specifici obiettivi e privati interessi. Per questo motivo le inserzioni, che inizialmente erano raccolte nella quarta delle quattro pagine con le quali usci-

va il quotidiano fiorentino, un po’ alla volta vengono a occupare la terza, la seconda, perfino la prima pagina. E quando alla fine dell’Ottocento le nuove tecniche tipografiche consentono di stampare anche disegni e foto, è proprio la pubblicità de La Nazione a trarne immediato vantaggio, così che esistono pubblicità di quel periodo che hanno autentico valore artistico. Anticipando, con ciò, di quasi un secolo, quanto oggi appare scontato. Non solo, quando nel periodo fra le due guerre La Nazione dà vita alla mitica “Terza Pagina”, il tempio della cultura, il luogo dove convergono le firme più prestigiose del giornalismo e della letteratura nazionale, non per questo si impedisce alla pubblicità di farne parte e la “Terza”, ambitissima dagli inserzionisti, è sempre aperta al loro contributo. Nei nostri fascicoli, dunque, oltre a fornire notizie sul come La Nazione ha percorso nel territorio questi 150 anni, registrando i fatti e le idee, contribuendo nello stesso tempo a crearli, il lettore troverà anche esempi di come la pubblicità è andata evolvendosi sulle pagine di quello che è stato per decenni, ed è tutt’ora, fra i più prestigiosi quotidiani nazionali. Buon compleanno, dunque, a La Nazione. Ma anche un grazie a coloro che, per 150 anni, hanno creduto e credono nella sua capacità di divulgare messaggi promozionali, di far conoscere la qualità di un prodotto, di farsi garante della serietà indiscussa di una proposta d’acquisto.

Sfogliando le pagine de La Nazione si ripercorre la storia della pubblicità: dai primi slogan alle raffinate foto artistiche di oggi. All’inizio gli annunci economici erano raccolti nell’ultima pagina, ma già alla fine dell’Ottocento occupavano per intero la foliazione del quotidiano.


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14 luglio 1859

COSÌ PER VOLONTÀ DI RICASOLI NACQUE IN UNA NOTTE LA NAZIONE Dopo l’armistizio di Villafranca il quotidiano di Firenze fu lo strumento dei risorgimentali per ottenere l’unita d’Italia

Per mancanza di tempo e di carta, il numero del 14 luglio uscì a “mezzo foglio” senza gerenza e senza il nome dello stampatore, e così continuò per altri quattro giorni. Il primo numero ufficiale uscì il 19 luglio a foglio intero.

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acque, il nostro giornale, per volontà di Bettino Ricasoli , alla notizia dell’armistizio di Villafranca. Il Barone di Ferro, dopo la partenza del Granduca, era a capo del governo toscano e il suo obiettivo era quello di annettere la Toscana al Piemonte per poi costruire, finalmente, l’Italia Unita. Ma a Villafranca, arrivata dopo la vittoriosa battaglia di Solferino, austriaci e francesi si erano messi d’accordo per una pace che nei fatti distruggeva il sogno risorgimentale. E infatti veniva decisa l’annessione della Lombardia - o gran parte di essa - al Piemonte, ma nello stesso tempo il Veneto restava agli austriaci. Come se non bastasse, a Villafranca si prevedeva il ritorno dei Lorena in Toscana, e per il resto, la nascita di una federazione di stati sotto la guida del Papa. Ricasoli non poteva accettarlo. Per questo fece chiamare in Palazzo Vecchio, era la sera del 13 luglio 1859 – la notizia dell’armistizio aveva impiegato due giorni per arrivare a Firenze – Leopoldo Cempini, figlio di un ministro del Granduca ma che nel 1847 aveva sofferto l’esilio e nel 1948 aveva eroicamente combattuto a Montanara; Carlo Fenzi, banchiere e volontario a Curtatone; Piero Puccioni, uomo di legge ben noto ed ammirato, ma ancor più patriota di sicura fede. I tre appartenevano al circolo del Marchese Bartolommei, a sua volta inviso all’aristocrazia lorenese perché fervente sostenitore dell’Unità d’Italia. Ebbene, perché la convocazione di Cempini, Fenzi e Puccioni? I tre avevano chiesto al Ricasoli, fin dal maggio del 1859, la facoltà di pubblicare un giornale che sostenesse il governo toscano. Nella richiesta dichiaravano testualmente: “Noi non guida altro fine che quello del bene d’Italia: non vogliamo intralciare la libera azione del governo ma unicamente diffondere, per quanto è possibile, quel principio che oggi informa ogni onesto


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Il Granduca lascia Firenze e si festeggia la libertà Non fu una rivoluzione quella che spinse il Granduca Leopoldo a lasciare Firenze, ma semmai il deteriorarsi di una situazione politica che vide progressivamente i liberaldemocratici abbracciare le tesi risorgimentali. Il Granduca lasciò Firenze convinto che era ancora possibile una soluzione politica e quindi il ritorno. Mentre la colonna di carrozze usciva dalla città dirigendosi verso nord, gruppi di patrioti si riunirono in quella che sarebbe diventata Piazza Indipendenza per festeggiare la libertà ritrovata. Avevano caccarde tricolori appuntate sul petto, e ogni tanto qualcuno prendeva la parola dopo essere salito su una panchina o su un tavolo. La folla applaudiva anche se era impossibile distringuere una sola parola nel caos generale. Ad un tratto qualcuno urlò : “la polizia, i gendarmi”. Ci fu un fuggi fuggi generale, molti si strapparono la coccarda dal petto e solo pochi si prepararono ad un eventuale scontro. Ma gli uomini del Granduca che si stavano avvicinando avevano intenzioni tutt’altro che bellicose. Abbandonati dalla loro guida politica e militare stavano entrando nella piazza per solidarizzare con la folla. Ci furono così abbracci e calorose strette di mano. Partì allora un carro addobbato con la bandiera tricolore che si avviò verso Piazza San Marco, lo accompagnavano urlanti schiere di giovani che sventolavano le loro coccarde. Mentre il carro si dirigeva verso Piazza del Duomo i fiorentini cominciarono a capire cosa realmente era accaduto e esposero alle finestre le prime bandiere tricolore.

italiano, vincere quei timori municipali, combattere i politici troppo teneri dei loro campanili, mostrare insomma come nella unità politica l’Italia possa riconquistare la forza e la grandezza che la fece rispettata ed ammirata nei secoli scorsi.” Pensavano, sicuramente, di trovare accoglienza dal Barone, ma questi aveva idee diverse. E infatti, non mancavano per lui problemi con i nostalgici dei Lorena, ma anche con quanti volevano sì l’Italia unita, ma repubblicana, e perfino con quanti - e ce n’erano molti in Toscana - auspicavano un regno d’Etruria da affidare a Gerolamo Bonaparte. E dunque, per non alimentare altre occasioni di polemica, aveva risposto che il momento non era ancora quello giusto, e che bastava ad informare la cittadinanza delle attività governative il “Monitore” ovvero il giornale ufficiale del governo toscano da lui saldamente controllato. Ma la situazione precipitò, e il “momento giusto” Ricasoli lo percepì proprio nelle ore convulse in cui Firenze seppe di quanto avvenuto a Villafranca. Così, ai tre patrioti, il Barone si rivolse dicendo semplicemente “Per domattina voglio il giornale”. Questa , in verità, è una delle tesi, perché altre fonti – sia il Cempini che il Fenzi che il Puccioni scriveranno negli anni su quell’episodio e lo faranno con particolari diversi l’uno dall’altro - ci informano su un colloquio molto più lungo e problematico avvenuto nello studio del Ricasoli. Qualcuno avrebbe cercato di far capire al Barone che una notte non era sufficiente a buttar giù un foglio,

fosse pure di sole due pagine, ma di certo il Barone fu irremovibile, arrivando al punto di dire “O domattina o mai più”. Fu così che i tre uscirono da Palazzo Vecchio verso le dieci di sera, pieni di entusiasmo e, nello stesso tempo, di timori per le poche ore a disposizione. Avevano però un titolo per la nuova testata. L’avrebbero chiamata La Nazione, e questo perché c’era stato un precedente in epoca lorenese, Il Nazionale, diretto e stampato da Celestino Bianchi, che poi il Granduca aveva fatto chiudere perché troppo polemico, anzi, aggressivo, contro di lui e contro il suo potere. Ma Celestino Bianchi, anche in questo caso le fonti divergono, non avrebbe voluto utilizzare una testata di sua proprietà. Secondo altre memorie, invece, proprio il Bianchi presente al colloquio avrebbe voluto chiamare la testata Il Nazionale, con ciò dando lustro alle sue passate battaglie, ma sarebbe stato il Ricasoli ad opporsi per evitare che gli avversari di un tempo potessero trasferire nel presente. E dunque, se nuova testata doveva essere, che lo fosse in tutto, anche nel titolo. I tre, dunque, usciti nella grande piazza della Signoria, davanti alla Loggia dell’Orcagna presero una carrozza e chiesero di essere portati in via Faenza alla tipografia di un grande patriota, Gaspare Barbera. Ma durante il tragitto trovarono un giovane letterato, destinato ad una grande fama come docente di letteratura italiana all’università di Pisa. Era Alessandro d’Ancona, che informato di quanto stava accadendo si unì agli altri

fino alla tipografia. Il Barbera non aveva molta carta da stampa a disposizione, né gli era facile a quell’ora rintracciare gli operai. Ma lo fece, e subito, nella stessa stanza, si riunirono da un lato i redattori a scrivere il giornale e dall’altra i tipografi a comporre. Fu un lavoro frenetico, e allo stesso tempo esaltante. Che andò avanti fino alle 5,30 del mattino, quando Ricasoli in persona si affacciò alle porte della tipografia, lesse le bozze, dette il suo assenso, e quindi il nuovo quotidiano potè andare in stampa. Proprio per la mancanza di carta, ma anche per la difficoltà a scrivere e comporre due pagine in “folio”, il primo numero uscì in una dimensione che oggi avremmo detto “tabloid”. Comunque uscì, e poco dopo le 10 del 14 luglio fu distribuito in città, pur non avendo ancora tutte le indicazioni previste dalla legge, né indicazioni per gli inserzionisti pubblicitari e neppure il numero progressivo. Si trattava, insomma, di quello che oggi avremmo definito un “numero zero”, ovvero una prova. E comunque, pur nella sua veste provvisoria, e per certi aspetti dimessa, La Nazione andò subito a ruba. A sollecitarne l’acquisto era infatti un manifesto, che Ricasoli aveva fatto affiggere fin dalle prime ore del mattino, nel quale si confermava la fedeltà della Toscana a Vittorio Emanuele pur con l’armistizio di Villafranca, ma nello stesso tempo si chiamavano i patrioti a far quadrato, in quei giorni e in quelle ore difficili, intorno al progetto unitario. E dunque La Nazione non faceva altro che continuare in questa opera di>

La coccarda tricolore adottata dal governo della Toscana nei giorni del plebiscito che sancì l’annessione al Piemonte nel marzo 1860. Si compie così un decisivo passo verso la creazione dello Stato nazionale italiano.


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Nei primi anni di vita La Nazione cambia spesso l’impaginazione e la grafica. Viene rivista anche la testata che a volte si presenta con con il sottotitolo “giornale politico quotidiano”.

L’avvocato Piero Puccioni (nella foto in alto a destra) uno dei primi redattori del giornale. Sotto: Ubaldino Peruzzi che fu sindaco nei giorni di Firenze capitale.

raccolta di tutte le forze possibili perché l’armistizio non fosse un atto definitivo e in qualche modo le speranze risorgimentali avessero nuovi e immediati traguardi da aggiungere Ma com’era composto quel primo giornale? Il d’Ancona scrisse l’ articolo di fondo, Cempini, Fenzi e Puccioni scrissero l’avviso ai lettori nel quale si indicavano le linee guida del nuovo quotidiano, per il resto si raccolsero notizie apparse già in altri giornali del Nord Italia, notizie da periodici francesi, e insomma si lavorò di forbici e di colla come spesso accadeva nei giornali dell’epoca, e non solo. E dunque, La Nazione uscì con mezzi di fortuna, e senza neppure l’indicazione del prezzo dal 14 al 18 luglio compreso, firmato dall’avvocato Leopoldo Cempini come direttore responsabile e dalla tipografia “Barbera – Bianchi e c.” come stampatrice. Ma finalmente, il 19 luglio ecco il primo numero ufficiale, e la veste definitiva del quotidiano fiorentino. La testata si presenta con la scritta “La Nazione” e come sottotitolo “Giornale politico quotidiano”. Al di sopra è la dicitura “Anno I, Firenze martedì 19 luglio 1859, n. I”. Sono presenti anche le modalità ed i costi per le inserzioni pubblicitarie. È dunque questo il primo numero ufficiale del giornale, e a questa data ci si rifà quando si tratta di ricordare il nostro giornale sotto il profilo storico. Ma il programma, come accennato, già era chiaro ai lettori fin dalla edizione del 14. E infatti, il d’Ancona aveva scritto in quel

primo numero, fra l’altro: “La causa italiana può forse soffrire ancora dolorose fasi per raggiungere il suo compiuto sviluppamento: forse ancora i nobili sacrifici per dieci anni sostenuti dal Piemonte, i lunghi martirii del lombardo veneto l’avvilimento e il servaggio in cui erano tenute le rimanenti provincie, il sangue di Montebello, di Palestro, di Varese, di Magenta, di San Martino non sono sufficienti a redimere la nostra patria e costituirla indipendente, libera ed una. La Toscana deve adesso manifestare unanime il suo volere, onde non riponga più piede fra noi un principe che, presente alla battaglia di Solferino faceva voti per la sconfitta delle armi italiane, per farsene strada per risalire al trono. (il Granduca di Lorena, infatti, lasciata Firenze, aveva combattuto a fianco degli austriaci a Solferino e questo risultò ai patrioti, comprensibilmente, un atto imperdonabile n.d.r.) Ricordiamo infine l’amore e la devozione che da noi si deve al primo soldato dell’indipendenza italiana, a Vittorio Emanuele, e come la sua sola parola, e non quella dell’ira subitanea, deve essere ascoltata dagli italiani. Noi gli abbiamo giurato fede mentre si perigliava magnanimante nelle battaglie contro l’Austriaco: noi dobbiamo tenergli fede ora che il suo cuore sarà contristito dagli avvenimenti che inaspettatamente ci colgono.” Riuscì, La Nazione, a raccogliere intorno al Ricasoli le forze dei patrioti, e questo rese più incisiva e determinata l’azione

del Barone di ferro. Ricasoli, infatti, spedì i suoi uomini in Piemonte, dove era presente una forte componente politica che avrebbe preferito, per motivi di politica internazionale, limitarsi a quanto ottenuto a Villafranca. E lo stesso Cavour – dimissionario dopo Villafranca e un duro scontro con il Re - in certe ore sembrò sul punto di cedere a questa tesi, rinunciando a successive battaglie anche solo politiche. Fu dunque il Ricasoli, e La Nazione al suo fianco, a sostenere la necessità di andare avanti, nonostante l’avversa congiuntura politica e militare. Furono lui ed il suo giornale, a sollecitare l’annessione della Toscana al Piemonte, cosa che avvenne con il referendum che si trasformò in un plebescito della causa risorgimentale, e a sostenere in tutti i modi l’impresa di Garibaldi nelle due Sicilie. E dunque i numeri del nostro giornale che vanno dalla nascita fino al settembre del 1860, rappresentano un’antologia di testi fra i più appassionati, fieri e vibranti, nella storia del nostro Risorgimento. Pagine nelle quali furono presenti le più grandi firme del mondo politico e letterario del periodo. Si pensi, ad esempio, che come inviato speciale a seguire l’impresa dei Mille, La Nazione mobilitò niente di meno che Alessandro Dumas, e che a scrivere le cronache del plebiscito fu uno scrittore destinato ad una immensa fama, Carlo Lorenzini in arte Collodi.


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Villafranca: il Veneto resta all’Austria L’accordo, che pose fine alla seconda guerra di Indipendenza, prevedeva anche il ritorno dei Lorena in Toscana e la nascita di una federazione di stati

Alla notizia dell’accordo di Villafranca Cavour ebbe un duro scontro con il Re e si dimise. Ricasoli rimase così l’unico che ancora credeva possibile operare per l’obiettivo dell’Unità d’Italia.

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osa significava l’armistizio di Villafranca, arrivato a concludere, del tutto inaspettato, la seconda guerra di indipendenza nella quale il Barone Ricasoli e i patrioti toscani riponevano il massimo delle speranze, dopo il successo ottenuto sul campo nella battaglia di Solferino? Si sanciva il fatto che la Lombardia, esclusa Mantova, passasse ai piemontesi e questo era sicuramente positivo. Ma le restanti clausole erano di ben altro tono. E infatti il Veneto, il Trentino, la Venezia Giulia e la Dalmazia restavano all’Austria. Ma non solo, i territori dell’Italia centrale, a cominciare dal Granducato di Toscana avrebbero dovuto tornare ai loro sovrani, e dunque era previsto il ritorno dei Lorena nella loro reggia fiorentina, con ciò abolendo il governo toscano del quale Ricasoli reggeva le sorti che si era formato dopo la partenza del Ganduca. Inoltre, in un secondo tempo, tutti gli Stati dell’Italia centrale avrebbero dovuto riunirsi in una confederazione guidata dal Papa, e questo, per una figura profondamente cristiana, ma altrettanto forte nelle sue convinzioni laiche come il Barone di ferro, era inaccettabile. Ricasoli, infatti, veniva a trovarsi da solo in mezzo al guado. Contro di lui non c’era soltanto l’accordo tra Francia ed Austria, c’erano anche i circoli granducali che in Toscana stavano riprendendo forza, c’erano i sostenitori di un’Italia unita e indipendente ma repubblicana, c’era infine chi lavorava per un Regno d’Etruria da affidare a Gerolamo Bonaparte. Più sottilmente, c’era perfino una forte componente politica piemontese, preoccupata della situazione generale, che sollecitava a Firenze un ritorno di Leopoldo II. Come dire: “scusateci, abbiamo scherzato fino ad oggi”. E allora, perché le grandi potenze avevano deciso per l’accordo? Perché gli equilibri europei

stavano mutando. Perché i francesi temevano le truppe prussiane che proprio in quelle settimane si andavano pericolosamente ammassando ai loro confini. Perché un’Italia libera piaceva a molti dei regnanti europei, ma si voleva evitare che fosse troppo forte e potesse in qualche modo modificare gli equilibri che si erano andati assestando dal congresso di Vienna in poi. Ebbene, in soli otto mesi Ricasoli, con La Nazione a suo fianco, riuscì a modificare questa situazione. Lo fece ricorrendo a tutte le firme più motivate e più note del suo tempo. Troviamo così, a firmare ne La Nazione di quel periodo Massimo D’Azeglio e Niccolò Tommaseo, Luigi Settembrini e Silvio Spaventa, e ancora Giuseppe Morelli, Leopoldo Galeotti, i giovanissimi Augusto Franchetti, Sidney Sonnino, Ferdinando Martini, Giosuè Carducci, e poi Luigi Capuana, Edmondo De Amicis, Pasquale Villari.

I rischi dell’armistizio

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ltre a provocare le dimissioni di Cavour l’Armistizio di Villafranca poneva pesantemente sul tappeto la “questione romana”. Si ipotizzava infatti una Federazione degli stati del Centro e del Sud Italia con a capo Papa Mastai Ferretti, Pio IX.


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Il Savonarola del Risorgimento Da sostenitore del Granduca a “Barone di Ferro”: ecco come avvenne la trasformazione politica e morale di Bettino Ricasoli

«Per domattina

voglio il giornale

»

Così si rivolse il Capo del Governo toscano e fondatore de La Nazione al Fenzi al Puccioni e al Cempini che aveva convocato in Palazzo Vecchio la sera del 13 luglio 1859

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om’era successo che il Barone – così a Firenze chiamavano il Ricasoli – era passato dalle posizioni moderate, e dal suo consenso al Granduca Leopoldo, ad una scelta risorgimentale più forte dei calcoli della “ragione di stato” e di quelli della diplomazia, fino a diventare - così lo definisce Giovanni Spadolini - il “Savonarola del Risorgimento”? “Dopo Villafranca – dirà un giorno Ricasoli – ho sputato sulla mia vita”. E già il termine “sputato” così insolito per un uomo del suo rigore morale e formale, la dice lunga su cosa accadde alla notizia dell’armistizio. E in effetti, quello che accadrà da allora in poi, equivale ad una vera e propria rivoluzione dell’animo,

e quindi, a maggior ragione, del suo modo stesso di far politica. E dunque, nel quarantotto Ricasoli era stato gonfaloniere granducale, era un moderato Leopoldino, perché riconosceva al Granduca la capacità di governare “illuminato”, attento cioè alle necessità del suo popolo e ai grandi temi della politica internazionale. Ma nel periodo fra il 1852 e il 1855, accadde qualcosa, anche nella sua vita privata, che avrà un peso enorme per le sue scelte future. La scomparsa della moglie “colei – scriverà Ricasoli – a cui consacrai tutta la vita” lo lasciò in uno stato di costernazione che confinava con il misticismo. Nello stesso periodo il matrimonio della figlia lo fece sentire sempre più solo.

A tutto questo Ricasoli reagirà con un impegno senza tregua nel lavoro. In primo luogo le bonifiche in Maremma, poi i lavori nella sua tenuta e nel castello di Brolio, ma nello stesso tempo il recupero di sue antiche amicizie, quelle che aveva fatto a Ginevra e a Zurigo, pochi anni prima, e che lo avevano spinto su posizioni gianseniste. Era talmente forte questa spinta, questa sua profonda riflessione religiosa che a un certo punto sembrò sul punto di avvicinarsi al calvinismo riformato. Ebbene, in questo periodo di grandi suggestioni anche emotive, Ricasoli prese a coltivare un grande sogno, un miraggio quasi, quello dell’Unità d’Italia. Una spinta talmente forte, che storici come

Spadolini non esitano a paragonarla a quella che spingeva Mazzini, pur su posizioni ovviamente diverse. E comunque, fra i due, ci fu e ci sarà sempre il massimo rispetto, tanto che Ricasoli si rifiuterà di arrestare Mazzini quando questi fu in Toscana, perché in cuor suo sentiva che il genovese gli era umanamente simile, nell’anima e nel “fervore per le cose patrie”. Fu così, che quando i liberali di Toscana, provarono – era il 1857 – a conciliare la scelta lorenese con quella piemontese, sperando con ciò di “cambiare tutto perché nulla cambi”, lui, non abituato ai compromessi, si getterà con estrema vis polemica contro di loro. E confidandosi con Ubaldino Peruzzi, nel 1858, scriverà “contro quei politici e pubblicisti che avrebbero dottrina e studi” ma “mancano di quel nervo che solo ha influenza sulle moltitudini”. E dunque, non erano accettabili, per lui, i liberali pronti a conciliare tutte le contraddizioni, impegnati unicamente a mediare, a cercare la quadratura del cerchio. “Moltitudini snervate e molli” li giudicava. E di tutto questo dava la colpa alla decadenza del mondo intellettuale, a coloro cioè che “scrivono sotterrando in tante parole snervate l’idea bella, civile e italiana, che non si sa dove sia, e non acquista mai forza di diventare popolare”. Il grande obiettivo di Ricasoli era così diventato quello di “sprovincializzare l’Italia”. Per questo, per ottenere un traguardo tanto ambizioso, superò anche le sue iniziali propensioni per il metodo federale, che si riallacciavano all’esperienza del quarantotto e che ancora sosteneva nel suoi scritti del 1849. Ebbene, quando prese la guida delle vicende risorgimentali, il Ricasoli si mosse come “invasato”, mosso cioè da una spinta che andava ben al di là delle opportunità politiche, del tipico linguaggio della politica e della diplomazia di quei giorni. Scriveva al fratello nel novembre del 1859 “La Toscana

è nelle mie mani e solo io posso essere giudice”. L’accentramento amministrativo fu il mezzo col quale prese ad agire. E con fermezza respinse ogni tentativo di modificare la strada intrapresa. Un atteggiamento che lo accompagnerà in ogni azione. Si pensi come, nel 1859, invocava, contro coloro che si opponevano alla annessione della Toscana al Piemonte “il furor di popolo”, e come non esitò a domare con la forza, nel 1866, quando ormai l’Italia era fatta e lui era presidente del consiglio, la rivolta palermitana dell’agosto, voluta dai nostalgici dei Borboni. Ma anche nei giorni della presa di Roma e di Porta Pia, lui fu categorico, certo com’era che occorreva una libera Chiesa in un libero Stato. Eppure, Ricasoli, era e sarà sempre un uomo di profondissima fede. Si pensi alla sua frase “il nostro duomo, il duomo di Firenze, vale per sé solo a richiamare a Dio un’anima perduta, che solo un istante abbia la sorte di penetrarvi dentro.” Ma d’altra parte, lui sentiva infinitamente di più il valore di Roma papale riformata e conciliata con lo Stato che non il fascino di Roma capitale d’Italia, della Roma cavouriana e piemontese, che fosse al centro delle mediazioni diplomatiche. Per questo, dunque, il Ricasoli può essere definito il Savonarola del Risorgimento. E per questo, storici come Spadolini non esitano ad affermare che se Mazzini fu il profeta della sinistra, Ricasoli lo fu, con pari fervore, per la destra. Per questo, alla sua morte, furono molteplici gli omaggi che arrivarono, anche da sponde in apparenza inaspettate. Come Aurelio Saffi, amico e biografo del Mazzini, repubblicano schietto e leale che si rivolgerà “reverente, all’esempio di amor patrio”, di Bettino Ricasoli.


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Lo stemma sabaudo sulla testata Così Giovanni Spadolini, per i 130 anni de La Nazione, scriveva sul nostro giornale del ruolo fondamentale che Ricasoli e il quotidiano fiorentino avevano svolto a favore della causa risorgimentale.

di Giovanni Spadolini

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entotrent’anni. Sono gli stessi dell’Unità nazionale, avviata nel 1859 anche se completata nel 1861. E nessuna testata di giornale si identificherà così intimamente con la genesi di uno Stato nazionale. L’Italia non sarebbe diventata nazione senza lo sbarramento che la forza d’animo di Ricasoli – fondatore e animatore de La Nazione – oppose al Regno dell’Alta Italia, regno italico di napoleonica memoria, inserendo il nesso toscano nel nesso nazionale e rompendo il confine degli Appennini. La Nazione fu il segno predestinato di quello sbarramento. Nel luglio 1859 l’Italia come Stato nazionale e unitario era un sogno che si accingeva a diventare realtà, che veniva consacrato realtà prima di esserlo. Storia d’Italia e storia di Firenze si intrecciano, nel graduale passaggio dal giornalismo politico di opinione, di risorgimentale memoria, al giornalismo di informazione. Qualche centinaio di copie all’inizio (si toccherà la cifra record di tremila agli inizi degli anni Settanta, cioè alla fine del quinquennio di Firenze capitale), circa 300mila oggi: quasi un simbolo dell’Italia che cresce. Ho raccontato nelle mie pagine su Firenze Capitale quella straordinaria notte in cui Bettino Ricasoli, ministro dell’interno ma in realtà dittatore di Toscana, che decise la nascita di un quotidiano, per l’indomani, dopo che per settimane si era opposto all’analoga richiesta degli amici fiorentini, Carlo Fenzi, Leopoldo Centini, Piero Puccioni. È il 13 luglio 1859. Siamo nel vivo della guerra di indipendenza, ma tutto in poche ore sembra precipitare e cambiare. È appena giunta la notizia degli accordi di Villafranca, che arrestano la guerra franco – piemontese alla Lombardia con la rinunzia alla liberazione del Veneto: Ricasoli, infuriato non

meno di Cavour che a Monzambano ha insolentito il Re e rassegnato le dimissioni. Grava l’ombra della restaurazione dei sovrani spodestati, la meta dell’Unità nazionale sotto il Re Galantuomo Vittorio Emanuele, sembra dileguarsi. Ricasoli non è Cavour. La sua reazione è diversa, è per la immediata battaglia, l’immediato rifiuto. Occorre un quotidiano politico, per far capire alle cancellerie europee che la Toscana è ferma nel rivendicare il diritto di autodecisione (nel rispetto del voto di annessione al Regno di Sardegna), nel tenere sollevati gli animi recando ai patrioti fiorentini e toscani una parola di fede e di speranza. Tutto è improvvisato, per avere il primo numero del nuovo quotidiano, dodici ore dopo averne decisa la nascita. Il titolo lo decide Ricasoli “La Nazione”, la nazione come fatto acquisito della coscienza italiana, come punto di partenza irrevocabile. Per le notizie, Ricasoli offre i giornali che ha sul tavolo (Gazzetta di Genova, l’Opinione, Siecle) e invita gli amici a usare le forbici, per riempire quel foglio programmato, nelle parti non occupate dall’articolo di fondo, dall’articolo politico, il solo che al leader dei moderati toscani veramente interessa. Quell’articolo verrà affidato ad Alessandro d’Ancona che sarà di lì a poco direttore politico del giornale retto per meno di un mese da Leopoldo Cempini. Stampatore il tipografo Gaspare Barbera, l’editore della “Biblioteca civile dell’italiano”, patriota convinto, artigiano piemontese formatosi a Firenze, sensibile ad ogni voce di libertà e di unità. È là, nella sua tipografia in fondo a via Faenza, non lontano dalla Fortezza da basso, si reca Bettino Ricasoli in persona, la mattina alle 5,30 per leggere il pezzo di d’Ancona, per impartire le ultime disposizione, per im-

porre l’uscita del “mezzo foglio” per le 10 in punto del mattino. Ci sarà. Per cinque giorni La Nazione fu pubblicata in quel patetico mezzo foglio, improvvisata con entusiasmo di pochi redattori volontari, di pochissimi tipografi volontari: senza neppure indicazione di prezzo, senza nome di gerenti o di responsabili. Solo il 19 luglio comparirà il n.I. Il primo numero ufficiale della serie. Sotto il titolo una breve dicitura: “giornale politico quotidiano”. Dopo il settembre fino a tutto il 1860, quasi a non lasciare dubbi sul programma: uno scudo sabaudo sovrastante la testata. Quotidiano di Firenze, non di “firenzina”: niente di provinciale, di nostalgico, di municipale. La prima battaglia, prima di un secolo e mezzo di battaglie e di storia, quella dell’unità nazionale, per l’Italia destinata a protendersi dalle Alpi alla Sicilia. Tutto qui. Il grande giornale della destra toscana, il giornale che doveva assecondare le battaglie del primo e del secondo ministero Ricasoli, il giornale che doveva avallare i progetti per la libertà della Chiesa e sanzionare il ritorno di Venezia all’Italia, nacque senza capitali, senza una propria redazione, senza una propria tipografia: per un solo slancio di cuore, per un solo moto irresistibile della coscienza liberale toscana decisa a trovare a tutti i costi le strade per imporre i propri ideali e per far trionfare le proprie scelte. Ideali di unità, di indipendenza, di libertà, secondo il programma di Cavour. Libertà economica e amministrativa, piena e assoluta libertà di coscienza, libertà politica col solo limite del rispetto dell’ordine pubblico. Una linea cui il giornale ha cercato di mantenersi fedele, accompagnando nelle varie epoche, dall’Unità ad oggi, la crescita, non facile e talora tumultuosa del Paese… Rivivono in quelle pagine i

Il Cavalier Attilio Monti, proprietario de La Nazione è al centro fra il senatore Giovanni Spadolini e il sindaco di Firenze Massimo Bogianckino durante le celebrazioni per i 130 anni del nostro giornale.

grandi temi e problemi dello stato unitario e post unitario, i complessi rapporti fra Stato e Chiesa, la ricerca di un adeguato ruolo dell’Italia nel contesto delle nazioni europee, la fase di rinnovamento che accompagnò la rivoluzione parlamentare del 1876 e l’avvento della Sinistra al potere, le preoccupazioni e i timori della borghesia di fine secolo davanti ai primi scioperi, alle agitazioni sociali, lo scetticismo davanti alle “aperture” giolittiane, di cui si seppero cogliere gli aspetti negativi più che quelli positivi (come del resto accadde al maggior quotidiano del periodo il Corriere della Sera di Luigi Albertini), le inquietudini della guerra e del dopoguerra, gli anni bui del fascismo e del regime totalitario.

È il secondo risorgimento, quello che nasce dalla resistenza e dalla lotta di liberazione, fino alla costituente e alla Repubblica, questa Repubblica. Alla fedeltà all’antico liberalismo si aggiunge la fede nella democrazia, “non per adeguamento a contingenti opportunità”, come scriveva l’indimenticabile amico Nino Valeri, ma come riconoscimento, appunto, della maturazione avvenuta in 130 anni di storia della “coscienza politica” del popolo italiano. La nostra società è cambiata per tenore di vita, per livelli di vita, per costumi e per cultura, nel quarantennio della Repubblica – ricorda Giorgio Amendola - più di quanto sia accaduto nei quasi duemila anni che hanno seguito l’avvento del Cristianesimo.


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Biaggi: il critico musicale che bocciò Giuseppe Verdi Compositore, esecutore, docente di storia della musica, inaugurò la grande stagione della critica teatrale e operistica del giornale di Ricasoli

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bbero grande credibilità fin dall’inizio i critici de La Nazione. Il primo dei quali, Girolamo Alessandro Biaggi, svolse la sua attività ininterrottamente per trent’anni, dal 1863 al 1893. Un primato mai superato da nessuno, e che fu reso possibile dal fatto che La Nazione degli inizi si rivolgeva sempre a giovani e giovanissimi, tanto che il d’Ancona si trovò a dirigerla che aveva poco più di vent’anni. E dunque, il Biaggi si occupava di spettacoli d’opera, di concerti, di libri di argomento musicale, e poiché la Firenze risorgimentale aveva ereditato dai Lorena una intensa attività teatrale, il lavoro davvero non gli mancava. Il Biaggi usciva con la sua rubrica tutti i martedì, in quelle che venivano chiamate le “appendici”, ovvero cronache in qualche modo non collegate alla stretta e quotidiana attualità, ma soprattutto che non avevano a che fare con la politica.

Era, Girolamo Biaggi, assieme con Francesco d’Arcais che scriveva sull’Opinione di Roma ed era corrispondente della Nuova Antologia e Filippo Filippi, che scriveva sulla perseveranza di Milano, un critico tra i più temuti e credibili del panorama editoriale italiano. Le sue conoscenze specifiche erano innegabili e dunque, un suo elogio o una sua stroncatura avevano conseguenze non da poco sull’esito di uno spettacolo. La Nazione fu certamente il primo, fra i quotidiani nazionali, che dedicò alla critica musicale spazi che all’epoca erano inconsueti, con ciò facendo concorrenza alle riviste specializzate che invece erano numerose e soprattutto a Firenze e Milano. Ma d’altra parte c’è una spiegazione, perché proprio a Firenze vivevano in quegli anni - la seconda metà dell’Ottocento – le elite intellettuali che avrebbero dato vita alle prime società di concerti italiane, “le società del quartetto” che avevano una preparazione musicale di livello europeo, con ciò distinguendosi profondamente dal provincialismo che dominava nell’Italia di allora. Biaggi non era fiorentino. Era nato a Calci di Bergamo nel 1819, era stato allievo del celebre violinista Alessandro Rolia ed era stato concertista prima di intraprendere anche l’attività di operista. Dunque, quando La Nazione lo scelse come critico – anche per le sue fervide convinzioni unitarie e risorgimentali - e con ciò gli impose di trasferirsi a Firenze - il nuovo redattore fu accolto a braccia aperte anche dagli accademici del suo mondo, e ben presto fu invitato ad insegnare anche storia ed estetica della musica al Regio istituto musicale. Biaggi, come gran parte degli intellettuali fiorentini di quei giorni non amava particolarmente il Verdi, mentre guardava con ben altri occhi le novità, a cominciare dal Lohengrin di Wagner che commentò

con ammirazione dopo averlo visto a Bologna per la prima. Guardò con molta attenzione anche la Carmen di Bizet, e non si tirava certo indietro nel recensire i giovani, così che fecero scalpore per l’acutezza delle osservazioni le sue critiche alla Cavalleria Rusticana di Mascagni e alla Manon Lescaout di Puccini. Non meraviglia, dunque, se alla sua morte avvenuta nel 1897, al critico musicale de la Nazione fossero attribuite onoranze degne dei più grandi esponenti della politica e della cultura di quei giorni. Nel frattempo si era inserito nel settore musicale un giornalista che oggi diremmo “tuttofare”, Giulio Puccini detto Jarro. Che certo non aveva la preparazione specifica del suo predecessore e quindi era più un cronista musicale che un critico vero e proprio. Ma Jarro conosceva bene la sensibilità “media” dei suoi lettori, e ad essa si adattava, così che le sue cronache permettevano di capire sino in fondo quali risultati avrebbe avuto un’opera con il grande pubblico, che Jarro rappresentava come pochi. Per Jarro, del resto, più che le analisi canore dei singoli interpreti, interessavano aspetti che sembrano appartenere al giornalismo di oggi. Così non esitava a scrivere che “il soprano Eva Terrazzini” indossava sulla scena un costosissimo abito di trine del costo di 2000 lire e gioielli che ne valevano 50 mila. Dopo Jarro fu critico de La Nazione un altro grande esperto di musica, Giannotto Bastianelli che assolse al suo incarico dai primi del Novecento fino al 1927. Bastianelli riprese la grande tradizione del Biaggi. Era un compositore in perfetta assonanza con la “generazione dell’Ottocento, ed era anche un esecutore, un pianista per la precisione, tanto che nel suo curriculum era anche la prima esecuzione del Trio Italiano di Ravel.

Dopo Girolamo Biaggi (nella foto in basso a sinistra) la critica musicale del quotidiano passò provvisoriamente a Jarro e successivamente al prestigioso Giannotto Bastianelli (nella foto in alto).


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Le grandi firme

COLLODI, YORIK, CARDUCCI, DE AMICIS: ECCO CHI FURONO I PRIMI GIORNALISTI Un gruppo di giovani destinati a strepitosi successi nella letteratura e nella poesia si avvicinò nei primissimi anni al quotidiano di Firenze

N Alessandro Dumas fu il primo inviato speciale de La Nazione. Toccò a lui scrivere i resoconti dell’impresa dei Mille.

on è un caso che il primo fondo del giornale fosse scritto da Alessandro d’Ancona, destinato a diventare, con la cattedra di letteratura alla università di Pisa, uno dei più rispettati e noti italianisti e critici letterari del suo tempo. La Nazione, infatti, ebbe fin dai primissimi giorni l’apporto delle migliori firme dell’epoca in una Firenze che era in quei giorni illuminata dalle prestigiose presenze del gabinetto Vieusseux, dalle figure del Tommaseo e più ancora da quella di Gino Capponi, di certo il personaggio più significativo a Firenze e nella Toscana. Da ciò, l’attenzione che il foglio di Ricasoli riservò, fin dai primi numeri ai programmi scolastici, alla vita nell’università, al teatro e all’arte in genere. Il primo cronista del giornale fu Collodi, ancora lontano dai giorni di Pinocchio, ma già conosciuto per le sue recensioni teatrali e per alcune commedie apparse in riviste del settore. Collodi arrivò con un contratto da critico teatrale, ma in realtà scrisse un po’ di tutto fino al ’60. Poi riprese le sue collaborazioni nel ’66 e infine concesse ad altri il suo posto, ma dopo aver lasciato il segno fra i lettori. E infatti fu lui, con la sua prosa briosa e convincente, anche cinica e spietata come nella migliore tradizione fiorentina, che in qualche modo insegnò a “far cronaca” anche se la cronaca di allora era ben diversa da quella di oggi, e i fatti, invece di essere il motivo stesso che giustificava un’articolo, quasi ne rappresentavano un elemento casuale, li si davano per scontati, e forse lo erano davvero, perché la dimensione della Firenze di allora era tale che un qualche accadimento lo

si conosceva con il passa parola quasi in tempo reale. Firma nel frattempo sul giornale il Lambruschini, impegnato sui temi pedagogici. Scrive Michele Lessona il celebre naturalista che introduce il pubblico fiorentino alla controversa questione darwiniana, ma ecco già nel ’61 un giovanissimo Carducci che firmerà fra il ’61 e il ’63 un centinaio di rassegne letterarie. La sua collaborazione è il segno di quanto liberale e tollerante fosse la direzione, e in genere lo spirito del giornale che allora, come oggi, sempre è stato aperto al contributo di personaggi anche diversi rispetto alla sua linea editoriale. Perché il popolarismo di Carducci, la sua prosa, in quegli anni, talvolta piena di strali se non di acredine, ben poco avevano a che fare con il mondo borghese a aristocratico al quale La Nazione si rivolgeva.

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opo Collodi, il posto di cronista “itinerante”, attento alle curiosità di ogni tipo da raccontare al meglio, fu preso da Pier Coccoluto Ferrigni, conosciuto allora ed oggi col nome di Yorik, livornese di nascita, che raccontò ai fiorentini le grandi ristrutturazioni urbanistiche di quel periodo, la nascita del piazzale Michelangelo, il palio di Siena, i più sfavillanti negozi di Firenze dove far compere, i cabaret, e non ultimo le prime villeggiature dei toscani che all’epoca si dividevano fra la Versilia e Livorno, salvo non preferire la montagna ed in particolare Vallombrosa. Ma accanto ai questi “cronisti” di eccezione continua la serie dei nomi altisonanti e dei temi che interessano solo l’elite colta. De Gubernatis, ad esempio, scri-

ve di letteratura sanscrita, Isidoro del Lungo recensisce libri colti. Il tutto mentre La Nazione, anche grazie alla presenza in città del gabinetto Vieusseux, non si lascia scappare i grandi titoli che appaiono in quegli anni all’estero. Così i fiorentini, grazie a La Nazione, conosceranno in tempo reale l’uscita dei “Miserabili”, di Hugo ma anche la “Vita di Gesù” di Renan, o le note soriche di Pasquale Villari. Il tutto mentre viene affidata ad Alessandro Dumas padre la cronaca per eccellenza, quella dell’impresa dei Mille.

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ncora negli anni Sessanta, La Nazione introduce un giovanissimo scrittore, Ferdinando Martini, che diverrà poi protagonista della vita letteraria ma anche politica dell’Italia Unita. Ma agli inizi il Martini cerca di fare concorrenza al Collodi, si compiace di una prosa divertente, briosa, si dedica alla critica d’arte e alla critica letteraria. Cambiano i toni del giornale alla metà degli anni Sessanta, quando la città diventa Capitale. L’attenzione agli aspetti economici ( in quegli anni Firenze si indebitò oltre misura, l’amministrazione comunale sull’orlo del fallimento fu costretta a dimettersi e inutilmente Ricasoli ed i suoi si batterono perché lo Stato si facesse carico dei debiti accumulati da Firenze) divenne una costante. Ma anche quella per il parlare dei fiorentini, il loro linguaggio, visto che Manzoni nella sua famosa relazione aveva ormai detto a chiare note che gli italiani avrebbero dovuto parlare fiorentino e La Nazione, ovviamente, quella relazione l’aveva riportata per

intero, pur senza entusiasmarsi alle ipotesi e proposte manzoniane. E dunque, la città cerca di sprovincializzarsi più che può, e La Nazione è interprete di questa necessità sempre più spesso, riportando notizie dal resto d’Europa, sempre più spesso pubblicando resoconti da Londra, da Parigi, perfino dagli Stati Uniti d’America, fino ad allora presenti nell’immaginario collettivo solo come il luogo dei Sioux e di Buffalo Bill che, non a caso, verrà a Firenze più volte col suo famoso circo. Ma, nel frattempo, nuove firme e nuovi scrittori si impongono, proprio attraverso le pagine de La Nazione. Il primo è un siciliano che risponde al nome di Luigi Capuana, e che diverrà con Verga il protagonista della stagione verista. Il secondo è invece un piemontese, Edmondo De Amicis, arrivato poco più che ventenne a Firenze diventata capitale, come responsabile del giornale delle forze armate. Ebbene, fu un grande direttore de La Nazione, Celestino Bianchi, a “scoprirlo” e dopo aver letto certi suoi racconti – in verità strappalacrime, almeno col gusto di oggi – si convinse che De Amicis avrebbe potuto essergli molto utile per conquistare lettori in un’epoca in cui i romanzi di appendice – regolarmente pubblicati a puntate come taglio basso della prima pagina dai giornali dell’epoca, e da La Nazione fra gli altri – andavano per la maggiore e invitavano alla lettura anche classi sociali altrimenti estranee al mondo dell’informazione. De Amicis esordì su La Nazione con la storia di un povero soldato che, pur assalito dall’arsura in un terreno deserto, stremato,


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Otel, Last but not least

Carlo Lorenzini, (qui sopra) che si firmava Collodi, fu assunto a La Nazione con un contratto di critico teatrale. Nella realtà si occupò di ogni aspetto della cronaca.

non per questo rinuncia al suo dovere e porta a compimento una missione del massimo rilievo. L’articolo piacque e così la sua collaborazione divenne costante, tanto che il direttore Celestino Bianchi, poiché dal 1871 al 1873 fu Re in Spagna un rampollo di casa Savoia, lo spedì da quelle parti per raccontare come viveva e governava il Re italiano. E d’altra parte, essendo in quei luoghi che all’epoca apparivano lontani, lontanissimi, il De Amicis non perse l’occasione per scrivere di corride e di ventagli, insomma fece il lavoro classico di un inviato speciale che si sofferma sulle curiosità dei luoghi che va visitando. Quegli articoli ottennero il consenso dei letterati e l’interesse dei lettori, così il primo “inviato viaggiante” della storia del giornalismo italiano, che si muoveva cioè non per un fatto (come aveva fatto Dumas all’impresa dei Mille) ma su un luogo, un paese diverso e lontano, fu proprio il De Amicis. I suoi viaggi continuarono poi in Marocco, e alla fine il tutto fu raccolto in un volume che ebbe successo di lettori e di critica. Ma De Amicis fece anche altro. Fu lui, ad esempio, a scrivere le cronache della presa di Roma, dalla Breccia di Porta Pia ai giorni che seguirono. Anche se le sue corrispondenze arrivarono a Firenze dopo giorni, scritte su una cartolina postale che, pur

regolarmente affrancata, causa le poste regie impiegò quasi una settimana ad arrivare. Negli anni Ottanta dell’Ottocento, la Nazione che alternava periodi di grande attenzione ai fatti internazionali ad altri nei quali sembrava che gli unici interessi fossero la statua di Dante, e il modo e il luogo dove posizionarla, ormai era diventata il giornale più letto ma anche più antico di Firenze, tanto da essere soprannominata “La Nonna” e come tale ritratta sui fogli satirici del periodo. Un “soprannome” che il giornale non perderà mai, almeno fino agli anni Settanta del secolo scorso, quando ancora all’interno de La Nazione era stampato, ad uso interno, un giornaletto aziendale intitolato proprio La Nonna. Ebbene, in questo periodo, si impose la firma di Jarro, al quale erano affidate cronache fiorentinissime, scanzonate, ma attento e intelligente osservatore della vita cittadina. Anche lui, come Yorik e Collodi raccontava delle vacanze dei fiorentini, dei loro vizi e delle loro – rare – virtù. Ma in certi casi Jarro era anche un ottimo critico teatrale, e perfino un fustigatore dei costumi, dai toni perfino drammatici. Fu lui, infatti, che scrisse una serie di articoli destinati a cambiare il destino di Firenze. Poiché da vent’anni si parlava della necessità di ristrutturare il centro storico, ed

in particolare l’area del Ghetto che più o meno si trovava negli spazi occupati oggi da piazza della Repubblica, Jarro scrisse una serie di articoli destinati a far una grande clamore sulle condizioni di vita della povera gente in quei tuguri. Jarro descrisse come decine di persone vivessero un due stanze umide e senza luce, come i briganti avessero sicuro rifugio in quei vicoli medievali, come la prostituzione e tutte le peggiori malattie ad essa collegate, regnassero nei luoghi che andavano distrutti. A spingerlo in quella direzione furono soprattutto due motivi. Uno, il desiderio delle imprese di costruzione locali , guidate però da una azienda inglese, a poter distruggere ed eventualmente ricostruire. L’altra il fatto che , proprio gli inglesi, come al solito critici della nostra realtà pur avendo scelto a migliaia di abitare sulle nostre colline, andavano sostenendo sui loro giornali che Firenze era una città malsana dove si moriva ancora di colera. E dunque, gli articoli di Jarro fecero breccia sull’opinione pubblica, le demolizioni ebbero inizio, e quando quasi erano arrivate a fine si ebbe il terzo atto della vicenda, sempre guidata dalla comunità inglese. Alcuni esponenti del

mondo dell’arte e della cultura londinese, mossi da una loro compatriota, la poetessa Vernon Lee che abitava a villa Il Palmerino, nella via omonima, tra Fiesole e Settignano, accusò i fiorentini di essere dei vandali e di aver distrutto vestigia del loro passato medievale. Aveva ragione lei, ma forse, vista la sua appartenenza alla comunità inglese, era la persona meno indicata per quel tipo di battaglia. Giosuè Carducci (nell’immagine grande in alto) giovanissimo fu chiamato a collaborare al quotidiano di Firenze con un articolo che commentava la nascita delle scuole serali. Fra i collaboratori di quegli anni era anche Pier Coccoluto Ferrigni. Si firmava con il nome di Yorik, era un avvocato livornese, dotato di una prosa ironica e divertente.


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27 luglio 1868

Così De Amicis esordì su La Nazione Arrivato nei giorni di “Firenze Capitale” come ufficiale dell’esercito il giovane scrittore dirigeva “L’Italia Militare”, il giornale del Ministero della Guerra

Con questo articolo (di cui riportiamo un estratto), De Amicis prese a collaborare con il giornale fiorentino

col sigaro in bocca… Io già, per me, ho sempre preferito l’inverno. Si sta in sentinella di notte, ci si piglia la neve nel muso, si battono i denti, si gela, ma non si soffoca, per Dio, non si suda in codesto maledetto modo, e questo bruciore d’inferno, qui, qui dentro (e si tocca il petto colla mano) non si sa cosa sia… Oh! Ha visto una casupola da una lato della via; accanto alla casupola, un pozzo. Altri soldati di altre compagnie sono già volati là attorno. S’è levato un denso polverìo. Egli si scosta dalle file inosservato; è già fuori della strada. Ohè là! Tuona la voce d’un uffiziale. Il soldato si arresta, si volta: - Al posto! Soggiunge risolutamente quella voce. Egli abbassa la testa, ritorna al posto, ripiglia il cammino. E daccapo a pensare: - Gli altri vanno, io no. O tutti o nessuno, pare a me. E non due pesi e due misure. Ho una sete!...

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iamo nel cuore dell’estate. Un caldo da morire. Son due settimane che non piove. Ogni giorno lo stesso cielo; splendido, purissimo, in pace. L’atmosfera è immobile. In tutta la campagna non c’è una cima d’albero, non c’è una fronda, non c’è un filo d’erba che ondeggi o che tremi. Qualche sera, in sul tardi, ti senti nella faccia un soffio istantaneo d’aura commossa; ma denso, caldo, grave, come l’onda di calore che t’investe passando accanto alle buche delle cucine sotterranee, da cui, di notte, sale e si spande per la via uno sprazzo di luce rossastra e un odore acuto d’arrosto e di frittelle. Sul lastrico delle piazze e delle vie e sulle mura delle case ove sbatte il sole, l’occhio non vi può; si socchiude, e ne fugge, e la guancia scottata si contrae, e si raggrinza la fronte. Il suolo asseccato si apre qua e là in lunghe e sottili screpolature; l’erbe ei fiori assetati inaridiscono, e uno sfinimento, e una cascaggine torpida, grave e sonnolenta invade e soggioga le membra degli uomini e degli animali. Più beato di tutti chi si è cacciato in un bagno freddo e si diverte a sollevar la burrasca agitando le ginocchia, o a ficcare il dito nel buco delle cannelle per farsi schizzare l’acqua diaccia nel viso, o a torcere indietro la testa e passare a fior d’acqua la nuca; - oh che gusto! Ma non è un gusto pel povero soldato, che marcia col suo reggimento in piena campagna, per una via polverosa, nell’ore più ardenti del giorno, insaccato in un cappottone ruvido e pesante, stretto alla vita da una grossa cintura di cuoio, gravate le reni di sessanta palle di piombo, e le spalle d’uno zaino che voi reggereste appena appena colle mani, e la fronte d’un cheppì rigido e gravoso che vi fiaccherebbe la

«Si sta in sentinella di notte, ci si piglia la neve nel muso » tempia dopo mezz’ora di strada. Egli cammina da più d’un’ora. I panni, i capelli, i baffi e le ciglia ha bianchi di polvere, ed arsa e nera la faccia e gonfie le mani; la camicia fradicia e appiccicata alla pelle; la cravatta attorcigliata come una fune; le guance rigate da grosse goccie di sudore, che gli si vengono a sciogliere rapide rapide giù pel collo e sul

petto. E pensa: - uf! Che caldo, mi soffoca questo cappotto. Or ora me lo sbottono… E questa cravatta… mi dà una noia! Sta giù, maledetta. (E la tira giù colla mano). Guardate un po’ se si vede un cane per tutta questa campagna. Nessuno. Un vero deserto. Eh, sfido io, con questo po’ di sole! Chi è quel matto che andrebbe in giro pei campi?

Tutt’al più un soldato, per abitudine. Un cane no, per esempio. I cristiani se ne stanno in casa. E ben chiusi. E fan bene. Cospetto che fan bene. I contadini dormono i sonni tranquilli all’ombra dei pergolati, e i signori se ne stanno nei loro salottini, a persiane chiuse, a cortine calate, al buio, al fresco, sdraiati sulle poltrone,

Assunto dal direttore Celestino Bianchi, De Amicis, nei primi anni Settanta fu inviato in Spagna da dove descrisse per i lettori de La Nazione la corrida. De Amicis sarà poi in Olanda e in Marocco con una serie di reportage apprezzatissimi.


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La pubblicità

IL BALSAMO PER LA GONORREA E IL GUANO ORIGINALE DEL PERÙ I primi inserzionisti erano medici, maghi e imbonitori che proponevano intrugli miracolosi

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n secolo e mezzo di fatti , di idee, di commenti. Ma anche un secolo e mezzo di pubblicità senza la quale, La Nazione non avrebbe potuto arrivare fino ad oggi. Inserti pubblicitari, annunci economici, che giorno dopo giorno acquistano una loro fisionomia precisa, un linguaggio. Tanto che attraverso La Nazione si può documentare una storia della pubblicità sui quotidiani, attraverso il lungo periodo nel quale veniva composta solo a mano, e poi ebbe il conforto delle linotype, e ancora quello delle foto, dei disegni, del colore. Il costo della pubblicità, dal primo numero era indicato assieme a quello degli abbonamenti in questa forma. L’abbonamento minimo, anzi l’Associazione come dicevano allora, era di 18 paoli per un trimestre a Firenze, per la Toscana “franco al destino” i paoli diventavano 21. Per il Regno Sardo 28. Per le Provincie romane, dove il giornale arrivava clandestinamente, i paoli tenevano conto dei rischi nella distribuzione, quindi salivano fino a 32. La pubblicità invece costava “crazie 3 o cent. 21 di franco per linea” Ma quelli “sotto i sei versi costeranno lire 2”. E dunque, un po’ alla volta gli inserzionisti presero ad arrivare. Inizialmente furono sistemati nella quarta delle quattro pagine che componevano il giornale, poi presero a trovar posto anche nella terza, assieme ai dispacci dell’Agenzia Stefani, progenitrice dell’Agenzia Ansa ad oggi la più importante agenzia giornalistica italiana, quindi arrivarono anche nella seconda pagina, dove trovava posto nei primi tempi la cronaca fiorentina. Solo nel Novecento, e con estrema attenzione a non esagerare, si ebbero i primi inserti anche in prima pagina, fino ad arrivare

agli “stelloncini” accanto alla testata. Pubblicità, dunque ma di che tipo? Inizialmente trattava un tema rilevante ed umile allo stesso tempo, la salute e l’igiene.Ecco così pubblicizzate le fabbriche di “spazzole di saggina” ovvero le granate, oppure la vendita del carbone, quello “coke” s’intende. Ma nello stesso tempo i più incredibili ritrovati erano proposti da medici o ciarlatani. Come lo “specifico del chimico farmacista Onesti contro le febbri terzane e quartane” i ritrovati contro le emorroidi, contro i brufoli, contro la tisi, contro l’anemia, contro il mal di testa e così via. C’era , miracoloso si direbbe, “l’olio di fegato di merluzzo chiaro e di grato sapore” proposto dalla farmacia Britannica di via Tornabuoni. E ancora, proposto dal professor Gerolamo Pagliano, fondatore e padrone del teatro Verdi , “ un balsamo per iniezione per la guarigione pronta e radicale della gonorrea.” La “Pommade Mirande” prometteva miracoli per le capigliature, la “Melanogene” era “una tintura eccellente per barba e capelli”, la “Nerialine” prometteva di fare la stessa cosa da soli, e con notevoli effetti. Ma non si possono tralasciare i “vescicatori liquidi per cavalli” o i produttori di “guano vero del Perù”. Dentisti di ogni tipo promettevano soluzioni radicali al mal di

denti. Ma il massimo, stando agli annunci di quegli anni, pare che fosse la “pasta corallina” non meglio indicata, che comunque serviva anche ad abbellire i denti stessi e a proteggerli da ogni fastidio. Per i capelli, invece, il meglio era nella “midolla di bove in vasetti”, che era una sorta di brillantina capace però di proteggere anche il “cuoio capelluto dai suoi problemi”. C’erano anche i maghi, i chiromanti, nel nostro caso la Sonnambula Anna d’Amico di Catania che leggeva il futuro e l’aldilà, con gabinetto dove ricevere i clienti in via Venezia a Bologna, che nel 1868 acquistò una pagina intera per magnificare le proprie personalissime doti. Molto più concreti gli annunci di chi forniva turaccioli di sughero che si potevano consegnare in tutta Italia franchi al domicilio. Cominciarono poi ad apparire le pubblicità di luoghi destinati al piacere, alle vacanze, al riposo. Fra i primi i Bagni Pancaldi di Livorno, i primi ad essere indicati, con una nuova formula, quella di “stabilimento balneare”. Un ottimo inserzionista divenne poi la macchina per cucire Singer, mentre l’editore Sonzogno faceva conoscere all’esimio pubblico fiorentino che stava uscendo a dispensa la sua “Storia illustrata della campagna dal 1869”. Fu col finire del secolo, e quindi con la possibilità di riprodurre foto e disegni, che la pubblicità servì a far conoscere anche le attività di teatri e cabaret. Le grandi attrici, i grandi attori dell’epoca, ma più spesso le regine della rivista, che avrebbero creato i primi dissapori familiari, colpendo i figli della borghesia, ma anche i mariti, mentre le loro rispettabilissime mogli, che certo non possedevano l’arte del sedurre, né la “mossa”, o il can can, arrivarono al punto di organizzare proteste contro l’oscena moda arrivata da Parigi.

Una piccola rassegna di annunci pubblicitari tratti da La Nazione nel periodo che va dal 1879 alla fine del secolo.

Promozione degli spazi pubblicitari Siamo nel 1892 e la pubblicità de La Nazione promuove se stessa. È il primo passo verso la rubrica “annunci economici” che nascerà tra qualche anno.


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Economia UN PAESE AGRICOLO SENZA RISORSE Il reddito pro capite degli italiani era un quarto di quello degli inglesi. Qualche industria di trasformazione e le prime acciaierie. Con l’Unita d’Italia le cose peggiorarono ancora

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’Italia del 1859 era drammaticamente povera. Aveva 23 miloni di abitanti e il reddito nazionale equivaleva a un quarto di quello dell’Inghilterra che aveva circa 20 milioni di abitanti. Il territorio coltivabile, in una realtà contadina come la nostra, era ristretto. Gli Appennini toglievano spazi all’agricoltura anche se si cercava di coltivare anche in collina, e perfino in montagna, ma con ciò costringendo intere famiglie a patire letteralmente la fame. Pur occupando circa il novanta per cento della popolazione attiva, l’agricoltura partecipava alla formazione del reddito complessivo per il 57,8 per cento, mentre l’industria, appena nascente, contribuiva per il 20,3. La più importante attività industriale era quella della seta, anche se la Toscana che pure aveva avuto in passato una grande attenzione per questo settore, non riusciva più da tempo a seguire il passo della Lombardia e del Veneto. Venivano poi i lanifici, forti soprattutto a Biella e Schio, ma dal 1850 anche Prato

riuscì ad inserirsi nel giro e ben presto divenne una realtà di massimo rilievo. Modestissime, invece, le industrie metallurgiche e meccaniche. Si lavorava il ferro in Toscana, ma ancora più in Lombardia e in Calabria. In tutto erano attivi con l’Unità d’Italia 44 altiforni. C’erano poi stabilimenti meccanici a Milano, Torino, Brescia, ma anche a Napoli. Mentre le attività minerarie erano nel complesso modeste, anche se la Toscana, oltre alla Sardegna, era molto attiva in questo settore. E ciò particolarmente in Maremma, nel Pisano e nel Valdarno superiore. Con l’Unità d’Italia, invece di migliorare le cose peggiorarono, e soprattutto nel settore industriale. Nel 1880, infatti, l’apporto dell’industria al prodotto nazionale era crollata fino a rappresentare il 17,3 per cento. La svolta arrivò comunque nel 1880, in seguito alla depressione mondiale. Molti capitali fino ad allora investiti nell’agricoltura si spostarono sull’industria. Sostenuta dalle banche si ebbe così un’autentica rivoluzione in-

dustriale e nacquero rilevantissime realtà, a cominciare dalla Terni che risale al 1884. Ma nel decennio successivo, ecco immediati i contraccolpi. La crisi questa volta fu finanziaria, anche a causa dello scandalo della Banca Roma. La ripresa si ebbe verso la fine del secolo tanto che poté nascere, nel 1899, la Fiat di Torino. Ma la crescita di fine secolo fu dovuta, soprattutto, all’arrivo della energia elettrica. E infatti, fra il 1880 e il 1903, in Italia si moltiplicò per tre volte l’utilizzo industriale di forza motrice.

Con l’Italia unita gli addetti all’agricoltura rappresentavano circa il 90 per cento della forza lavoro. Si coltivava anche anche nelle zone collinari e montane e i contadini facevano la fame.


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Le Ceramiche a Doccia In Toscana la Richard Ginori rappresentava la più antica e più ricca azienda manifatturiera. La paglia nei dintorni di Firenze. Arriva la metallurgia nel pistoiese

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a Toscana che chiedeva con un plebiscito di essere annessa al Piemonte, aveva buone tradizioni commerciali ma più ancora ottime credenziali finanziarie. E infatti, delle sei banche autorizzate con l’Unità a battere moneta per il nuovo Stato, due erano di Firenze . Erano invece poca cosa le industrie della nostra regione, come del resto quelle del Paese, mentre nel resto d’Europa l’industria era da tempo una realtà. La maggiore industria esistente era la manifattura di Doccia , la fabbrica di porcellane della famiglia Ginori. Nata nel 1740 aveva 240 dipendenti ed era un autentico colosso industriale per quei giorni. Per il resto, più che di industrie vere e proprie si doveva parlare di attività artigianali di tradizione medievale che andavano dalla tessitura di lane e di fibre vegetali fino all’industria della paglia nelle zone limitrofe a Firenze. L’Unità d’Italia portò però dei vantaggi nella nostra regione. A Livorno, nel ’65, arrivarono i cantieri navali, che in realtà già esistevano ma rilevati che furono dalla famiglia siciliana degli Orlando - che era stata fra le più attive nel periodo risorgimentale - conobbero una stagione di commesse e di successi anche economici. I cantieri Orlando, crearono poi un indotto di notevole consistenza in tutta l’area di attività. Già dal 1842 esisteva poi a Firenze la Fonderia del Pignone, al di là dell’Arno, che avrebbe dato nome all’omonimo quartiere. E nel 1860 erano nate

le officine Galileo, officine di modeste dimensioni inizialmente ma specializzate in un lavoro di altissima qualità e precisione. Vennero poi altre aziende dopo la crisi degli anni Ottanta. Fra queste la Società Metallurgica su iniziativa di un gruppo francese che impiantò stabilimenti nella montagna pistoiese e nel pisano. Tre anni dopo fu la volta della Saint Gobain, quindi della Solvay a Rosignano. Intanto, appena fuori dai confini della Toscana, nascevano a La Spezia l’arsenale militare e nel 1884 l’importantissimo polo strategico delle acciaierie di Terni. Apparve poi, alla fine dell’Ottocento, la Menarini, leader nel settore farmaceutico, mentre nel 1904 il professor Achille Sclavo fondava a Siena l’Istituto Serioterapico Toscano. Ancora qualche anno e dalla fusione di due farmacie nasceva a Firenze la Manetti e

Roberts. Sempre all’inizio del secolo ventesimo, prendeva consistenza l’industria marmifera a Carrara, che si sviluppò grazie all’adozione del filo elicoidale per il taglio della pietra, mentre prendeva vigore anche l’attività mineraria in Maremma. Sempre alla fine dell’Ottocento, e comunque nei primi anni del secolo seguente, erano stati costruiti l’Ilva e La Magona a Portoferraio e Piombino, per sfruttare i giacimenti di ferro dell’Elba.

La Richard Ginori, con la sua manifattura di Doccia, era l’azienda industriale più qualificata nella Toscana di quegli anni.


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Piombino: arriva la Magona La cronaca del giorno dell’inaugurazione. Gli inglesi insegnano agli italiani come si trasforma l’acciaio in latta Ecco come fu presentata ai lettori de La Nazione, il 16 ottobre 1892, l’entrata in attività della società Magona di Piombino

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La Magona è uno dei tanti esempi di collaborazione finanziaria tra imprese britanniche e italiane. Un gruppo di operai specializzati inglesi raggiunse Piombino per insegnare il lavoro alle maestranze locali.

iombino – Ieri mercè la gentilezza della ditta Spranger – Ramsay e C. ho avuto il piacere di assistere ad una festa che, se interessa moltissimo questo piccolo ma industrioso paese, non ha minore interesse per l’Italia. Si trattava dell’inaugurazione del primo stabilimento in Italia per la fabbrica delle lamiere sottili e bande stagnate, o meglio dell’inizio della fabbricazione. Alle 4 pom. erano riunite nello stabilimento denominato La Magona d’Italia tutte le autorità del Paese. A ricevere le autorità e gli invitati erano gli amministratori della Società sigg. cav. Spranger e H. Ramsay e il direttore tecnico dello stabilimento sig. Ing. Bright. Sotto la guida di questi signori potemmo seguire tutte le fasi della lavorazione, principiando dal taglio delle grosse barre inglesi fino al foglio sottilissimo e lucido di banda stagnata (latta). Questa nuova industria, che per opera del capitale inglese affratellato a quello italiano si è impiantata sulle ridenti spiagge del Tirreno, non è da annoverarsi fra quelle destinate a subire il calvario delle prove e dei disinganni, in quantoché senza superbia e con buon senso pratico si è capito che quando non si sa bisogna studiare e avere il maestro. Nel caso presente il maestro è l’ing Bright, il quale nell’industria del Tin Plate in Inghilterra ha un nome. Egli ha con sé una squadra di operai inglesi, i quali alla loro volta fanno da maestri agli operai italiani nelle diverse fasi dell’industria, in tal modo la Magona d’Italia ha avuto la soddisfazione di veder provvedere tutto in perfetto ordine fino dall’inizio della sua produzione.

Incendi? Ci pensano Le Assicurazioni Fondiaria Con questo articolo apparso su La Nazione del 4 maggio 1879 si dà notizia della nascita del “ramo incendi” delle Assicirazioni Fondiaria Firenze (… ) Non siamo stati noi per sicuro a meravigliarsi che si sia concepito il disegno di istituire in Italia una grande compagnia nazionale di assicurazione a premio fisso contro l’Incendio. La è questa una intrapresa commerciale appena sfiorata nel nostro Paese, e promette la più ragguardevole massa di affari e gli utili più rimuneratori. Bisogna soltanto sapere sostituire nel pubblico, alla cieca fiducia in Dio o nella pubblica beneficenza, la morale della Associazione e del risparmio offrendogli la garanzia di un buon nerbo di capitali e di amministratori esperimentati per attività di lavoro, per energia di volontà e oculatezza di mente. Le quali virtù di uomi e di cose noi abbiamo con lieto animo riscontrato nel capitale di fondazione di 40 milioni, nelle disposizioni statutarie, e nel consiglio di amministrazione della Fondiaria, composto dei più eminenti uomini di affari italiani di chiarissimi finanzieri francesi, e in gran parte di antichi e sinceri amici di Firenze nella buona e nella avversa fortuna. ( …) Ora vogliamo anche trarre lieti auguri per la nostra città dal sorgere fra le nostre mura di una forte compagnia di assicurazione contro l’incendio, rappresentazione reale della favolosa fenice, che anzi, più portentosa e benefica non già a se stessa, ma atlri, fa risorgere dalle proprie ceneri. E Firenze altresì risorgerà dalla sue rovine, e i germi dell’assicurazione troveranno qui antico humus a secondarli. (…)


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L’ITALIA È FATTA COMINCIANO I PROBLEMI Nel Sud le rivolte dei fili borbonici che passeranno sotto il nome di “guerra del brigantaggio”. Ma è la “questione romana” che divide il paese e contrappone i bersaglieri ai garibaldini nella battaglia di Aspromonte

Garibaldi aveva lasciato Caprera per imbarcarsi verso Palermo. Qui una folla entusiasta lo aveva accolto al grido”Roma o morte”. Cominciò così l’impresa destinata a concludersi sull’Aspromonte

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’Italia sì, era fatta, ma ancora mancavano le terre irredente del Veneto e del Trentino, ancora mancava Roma, e soprattutto mancava la consapevolezza, in molte regioni, di essere davvero uno stato unito. Mancavano, insomma, gli italiani. La dimostrazione fu la sanguinosa rivolta dei “briganti”, in verità una reazione borbonica nelle regioni del Sud. Ma ancora di più, forse, a dimostrare la fragilità del nuovo Stato, fu quella che sarebbe passata alla storia come la “questione romana”. Che investiva i problemi dei rapporti fra Stato e Chiesa, ma anche quelli del ruolo che personaggi come Garibaldi avrebbero dovuto svolgere nella nuova realtà politica. E infatti, Roma era stata proclamata capitale del Regno d’Italia nella seduta del Parlamento del 27 marzo 1861, dopo un vibrante discorso del Cavour. Ma un obiettivo del genere era poco più di una speranza. Pio IX, infatti, era convinto di dover conservare il potere temporale inteso come garanzia alla sua azione spirituale. Succeduto a Cavour dopo la morte di questi - avvenuta il 6 giugno del 1861Bettino Ricasoli aveva a sua volta lasciato la guida del governo nazionale a Rattazzi, ferocemente anticlericale, tanto che negli anni Cinquanta aveva costruito la sua carriera come ministro degli interni del Regno di Sardegna, guidando la soppressione delle confraternite religiose. E dunque, fu forse confidando sul laicismo del capo del governo, che Garibaldi il 27 giugno si imbarcò da Caprera e raggiunge la Sicilia. Lo scopo? Difficile a dirsi quale fosse la volontà iniziale ma di certo, accolto che fu da grande entusiasmo popolare, una volta in Sicilia Garibaldi prese a radunare una schiera di volontari e decise di muoversi verso Roma. L’obiettivo di una azione militare per conquistare Roma con le armi era però discutibile. Era infatti assurdo mirare alla futura capitale muovendo dalla Sicilia. Forse voleva avere il tempo per capire quale atteggiamento avrebbe preso il governo italiano nel frattempo? Certo è che il suo slogan era “Roma o morte”, e non è improbabile che in cuor suo si sentisse in grado

di ripetere l’impresa dei Mille che, è cosa nota, era andata a buon fine per una serie di fortunate circostanze e di interessi convergenti di tipo internazionale. In effetti, all’inizio, Rattazzi non sembrò del tutto contrario all’iniziativa. Ma col passare dei giorni apparve chiaro che la caduta del Papato per opera dei garibaldini sarebbe senz’altro apparsa come un’aggressione italiana allo stato pontificio. E in un’operazione del genere l’Italia non avrebbe mai avuto l’appoggio internazionale, meno che mai quello della Francia di Napoleone III la quale, anzi, si era eretta a potenza protettrice del Papato. La risposta del governo di Torino, dopo le iniziali esitazioni fu, così, ferma e decisa. Il prefetto di Palermo, Pallavicino, venne destituito per non essersi opposto alle adunate garibaldine. Il 3 agosto il Re sconfessò “giovani … dimentichi … della gratitudine verso i nostri migliori alleati” e ne condannava le “colpevoli impazienze”. Negli stessi giorni Rattazzi proclamava in tutta la Sicilia lo stato d’assedio. Una squadra navale fu incaricata di impedire il passaggio di Garibaldi in Calabria. Le truppe dislocate in Calabria, numerose in quanto impegnate nella lotta al brigantaggio, vennero messe in stato di allerta. Ma come fermare Garibaldi? Un eroe nella mente di tutti gli italiani risorgimentali? A Catania Garibaldi prese alcuni piroscafi “capitati nel porto”, e salpò nella notte. Alle 4 del mattino del 25 agosto 1862, sbarcò in Calabria alla testa di tremila uomini. I volontari, una volta a terra, imboccarono la strada del litorale verso Reggio, ma furono bombardati da una corazzata italiana. Garibaldi così, deviò verso l’Aspromonte dopo aver detto ai suoi uomini di non rispondere al fuoco. La sera del 28 agosto 1862 la colonna raggiunse una posizione ben difendibile, a pochi chilometri da Gambarie, nel territorio di Sant’Eufemia d’Aspromonte. La colonna aveva marciato per tre giorni. Verso mezzogiorno del 29 agosto Garibaldi fu informato dell’arrivo di una grande colonna dell’esercito Regio e la battaglia cominciò alle quattro del pomeriggio.


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Cronache dall’Aspromonte Ed ecco come La Nazione, con evidente imbarazzo, dette notizia prima dell’imminenza dello scontro, poi commentò quanto avvenuto, e infine, a distanza di un giorno, raccontò ai suoi lettori l’accaduto.

Da La Nazione del 31 agosto 1862 I ferri da chirurgo che furono utilizzati per il primo soccorso all’eroe dei due mondi.

Da La Nazione del 30 agosto 1862 Notizie da Napoli ci recano che Garibaldi è sulle montagne d’Aspromonte e pare dirigersi verso Palmi. I bersaglieri sono sulle sue tracce.

I casi di Aspromonte, se rassicurano l’animo degli onesti, non possono contristarlo; sangue cittadino è stato sparso: armi che fin’ora eransi in comune e sano accordo volte contro i nemici della patria, riuscirono micidiali a figli di una madre istessa. Fu necessità, lo sappiamo, ma pur dolorosa necessità. L’autorità della legge, il principio della sovranità nazionale, dovean rimaner saldi da ogni attentato, qualunque fosse la persona che contro di quella e di questo si innalzava: e salvi rimasero: tuttavia è deplorabile che a sì caro prezzo siasi dovuta conquistare la salute della patria. E sappiamo pure che tale salute è legge suprema, cui è mestieri obbedire: non dimeno di queste vittorie noi non possiamo esultare: né basta a togliere il rammarico che in tutti eccita il pensiero del conflitto avvenuto. L’esercito ha fatto il suo dovere: esso ha posto argine ad un torrente impetuoso, che, non frenato a tempo, Dio sa dove ci avrebbe condotti: ha impedito una lotta fra Francia e l’Italia, ha salvato il principio dell’Unità, gravemente minacciato, posto in pericolo anzi, non dalle intenzioni ma dall’ardimentosa impudenza di un uomo che a quell’unità avea grandemente conferito. Ma in qusto cozzo tremendo s’è offuscata una delle più brillanti personalità italiane. Garibaldi, l’eroe leggendario, l’eroe popolare, è rimasto vittima degli sconsigliati che lo spinsero a tanta rovina(…) Ora ci rivolgiamo al governo e gli diciamo che badi di non stravincere. Fatti d’Aspromonte

Da La Nazione del 1 settembre 1862 Garibaldi con circa 2400 uomini occupava una forte posizione nelle montagne d’Aspromonte. Il colonnello Pallavicino, secondo ieri annunziammo, lo seguiva molto da vicino. Aveva diviso le sue truppe in due colonne, che in tutto arrivavano appena a 1800. Raggiunto Garibaldi gli intimò la resa. Garibaldi preferì battersi. Il combattimento fu vivo e lungo. Vi furono molti feriti oltre a duecento, ma pochi morti. Non crediamo siano più di nove. Nella pugna Garibaldi ebbe una ferita ad un piede, ed una contusione nella coscia destra. Queste ferite si spiegano per la posizione che egli e i suoi occupavano. Si trovavano sull’alto ed erano per conse-

guenza attaccati dal basso. Anche il figlio di Garibaldi fu ferito. I garibaldini cominciavano a piegare incalzati più vivamente dai nostri bersaglieri, molti gettarono le armi. Garibaldi ferito ed accerchiato si arrese. Duemila garibaldini furono fatti prigionieri di guerra. Il contegno delle truppe fu ammirabile per coraggio e calma. Quanto furono arditi nell’assalire altrettanto seppero essere temperati nella pugna al che si devesi vi fu assai minore spargimento di sangue di quanto era da temersi. Garibaldi fu trasferito a bordo di una nave da guerra, dove riceve tutte le cure che gli sono necessarie unitamente a suo figlio. Dicesi che Garibaldi avesse chiesto facoltà di imbarcarsi a bordo in una nave inglese: il che, come

è naturale, gli fu negato. Ignoriamo quali siano le intenzioni del governo in ordine al trattamento da usarsi a Garibaldi (…) Alcuni credono che si pensi di lasciarlo libero se si impegni sulla sua parola d’onore di ritirarsi in America e a non rientrare in Europa senza l’autorizzazione del governo. Come è noto, la “questione romana” venne risolta solo il 20 settembre 1870 quando, sconfitto Napoleone III dai Prussiani nella battaglia di Sedan e proclamata in Francia la repubblica, il governo italiano guidato da Giovanni Lanza pensò che fosse arrivato il momento propizio per inviare a Roma un corpo d’armata, guidato da Cadorna, che con i bersaglieri entrò in Roma attraverso la ben nota breccia di Porta Pia.

Lo stivale di Garibaldi con il foro della pallottola che lo ferì ad una gamba.


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Da La Nazione del 9 marzo 1860

Il voto alle donne? Mai In vista del Plebiscito per annessione al Piemonte si pone il problema di chi ha il diritto di andare alle urne. Tutti i commentatori sembrano d’accordo nel dire: “La consultazione è troppo seria per allargarla all’elettorato femminile Nell’articolo che segue, ecco con quanta protervia viene affrontato il delicatissimo tema del voto alle donne.

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bbiamo udito ripetere una voce, che speriamo sia una fra quelle tante che sorgono in questi giorni di generale ansietà, ma che ben presto vengono smentite. Ci si vorrebbe far credere che in Firenze e in altre città di Toscana le donne dolenti dell’essere state escluse dal suffragio universale, vogliono preparare nei giorni a questo destinati una manifestazione tutta loro, per fare intendere che esse non sono a chicchessia seconde nell’amar la nostra Italia. Se consideriamo questa manifestazione nelle sue ragioni d’essere, noi non stentiamo a prestar fede a quella voce; perché sappiamo di quanti e quali spiriti patriottici siano animate le nostri gentili concittadine. Ma se consideriamo il fatto in sé stesso e nelle sue conseguenze non dubitiamo di asserire che quella voce a cui accennavamo in principio non può aver verun fondamento di verità, appunto perché sappiamo che le donne nostre non possono volere che per opera loro venga diminuita anzi che accresciuta, la efficacia del voto che noi uomini andiamo ad emettere. Possiamo menar buono alle nostre gentili Toscane il rammarico che esse debbono provare nel vedersi dell’esercizio del suffragio private. Ma poiché le leggi le vogliono escluse dai diritti politici non sia loro grave rassegnarsi a questa necessità, e intendano a giovare alla patria in altro modo. E giovare alla patria le donne nostre potranno mirabilmente ogni qualvolta nelle domestiche mura, che sono la reggia loro, si faranno eccitatrici di civili propositi ne’ figli, che più cresceranno operosi intorno ad esse più elleno si faranno operose, e più di italiani e civili intendimenti animati più elleno

vorranno considerare come l’Italia abbisogni d’uomini, che sappiano renderle l’avvenire glorioso al par del passato. Ed oggi anche senza render un voto destinato a rimanere sterile, le donne possono riuscire utili all’Italia, anzi più utili di quelli che per i loro suffragi sarebbero. Raffidino i dubbiosi, spronino gli incerti, dieno anima e coraggio ai pusilli; dagli affetti che nutrono in seno e per l’Italia e per la famiglia traggono forza a compiere quell’apostolato d’amore e di sacrificio cui esse nella famiglia son destinate. Facciano insomma quanto sta in esse perché gli uomini soddisfino italianamente al loro compito e avranno fatto abbastanza. Il suffragio che le donne potrebbero oggi rendere, o una qualunque altra manifestazione che volessero fare, toglierebbe dignità e forza al voto nostro. Siamo in tempi gravi, ne’ quali non possiamo abbandonarci a vane mostre e a inconsiderati tripudii. Bisogna volere; e volere non basta: bisogna anche saper sostenere colla forza delle armi quel voto che la coscienza e il nostro diritto ci detteranno. Bisogna che l’europa ci veda non fanciulli, ma uomini, affinchè si persuada che questo suffragio che ci si chiede, fu da noi considerato non come un trastullo, ma come una solenne e irrecusabile riprova de’ nostri voleri. Nulla deve dunque scomporre la serena maestà dell’atto che andiamo a compiere, il quale dee rimanere grande e dignitoso in ogni sua fase; nulla deve a’ nostri nemici servir d’occasione o per deriderci o per non crederci. Il perché noi abbiamo per fermo che, ove alcunché di vero potesse per avventura trovarsi nella voce di cui parliamo, le concittadine nostre farebbero ben volentieri al loro amor per l’Italia sacrificio di questo desiderio che tutte nobilmente le punge di manifestarsi a pro dell’Unione. E abbiamo altresì per fermo che

tutti facendosi poi capaci della necessità in cui siamo di conservare ogni guarentigia di libertà al voto, vorranno, anche recandosi in drappelli a depositare la scheda nell’urna, ricordarsi che la legge stabilisce che il voto deve essere segreto, e che ogni manifestazione del medesimo sarebbe a quella contraria e dannosa. Teniamoci dunque stretti alle legalità. La Dio mercè siamo tutti a volere l’annessione, e possiamo senza timore tener celata la scheda che deporremo nell’Urna.


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Da La Nazione del 19 gennaio 1867

Un esercito di bambini lavora 13 ore al giorno Sidney Sonnino denuncia la drammatica situazione del lavoro minorile in Italia. Bambine di sette anni tutto il giorno in piedi a incannare la seta. Il dramma delle miniere di zolfo in Sicilia

Ecco frattanto la lettera del signor Sonnino: La Nazione riceve una lettera del parlamentare pisano impegnato in quei giorni in una battaglia contro la piaga dei fanciulli lavoratori, e la pubblica con risalto. Nel testo che segue ne riportiamo alcuni estratti

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l signor Sidney Sonnino, del cui nome e de’ cui scritti la Nazione ha potuto fregiarsi più di una volta, e che attende ora con affettuosa cura allo studio delle condizioni delle classi agricole ed operaie in Italia, ci scrive intorno ad un molto pregevole e notevolissimo articolo pubblicato nell’ultimo fascicolo della Nuova Antologia del senatore Alessandro Rossi sopra una proposta di legge sul lavoro dei fanciulli e delle donne nelle fabbriche. Accogliendo la lettera del signor Sidney Sonnino, dobbiamo dire però che non ci pare di poter consentire con lui in quella parte, nella quale, mostrata la necessità di provvedere legislativamente alla tutela dei fanciulli e delle donne chiamati a lavorare nelle fabbriche, egli crede necessaria alla efficacia della legge la istituzione di appositi ispettori. Abbiamo le prefetture, le questure, gli ispettori, gli agenti, gli ufficiali di pubblica sicurezza; abbiamo i procuratori del Re; e tribunali di ogni grado apposta per cercare, scoprire, processare e punire i crimini, i delitti, le contravvenzioni. Un altro corpo d’ispettori speciali non sarebbe a nostro credere, se non una superfetazione burocratica su quello strato abbastanza denso che ne stringe da ogni banda. Del resto poiché la questione è grave, ci proponiamo, affinché i nostri lettori la conoscano sotto tutti i suoi aspetti, di dare una larga analisi anche dello scritto del senatore Rossi.

Firenze, lì 14 gennaio 1867

Gentilissimo signor Direttore, Nell’ultimo numero della Nuova Antologia il senatore Alessandro Rossi combatte in un dotto articolo la proposta di una legge sul lavoro dei fanciulli e delle donne nelle fabbriche. Egli però dopo molte pagine impiegate a dimostrare che una legge di questa natura non potrebbe essere che inutile o dannosa in Italia, annuisce in ultimo, con logica singolare, agli articoli del nuovo progetto di Codice Sanitario approvato dal Senato, ma non ancora discusso dalla Camera, in cui vengono appunto sancite varie provvide disposizioni a tutela dei fanciulli che lavorano nelle officine, negli opifici, e nelle miniere. (...) E prima di tutto non comprendo la distinzione che si voglia fare tra una legge speciale che regoli il lavoro dei fanciulli nelle fabbriche, e le stesse disposizioni contenute in alcuni articoli di una legge generale o Codice Sanitario. Poco m’importa il dove sia scritta la sanzione legale, - basta che ci sia; - e quindi concordando io colle conclusioni dell’on. Rossi non avrei ragione di parlare sull’argomento, per quanto dissentissi da lui negli apprezzamenti intorno alle condizioni di fatto dei nostri operai, se non fosse che temo che chiunque resti convinto delle ragioni dell’on. Rossi, come esposte nel suo articolo dell’Antologia, non solo non vorrà saperne di alcuna legge speciale sul lavoro dei fanciulli, ma non rammenterà neanche i rammentati articoli del progetto del Codice Sanitario. – Non posso invero spiegare l’apparente contraddizione in cui cade l’on. Senatore, se non supponendo che quel che secondo lui caratterizzerebbe una legge speciale sul lavoro dei fanciulli, sarebbe l’istituzione di

ispettori nominati dall’autorità sia provinciale sia governativa, i quali vigilassero affinché venisse punito qualunque industriale ne violasse le disposizioni. L’on. Senatore dice di difendere il principio della libertà del lavoro che egli vede manomesso da un intervento legislativo nel determinare le ore di lavoro dei fanciulli. Dice contrario un tale intervento e alla dignità personale degl’industriali, e a quella dell’operaio, quando da fanciullo cresca su lavorando sotto la tutela di un ispettore. Egli infine tratta di declamazioni i lamenti fatti sulla condizione dei fanciulli nelle fabbriche italiane, laddove non si voglia da qualche piccolo filatoio biantino trarre induzioni generali, ed in tenui fatti parziali dannare le intenzioni. ( …) Nella provincia di Bergamo, nella provincia di Como, nella provincia di Cremona, e in quella di Milano migliaia di fanciulli e specialmente di sesso femminile sono impiegati negli stabilimenti per la trattura della seta, negli incannatoi della seta, nelle cartiere ecc… anche per tredici ore al giorno Nella sola provincia di Como il numero dei fanciulli al di sotto degli anni 9 impiegati negli stabilimenti serici era tre anni fa di 1.977 di cui 1.940 femmine. Inoltre 6.389 bambini al di sotto degli anni 12 e 10.686 dai 12 anni ai 16. A chi la colpa di tutto questo? In Francia fu fatta per molti anni la prova di una legge quella del 1841, regolatrice del lavoro dei bambini nelle fab-

briche, senza che nessuno fosse incaricato della sorveglianza, e la legge rimase lettera morta. (…) In Inghilterra si credettero necessarie fin dal 1833 le ispezioni nelle fabbriche. E difatti come potrà farsi eseguire la legge se nessuno avrà autorità di sorvegliare e d tradurre davanti ai tribunali chiunque ne violi le prescrizioni? (…) Suo devotissimo Sidney Sonnino

Il barone Sidney Costantino Sonnino fu presidente del Consiglio dei ministri del Regno dall’ 8 febbraio al 29 maggio 1906 e dall’ 11 dicembre 1909 al 31 marzo 1910.


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MUOIONO I GRANDI UOMINI CHE HANNO FATTO L’ITALIA Un profondo rispetto verso Mazzini, molta retorica ma autentico cordoglio per la scomparsa di Re Vittorio Emanuele II. Un articolo ironico e durissimo per l’ultimo saluto a Pio IX

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ccadde che nell’arco di pochi anni scomparissero i padri del Risorgimento. E l’Italia, benché Unita, si trovò a vivere una stagione di difficoltà, di incertezze, di timori. La questione romana, e dunque i rapporti con la Chiesa erano difficili. Come ultimo atto del parlamento in Firenze capitale si garantiva al Papa immunità e rango di sovrano, ma Pio IX non poteva accettare l’atto di forza col quale i bersaglieri erano entrati in Roma, e dunque, rispose con la scomunica e si proclamò prigioniero nei suoi palazzi vaticani. Intanto, a metà anni Settanta la destra andava al potere e come scopo si pose quello di rafforzare a ogni costo le basi dello Stato a cominciare dalla situazione economica. Come risultato ecco nuove tasse, a cominciare da quella del macinato che permise, in ogni caso, di arrivare al sospirato pareggio di bilancio nel 1876. E tuttavia, la difficoltà maggiore era forse quella di ritrovare lo spirito ideale dei primi anni risorgimentali. La mancanza, cioè di figure, di personaggi ai quali credere, ciecamente, come era accaduto durante il periodo delle guerre di indipendenza. Uomini guida, speranze incarnate di un futuro migliore. L’Italia sentiva il bisogno di loro. Troppo grande era stato “l’afflato ideale” perché non si provasse il disagio di un confronto quotidiano coi problemi della realtà. Ed ecco, dunque, con quale commossa e reale costernazione il giornale di Ricasoli dava notizia della scomparsa dei padri della Patria.

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avour, com è noto, era morto il 6 giugno del 1861. Ma i fiorentini, poiché a sostituirlo era stato chiamato uno di loro, Bettino Ricasoli, quasi non ne provarono dolore, e comunque era troppo recente, anzi, non ancora realizzata l’Unità, perché si trovasse il tempo per le lacrime. Il secondo a morire fu Mazzini. E il 13 aprile 1872 così ne dava notizia il nostro giornale.

Dopo 67 anni di vita operosa, agitata dalle congiure, dalle imprese temerarie, da un apostolato indefessamente esercitato colla parola e cogli scritti: travagliata dalle disillusioni, dai disinganni, dalle persecuzioni di tutte le polizie: egli s’è spento tranquillamente a Pisa la notte del 10 corrente. Dieci anni prima di morire, egli aveva veduto incarnarsi le idee predominanti e pratiche del suo credo nella indipendenza d’Italia conquistata nella Unità d’Italia costituita. Ma non si era quietato per questo, dappoichè a cogliere sì splendidi frutti si era pervenuti per altre vie e con altri argomenti di quelli, ch’egli aveva escogitati e predicati per tutta la vita. E perciò egli rimaneva ormai quasi solo, abbandonato da coloro i quali, più del fine curandosi che degli espedienti, avevano dopo molte infelicentissime e disastrose prove rinunziato i suoi per appigliarsi a quelli che la ragione dimostrava e il fatto poi confermò più efficaci: abbandonato da coloro che avvolgendosi nei lembi più mistici, più ascetici, più nebulosi del suo programma, o per cortezza di mente o per gravità di animo, lo sfigurarono esagerandolo e deturpandolo colle sanguinose follie dell’Internazionale. Ma gli adepti, gli amici, gli avversari serbarono sempre riverenza alla rettitudine delle sue intenzioni, all’altezza della sua mente, alla tenacia dei propositi, alla integrità e all’austerità del carattere. Per queste doti egli meritò il più grande onore che in un libero paese possa toccare dopo morte a un cittadino.

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dunque, La Nazione tributa ogni onore ad un grande, che però era comunque un avversario, anche se protetto oltre ogni credibilità dal Ricasoli. Non perde però occasione per ricordare come alcuni mazziniani erano finiti col vagheggiare le “sanguinose follie dell’Internazionale”. Ma è con la scomparsa di Vitto-

rio Emanuele II, che il tono della rievocazione diventa di autentico cordoglio. Il 10 gennaio del 1878, La Nazione esce infatti con questo articolo che trasuda retorica a ogni parola, ma anche dolore reale, se non angoscia. Sua Maestà il Re Vittorio Emanale II primo re dell’Italia una e libera, non è più. Non abbiamo animo di misurare la profondità di tanta sventura. Non abbiamo parole per esprimere i nostri sentimenti angosciosi che sono pure i sentimenti di ventisei milioni di italiani per i quali egli era il simbolo vivente della paria redenta (…). Egli cancellò dalla penisola l’ultimo vestigio di signoria straniera. L’Aquila di Casa Savoia venne con lui a posarsi sul Campidoglio, l’ultimo e glorioso termine segnato dai destini della sua stirpe e dei destini d’Italia. La storia della vita di Vittorio Emanuele è la pagina più venturosa, più splendida, più pura che un popolo possa vantare. Nessun Regno sarà mai stato fondato con argomenti più incolpevoli di quello che fu il Regno d’Italia, nessuno avrà mai avute più giuste e salde fondamenta. La nazione si stabilì sul meno contestabile dei diritti; il diritto di essere di vivere; il Re ebbe la più inoppugnabile delle consacrazioni; la fede nella volontà del popolo. Per trent’anni VittorioEmanuele fu la personificazione dell’Italia rigenerata. Gli italiani, vedendolo così repentinamente sparire, proveranno il sentimento che si affaccia nell’abisso. Il promotore, il fondatore, il campione, il vindice della indipendenza, della unità, della libertà della patria non è più. Ma Egli morendo ha raccomandato l’Italia e la Libertà al suo augusto erede. Umberto di Savoia, testimonio degli anni più splendidi del Regno paterno, cresciuto all’esempio delle virtù, non ignoto ai campi delle patrie battaglie, Umberto di Savoia sa come una Nazione si fonda e si mantiene. L’Italia si commette sicura nelle sue mani, come sicura si commise e stette nelle auguste mani del suo prode e leale Genitore.

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en diverso il tono, decisamente duro, polemico, pesante, ma soprattutto ironico, che viene usato dal nostro giornale l’8 febbraio del 1878, per la morte del Papa Pio IX. La schiera degli uomini che furono i grandi fattori della Indipendenza, della Nazionalità, della Unità d’Italia si va sempre più assottigliando. Giovanni Mastai Ferretti, nato il 13 maggio 1792 a Sinigaglia, morto Papa Pio IX al Vaticano, il 7 febbraio 1878, era uno di questi uomini. Egli fu cagione efficacissima che l’Italia si risvegliasse alla vita, e riprendesse coscienza di sé, e provasse in un primo esperimento la sua volontà e le sue forze. Egli fu cagione, resistendole poi, che la volontà si rassodasse e le forze si ritemprassero a più certi e fortunati cimenti. Egli fu cagione, ostinandosi, che l’Italia fosse condotta a compiere i suoi destini, portando i suoi stendardi in Campidoglio e la reggia de’ suoi Re al Quirinale. Italiano, Principe, Pontefice, visse appunto quando i tempi mutati e la civiltà progredita agitavano in continuo conflitto tra loro queste tre qualità. Egli riuscì a dimostrare che il Pontefice poteva non essere Principe senza che la dignità e la libertà della Chiesa ne fossero offese. Egli riuscì a dimostrare che il Capo della Chiesa Cattolica poteva, senza essere Principe, vivere regalmente e liberamente in Roma insieme al Re e al Governo del Regno d’Italia. Egli riuscì a dimostrare che in tal condizione egli poteva esercitare in Roma il suo pontificale ministero con una larghezza di libertà che a nessun Papa era stata concessa mai. Egli riuscì a dimostrare ricevendo gli omaggi di tutto l’orbe cattolico con una solennità e una frequenza non più veduta dai giubilei medievali in poi, che né la Chiesa, né la fede della convivenza col Regno d’Italia ricevevano diminuizione ed oltraggio.


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Il primo attentato contro il Re Umberto Non ebbe molto tempo per abituarsi al suo ruolo di Re, e Umberto dovette conoscere i rischi che ne derivavano. Morirà, come è noto, per un attentato, ma già nel dicembre del 1878, era sfuggito alla morte durante una visita a Napoli. Così, infatti, pubblicava La Nazione del 18 dicembre 1878 in una corrispondenza da Napoli. Napoli 17, ore 11,35 pom. Quando il corteggio reale uscito dalla stazione, percorreva Foria a passo lento per il continuo presentare delle suppliche, un individuo armato di coltello si è lanciato contro sua Maestà, il Re, che era a sinistra della carrozza e aveva davanti a sé l’onorevole Cairoli, presidente del Consiglio. Mentre sua maestà con la massima prontezza e sangue freddo lo colpiva con la sciabola al capo, l’onorevole Cairoli con altrettanta energia e sollecitudine lo afferrava a tratteneva per i capelli. L’assassino venne tosto ferito anche dal capitano dei corazzieri. Il passaggio del corteo fu un continuo trionfo. Appena giunti a palazzo i Sovrani furono costretti a presentarsi al balcone a ricevere le acclamazioni della folla. L’assassino si chiama Passanante Giovanni, è cuoco, di 29 anni, nativo di Salve provincia di Potenza.


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Bettino Ricasoli

“NON CREDEVAMO POSSIBILE...” L’uomo di stato e fondatore de La Nazione si spenge per un infarto nel castello di Brolio, il direttore del giornale non vuol credere alla notizia per lui troppo dolorosa, e la pubblica con un giorno di ritardo. Per la morte di Garibaldi, due anni dopo, viene riportato un semplice comunicato ufficiale

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Nel 1829 Bettino Ricasoli aveva iniziato a seguire personalmente la proprietà di Brolio e per tutta la sua vita alternò gli impegni politici ad approfonditi studi in viticoltura.

on c’è retorica, non c’è la solita prosa ridondante nell’annunciare la morte di Bettino Ricasoli, La Nazione viene a sapere della scomparsa del suo fondatore il giorno dopo, con ritardo dunque, spera che la notizia venga smentita, alla fine deve cedere alla realtà. Ricasoli dunque è morto , morto per un infarto probabilmente, mentre si trovava nel suo castello di Brolio. Fino all’ultimo aveva lottato in Parlamento perché fosse possibile salvare le finanze fiorentine che rischiavano la bancarotta per le spese sostenute durante il periodo in cui la città fu capitale. C’era riuscito, ma solo in parte. E dunque, è il 26 ottobre del 1880, e così il nostro giornale annuncia la scomparsa del suo fondatore. Domenica 24 nelle ore pomeridiane si diffuse in Firenze, non si sa da chi portata, da chi propagata, la voce che d’improvviso fosse mancato ai vivi. Ma poiché nessuno poteva fare testimonianza dell’infausta novella, e la ignoravano le autorità e coloro cui si presumeva che avrebbe dovuto pervenire per i primi, noi

non la credemmo e non l’accogliemmo, confidando che sarebbe smentita. E smentita, purtroppo non fu! Anzi, in ora tardissima, quando non potevamo più farne parte ai nostri lettori, la funesta notizia fu in modo irrecusabile accertata. Il Barone Bettino Ricasoli si era spento nell’avito castello di Brolio la sera di sabato 23 ottobre 1880, dopo settantun anni e sette mesi di vita, soccombendo ad uno inopinato e violento assalto della malattia di cuore, che da quasi sei anni lo angustiava senza domarlo. No, non ci sentiamo oggi di raccontarne le gesta: non ci par possibile di chiuderle in breve spazio, né l’angoscia dell’animo ci consentirebbe di tentarne la prova. E soprattutto non ci par possibile che ci si stato tolto per sempre, senza speranza di mai più rivederlo, quel caro e venerato Capo: e non sappiamo rassegnarci a parlarne come di una cosa che fu.

Ma tosto che l’oppressione del dolore ce lo consenta, tenteremo di raccontare alle giovani generazioni quanta parte ebbe quest’Uomo nel dar una patria indipendente e libera: di quante virtù domestiche e cittadine diede l’esempio per mantenerla e fortificarla: virtù tanto più preziose, perché son forse quelle che più abbisognano agli italiani per poggiare a più alti destini. E dunque, La Nazione fu talmente colpita dalla notizia – e non poteva essere altrimenti – che non solo non seppe crederle, non seppe valutarla, in qualche modo come si direbbe oggi nel gergo di redazione la “bucò”, ma quando ne fu finalmente a conoscenza ed ebbe ogni conferma possibile, si fece trovare impreparata e il primo giorno non andò oltre la semplice commossa informazione di quanto accaduto, rinviando a giorni seguenti quello che oggi diremmo “il coccodrillo” ovvero l’analisi della vita e delle opere dello scomparso. Tutto questo dimostra quanto fosse profondo l’attaccamento della redazione verso il Barone di ferro, ancora 21 anni dopo la fondazione del giornale.

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invece, con una partecipazione assolutamente formale, quasi con distacco, limitandosi alle notizie ufficiali, ecco come fu annunciata il 12 giugno del 1882 – a dieci giorni di distanza, solo in parte giustificabili con le difficoltà di comunicazione fra la Sardegna e il Continente - la notizia della morte di Giuseppe Garibaldi. Ecco il testo del certificato di ricognizione del cadavere di Garibaldi fatta a Caprera. <L’anno 1882, il giorno 8 giugno in Caprera, alle 3 pom. I sottoscritti attestano che il cadavere di Giuseppe Garibaldi nato a Nizza marittima il 4 luglio 1807 e morto in quest’isola il 2 giugno anno corrente, è stato deposto e chiuso in questa cassa. E perché ne resti memoria è stato redatto questo processo verbale, il quale è stato firmato dai sottoscritti. Firmati: Principe Tommaso di Savoia, Alfieri, vice – presidente del senato. D. Farini , presidente della Camera dei deputati. Zanardelli ministro di Grazia e Giustizia. Ferrero, ministro della guerra.>

Il Barone di Ferro pose particolare attenzione ai vitigni di Brolio più rispondenti per quel vino ideale che voleva produrre sulle sue terre.


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Da La Nazione del 5 febbraio 1867

Sotto processo l’ammiraglio sconfitto nelle acque di Lissa Il conte di Persano accusato di viltà dai suoi stessi ufficiali. Per giorni avrebbe navigato nell’Adriatico evitando lo scontro con la flotta nemica. Due mesi di processo a Firenze e la condanna

Il Regno d’Italia era convinto di possedere una grande flotta. Per questo fu enorme la realizzazione alla notizia della sconfitta di Lissa. Di seguito La Nazione riporta ampi stralci della relazione di accusa.

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opo la giornata di Custoza, e quando per la mediazione della Francia ed il rapido ritirarsi degli Austriaci, era divenuto impossibile di tentar di nuovo le sorti della battaglia per terra, tutti gli Italiani speravano, tutti erano anzi certi che l’armata avrebbe rivendicato l’onore delle nostre armi. E si aveva ben ragione, perché in pochi anni a forza di spese e di sacrifizi inestimabili s’era giunti a riunire nell’Adriatico una flotta poderosa per numero e nuova costruzione di navi molto più forte dell’austriaca, e seconda solo alle più potenti nazioni marittime di Europa. Era quindi natural cosa che la giornata di Lissa, nella quale pur troppo le nostre navi non riusciron vittoriose, commovesse tutta la nazione, di meraviglia, di dolore e di sdegno. Non appena si seppero i par-

ticolari di quella battaglia, la stampa e la pubblica opinione si levarono unanimi contro l’ammiraglio conte di Persano, lo accusarono di imperizia, di negligenza e di viltà innanzi al nemico. Lo stesso Ammiraglio, commosso da quelle accuse, il 28 luglio scriveva per telegrafo al ministro della marina: “Ora che i rapporti le furon mandati, non potendo io rimanere sotto le accuse scagliatemi contro dal paese, le chiedo di sottoporre il mio operato ad un’inchiesta, affinchè i fatti abbiano luce a scarico del mio onore”. Ed il ministro, letti quei rapporti, compreso della gravezza del caso, rispondeva per telegrafo il 29 luglio: “Impossibile conservarle il comando e prescindere da un Consiglio di guerra, il suo onore, quello dell’armata e del governo lo esigono. Sarà anche fatta un’inchiesta sul materiale della flotta. Bisogna che il paese conosca tutta la verità.” In pari tempo il Ministro invitava l’uditorato di Marina a procedere. L’istruzione offriva gravi indizi di reità contro l’Ammiraglio. Il governo il 10 ottobre 1866 costituiva il Pubblico Ministero e ne riferiva al Senato, lasciandolo giudice della competenza pei riguardi dovuti allo stesso Senato, ed al conte di Persano senatore del Regno, malgrado si trattasse di reato militare, commesso da un militare in tempo di guerra ed innanzi al nemico. Il senato ritenne la sua competenza e si costituì in Alta Corte di Giustizia. Il Ministero pubblico richiese si procedesse a formale istruzione. Il senato accolse le requisitorie ed ordinò si istruisse da una

Commissione da lui nominata. A noi non spetta dire come siano state condotte le indagini dall’Uditorato generale di Marina, ma ben diremo, che la istruzione compiuta dalla Commissione delegata dal primo corpo dello Stato, per la solennità delle forme onde fu rivestita e l’autorità degli alti personaggi che l’hanno diretta, offre tutte le garanzie e porta tutta l’impronta della verità; e che essa ha pienamente riconfermato il primo processo. Ebbene tutte le prove raccolte sia dalla Commissione del Senato, sia dall’Uditorato, provano che la pubblica opinione non s’ingannava; che l’attacco di Lissa, e la battaglia del 20 luglio, che insomma tutta la campagna navale del 1866 sia stata sciagurata ed abbia avuto termine così deplorevole, per la negligenza e l’imperizia, per la disobbedienza ad ordini ricevuti e pel manco d’ardire e di coraggio dell’Ammiraglio Conte di Persano. Lo dimostreremo, brevemente, fermandoci solo sui fatti più essenziali, che possono avere un valore giuridico. Innanzi tutto giova ricercare qual fosse lo stato materiale e morale della flotta, prima che si verificassero i fatti, sui quali si chiede l’accusa contro l’imputato. Parecchi al primo annunzio della sventura di Lissa, attribuirono l’evento così lontano dall’aspettazione, alla condizione materiale e morale dell’armata; cedettero che le nostre navi non fossero che una mostra; che le loro artiglierie, munizioni fossero di qualità pessime; e che gli uffiziali ed i marinai fossero indisciplinati e divisi da ire e gelosie municipali.

Il conte Carlo Pellion di Persano fu ammiraglio, politico e comandante della flotta italiana nella battaglia di Lissa. Entrò giovanissimo nella marina sarda dove fece una rapida carriera. Comandò la flotta (1860-1861), e fu agli assedi di Ancona, di Messina, di Gaeta, partecipando attivamente anche alla battaglia del Garigliano.


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Da La Nazione del 30 Luglio 1882

Tutti al mare! Tutti al mare! Esplode la moda delle vacanze balneari e la Versilia è subito in prima fila

Quello che segue è uno dei primi esempi di articoli sulle vacanze. Il cronista de La Nazione ci racconta la Forte dei marmi dei 1882

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ORTE DEI MARMI (Comune di Pietrasanta) – Il caldo comincia a farsi sentire, e si presenta ormai prepotente il bisogno di più spirabili aure e di qualche bagno di mare. Il Forte dei Marmi comincia a popolarsi di bagnanti e non senza ragione, giacché quaggiù le brezze marine e l’aria fina e sanissima scacciano l’afa delle città di terra. Affrettatevi, o vaghissime nereidi fiorentine, a fissare il quartiere, perché tardando ancora ci sarebbe il caso che rimaneste con un palmo di naso; e voi ben comprendete che una bella signora, che avesse un palmo di naso più del necessario, cesserebbe immediatamente di essere una bella signora. E voi uomini, ingolfati negli affari fino alla tesa del cappello, lasciatevi toccare il cuore dalla preghiera delle vostre metà, attaccatevi

al primo rasoio che vi capita, levatevi dal melmoso pantano, inventate un mal di stomaco od un’altra malattia clandestina, pescate per un momento nel torbido de’ termini geroglifici della medicina, cavatene una nevrosi, una anemia… ed anche un isterismo, chiedete un po’ di riposo, venite al Forte dei Marmi, vi ci divertirete… e guarirete! … Lo stabilimento balneare tenuto dal sig. Angiolo Lucchetti è stato in quest’anno accresciuto di due baracche laterali… stile più o meno svizzero…per uso di famiglie e comodissime in special modo pei bagni dei bambini, i quali si possono poi divertire senza alcun pericolo sulla spiaggia a vangar la rena scavando buche cieche, canali, fiumi, laghi, tagliando istmi e demolendo promontorii, elevando catene di montagne, fabbricando vulcani ed altri oggetti di… geografia fisica! Il pianoforte dello stabilimento è più accordato degli anni decorsi, in grazia dell’opera gentilissima di un bagnante del mese di luglio: vi è il solito biliardo (nello stabilimento, si intende, non nel pianoforte!), il solito buffet, la solita sala, e la sera

non manca il solito brio, che ha già fatto la sua comparsa sotto forma di giuochi di sala, di balli, di animatissime conversazioni. La vicina macchia-pineta par che sorrida cortesemente a chi siede sulla terrazza a nord dello stabilimento, e par che inviti i signori bagnanti a passeggiate e merende, alle quali se vorrete inviterete anche me, non foss’altro in segno di gratitudine per avervene procurata l’occasione. Il servizio d’Omnibus tra la Stazione ferroviaria di Querceta ed il Forte dei Marmi è quest’anno più accurato degli anni decorsi; e il veicolo, non che la focosa pariglia, che galoppa sempre quasi di passo, sono assai migliori. Anzi, a proposito della Stazione, cade in acconcio fare un’osservazione reclamata dalla stravaganza del consiglio comunale di Serravezza. Là dove sorge la stazione è il paese di Querceta; ma siccome Querceta è in comunità di Serravezza, ed una strada provinciale lunga ben due miglia la unisce a Serravezza, il consiglio comunale di questo paese ha creduto nella sua infinita saggezza di dover cambiare il nome della Stazione di Querceta in quello di Stazione

di Serravezza: ondeché un povero diavolo che viaggi in vapore diretto a Serravezza, dopo esser sceso dal treno ed aver letto con soddisfazione: Stazione di Serravezza, prova poi un amaro disinganno quando intende che per andare al paese ci sono sempre due miglia buone!...Heu! quam parea sapientia regitur mundus! Ritornando a bomba e concludendo invito al Forte dei Marmi quanti ci posson venire, e raccomando facciano presto a fissar la casa. Per gli uomini politici poi, e segnatamente per quelli detti Malvoni, dirò che ieri l’onor. Ruggero Bonghi ex ministro della pubblica istruzione venne a visitare questo luogo di bagni in compagnia del senatore Giorgini, del quale è ospite nel vicino paese di Montignoso, e dirò di più che giunto sullo stabilimento l’onor. Bonghi ha bevuto un gotto di eccellente birra di Vienna, la quale costituisce, l’avevo dimenticato uno fra i non ultimi requisiti dello stabilimento del sig. Lucchetti. A rivederci a presto


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Marzo 1865

Siamo un popolo di analfabeti... Ecco le statistiche regione per regione sulla istruzione degli italiani Oltre il 60 per cento non sa né leggere, né scrivere. Si salvano soltanto le regioni del nord Le statistiche forniscono le cifre sul grado di alfabetizzazione degli italiani. Firenze è diventata capitale e La Nazione scopre che anche in Toscana le cose vanno malissimo e gli analfabeti sono all’incirca il 70 per cento. La cosa è tanto più grave perché nel Regno vi sono 19 università, il doppio di quelle della Germania dove però gli analfabeti sono appena il 3 per cento.

...ma intanto viene abolita la pena di morte La Camera dei deputati cancellò ieri dal Codice penale, senza discussione, senza la solennità dell’appello nominale la pena di morte. Non abbiamo bisogno di dire che noi, per parte nostra, approviamo e lodiamo siffatto voto, poiché i nostri antichi, immutati, tenaci convincimenti di questo subietto sono conosciuti. Noi plaudendo, non possiamo dimenticare che l’abolizione della pena di morte segnò per la Toscana i tempi più fausti del principato civile: che la restaurazione della pena di morte segnò i tempi funesti della reazione e del servaggio dopo il 1849: e che uno dei primi atti del governo chiamato a reggere provvisoriamente le sorti della provincia liberata a redenta, fu di abolirla di nuovo, gloriandosi che si era osato restituirla nel Codice, non si era osato applicarla, perché fra noi la civiltà era stata più forte della scure del carnefice. Da La Nazione del 30 novembre 1877


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La Nazione 150 anni

I PROSSIMI EVENTI GENNAIO-GIUGNO 2009

PREMIO LETTERARIO “LE FERROVIE: IL VIAGGIO TRA PASSATO, PRESENTE E FUTURO”

Un premio a cui possono partecipare tutti i lettori de La Nazione di età compresa tra i 13 e 25 anni, che frequentano corsi scolastici o sono iscritti all’università nell’anno 2009. Riunione della Commissione Giudicatrice, composta da 6 membri (di cui 3 designati dal direttore Giuseppe Moscambruno e 3 dal gruppo Ferrovie dello Stato). La commissione selezionerà i primi tre classificati, che verranno premiati nel mese di Novembre nel corso di una serata di Gala che si terrà al Teatro La Pergola. In collaborazione con: FERROVIE DELLO STATO

GENNAIO-DICEMBRE 2009

ILLUMINIAMO FIRENZE

Un progetto dedicato ai più bei palazzi della città di Firenze che, mese per mese, risplenderanno nella notte fiorentina. In collaborazione con: CAMERA DI COMMERCIO DI FIRENZE

Invio foto dal 4 FEBBRAIO 2009 al 30 GIUGNO 2009 Esposizione foto OTTOBRE 2009 Premiazione Ufficiale 20 NOVEMBRE 2009

PREMIO FOTOGRAFICO VOLKSWAGEN

Un Premio fotografico a tema. Le immagini inviate dai lettori saranno selezionate da una Commissione Giudicatrice che assegnerà come primo premio una vettura Volkswagen. In collaborazione con: VOLKSWAGEN FIRENZE

Dal 16 FEBBRAIO 2009 al 22 FEBBRAIO 2009

SETTIMANA DI EDUCAZIONE FINANZIARIA

L’auditorium de La Nazione ospiterà una settimana di workshop didattici dedicati ai giovani delle scuole medie, per avvicinarli al mondo dell’economia e della finanza. In collaborazione con: PATTI CHIARI

6 MARZO 2009

INAUGURAZIONE MOSTRA “LA NAZIONE 150 PRIME PAGINE PER 150 ANNI”

Da marzo ad aprile la Galleria de Medici ospiterà un percorso che farà rivivere 150 anni di storia, attraverso la memoria visiva delle prime pagine de La Nazione. In collaborazione con: PROVINCIA DI FIRENZE

Dal 14 MARZO 2009 al 16 MARZO 2009

TASTE

La Nazione inviterà i suoi lettori a partecipare al salone esclusivo del gusto e delle idee, in questa edizione dedicato alla scoperta della diversità culturale e biologica dei cibi. In collaborazione con: PITTI IMMAGINE

APRILE 2009

“UN TURISMO INNOVATIVO PER LA TOSCANA”

II libro celebrativo È già disponibile in tutte le edicole, il volume edito in occasione dei 150 anni de La Nazione. Curato dal giornalista e scrittore Maurizio Naldini, rappresenta un’opera senza precedenti. Anche solo sfogliandola, infatti, permette di ripercorrere, attraverso le cronache quotidiane, la storia di un giornale, di una regione, dell’Italia e del mondo. Il volume, di 400 pagine, contiene oltre 200 articoli originali – dalle cronache del Collodi per l’annessione della Toscana al Piemonte fino all’elezione del presidente Obama - introdotti dall’autore. La pubblicazione è arricchita da 15 tavole illustrate originali realizzate da Luca Parenti, l’impaginazione è a cura di Marco Innocenti dell’agenzia Kidstudio. Storici del livello di Zeffiro Ciuffoletti, Cosimo Ceccuti e Sandro Rogari hanno introdotto le tre parti nelle quali si articola, cronologicamente, l’opera.

Saranno messe in palio tre borse di studio destinate a studenti universitari, che saranno invitati a riflettere su nuove forme di turismo per la loro Regione. I Premiati saranno selezionati da una Commissione Giudicatrice. In collaborazione con: CONFINDUSTRIA FIRENZE

APRILE 2009

VISITE ALLA “CITTA’ DEL TEATRO”

In collaborazione con la Direzione del Teatro La Pergola nel corso del 2009 saranno organizzate visite settimanali con percorso guidato alla “Città del Teatro”. In collaborazione con: TEATRO DELLA PERGOLA

MAGGIO-DICEMBRE 2009

MOSTRA ITINERANTE “150 ANNI DE LA NAZIONE “

Una mostra composta da pannelli con la riproduzione delle pagine storiche più significative ed arricchita da una sezione dedicata alle singole realtà locali. Per l’occasione, il Monte dei Paschi ospiterà la mostra in alcune tra le più importanti agenzie e filiali regionali, città sedi tra l’altro delle redazioni de La Nazione. Le città che ospiteranno l’iniziativa, arricchita da incontri e dibattiti sono: Maggio: Siena e Prato – Giugno: Lucca e Grosseto – Luglio: Livorno e La Spezia – Agosto: Viareggio e Montecatini – Settembre: Carrara e Massa – Ottobre: Pistoia e Pisa – Novembre: Arezzo e Perugia – Dicembre: Empoli e Chiusi Stazione Per vivere insieme quest’anno di celebrazione stiamo realizzando altri fantastici progetti in collaborazione con: Regione Toscana, Comune di Firenze, Locman, MSC Crociere, Enel, Api Energia.


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