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L’OSSERVATORE ROMANO POLITICO RELIGIOSO
GIORNALE QUOTIDIANO
Non praevalebunt
Unicuique suum Anno CLV n. 203 (47.041)
Città del Vaticano
lunedì-martedì 7-8 settembre 2015
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L’appello del Papa a comunità religiose, monasteri e santuari d’Europa
I Paesi europei ancora divisi sull’accoglienza
In ogni parrocchia una famiglia di profughi
Inerzia e miopia
Una famiglia di rifugiati in ogni parrocchia, comunità religiosa, monastero o santuario d’Europa. È l’appello che Papa Francesco ha lanciato domenica 6 settembre «di fronte alla tragedia di decine di migliaia di profughi che fuggono dalla morte per la guerra e per la fame, e sono in cammino verso una speranza di vita». All’Angelus recitato in piazza San Pietro il Pontefice ha ricordato che «il Vangelo ci chiama, ci chiede di essere “prossimi” dei più piccoli e abbandonati. A dare loro una speranza concreta. Non soltanto dire: “Coraggio, pazienza!”». Da qui l’invito «a esprimere la concretezza del Vangelo» in prossimità dell’anno
Ai vescovi portoghesi
Proposte convincenti per i giovani PAGINA 7
giubilare della misericordia, attraverso un gesto di accoglienza nei confronti di una famiglia di profughi. «Mi rivolgo — ha scandito — ai miei fratelli vescovi d’Europa, veri pastori, perché nelle loro diocesi sostengano questo mio appello, ricordando che misericordia è il secondo nome dell’amore». Un appello che il Papa ha indirizzato anzitutto alla diocesi di Roma e alle due parrocchie pontificie (San Pietro e Sant’Anna) che sorgono nel territorio vaticano. Alla necessità di vincere la tentazione dell’indifferenza e della rassegnazione Francesco ha fatto riferimento anche nel messaggio inviato ai partecipanti all’incontro internazionale «La pace è sempre possibile» organizzato in questi giorni a Tirana, in Albania, dalla Comunità di Sant’Egidio. «Non dobbiamo mai rassegnarci alla guerra!» ha esortato Francesco, ricordando che «mentre mutano gli scenari della storia e i popoli sono chiamati a confrontarsi con trasformazioni profonde e talora drammatiche, si avverte sempre più
la necessità che i seguaci di diverse religioni si incontrino, dialoghino, camminino insieme e collaborino per la pace». Nel messaggio il Papa ha denunciato «le violenze, le persecuzioni e i soprusi contro la libertà religiosa», ma ha invitato a considerare che «è violenza anche alzare muri e barriere per bloccare chi cerca un luogo di pace». Ed è violenza «re-
di GIUSEPPE FIORENTINO
spingere indietro chi fugge da condizioni disumane nella speranza di un futuro migliore», come pure «scartare bambini e anziani dalla società e dalla stessa vita» e «allargare il fossato tra chi spreca il superfluo e chi manca del necessario». PAGINE 6
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Nella gestione dell’emergenza migratoria
L’O nu al fianco di Bruxelles NEW YORK, 7. «Siate la voce di chi ha bisogno di protezione». Con queste parole il segretario generale delle Nazioni Unite, Ban Ki-moon, si è rivolto oggi ai leader europei per chiedere un «approccio comune» e la netta opposizione a qualsiasi tendenza xenofoba nella gestione dell’emergenza migratoria. Ban Kimoon ha assicurato l’assistenza e la collaborazione dell’O nu. Collaborazione, questa, che si fa sempre più necessaria a fronte degli ultimi sviluppi: oggi sono stati segnalati almeno cinque dispersi nel naufragio di un barcone al largo della Libia, mentre prosegue la drammatica marcia di migliaia di migranti e rifugiati verso l’Austria e la Germania. Sono al momento 12.000 le persone entrate in Austria, anche se Vienna ha finora ricevuto soltanto trenta richieste di asilo. In Germania
sono arrivate invece ottomila persone, ma se ne attendono altre tremila nelle prossime ore. Due giorni fa Germania e Austria hanno deciso di aprire le frontiere per far entrare i migranti e i rifugiati. Da Vienna sono partiti convogli di attivisti — associazioni di volontari che si sono coordinati sui social media — per aiutare, con autovetture private, i migranti in marcia. Vienna in serata ha comunque annunciato un graduale ripristino dei controlli “a campione” alle frontiere. E oggi le forze antisommossa spagnole sono intervenute nel centro per stranieri (Cie) di Zapadores, a Valencia, usando anche proiettili di gomma, per reprimere la rivolta di alcune decine di immigrati. Intanto dal mondo politico arrivano segnali di una progressiva apertura nei confronti di una nuova solu-
Profughi siriani cercano di attraversare il confine turco (Afp)
zione dell’emergenza, in vista del vertice del 14 settembre. La Commissione europea ha chiesto a Germania, Francia e Spagna di accogliere più di 70.000 rifugiati nei prossimi due anni per alleviare la pressione dei Paesi in prima linea. «I profughi che scappano dalla guerra civile siriana hanno lasciato dietro di sé l’orrore» ha sottolineato in un’intervista il cancelliere tedesco Angela Merkel. «Per quanto riguar-
da la Germania, è bello constatare quanto grande sia la disponibilità all’aiuto nel nostro Paese: siamo di fronte a una sfida nazionale. La Repubblica federale tedesca, i suoi Länder e i suoi cittadini sentono la responsabilità comune e condivideranno gli oneri finanziari» ha detto Merkel, che sulla questione oggi ha avuto un colloquio con il presidente del Consiglio dei ministri italiano, Matteo Renzi.
e i Paesi europei avessero cercato serie soluzioni a conflitti come quello in Siria e se avessero dedicato tempo e risorse sufficienti per l’assistenza umanitaria all’estero, l’Europa non si troverebbe nella situazione attuale». Le parole di Lina Kathib, per un certo periodo a capo del Carnegie Middle East Center, un think tank basato a Beirut che cerca di favorire lo sviluppo politico ed economico della regione, sono riportate dall’«International New York Times» di domenica 6 settembre. Esse forniscono un originale punto di vista sull’emergenza che in questi giorni sta attraversando il vecchio continente, perché documentano come la questione dei profughi sia vista nella loro regione di provenienza. Regione che, vale la pena ricordare, sopporta già uno sforzo enorme di accoglienza a sostegno delle persone in fuga dalla guerra in Siria. Oltre quattro milioni di siriani sono infatti rifugiati nei Paesi vicini, distribuiti tra Turchia (che da sola ne ospita quasi la metà), Libano, Giordania, Egitto e Iraq. Secondo fonti accreditate, i profughi siriani che hanno avanzato richiesta di asilo in territorio europeo rappresentano solo il sei per cento del totale. È su questa percentuale, davvero esigua, che l’Europa continua a essere divisa. E il fatto, sempre tenendo presente un punto di vista mediorientale, appare abbastanza surreale. Proprio perché i Paesi che attualmente ospitano il maggior numero di profughi non possono certo dirsi ricchi come quelli europei, né altrettanto stabili. Basti pensare al fragilissimo Libano, alle prese con una lunghissima crisi politico-istituzionale che ancora lo priva di un capo dello Stato, o al poverissimo Iraq, che già conta tre milioni di sfollati interni. Cos’è allora, potrebbe domandarsi un osservatore mediorientale, che impedisce all’Europa di concordare una politica comune? Una risposta a questo interrogativo non è facile nemmeno per un osservatore europeo. In questi giorni fiumi di inchiostro sono stati versati per cercare di interpretare le diverse posizioni. Ne è venuto fuori un quadro a tinte fortemente contrastanti, diviso com’è tra la solidale e ammirevole apertura di Paesi come la Germania e l’Austria — senza dimenticare l’Italia che in tutti questi mesi è stata davvero in prima linea nel salvataggio di migliaia di vite umane — e l’egoistica chiusura di
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NOSTRE INFORMAZIONI Il Santo Padre ha ricevuto questa mattina in udienza: l’Eminentissimo Cardinale José Macário do Nascimento Clemente, Patriarca di Lisboa (Portogallo), con gli Ausiliari, le Loro Eccellenze i Monsignori Joaquim Augusto da Silva Mendes, Vescovo titolare di Caliabria, Nuno Brás da Silva Martins, Vescovo titolare di Elvas, José Augusto Traquina Maria, Vescovo titolare di Lugura, in visita «ad limina Apostolorum»; le Loro Eccellenze i Monsignori: — António de Sousa Braga, Vescovo di Angra (Portogallo), in visita «ad limina Apostolorum»; — António José Cavaco Carrilho, Vescovo di Funchal (Portogallo), con il Vescovo emerito, Sua Eccellenza Monsignor Teodoro de Faria, in visita «ad limina Apostolorum»; — Manuel da Rocha Felício, Vescovo di Guarda (Portogallo), in visita «ad limina Apostolorum»; — António Augusto dos Santos Marto, Vescovo di Leiria-Fátima (Portogallo), con il Vescovo emerito, Sua Eccellenza Monsignor Serafim de Sousa
Ferreira e Silva, in visita «ad limina Apostolorum»; — Antonino Eugénio Fernandes Dias, Vescovo di Portalegre - Castelo Branco (Portogallo), in visita «ad limina Apostolorum»; — Manuel Pelino Domingues, Vescovo di Santarém (Portogallo), in visita «ad limina Apostolorum»; — José Ornelas Carvalho, Vescovo eletto di Setúbal (Portogallo), con i Vescovi emeriti, le Loro Eccellenze i Monsignori Gilberto Délio Gonçalves Canavarro dos Reis e Manuel da Silva Martins, in visita «ad limina Apostolorum»; — José Francisco Sanches Alves, Arcivescovo di Évora (Portogallo), con l’Arcivescovo emerito, Sua Eccellenza Monsignor Maurílio Jorge Quintal de Gouveia, in visita «ad limina Apostolorum»; — António Vitalino Fernandes Dantas, Vescovo di Beja (Portogallo), con il Vescovo Coadiutore, Sua Eccellenza Monsignor José João dos Santos Marcos, in visita «ad limina Apostolorum»;
— Manuel Neto Quintas, Vescovo di Faro (Portogallo), con il Vescovo emerito, Sua Eccellenza Monsignor Manuel Madureira Dias, in visita «ad limina Apostolorum»; — Jorge Ferreira da Costa Ortiga, Arcivescovo di Braga (Portogallo), con l’Ausiliare, Sua Eccellenza Monsignor Francisco José Villas-Boas Senra de Faria Coelho, Vescovo titolare di Plestia, in visita «ad limina Apostolorum»; — António Manuel Moiteiro Ramos, Vescovo di Aveiro (Portogallo), in visita «ad limina Apostolorum»; — José Manuel Garcia Cordeiro, Vescovo di Bragança-Miranda (Portogallo), con i Vescovi emeriti, le Loro Eccellenze i Monsignori António José Rafael e António Montes Moreira, in visita «ad limina Apostolorum»; — Virgilio do Nascimento Antunes, Vescovo di Coimbra (Portogallo), in visita «ad limina Apostolorum»; — António José da Rocha Couto, Vescovo di Lamego (Portogallo), con il Vescovo emerito, Sua Eccellenza Monsignor Jacinto Tomás de Carvalho, in visita «ad limina Apostolorum»;
altre Nazioni, che non molto tempo fa avevano invece potuto contare sull’aiuto dei loro vicini. Evidentemente si fa fatica a imparare la lezione della storia. Ecco allora l’erezione di barriere, la militarizzazione dei confini e il ripetersi di proclami basati su demagogiche valutazioni elettorali. In realtà, l’Europa che litiga su alcune decine di migliaia di persone da accogliere ha soprattutto peccato di inerzia e pecca ora di miopia, per lo meno in quella parte che si ostina alla chiusura. Inerzia perché quanto sta accadendo era ampiamente prevedibile, ma davvero molto poco è stato fatto per evitare la tragedia del popolo siriano. Sono anni che il responsabile delle operazioni umanitarie dell’Onu in Siria, Yacoub El Hillo, avverte che la crisi dovuta al conflitto avrebbe inevitabilmente condotto al collasso del sistema internazionale di aiuti, costringendo la popolazione alla fuga. «Il fallimento del sistema di soccorso è una conseguenza dello stallo strategico» ha dichiarato El Hillo. Uno stallo a cui l’Europa ha in parte contribuito, accettando un ruolo subordinato in uno scacchiere, come il Mediterraneo, che dovrebbe invece costituire un interesse primario. L’Europa priva di una seria politica estera non ha saputo scongiurare il protrarsi di sanguinose guerre e l’affermarsi del nuovo modello di terrorismo transnazionale del cosiddetto Stato islamico. Miopi sono invece quanti credono che l’emergenza dei profughi — come la più ampia questione delle migrazioni — sia risolvibile chiudendo le porte. Come è già stato rilevato, la pressione è destinata a crescere, soprattutto dall’Africa, continente da cui milioni di persone fuggono per scampare alla fame, oltre che alla guerra. Nessuna barriera fermerà mai chi spera in un futuro migliore per sé e per la propria famiglia. Come nessuna madre, se non costretta, esporrebbe i suoi figli ai rischi di un incerto viaggio per mare. Una risposta potrebbero essere delle vere politiche di partenariato dirette soprattutto ai Paesi africani. Politiche molto invocate, ma ben poco attuate.
Elisabetta
II
e il regno più lungo
Al lavoro come sempre NIGEL BAKER
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La Natività della Madre di Dio
— António Francisco dos Santos, Vescovo di Porto (Portogallo), con gli Ausiliari, le Loro Eccellenze i Monsignori António Maria Bessa Taipa, Vescovo titolare di Tabbora, João Evangelista Pimentel Lavrador, Vescovo titolare di Luperciana, Pio Gonçalo Alves de Sousa, Vescovo titolare di Acque flavie, e con Sua Eccellenza Monsignor João Miranda Teixeira, Vescovo titolare di Castello Jabar, già Ausiliare, in visita «ad limina Apostolorum»; — Anacleto Cordeiro Gonçalves de Oliveira, Vescovo di Viana do Castelo (Portogallo), con il Vescovo emerito, Sua Eccellenza Monsignor José Augusto Martins Fernandes Pedreira, in visita «ad limina Apostolorum»; — Amândio José Tomás, Vescovo di Vila Real (Portogallo), in visita «ad limina Apostolorum»; — Ilídio Pinto Leandro, Vescovo di Viseu (Portogallo), in visita «ad limina Apostolorum»; — Manuel da Silva Rodrigues Linda, Ordinario Militare per il Portogallo, con l’Ordinario Militare emerito, Sua Eccellenza Monsignor Januário Torgal Mendes Ferreira, in visita «ad limina Apostolorum».
Una veste tessuta di gloria
«La Madre di Dio» (XIII secolo, evangeliario siriaco) MANUEL NIN
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Rifugiati e migranti attendono di entrare nell’ex-Repubblica jugoslava di Macedonia dal villaggio di Gevgelija (Ap)
BRUXELLES, 7. Un esercito di oltre 30.000 trafficanti con una rete organizzativa che passa anche attraverso i social media e un volume d’affari gigantesco, impossibile da quantificare ma dell’ordine di miliardi di dollari. Dietro le centinaia di migliaia di disperati in fuga verso l’Europa ci sono loro, che li convincono con false promesse e violenze. A lanciare l’allarme è l’Europol, l’agenzia per la lotta alla criminalità dell’Unione europea, che ieri ha diffuso nuovi dati sul fenomeno, specificando che tremila trafficanti operano nel Mediterraneo e altri 27.000 si occupano dell’immigrazione clandestina attraverso le vie balcaniche o le rotte di terra di Asia e Africa. «Se parliamo dell’intera immigrazione clandestina in Europa, non solo quella nel Mediterraneo, il numero dei sospetti è di 30.000 individui» spiega Robert Crepinko, capo dell’unità crimine organizzato dell’Europol. La fotografia dell’Europol parla di un’organizzazione estremamente capillare i cui membri hanno nazionalità differenti, collaborano caso per caso e si spostano dove serve e dove ci sono soldi da ottenere facilmente. Una rete smantellata di recente in Grecia — ha spiegato Crepinko — era composta da 16 persone: due romeni, due egiziani, due pakistani, sette siriani, un indiano,
Dietro l’emergenza migratoria c’è una rete di oltre 30.000 trafficanti
Mercanti di esseri umani un filippino e un iracheno che hanno guadagnato in pochi mesi sette milioni e mezzo di euro facendo passare migranti siriani dalla Turchia alla Grecia per vie marittime, aeree o terrestri con falsi documenti. Si tratta quindi di un vero e proprio giro di affari. Contrastare tali trafficanti «è di sicuro la priorità assoluta, non solo per l’Europol ma
Una settimana senza scontri armati in Ucraina KIEV, 7. Il cessate il fuoco teoricamente in vigore da metà febbraio in Ucraina orientale nella scorsa settimana è stato rispettato, ed è la prima volta che ciò accade da quando furono firmati gli accordi di pace a Minsk: lo ha annunciato il presidente, Petro Poroshenko, sostenendo che vi sono state ancora perdite tra le file governative, dovute però allo scoppio di mine o a incidenti stradali, e non invece a combattimenti contro i ribelli separatisti. «Ho una buona notizia», ha dichiarato ieri Poroshenko alla televisione nazionale. «Per una settimana non ci sono stati scontri a fuoco al fronte, ed è la prima volta che si osservano gli accordi di Minsk». Qualche giorno fa le autorità di Kiev e i separatisti si erano impegnati vicendevolmente a rafforzare la tregua a partire dal primo settembre, in coincidenza con l’apertura dell’anno scolastico. In realtà già all’indomani Andriy Lysenko, portavoce del consiglio di Sicurezza nazionale, aveva denunciato l’uccisione nei pressi di Lugansk di due civili presi di mira da cecchini e il ferimento di quattro soldati. E oggi militari ucraini hanno rinvenuto a Stanitsa Luganska i cadaveri di cinque miliziani uccisi dall’esplosione di una mina. Secondo quanto riferisce il rappresentante delle forze armate di Kiev nella regione di Lugansk, Ruslan Tkachuk, i corpi dei cinque separatisti sono stati trovati sulle sponde del fiume Severskyi Donets e la morte deve essere avvenuta due settimane fa durante un’incursione nel territorio controllato dall’esercito ucraino. Nel frattempo, il direttore generale del Fondo monetario internazionale (Fmi), Christine Lagarde, dopo un colloquio ieri a Kiev con il presidente Poroshenko, nel corso di una conferenza stampa ha affermato: «Sono estremamente incoraggiata dai progressi compiuti in questi mesi. L’Ucraina ha sorpreso il mondo» riferendosi alle riforme coraggiose portate avanti dal Governo di Kiev nonostante il sanguinoso conflitto in corso con i separatisti filorussi nell’est del Paese che ha causato più di 6800 morti.
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per tutti gli Stati Ue» ha riferito Crepinko, che ha annunciato l’apertura, a breve, di un’unità dell’Europol nel Pireo, in Grecia, per combattere il traffico dalla Turchia. Le inchieste in corso — ha fatto sapere a sua volta il vicedirettore di Europol, Oldrich Martinu — sono 1400. Il traffico di esseri umani, anche quello legato allo sfruttamento ses-
suale e al mercato del lavoro nero, è l’affare «più redditizio del momento», più del contrabbando di armi e di droga, ha confermato Izabella Cooper, portavoce di Frontex. L’agenzia di controllo delle frontiere dell’Ue ha scoperto una grande organizzazione, una delle tante, gestita da eritrei. Dal Paese del Corno d’Africa facevano passare i migranti
attraverso il Sudan fino alla Libia e di qui all’Italia. Un’altra rotta consolidata è quella che dal Ghana, attraverso il Burkina Faso e il Niger, arriva in Libia: in centinaia vengono ammassati sui camion e poi stipati nei barconi diretti verso le coste italiane. La lotta contro questa organizzazione del terrore — sottolineano gli
esperti — chiede un ingente dislocamento di mezzi e di uomini: i trafficanti sono infatti armati e spesso si rischia lo scontro a fuoco. Come avvenuto pochi giorni fa: uno yacht di 25 metri, carico di migranti, è stato fermato davanti all'isola greca di Simi. Un profugo di diciassette anni è morto in uno scontro a fuoco tra i trafficanti e i militari della Guardia costiera greca che hanno affiancato l'imbarcazione con una motovedetta. La versione è stata confermata anche da un comunicato della marina mercantile. Nella sparatoria sarebbero rimasti feriti un militare della Guardia costiera e un trafficante. E sul nodo dei trafficanti è intervenuto anche il ministro dell’Interno italiano, Angelino Alfano, che ha parlato della necessità di un’operazione massiccia di contrasto. Al problema infatti «si risponde con una dichiarazione di guerra ai trafficanti di esseri umani» ha detto il titolare del Viminale. Due giorni — stando a fonti di stampa — fa la polizia turca ha arrestato quattro presunti trafficanti, ritenuti responsabili del naufragio di un’imbarcazione che stava provando a raggiungere la Grecia dalla Turchia. Sull’imbarcazione viaggiava una famiglia di siriani, tra cui un bimbo di tre anni.
Intensificati i controlli di polizia ed esercito
Sostegno alla mediazione delle Nazioni Unite
Possibili attacchi terroristici nella capitale tunisina
Vertice ad Algeri sul futuro della Libia
TUNISI, 7. Le autorità tunisine hanno deciso oggi di chiudere al traffico alcune zone della capitale in seguito a rapporti di intelligence che segnalano possibili attacchi terroristici condotti con autobombe in città. Lo riporta l’agenzia di stampa Tap. La Tunisia è in stato di emergenza dopo l’attentato dello scorso marzo contro i turisti al museo del Bardo a Tunisi costato la vita a 21 persone e quello del 26 giugno contro un resort di lusso a Sousse dove sono rimasti uccisi 38 stranieri. Una fonte del ministero degli Interni tunisino ha detto all’agenzia Tap che sono state acquisite informazioni di possibili attentati con autobombe e uomini armati contro punti strategici della capitale, senza ulteriori precisazioni. «È stato dato l’ordine di intensificare i pattugliamenti della polizia e dell’esercito in alcune zone della capitale e nei quartieri suburbani», ha detto la fonte alla Tap. È stata chiusa al traffico l’Avenue Habib Bourguiba, principale via nel centro della città, e altre strade. Nella scorsa settimana le guardie di frontiera tunisine hanno arrestato quattro terroristi che tentavano di entrare nel Paese dalla Libia. Si tratta di estremisti islamisti che già in passato erano stati responsabili di attacchi armati in Tunisia.
Agenti tunisini di pattuglia
ALGERI, 7. Algeria, Niger e Ciad hanno sottolineato ieri l’urgenza di trovare una soluzione politica alla crisi in Libia. Al termine di un incontro ad Algeri tra il ministro degli Affari africano algerino, Abdelkader Messahei, del ministro degli Esteri e della cooperazione del Niger, Kane Alchatou Boulama, e del capo della diplomazia del Ciad, Moussa Faki Mahamat, è stato ribadito «l’impegno dei tre Paesi africani ad accompagnare i fratelli libici nella ricerca di una soluzione politica sotto l’egida dell’Onu, attraverso la formazione di un Governo di unità nazionale capace di superare le molteplici difficoltà così come preservare l’unità e l’integrità territoriale della Libia». Nel frattempo, il portavoce del Parlamento di Tobruk riconosciuto dalla comunità internazionale, Buo Hashim, ha affermato ieri che qualsiasi futuro Governo di unità nazionale in Libia non può includere gruppi che sostengono milizie estremiste sospettate di crimini contro l’umanità. Il funzionario libico ha poi accusato apertamente il partito Giustizia e costruzione, braccio politico dei Fratelli musulmani libici e tra i firmatari dell’accordo preliminare mediato dall’Onu in Marocco, di sostenere il consiglio dei jihadisti di Derna.
Il Governo di unità nazionale a cui sta lavorando l’inviato dell’O nu per la Libia, Bernardino León, ha detto il portavoce di Tobruk, include i Fratelli musulmani a condizione che l’organizzazione islamista cessi di sostenere le milizie terroristiche ed estremiste. «Speriamo che qualsiasi futuro Governo porti a una soluzione che ponga fine alla crisi in corso, e non ne porti una nuova», ha concluso Buo Hashim.
A cento giorni dall’elezione del presidente Buhari
Nigeria ancora senza Governo ABUJA, 7. Primi cento giorni al potere per il presidente nigeriano, Muhammadu Buhari, che ha trascorso la giornata di ieri senza discorsi ufficiali, ma solo come una pausa di «riflessione» nella sua città natale nel nordest del Paese africano. Lo ha riferito alla stampa il portavoce del capo dello Stato, Garba Shehu. «Buhari — ha confermato Shehu — non considera questi cento giorni come una tappa importante. È rimasto a riflettere nella sua città di D aura». Il presidente è determinato a com-
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battere l’insicurezza — ha precisato il portavoce — «a rimettere in piedi l’economia del Paese ed eliminare la corruzione. Questi sono gli obiettivi che ha perseguito nei primi cento giorni». Ma dopo oltre tre mesi dall’insediamento, Buhari non ha ancora nominato il nuovo Governo. «L’economia soffre proprio del fatto che il presidente tarda a nominare l’Esecutivo», ha spiegato Paul Igbinoba, economista di Lagos. «Il capo dello Stato deve agire più rapidamente
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nella nomina dei suoi ministri chiave e nella formazione di una squadra economica efficace», ha concluso l’economista. E stando a una dichiarazione pubblica che in Nigeria ha pochi precedenti, sono stati resi noti i beni di Buhari. A detta del portavoce, il presidente dispone dell’equivalente di 150.000 dollari in un conto in banca, titoli azionari di tre società, due appezzamenti di terra, un frutteto e una fattoria con diversi capi di bestiame e cavalli. Di certo, osservano
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diversi quotidiani nazionali, Buhari si è distinto rispetto al suo predecessore, Goodluck Jonathan, sconfitto alle elezioni di maggio proprio sui temi della lotta alla corruzione, dopo essersi peraltro sempre rifiutato di rivelare l’entità dei propri beni. «È un passo nella giusta direzione, nel rispetto degli standard internazionali migliori» ha infatti detto Sylvester Atere, rappresentante in Nigeria dell’Agenzia delle Nazioni Unite per la lotta al contrabbando di droga e al crimine organizzato.
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Gli islamisti vincono le amministrative in Marocco RABAT, 7. Vittoria alle elezioni amministrative in Marocco per il partito islamista moderato del primo ministro, Abdelilah Benkirane. Stando ai dati definitivi diffusi nelle ultime ore, il partito Giustizia e Sviluppo (Pjd) non solo ha espugnato le grandi città del Paese (Fes, Casablanca, Rabat, Marrakech, Tangeri o Agadir) ma ha vinto in cinque regioni su dodici, aggiudicandosi 174 seggi su 678 dei consigli in palio e facendo registrare il 25,6 per cento delle preferenze, staccando nettamente i liberali del partito dell’Autenticità e della Modernità (Pam) che hanno ottenuto 132 seggi (il 19,4 per cento dei consensi) e i centristi dell’Istiqlal (119 seggi, ovvero il 17,5 per cento del totale). Il Pjd supera così la prova di queste elezioni, vissute come un anticipo delle politiche che l’anno prossimo impegneranno il Marocco. Il partito ha triplicato i consensi anche nei comuni, con il 15,94 delle preferenze e 5.021 rappresentanti. In questo caso, se si guarda allo spoglio totale definitivo, il Pjd si ferma alla medaglia di bronzo, alle spalle del Pam (6.655 seggi) e dell’Istiqlal (5.106 seggi), da sempre forti nelle aree rurali del Paese.
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La marcia nella città colombiana di Cúcuta per protestare contro la chiusura del confine decisa dal Governo di Caracas (Afp)
Contro una base della coalizione internazionale guidata dall’Arabia Saudita
Sanguinoso attacco dei ribelli huthi a Marib SANA’A, 7. Migliaia di morti, almeno diecimila feriti, circa venti milioni di persone senza più accesso all’acqua potabile e con gravi difficoltà alimentari: questo il tragico bilancio, ancora parziale, della guerra nello
Drone pakistano uccide tre jihadisti nelle zone tribali ISLAMABAD, 7. Un drone di fabbricazione pakistana per la prima volta ha ucciso tre jihadisti nelle zone tribali del nord-ovest. È quanto annunciato oggi dall’esercito pakistano che ha intensificato le sue operazioni contro i terroristi in questo settore al confine con l’Afghanistan. Il drone, ha reso noto il portavoce dell’esercito il generale Asim Bajwa, ha colpito un campo di terroristi nella valle di Shawat uccidendo tre importanti leader degli insorti. Finora non è stata resa nota l’identità delle vittime. Le autorità di Islamabad hanno più volte condannato in passato le operazioni dei droni statunitensi contro i capi talebani e i leader di Al Qaeda nel nord del Paese, considerati come un attentato alla propria sovranità. Intanto, nel confinante Afghanistan, sei soldati di Kabul sono morti e altri tre sono rimasti feriti in un attacco compiuto ieri sera da un commando di talebani, che lo hanno rivendicato ufficialmente per bocca del loro portavoce Qari Yousuf Ahmadi, nella provincia sud-occidentale di Nimroz. Lo scrive oggi l’agenzia di stampa Pajhwok. Il capo del distretto di Khashrod, Mohammad Hashim Noorzai, ha spiegato che gli insorti sono giunti a un check point nel villaggio di Deh Mazang, a bordo di una jeep e di un blindato dell’esercito afghano, portati via tempo fa da una base della provincia di Helmand. E, nel frattempo, almeno trenta studentesse di una scuola femminile della provincia occidentale afghana di Herat sono state ricoverate oggi in ospedale con sintomi da avvelenamento. Secondo quanto si è appreso, l’episodio, il quinto nella provincia negli ultimi dieci giorni, è avvenuto nel distretto di Anjil. Negli ultimi anni episodi dello stesso tipo sono stati denunciati anche nelle province di Kabul, Bamyan, Maidan Wardak, Jawzjan e Badakhshan. Non sono mai stati rivendicati ma gli esperti non hanno dubbi che si tratti di attacchi di fondamentalisti.
Yemen fra ribelli huthi e forze arabe guidate dall’Arabia Saudita che sostengono il presidente Hadi. E le violenze si susseguono senza tregua: un raid della coalizione ha causato ieri sera almeno venti morti nel nord del Paese. La strage, quasi certamente frutto di un errore, è avvenuta nel corso dell’offensiva aerea lanciata dopo l’attacco missilistico dei ribelli huthi a Marib. Nell'attacco dei ribelli, avvenuto venerdì scorso, erano rimasti uccisi dieci soldati sauditi. Il bilancio è stato confermato ieri da un tweet del portavoce della coalizione araba, generale Ahmed Al Asiri. Nello stesso attacco missilistico degli huthi — che ha coinciso con i colloqui a Washington tra il presidente statunitense, Barack Obama e il re dell’Arabia Saudita Salman — erano rimasti uccisi anche 45 soldati degli Emirati Arabia Uniti. Le autorità di Abu Dabhi hanno proclamato tre giorni di lutto nazionale. Altri cinque militari del Bahrein, che fa an-
ch’esso parte della coalizione militare guidata da Riad, sono morti negli ultimi giorni in seguito a violenti scontri con i ribelli huthi al confine tra Yemen e Arabia Saudita. Come immediata risposta al sanguinoso attacco di Marib, nel corso del fine settimana si sono intensificati i raid aerei della coalizione araba a guida saudita contro i ribelli huthi. I caccia hanno bombardato una sede delle forze di sicurezza nel quartiere di Hada, a Sana’a. Colpita in particolare la zona di Al Sabain, dove si trova anche il palazzo presidenziale. A causa dei bombardamenti dei caccia della coalizione internazionale sulla capitale, un grande ospedale è stato evacuato e alcuni studenti hanno dovuto lasciare l’aula degli esami. Fonti dei ribelli huthi hanno fatto sapere inoltre che la struttura, il Sabaeen Hospital, è stato chiuso dopo aver subito gravi danni. L'attacco aereo era diretto contro una vicina base militare.
Maduro invita Santos al dialogo CARACAS, 7. Il presidente del Venezuela, Nicolás Maduro, ha invitato ieri l’omologo colombiano, Juan Manuel Santos, ad avviare un dialogo — «faccia a faccia», ha dichiarato — per porre fine attraverso il negoziato alla grave crisi al confine tra i due Paesi sudamericani. «Chiedo a Santos — ha detto Maduro da Caracas — di non avere paura del dialogo, l’unico modo per trovare una soluzione a questi gravi problemi». Nei giorni scorsi, il presidente del Venezuela ha deciso di chiudere la frontiera con la Colombia per fronteggiare il contrabbando, il narcotraffico e le bande para-
militari che imperversano nella zona. Bogotá ha invece denunciato l’allontanamento forzato di oltre 1100 colombiani dal Venezuela, evocando la possibilità di ricorrere alla Corte penale internazionale dell’Aja per «crimini contro l’umanità». Gli allontanamenti dei colombiani, ha evidenziato Bogotá, sarebbero, infatti, stati portati a termine con brutalità e accompagnati dalla distruzione delle loro abitazioni. Ieri, centinaia di persone hanno partecipato a Cúcuta e a Villa del Rosario, città colombiane alla frontiera, a una marcia per la dignità dei colombiani.
Cameron sottoporrà l’opzione militare al Parlamento entro i primi di ottobre
Londra pronta a intervenire contro l’Is LONDRA, 7. Il Governo britannico intende lanciare attacchi aerei contro le postazioni del cosiddetto Stato islamico (Is) in Siria, secondo quanto riporta il «Sunday Times» citando fonti ufficiali. Il quotidiano britannico afferma che il premier David Cameron vuole ottenere il via libera del Parlamento ai raid in una votazione che dovrebbe tenersi nei primi di ottobre. In tal modo Londra andrebbe dunque a rafforzare le azioni aeree della coalizione internazionale a guida statunitense che già opera nell’area. Per stabilizzare la situazione nel Mediterraneo occorre «una Siria in pace» ha detto il cancelliere dello Scacchiere, George Osborne, a margine del vertice finanziario del G20 ad Ankara. Per giungere a questo obiettivo, si deve «andare alla radice del problema» intervenendo non solo contro «i terroristi dell’Is» ma anche contro «il regime di Bashar Al Assad» ha spiegato Osborne. Ed è proprio sul ruolo del presidente siriano Assad che si concentra in queste ore il confronto diplomatico sulla crisi. Washington e Mosca stanno infatti discutendo da alcune settimane della possibile costituzione di una grande forza internazionale contro l’Is. Tuttavia, mentre la Casa Bianca pone quale precondizione essenziale di ogni intervento l’uscita di scena di Assad con l’apertura di una fase di transizione politica, il Cremlino invece sostiene che non si possa escludere un ruolo di Assad.
Il fumo dei combattimenti sulla città siriana di Kobane (Ansa)
Di questo punto nodale hanno parlato il segretario di Stato americano, John Kerry, e il ministro degli Esteri russo, Serghiei Lavrov, in un recente colloquio. E ieri il dipartimento di Stato americano ha reso noto che i russi stanno rafforzando la loro presenza militare in Siria. «Se le informazioni sono precise — afferma il dipartimento di Stato —
Revocato l’ordine di sgombero di una cittadina nei pressi della centrale nucleare
Fukushima sicura TOKYO, 7. A più di quattro anni dal disastro atomico che ha sconvolto la zona di Fukushima, il Governo giapponese ha revocato ieri l’ordine di sgombero dalla cittadina di Naraha, nei pressi della centrale nucleare che l’11 marzo del 2011 venne praticamente distrutta dal terremoto e dal successivo tsunami. Secondo l’Esecutivo, i livelli di radiazioni nella zona sono rientrati sotto il livello di guardia, anche grazie agli sforzi di decontaminazione. Il Governo ha così concesso il rientro permanente dei residenti e ha annunciato una serie di piani di sostegno economico per la ripresa della zona. Si tratta di un progetto pilota in vista del marzo 2017, termine indicato dal primo ministro, Shinzo Abe, per la rimozione di tutti i bandi abitativi nella regione nipponica colpita dal disastro.
Sempre tesa la situazione al confine tra Colombia e Venezuela
A Fukushima si celebra con l’accensione di candele il ritorno alla normalità (Afp)
queste azioni porteranno a un’escalation del conflitto in Siria, con conseguente aumento del numero di morti innocenti e di rifugiati che scappano. Aumenterebbero anche i rischi di uno scontro con la coalizione anti-Is che sta operando in Siria». In questo quadro, l’Unione europea segue la linea politica tracciata da Washington. «È impossibile pen-
sare che Assad faccia parte del futuro della Siria» ha detto ieri in un’intervista l’alto rappresentante Ue per la politica estera e di sicurezza comune, Federica Mogherini. «Ma è chiaro a tutti — ha dichiarato — che una transizione sarà possibile solo trovando il modo di far parlare le parti e farle sedere attorno a un tavolo comune».
Respinta dal Parlamento thailandese la bozza di Costituzione BANGKOK, 7. Il Parlamento thailandese ha respinto ieri una bozza di Costituzione che avrebbe rafforzato l’influenza delle forze armate e della classe dirigente nella struttura di potere del Paese asiatico. La decisione — indicano gli analisti — rinvia in sostanza il ritorno alle urne a tempo indefinito, a beneficio dell’attuale giunta militare, guidata dal generale Prayuth Chanocha dal maggio del 2014. Nominato dai militari dopo il golpe dell’anno scorso, il Parlamento (Consiglio nazionale per le riforme) ha rigettato con 135 voti contro 105 la Carta — che sarebbe stata la ventesima dal 1932 — redatta da un organo composto anch’esso da esponenti scelti dalle forze armate. L’articolo più controverso della bozza prevedeva l’istituzione di una commissione non eletta — anche con militari all’interno — in periodi
di crisi, un provvedimento che avrebbe, di fatto, impedito l’autonomia di qualsiasi Governo uscito dalle elezioni, nel caso non fosse gradito all’establishment. Nei quindici mesi trascorsi dal golpe, Prayuth ha gradualmente accentrato su di sé tutti i poteri, per opporsi alle politiche dell’ex primo ministro Thaksin Shinawatra, vincitore di tutte le elezioni dal 2001 grazie in particolare ai voti delle classi medio-basse e rurali. Il voto del Parlamento comporta l’azzeramento del procedimento di stesura costituzionale. Una nuova commissione avrà ora il compito di redigere entro centottanta giorni un nuovo testo, che dovrà essere approvato dal Parlamento e poi sottoposto a referendum popolare. Secondo i commentatori, è improbabile che le prossime elezioni si possano tenere prima del 2017.
Presidenziali del Guatemala al ballottaggio CITTÀ DEL GUATEMALA, 7. Sarà necessario il ballottaggio per eleggere il nuovo presidente del Guatemala: lo indicano i risultati parziali diffusi stamane dopo le elezioni di ieri. Lo scrutinio è stato preceduto dal clamoroso arresto dell’ormai ex capo dello Stato Otto Pérez, accusato dalla procura generale di corruzione e frode. Stando ai primi dati, a ottenere il maggior numero di voti (26 per cento) è stato Jimmy Morales, attore che rappresenta i conservatori del Frente de Convergencia Nacional (Fcn Nación). Staccati di diversi punti l’imprenditore e avvocato Manuel Baldizón (19 per cento dei consensi), del partito Libertad democrática, e Sandra Torres, con il 18 per cento, del partito Unidad Nacional de la Esperanza, moglie dell’ex presidente Álvaro Colom (2008-2012), del quale era stata responsabile per le Politiche sociali. Nel 2011 Baldizón perse il ballottaggio contro Pérez. Nel caso nessuno dei candidati riesca a ottenere la maggioranza assoluta dei voti, come appare sempre più probabile, i circa sette milioni e mezzo di aventi diritto saranno chiamati di nuovo alle urne il 25 ottobre prossimo. Secondo dichiarazioni di esponenti della Commissione elettorale, l’affluenza è stata alta, circa l’ottanta per cento degli aventi diritto. Un dato significativo per il Guatemala, Paese che solo nel 1996 ha archiviato una lunga guerra civile. Da segnalare poi che fra i tre candidati favoriti per la presidenza, tutti espressione dell’opposizione, nessuno raccoglie grande consenso nella popolazione, scesa in piazza in questi mesi contro il dilagante fenomeno della corruzione e per chiedere una riforma dei partiti politici. Oltre al primo turno delle presidenziali, i guatemaltechi si sono recati alle urne per eleggere il vice presidente, 158 deputati, 20 rappresentanti al Parlamento del Paese centroamericano e 338 sindaci. Si è trattato dell’ottavo processo elettorale nei trent’anni trascorsi da quando è stata ripristinata la democrazia, nel 1985. Le operazioni di voto e di scrutinio si sono svolte senza incidenti di rilievo, nonostante i timori dovuti alle recenti dimissioni dell’ex presidente Pérez, che nei giorni scorsi è stato privato dell’immunità politica e arrestato a seguito di una complessa inchiesta sull’appropriazione indebita e diffusa di risorse pubbliche attraverso le dogane nazionali.
L’OSSERVATORE ROMANO
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lunedì-martedì 7-8 settembre 2015
Il 9 settembre la regina batterà il record di 63 anni e 216 giorni stabilito nel 1896 dalla trisnonna
Al regno di Elisabetta
II
L'arcivescovo di Canterbury Geoffrey Fisher porge lo scettro a Elisabetta II durante la cerimonia di incoronazione a Westminster Abbey il 2 giugno 1953
il primato di longevità nella storia britannica
Al lavoro come sempre di NIGEL BAKER* iamo consapevoli che si tratta di una data storica, ma si lavorerà come al solito». Questo semplice annuncio fatto di recente da Buckingham Palace è tipico dell’intero regno di uno dei monarchi più notevoli che si sia mai seduto su un trono. Tuttavia quella data non segnerà un giorno “normale”, bensì una pietra miliare davvero eccezionale. Il 9 settembre di quest’anno, sua maestà la regina Elisabetta II batterà il record di 63 anni e 216 giorni stabilito dalla sua trisnonna, la regina Vittoria, diventando il monarca dal regno più lungo della storia britannica. Vittoria stabilì il suo record il 23 settembre 1896. Nel suo diario scrisse: «Oggi è il giorno in cui ho regnato un giorno più a lungo rispetto a qualsiasi altro sovrano inglese». Il sovrano al quale pensava era suo nonno Giorgio II, che regnò dal 1760 al 1820. Prima del suo, il regno più lungo nella storia britannica era stato quello di Giacomo VI di Scozia, in seguito divenuto Giacomo I d’In-
«S
La regina Elisabetta
II
ghilterra: fu re di Scozia per 57 anni, dal 1567 al 1625 (divenne re d’Inghilterra e quindi della Gran Bretagna solo nel 1603). Vittoria trascorse la giornata tranquillamente, nella sua residenza scozzese, il castello di Balmoral, intrattenendo l’ultimo zar e la zarina di Russia. Ed è lì che, tranquillamente, trascorrerà la giornata anche la regina Elisabetta II, il cui regno è il più lungo tra quelli dei quarantuno re e regine d’Inghilterra e di Gran Bretagna dopo la conquista normanna. Non c’è alcun dubbio che la regina trascorrerà almeno parte della giornata a esaminare i documenti di Stato ufficiali, come ha fatto ogni giorno da quando, a 25 anni, è diventata regina dopo la morte di suo padre re Giorgio VI, avvenuta nelle prime ore del 6 febbraio 1952. «Elisabetta la brava, Elisabetta la diligente», l’ha definita uno storico, e il dovere e il servizio alla nazione sono stati il segno distintivo del suo regno. Per oltre 63 anni è rimasta fedele alle parole pronunciate all’inizio: «Mi sono impegnata con sincerità al vostro servizio, così come tanti di voi sono impegnati al mio. Per tutta la vita e con tutto il cuore cercherò di essere degna della vostra fiducia». Come Vittoria, ha rappresentato un segno di continuità mentre il Paese è cambiato e si è modernizzato. Ha servito attraverso il XX secolo, passando per il millennio, fino al XXI secolo. Come principessa Elisabetta ha presenziato agli austeri Giochi olimpici che si sono svolti a Londra, nel 1948, dopo la seconda guerra mondiale. Come regina, ha celebrato il suo giubileo di diamante
nell’anno delle Olimpiadi di Londra 2012. Il suo primo premier britannico è stato sir Winston Churchill, che aveva combattuto in Sud Africa nella guerra dei boeri. L’ultimo, David Cameron, dodicesimo del suo regno, è nato 14 anni dopo la sua ascesa al trono. Il primo ministro continua la prassi seguita da tutti i suoi predecessori dell’udienza settimanale con la regina, durante la quale la monarca ascolta, ma incoraggia anche e aiuta a guidare. Oggi non esiste fi-
Fede, servizio, saggezza e dovere i leitmotiv del suo stile La sua incoronazione nel 1953 fu definita un grande atto di comunione nazionale gura politica con più esperienza al mondo. Per molti è “la regina d’Inghilterra”, o più semplicemente “la regina”. Il suo titolo ufficiale è Elisabetta II, Dei gratia Britanniarum regnorumque suorum ceterorum regina, consortionis populorum princeps, fidei defensor. Tuttavia è bene ricordare che oltre a ciò è anche regina del Canada, dell’Australia, della Nuova Zelanda e di altri 12 regni, dalle Isole Salomone nel Pacifico alla Giamaica nei Caraibi. È capo del Commonwealth delle Nazioni, che comprende 53 Stati indipendenti in tutto il mondo, per la maggior parte antichi membri dell’impero britannico. Per giunta è guida suprema di Fiji, duca di Normandia a Guernsey, Jersey e l’Isola di Man, nonché capo sovrano del molto venerabile Ordine dell’Ospedale di San Giovanni di Gerusalemme, equivalente anglicano del Sovrano Militare Ordine di Malta. Inoltre, cosa importante, è governatore supremo della Chiesa d’Inghilterra. Di fatto, si potrebbe dire della regina Elisabetta II che la fede cristiana ha sorretto la sua vita, il suo servizio e il suo regno. Lei stessa lo ha ammesso nel suo messaggio di Natale nell’anno del millennio: «Per molti di noi, ciò in cui crediamo è di fondamentale importanza. Per me gli insegnamenti di Cristo e la mia responsabilità personale dinanzi a Dio costituiscono la cornice nella quale cerco di condurre la mia vita.
Anch’io, come tanti di voi, in tempi difficili ho tratto grande conforto dalle parole e dall’esempio di Cristo». È un regno che ha assistito a progressi tecnologici straordinari, sconvolgimenti politici e sviluppi culturali. I suoi primi anni da regina sono stati caratterizzati dal costante smantellamento dell’impero britannico quando una serie di Paesi, dal Ghana alla Malesia, hanno ottenuto la loro indipendenza. Per molti aspetti, il 1952, anno in cui è salita al trono, è stato testimone di un mondo da lungo scomparso. La terra era abitata da poco più di 2,6 miliardi di persone. Attraverso l’Europa era stata tirata la cortina di ferro, che non sarebbe stata tolta per altri 37 anni. Re Farouk d’Egitto fu rovesciato. Il premio Nobel per la pace fu vinto dal teologo e filosofo luterano Albert Schweitzer (al quale la regina ha conferito l’Ordine al Merito nel 1955). Truman era presidente degli Stati Uniti. Era Papa Pio XII e il concilio Vaticano II era molto di là da venire.
La prima pagina del 3 giugno 1953 con la notizia dell’incoronazione
La sua prima visita di Stato da regina nella Santa Sede, con al fianco, come sempre, il duca d’Edimburgo, si è svolta nel 1960, con Papa Giovanni XXIII, ora santo. Quella più recente si è svolta nel 2014, con Papa Francesco. Il suo regno ha assistito a progressi straordinari nelle relazioni ecumeniche, inconcepibili quando è iniziato. L’arcivescovo di Canterbury è un ospite abituale in Vaticano, ma la prima visita di questo genere dopo la riforma non è avvenuta che nel 1960. L’incontro dell’arcivescovo con il Papa aveva senz’altro ricevuto la previa approvazione della regina che, in occasione di una visita a Lambeth Palace durante il suo Giubileo di diamante, ha spiegato in modo chiaro la sua visione del ruolo
della Chiesa d’Inghilterra: «Il concetto della nostra Chiesa costituita talvolta viene frainteso e, ritengo, spesso non abbastanza apprezzato. Il suo ruolo non è quello di difendere l’anglicanismo fino a escludere altre religioni. Anzi, la Chiesa ha il dovere di proteggere la libera pratica di tutte le fedi in questo Paese. Certamente fornisce un’identità e una dimensione spirituale ai suoi numerosi fedeli. Tuttavia, ha anche creato, in modo graduale e certo, un ambiente che consente ad altre comunità di fede, e perfino alle persone prive di fede, di vivere liberamente. Inserita nel tessuto di questo Paese, la Chiesa ha contribuito a costruire una società migliore, cooperando sempre più attivamente con gli ap-
partenenti ad altre confessioni per il bene comune». Fede, servizio, saggezza e dovere sono stati i leitmotiv del suo regno. Queste virtù ricordano e confermano la natura sacrale della sua incoronazione nell’abbazia di Westminster nel 1953, definita «un grande atto di comunione nazionale». Per molti aspetti, il monarca appartiene alla nazione, ed è una cosa che la regina Elisabetta ha compreso in tutto il suo lungo regno. Inevitabilmente, adesso molte persone la stanno paragonando alla regina Vittoria. La gente spesso parla di un’“età elisabettiana”, con chiaro riferimento all’epoca vittoriana. Uno dei motivi per cui il 9 settembre 2015 «si lavorerà come al solito» è che la regina desidera evitare simili paragoni per rispetto alla sua predecessora. È però difficile. Dopotutto, fu Lord Palmerston a dire, parlando della giovane principessa Vittoria: «Solo poche persone hanno avuto occasioni per formarsi un giudizio corretto sulla principessa; ma sono incline a pensare che si rivelerà una persona notevole, e dotata di molta forza di carattere». Si sarebbe potuto dire lo stesso della regina attuale. *Ambasciatore della Gran Bretagna presso la Santa Sede
Fascino di una sovrana
La sincerità di Vittoria di LYTTON STRACHEY Nell’insieme di una personalità c’è qualcosa di più, qualcosa di fondamentale e di comune a tutte le sue qualità, ciò che conta veramente. In Vittoria è facile scorgere la natura di questo elemento essenziale: una particolare sincerità. La sua incapacità di mentire, la semplicità del suo carattere, la vivacità delle sue emozioni e la sua sincerità nell’esprimerle non erano altro che le varie forme assunte da questa caratteristica centrale. Dalla sua sincerità derivavano al tempo stesso il suo prestigio, il suo fascino e la sua assurdità. Si muoveva nella vita con l’imponente sicurezza di una persona a cui è impossibile nascondersi tanto a quelli che la circondavano quanto a se stessa. Era tutta là la regina d’Inghilterra, completa e magnifica. Il mondo poteva prenderla o lasciarla: lei non aveva nient’altro da mostrare o da spiegare o da modificare; e così proseguiva per la sua strada con una pompa senza pari. Non soltanto era impossibile nascondersi, ma ogni reticenza, ogni riserbo, perfino la stessa dignità, come qualche volta appariva, potevano benissimo essere messi da parte. Come diceva lady Lyttelton, «nel suo modo di dire la verità c’è una trasparenza veramente impressionante; non mette mai un’ombra di esagerazione nell’esprimere sentimenti o nel narrare i fatti; ho conosciuto pochissime persone così veritiere. Molti possono essere altrettanto sinceri, ma finiscono sempre per mantenere qualche riserbo. Lei invece dice tutto così com’è, senza aggiungere né togliere niente». E non solo raccontava tutto, ma scriveva anche tutto. Nel sorprendente flusso delle loro espressioni, le sue lettere suggeriscono l’immagine di un rubinetto aperto: tutto ciò che c’è dentro scorre fuori con un fluire immediato e spontaneo. Il suo stile, così perfettamente non letterato, ha almeno il merito di essere un tramite perfetto per i suoi pensieri e i suoi sentimenti; anche la banalità delle sue frasi porta con sé un sapore curiosamente personale. Senza dubbio arrivò a toccare il cuore del pubblico proprio attraverso i suoi scritti. Non solo nel suo diario delle Highlands, dove la mite cronaca della sua vita privata era esposta con tutta semplicità, senza tracce di affettazione o
di disagio, ma anche in quegli importanti messaggi alla nazione che di tanto in tanto pubblicava nei giornali, il popolo la sentiva molto vicina al suo cuore: sentiva d’istinto l’irresistibile sincerità di Vittoria e contraccambiava. Era realmente una virtù affascinante. Nel loro meraviglioso contrasto e fusione, la personalità e la posizione della regina costituivano forse l’elemento più profondo del suo fascino. Tutti vedevano la regina come una piccola vecchia signora coi capelli bianchi, vestita a lutto e in modo semplice, in una sedia a rotelle o nel suo calessino, e subito dietro a lei i servi indiani, la cui presenza evocava immediatamente qualcosa di singolare, di misterioso e di potente. Questa era l’immagine che al pubblico risultava familiare, ed era una visione sorprendente. In alcuni momenti, però, era necessario che la vedova di Windsor uscisse con tutta la pompa di una regina. L’ultima e la più gloriosa di queste occasioni fu il giubileo del 1897: mentre lo splendido corteo che scortava Vittoria passava attraverso le affollate e festose vie di Londra, per recarsi a rendere grazie a
Dio nella cattedrale di Saint Paul, la grandezza del suo regno e l’adorazione dei suoi sudditi apparvero in tutto il loro splendore. La regina aveva gli occhi pieni di lacrime, alla folla che applaudiva intorno a lei con clamore ripeteva senza tregua: «Come sono buoni con me! Come sono buoni!». Quella sera il suo messaggio volò su tutto l’impero: «Dal profondo del cuore ringrazio il mio amato popolo. Che Dio lo benedica». Il lungo viaggio era quasi finito, ma il viaggiatore che era giunto così lontano, attraverso così strane esperienze, si muoveva ancora con passo sicuro. La ragazza, la donna, l’anziana furono un’unica persona, con la stessa vitalità e la stessa onestà, lo stesso orgoglio e la stessa semplicità.
Descritti da vicino Pubblichiamo un breve stralcio di La regina Vittoria (Roma, Castelvecchi, 2014, pagine 229, euro 15) dello scrittore, critico letterario e saggista inglese Lytton Strachey. La biografia Queen Victoria, pubblicata per la prima volta nel 1921 da Harcourt, Brace and Company, quell’anno valse al suo autore il James Tait Black Memorial Prize. Strachey, spesso ricordato solo come uno dei membri del gruppo di Bloomsbury, con i suo ritratti — come il celebre Eminenti Vittoriani dedicato, ta gli altri, al cardinale Manning e a Florence Nightingale — contribuì a rifondare il genere letterario della biografia, mescolando intuizione psicologica, arguzia e raffinatezza di stile.
Franz Winterhalter, «La regina Vittoria» (1842)
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In Europa le diocesi si mobilitano per rispondere all’appello del Papa sui profughi
Si può fare di GIOVANNI ZAVATTA Fare tutto il possibile per rispondere, in fretta e con efficacia, alla richiesta del Papa. Sono unanimi le reazioni di diocesi, istituzioni e movimenti cattolici all’appello di Francesco di ospitare, in ogni parrocchia, comunità religiosa, monastero o santuario d’Europa, una famiglia di profughi. «La Chiesa è pronta a mobilitarsi per l’accoglienza», ha assicurato il cardinale Angelo Bagnasco, presidente della Conferenza episcopale italiana (Cei) e vicepresidente del Consiglio delle Conferenze episcopali d’Europa, ricordando che dell’argomento si parlerà già nel fine settimana quando i presidenti delle Conferenze episcopali europee si incontreranno in Terra Santa (dall’11 al 16 settembre) per l’annuale assemblea plenaria, e poi, dal 21 al 23 settembre, al Consiglio episcopale permanente della Cei: «Ho già dato di-
sposizioni per individuare dei criteri concreti per applicare e tradurre questo grande invito del Papa», ha aggiunto il porporato, osservando che in Italia le parrocchie sono 27.133 e, se ciascuna ospitasse una famiglia di quattro persone, oltre 108.000 persone troverebbero una sistemazione. Per questo, «parlerò con i collaboratori e con i parroci, per fare una mappatura e pianificare un cammino di concretezza». Si tratta di «continuare e intensificare l’impegno e lo sforzo che tutte le diocesi italiane stanno facendo da tempo», ha sottolineato Bagnasco. L’ultimo esempio viene da Catania dove la Caritas diocesana ha partecipato attivamente alle operazioni di prima accoglienza dei quattrocento migranti sbarcati sabato nel porto. Volontari e operatori, in collaborazione con la Croce rossa e la Protezione civile, hanno fornito vestiti e scarpe ai profughi appena sbarcati
dalla nave, compreso abbigliamento per donne e bambini. Quello del Papa è un appello che «non rimarrà inascoltato», ha dichiarato il cardinale arcivescovo di Milano, Angelo Scola, assicurando che la sua diocesi «è pronta a fare la propria parte dando vita al piano di accoglienza annunciato il 2 settembre»; verrà gestito dalla Caritas e consentirà di accogliere in ogni comunità gruppi di cinque o sei persone. A Venezia, nei giorni scorsi, il patriarca Francesco Moraglia ha inviato una lettera ai parroci della diocesi sulla questione migranti che è stata letta ieri durante la messa domenicale. «Ciascuno di noi, con la sua comunità, è chiamato in causa», scrive, parlando di un fenomeno dalle proporzioni epocali. «Il ringraziamento per quanto già fate è forte, come è forte la richiesta di crescere ulteriormente nell’impegno, coordinando sul territorio con interventi concreti volti a suscitare sempre più una cultura della solidarietà e dell’accoglienza nel rispetto della persona. Esorto con animo trepidante — conclude Moraglia — a percorrere questa strada di concretezza e di ecclesialità collaborando con tutti coloro che vivono sul territorio». Il cardinale arcivescovo di Perugia Città della Pieve, Gualtiero Bassetti, accoglie e fa suo l’appello del Papa: «Anche le famiglie che abbiano a disposizione immobili sfitti accolgano i rifugiati», ha detto ieri, ricordando di avere già fatto questa sollecitazione in passato, nelle sue omelie. Non solo quindi un appello «alle parrocchie, alle congregazioni religiose, ai conventi, ai monasteri, anche di clausura», ma un invito rinnovato a tutte «le famiglie di buona volontà». La Chiesa perugina, attraverso la Caritas diocesana, e altre diocesi umbre (Terni-NarniAmelia, Spoleto-Norcia, Orvieto-Todi, Foligno) si stanno preparando a dare ospitalità a nuovi rifugiati, in base alle disposizioni della prefettura. Agli sforzi, da Nord a Sud, delle diocesi italiane, si unisce l’impegno dell’Azione cattolica che, in una nota della presidenza nazionale, invita a «promuovere riflessioni costruttive
e concrete azioni di accoglienza e fraternità, che non siano dominate dalla paura e dallo sgomento». Nessuno «può sentirsi estraneo alle vicende di questi giorni. Ciascuno di noi, dunque, ha il compito di non lasciare prevalere l’indifferenza e la superficialità, ma di impegnarsi in prima persona, anche nei propri contesti locali, affinché la solidarietà e la sapienza prevalgano sull’egoismo e l’impulsività». Ma è tutta l’Europa a essere chiamata in causa dall’appello di Francesco. In Francia, dopo la dichiarazione (intitolata «S’il vous plaît, que cela ne se répète pas!») della Conferenza episcopale sulla tragica morte del piccolo Aylan, ieri molti presuli sono intervenuti singolarmente — tra essi il cardinale arcivescovo di Lione, Philippe Barbarin («Una famiglia in ogni parrocchia? Si può!», ha scritto in un tweet) — per dare a parrocchie e comunità disposizioni sull’accoglienza dei profughi. Il cardinale arcivescovo di Vienna, Christoph Schönborn, si è recato personalmente al valico di frontiera di Nickelsdorf (vicino al confine con l’Ungheria) per incontrare i rifugiati e gli operatori umanitari che li stanno assistendo. Giorni fa la Conferenza episcopale ungherese, al termine dell’assemblea plenaria, ha sollecitato le istituzioni caritative cattoliche («in sintonia con quanto più volte chiesto da Papa Francesco») a trovare i modi più efficaci per fornire assistenza in collaborazione con gli enti pubblici, «nel rispetto dei diritti specifici di questa situazione umanitaria». Ieri, durante un’omelia, l’arcivescovo presidente dell’episcopato polacco, Stanisław Gądecki, ha chiesto a ogni parrocchia di prepararsi all’accoglienza dei migranti perseguitati, «dando loro la possibilità di cominciare una nuova vita». E in Belgio, dopo un appello lanciato a fine agosto, la Caritas Internationalis ha ricevuto duecentocinquanta offerte da parte di proprietari che metteranno degli appartamenti a disposizione dei richiedenti asilo; una volta accertati i requisiti, saranno le autorità competenti a gestire gli alloggi.
A Expo l’incontro promosso dalla Cei sulla «Laudato si’»
Dalle ferite dell’ambiente a un nuovo inizio MILANO, 7. «Il cuore evangelico di Papa Francesco rilancia il grido accorato della terra e dei poveri per scuotere l’indifferenza dei potenti e propone a tutti gli uomini di buona volontà un messaggio energico e pieno di speranza per la custodia del creato secondo lo spirito del poverello di Assisi». È quanto ha affermato monsignor Filippo Santoro, arcivescovo di Taranto e presidente della commissione episcopale Cei per i problemi sociali e il lavoro, giustizia e la pace, durante il convegno svoltosi sabato all’Expo di Milano in occasione della decima giornata nazionale per la custodia del creato, sul tema: «Laudato si’. Rinnovare l’umano per custodire il creato». L’intervento del presule — riferisce il Sir — ha ripercorso alcuni tratti dell’enciclica del Papa, arricchendo l’analisi con la propria esperienza in missione in Brasile e con la realtà tarantina, segnata dalla presenza dell’Ilva e da problematiche ambientali e sociali connesse al degrado del sito industriale. «Siamo di fronte a un’enciclica — ha affermato l’arcivescovo — che può dare una svolta radicale nella costruzione di un futuro in cui la vita delle persone e del pianeta è valorizzata e non distrutta. È indispensabile che sia realmente ripresa nei suoi contenuti e nel suo metodo. Con questa enciclica molti luoghi in cui la terra è stata violata e depredata, come è accaduto a Taranto, possono diventare cantiere di speranza ed esempio virtuoso di cura della casa comune». Soffermandosi su Taranto, monsignor Santoro ha ricordato che è «la città che più di ogni altra in Italia porta su di sé le ferite dovute alla corsa a un profitto di pochi a scapito dei valori che i Papi negli anni hanno richiamato», a cui torna «con forza a far riferimento Francesco, del rispetto della dignità umana e del-
l’ambiente di un’intera comunità che oggi tenta di trovare una difficile via di redenzione». Si tratta, secondo monsignor Santoro, «in entrambi i casi — Brasile e Taranto — di idee di sviluppo superate che hanno relegato l’uomo e il creato in un ruolo di secondo piano rendendo oggi chiara la necessità che essi ritornino a essere gli attori principali del nostro agire politico e sociale. L’eterno conflitto tra salvaguardia dell’ambiente e posti di lavoro, tra sfruttamento delle risorse e progresso non è più tollerabile e ci chiama a una profonda riflessione per riprogettare il nostro futuro». Per il vescovo di Taranto «dobbiamo operare una conversione, una presa di coscienza della nostra condizione di abitanti del pianeta terra; dobbiamo superare la misera condi-
zione di consumatori di risorse e di merci, a scapito di una gran parte di essere umani». Durante il convegno, particolare attenzione è stata rivolta anche alla necessità di ripensare a nuovi stili di vita «contro la cultura dello scarto, per una ripartenza dagli errori commessi». Secondo don Fabiano Longoni, direttore dell’Ufficio della Conferenza episcopale italiana per i problemi sociali e il lavoro, la giustizia e la pace, occorre «favorire una grande opera educativa sul piano dello studio dello sviluppo sostenibile, della verità dell’informazione». Al riguardo, ha ricordato la tecnica giapponese dello “Kintsugi”, che «consiste nel riparare con l’oro o l’argento oggetti di ceramica che si sono rotti per poi riunirne i frammenti, dandogli un aspetto nuovo
attraverso le preziosi cicatrici. Prendendo spunto da tutto questo — ha aggiunto don Longoni — forse la cultura dello scarto ci costringerebbe a ripensare gli equilibri per una vera ecologia integrale. Il nostro pianeta è fratturato e rotto da disequilibri, ingiustizie, causati spesso dal culto dell’utilitarismo. Costruire a partire dalle rotture, dai frammenti a tutti i livelli, indica una strada nuova». Secondo il sacerdote, occorre «denunciare a tutti i livelli forme di illegalità, speculazione ambientale, corruzione», nonché far crescere «forme di democrazia deliberativa, che significa non solo produrre denuncia e protesta se le cose non procedono secondo giustizia, ma presa in carico di modalità di partecipazione attiva rispetto alla tutela della salute e dell’ambiente».
L’impegno delle parrocchie di Sant’Anna e di San Pietro
In Vaticano porte aperte ai rifugiati di GIANLUCA BICCINI Almeno due famiglie di rifugiati saranno presto ospitate dalle parrocchie di San Pietro e Sant’Anna in Vaticano. Non appena Papa Francesco ha pronunciato all’Angelus l’appello all’accoglienza concreta, entrambe le comunità hanno avviato la macchina organizzativa, coordinata dal cardinale vicario generale Angelo Comastri e dall’arcivescovo elemosiniere Konrad Krajewski. Il Pontefice «vuole che vengano messi a disposizione due appartamenti “vicinissimi” al Vaticano per accogliere due nuclei familiari di profughi» ci ha detto il porporato, che è anche arciprete della basilica di San Pietro, spiegando come l’individuazione delle famiglie sia in via di definizione attraverso l’Elemosineria apostolica. Per quanto riguarda invece la ricerca delle strutture idonee, è già stata interpellata l’Amministrazione del Patrimonio della Santa Sede (Apsa), attraverso il cardinale presidente Domenico Calcagno. «Il Papa vuole che gli appartamenti siano a lui vicini — commenta il cardinale Comastri — anche per garantire alle persone accolte l’assistenza sanitaria, in modo che essa non gravi sul sistema italiano, e quella materiale, cosicché queste famiglie abbiano tutto il supporto necessario». A mo’ di premessa il vicario generale fa notare «che da sempre la Chiesa cattolica è casa della carità: basti pensare agli ospedali che sono un’invenzione cattolica»; e che «il Papa è erede proprio di questa tradizione. Così di fronte al dramma dell’immigrazione — spiega — ha sentito l’urgenza di fare qualcosa anche in prima persona, non volendo essere da meno rispetto a questa tradizione. E ha chiesto che le parrocchie cristiane fossero in prima linea». Infine il cardinale Comastri sottolinea che il «gesto profetico» di Papa Bergoglio «ha colto di sorpresa lo stesso Vaticano. Ma alle sorprese di Francesco siamo ormai abituati — aggiunge subito — e volentieri ci mettiamo in moto per corrispondere al suo desiderio di essere vicini concretamente ai migranti». Entrambe affidate a religiosi agostiniani, le comunità di Sant’Anna e di San Pietro vantano già un lunga storia di ospitalità e di accoglienza. Le guidano rispettivamente i parroci Bruno Silvestrini e Mario Bettero. «Sono felice, molto felice: Papa Francesco — ha commentato a caldo quest’ultimo — chiede a tutti di fare un gesto bellissimo per il giubileo. Faremo il meglio possibile». San Pietro, ha aggiunto, è «una parrocchia un po’ speciale: c’è un piccolo territorio e poi la chiesa», cioè la basilica vaticana: «Tantissima gente quando è aperta, nessuno quando è chiusa». Insomma non c’è una vera e propria comunità
parrocchiale che vi fa riferimento e la vita pastorale del piccolo popolo che risiede o lavora in Vaticano si svolge per lo più nella parrocchia di Sant’Anna. Anche qui il parroco si mostra entusiasta. «Il Papa ci ha risvegliati dal torpore del guardare — dice padre Silvestrini — e siamo tornati all’aiuto alle persone, per restituire loro la dignità». E in proposito confida: «Oltre alla casa cercheremo di trovare anche un lavoro per il capofamiglia».
Governatorato della Città del Vaticano Ufficio delle poste e del telegrafo
Annullo postale speciale in occasione dell’emissione della serie di cartoline postali «50° anniversario della chiusura del Concilio Ecumenico Vaticano II» (2 settembre 2015)
In occasione dell’emissione della serie di cartoline postali dedicate al «50° anniversario della chiusura del Concilio Ecumenico Vaticano II», le Poste Vaticane porranno in uso uno speciale annullo del quale si riproduce l’impronta:
Nel bozzetto sono raffigurati i due Papi protagonisti dell’evento: Papa Giovanni XXIII e Papa Paolo VI, così come raffigurati dall’artista Orietta Rossi. Completano l’annullo le scritte: «50° ANNIVERSARIO DELLA CHIUSURA DEL CONCILIO VATICANO II» e «POSTE VATICANE 2. IX . 2015 DIE EMISSIONIS». Il bozzetto è stato realizzato dall’Ufficio Filatelico e Numismatico. Le cartoline da obliterare dovranno pervenire all’Ufficio Obliterazioni delle Poste Vaticane entro il 3 ottobre 2015.
L’OSSERVATORE ROMANO
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lunedì-martedì 7-8 settembre 2015
Messaggio pontificio all’incontro promosso a Tirana dalla comunità di Sant’Egidio
Mai rassegnarsi alla guerra È violenza alzare muri e barriere per respingere chi fugge da condizioni disumane Pubblichiamo di seguito il testo del messaggio che Papa Francesco ha inviato ai partecipanti all’incontro internazionale «La pace è sempre possibile», organizzato dal 6 all’8 settembre a Tirana, in Albania, dalla comunità di Sant’Egidio. All’evento, giunto alla sua ventiquattresima edizione, prendono parte più di quattrocento fra Illustri rappresentanti delle Chiese e Comunità cristiane e delle grandi religioni del mondo, porgo a tutti voi i miei più rispettosi saluti ed esprimo la mia vicinanza spirituale all’Incontro Internazionale per la Pace che la Comunità di Sant’Egidio ha promosso a Tirana.
rappresentanti religiosi, esponenti della cultura e delle istituzioni in dialogo per la pace, provenienti da sessanta Paesi. In questa pagina pubblichiamo inoltre — in una nostra traduzione italiana — stralci del discorso pronunciato, lunedì 7, dal rettore del Seminario rabbinico latinoamericano «Marshall T. Meyer» di Buenos Aires.
Questi appuntamenti si susseguono nel solco tracciato da san Giovanni Paolo II con il primo storico Incontro di Assisi dell’ottobre 1986. Da allora si è sviluppato un pellegrinaggio di uomini e donne di diverse religioni che, di anno in anno, fa tappa in diverse città del mondo. Mentre mutano gli scenari della storia e i
popoli sono chiamati a confrontarsi con trasformazioni profonde e talora drammatiche, si avverte sempre più la necessità che i seguaci di diverse religioni si incontrino, dialoghino, camminino insieme e collaborino per la pace, in quello “spirito di Assisi” che fa riferimento alla luminosa testimonianza di san Francesco.
Fra uomo e creato
Una nuova alleanza di ABRAHAM SKORKA Uno dei racconti più significativi che appaiono nella Bibbia ebraica è senz’altro quello del diluvio e di Noè. Dio è — per così dire — arrabbiato per le azioni che vede compiere agli esseri umani. Il comportamento della maggior parte del genere umano è ampiamente descritto come sregolato e corrotto (Genesi, 6, 11). In termini rabbinici, lo Yetzer HaRa, l’istinto verso l’ambizione, il controllo e il dominio, prevale sullo Yetzer HaTov, l’istinto che induce gli uomini a compiere il bene. Lo Yetzer HaRa deve essere dominato per servire lo Yetzer HaTov e non per asservirlo: così i rabbini spiegano il suo fine. Al di là della promessa di Dio agli uomini di non distruggere mai
si, l’importanza cardinale del contratto sociale come strumento fondamentale per la formazione di una società civile. Epicuro, Cicerone, Hobbes e Locke, per esempio, hanno tutti sviluppato, secondo la loro prospettiva individuale, teorie sul bisogno imprescindibile di un contratto sociale per l’istituzione di una società organizzata, una nazione e un’umanità civilizzata. Il concetto di alleanza è centrale alla letteratura biblica. L’intero libro della Genesi potrebbe essere considerato una descrizione degli sforzi di Dio per stabilire un patto con gli esseri umani, per stabilire con loro un rapporto di benefici e obblighi. Le regole fondamentali del rapporto primordiale tra Dio e gli esseri umani comprendevano il comandamento di custodire e di
Francis Danby, «Il diluvio» (1840)
più la terra con un diluvio devastante, si può sentire — specialmente dopo lo sviluppo delle armi nucleari, con il loro immenso potere distruttivo — l’implicito avvertimento di Dio all’umanità: se nel mondo ci sarà un altro sterminio, avverrà per mano degli uomini. Questo racconto contiene due elementi che trascendono la condizione religiosa e la fede di chi lo legge. Il primo è l’imperativo posto alla coscienza collettiva degli uomini di prendersi cura della natura, della dimora planetaria della specie umana. Gli individui vengono al mondo con il diritto di vivere con dignità su questo pianeta. Malgrado tutto il dolore e le ingiustizie subite dalle persone, nessuno può togliere tale diritto alle generazioni che verranno. Il secondo elemento trascendente è quello dell’alleanza. Senza un impegno forte e chiaro, un patto umano accettato da tutte le nazioni e tutti i popoli, l’umanità in futuro correrà il pericolo di una distruzione disastrosa. Tale minaccia si è verificata durante diverse crisi del passato, come quando migliaia di missili dotati di testate nucleari sono stati sul punto di scatenare una devastazione incontrollabile. Senza un patto sociale è impossibile istituire una società civile. Da Platone a Rousseau, molti pensatori hanno riconosciuto, in modi diver-
coltivare il Giardino dell’Eden (Genesi, 2, 15), l’habitat naturale e benedetto preparato da Dio per Adamo e la sua famiglia. Il rapporto di alleanza che Dio chiede agli esseri umani ha due fini. Dal lato divino, lega Dio in solidarietà all’esistenza umana. Da quello umano, stabilisce limiti per le coscienze mortali. Vivere in alleanza comporta diritti e doveri per tutti i partecipanti. Dio promette di non sterminare il mondo ed esige un comportamento morale dall’umanità. Anche gli uomini devono promettere di non distruggere il mondo lasciando che le loro ambizioni e le loro brame diventino incontrollate. La promessa di Dio di solidarietà con gli uomini riguarda la fede particolare di ogni individuo. Ma la seconda promessa, quella umana, è un imperativo e una necessità per la continuità della vita degli uomini sulla terra. Accettare limiti, controllare le possibilità distruttive nella psiche umana, è una necessità vitale e drammatica al fine di garantire l’esistenza continua dell’umanità. Scegliere la vita significa avere Dio presente nell’attività umana. Tuttavia, scegliere la vita deve essere inteso anche come vincere gli impulsi distruttivi in ogni individuo, che fanno parte della condizione umana. La lotta per controllare lo
Yetzer HaRa, l’istinto al potere e all’aggressione, è un aspetto essenziale della fede biblica in Dio, che esige giustizia e misericordia. Pertanto, accettare di vivere nell’alleanza significa lottare per stabilire limiti al proprio comportamento personale e sociale. Freud concluse il suo noto saggio Il disagio della civiltà (1929) con una drammatica analisi di questa lotta quale punto centrale per il futuro dell’umanità in un mondo tecnologico altamente sviluppato. Scrisse: «Il problema fondamentale del destino della specie umana a me sembra sia questo: se, e fino a che punto, l’evoluzione civile degli uomini riuscirà a dominare i turbamenti della vita collettiva provocati dalla loro pulsione aggressiva e auto-distruttrice. In questo aspetto proprio il tempo presente merita forse particolare interesse. Gli uomini adesso hanno esteso talmente il proprio potere sulle forze naturali, che giovandosi di esse sarebbe facile sterminarsi a vicenda, fino all’ultimo uomo. Lo sanno, donde buona parte della loro presente inquietudine, infelicità, apprensione. E ora c’è da aspettarsi che l’altra delle due “potenze celesti”, l’Eros eterno, farà uno sforzo per affermarsi nella lotta con il suo avversario altrettanto immortale (Thanatos). Ma chi può prevedere se avrà successo e quale sarà l’esito?». L’ultima frase venne aggiunta nel 1931, quando la minaccia di Hitler già incominciava a essere evidente. Laudato si’, la recente enciclica di Papa Francesco, tratta della versione postmoderna di questo angosciante problema con cui si confronta oggi l’umanità. Il mondo attuale è caratterizzato da un consumismo selvaggio e indiscriminato che minaccia di distruggere l’ambiente. L’enciclica non dichiara in modo esplicito che oggi ci sono leader che vedono se stessi come idoli e stanno trascinando la gente verso la distruzione globale. Tuttavia, indica chiaramente che l’individuo postmoderno è affetto da indifferenza e dalla mancanza di un impegno autentico verso l’alleanza con Dio. Ci mette in guardia contro il pericolo di una catastrofe globale come conseguenza della distruzione dell’ambiente da un lato, e contro la fame e la povertà estrema dall’altro. Ci ricorda i paradigmi che hanno dato forma ai propositi distruttivi nelle menti dei dittatori del secolo passato, alcuni dei quali sembrano essere operativi in alcuni leader attuali. Il mondo esige una nuova alleanza tra gli uomini e l’ambiente. Questa deve, allo stesso tempo, rispecchiare una nuova alleanza tra individui, popoli e nazioni al fine di sradicare l’arroganza e il dominio nel comportamento che teniamo gli uni verso gli altri. Di fatto, i due atteggiamenti vanno di pari passo. Dio deve essere (ri)scoperto dagli esseri umani. Utilizzando il linguaggio di Freud, Eros (amore) deve dominare Thanatos (morte). L’umanità deve riscoprire se stessa nel suo bisogno di un rapporto profondo di alleanza.
Quest’anno avete scelto di fare tappa a Tirana, capitale di un Paese diventato simbolo della convivenza pacifica tra religioni diverse, dopo una lunga storia di sofferenza. È una scelta che condivido, come ho manifestato con la visita da me compiuta a Tirana nel settembre dello scorso anno. Ho voluto scegliere l’Albania come primo tra i Paesi europei da visitare, proprio per incoraggiare il cammino di convivenza pacifica dopo le tragiche persecuzioni subite dai credenti albanesi nel secolo scorso. Il lungo elenco di martiri parla ancora oggi di quel periodo oscuro, ma parla anche della forza della fede che non si lascia piegare dalla prepotenza del male. In nessun altro Paese al mondo è stata così forte la decisione di escludere Dio dalla vita di un popolo: anche solo un segno religioso era sufficiente per essere puniti con la prigione se non con la morte. Tale tristissimo primato ha segnato profondamente il popolo albanese, fino al momento della ritrovata libertà, quando i membri delle diverse comunità religiose, provati dalla comune sofferenza patita, si sono ritrovati a vivere insieme in pace. Per questo, cari amici, vi sono particolarmente grato per aver scelto l’Albania. Vorrei oggi ribadire assieme a voi quanto affermavo lo scorso anno a Tirana: «La pacifica e fruttuosa convivenza tra persone e comunità appartenenti a religioni diverse è non solo auspicabile, ma concretamente possibile e praticabile. La pacifica convivenza tra le differenti comunità religiose, infatti, è un bene inestimabile per la pace e per lo sviluppo armonioso di un popolo. È un valore che va custodito e incrementato ogni giorno, con l’educazione al rispetto delle differenze e delle specifiche identità aperte al dialogo ed alla collaborazione per il bene di tutti, con l’esercizio della conoscenza e della stima gli uni degli altri. È un dono che va sempre chiesto al Signore nella preghiera» (Discorso alle Autorità, 21 settembre 2014). È questo lo spirito di Assisi: vivere insieme in pace, ricordando che la pace e la convivenza hanno un fondamento religioso. La preghiera è sempre alla radice della pace!
E proprio perché ha il suo fondamento in Dio, “la pace è sempre possibile”, come afferma il titolo del vostro Incontro di quest’anno. È necessario riaffermare tale verità soprattutto oggi, mentre in alcune parti del mondo sembrano prevalere le violenze, le persecuzioni e i soprusi contro la libertà religiosa, insieme alla rassegnazione di fronte ai conflitti che si trascinano. Non dobbiamo mai rassegnarci alla guerra! E non possiamo restare indifferenti di fronte a chi soffre per la guerra e la violenza. Per questo ho scelto come tema della prossima Giornata Mondiale della pace: «Vinci l’indifferenza e conquista la pace». Ma è violenza anche alzare muri e barriere per bloccare chi cerca un luogo di pace. È violenza respingere indietro chi fugge da condizioni disumane nella speranza di un futuro migliore. È violenza scartare bambini e anziani dalla società e dalla stessa vita! È violenza allargare il fossato tra chi spreca il superfluo e chi manca del necessario! In questo nostro mondo, la fede in Dio ci fa credere e ci fa gridare a voce alta che la pace è possibile. È la fede che ci spinge a confidare in Dio e non rassegnarci all’opera del male. Come credenti siamo chiamati a riscoprire quella vocazione universale alla pace deposta nel cuore delle nostre diverse tradizioni religiose, e a riproporla con coraggio agli uomini e alle donne del nostro tempo. E ribadisco quel che dissi a tale proposito sempre a Tirana parlando ai leader religiosi: «La religione autentica è fonte di pace e non di violenza! Nessuno può usare il nome di Dio per commettere violenza! Uccidere
Omelia del cardinale Poupard a Bellac
Per le famiglie e per i disoccupati Alle «famiglie, ai lavoratori, spesso messi alla prova» e a quanti, purtroppo sempre più numerosi, stanno affrontando il dramma della disoccupazione e sono alla «ricerca di un posto di lavoro introvabile» ha rivolto il suo pensiero il cardinale Paul Poupard, domenica 6 settembre, celebrando la messa a Bellac, in Francia. Il presidente emerito del Pontificio Consiglio della cultura vi si è recato per la solenne conclusione del centocinquantesimo anniversario della ricostruzione della cappella di Notre Dame de Lorette. Alla presenza del vescovo di Limoges, monsignor François Kalist, e del parroco Jean-Pierre Barrière, il porporato ha presieduto l’Eucaristia cui hanno partecipato numerosissimi dei 150.000 abitanti delle 17 comunità che compongono la parrocchia. Dopo aver ricordato di essere già stato nella diocesi di Limoges, a Dorat, per la tradizionale ostensione delle reliquie dei santi Israele e Teobaldo, il cardinale Poupard ha rievocato la «storia contrastata, come ogni vicenda umana», della cappella di Notre Dame. Una storia, ha spiegato, «con le sue luci e le sue ombre», dove tuttavia «risalta la tenacia dei nostri antenati che non hanno mai rinunciato, nonostante prove ricorrenti e sempre nuove, a costruire un luogo di culto per onorare la Madonna di Loreto», la Vergine di Nazareth: dalla consacrazione della prima cappella nella festa dell’Annunciazione, il 25 marzo 1621, alla
devastazione a causa di una tempesta del 12 giugno 1805; dal restauro completato l’8 settembre 1843, al deterioramento che portò alla demolizione nel dicembre 1862; fino alla ricostruzione, cui seguì la consacrazione il 10 settembre 1865 da parte di monsignor Fruchaud, vescovo di Limoges, nel corso di una memorabile cerimonia di cui ha lasciato un’entusiastica descrizione il «Journal» del canonico Fourton, arciprete di Bellac, che nel 1861 aveva ottenuto da Roma il decreto di affiliazione al santuario lauretano in Italia. Certo, ha fatto notare il celebrante, «i tempi sono cambiati dalla posa della prima pietra nel diciassettesimo secolo e dalla coraggiosa ricostruzione nel diciannovesimo; e le sfide si sono rinnovate. Ma oggi siamo qui a festeggiare con la stessa fede dei nostri antenati». In proposito il cardinale Poupard ha accennato alla devozione dei Pontefici nei confronti della Vergine di Nazaret, quindi ha commentato le letture della XXIII domenica del tempo ordinario (Isaia 35, 4-7, Salmo 145, Giacomo 2, 1-5, Marco 7, 31-37), che contengono — ha spiegato — «un invito al coraggio». In particolare, ha aggiunto, esse ci mettono «in guardia dalla tentazione di introdurre nella comunità cristiana delle discriminazioni tra ricchi e poveri». Da qui l’auspicio che la Vergine Maria ci aiuti a seguire il suo esempio di povertà, «la cui ricchezza — ha concluso — non è l’avere, ma l’amore».
in nome di Dio è un grande sacrilegio! Discriminare in nome di Dio è inumano» (Discorso nell’Incontro interreligioso). Cari amici, sostenere che la pace è sempre possibile non è un’affermazione ingenua, ma esprime la nostra fede che nulla è impossibile a Dio. Certo, ci è chiesto un coinvolgimento sia personale che delle nostre comunità per il grande lavoro della pace. Possa dalla terra d’Albania, terra di martiri, partire una nuova profezia di pace. Mi unisco a tutti voi perché, nella varietà delle tradizioni religiose, possiamo continuare a vivere la comune passione per la crescita della convivenza pacifica tra tutti i popoli della terra.
Dal Vaticano, 29 agosto 2015 Memoria del Martirio di San Giovanni Battista FRANCESCO
L’OSSERVATORE ROMANO
lunedì-martedì 7-8 settembre 2015
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«Natività della Madre di Dio» (XVI secolo, Venezia, museo ellenico)
Il Papa ai vescovi del Portogallo in visita «ad limina»
Proposte convincenti per i giovani Un invito «a proseguire nell’impegno di evangelizzazione», perché una «formazione autenticamente cristiana della coscienza» è indispensabile «anche per la maturazione sociale del Portogallo», è stato rivolto dal Papa ai vescovi del Paese, ricevuti in udienza lunedì mattina, 7 settembre, in occasione della visita «ad limina Apostolorum». Di seguito una nostra traduzione del discorso consegnato loro dal Pontefice. Venerato Cardinale Patriarca, Amati Fratelli nell’Episcopato! Con gioia fraterna, vi accolgo e vi saluto in questo vostro incontro collegiale con il Successore di Pietro, chiedendovi di portare a tutti i membri delle vostre circoscrizioni ecclesiastiche i miei saluti più cordiali, con voti di grande serenità e fiducia nel Signore. Quando le difficoltà sembrano offuscare le prospet-
tive di un futuro migliore, quando si sperimenta il fallimento o il vuoto attorno a noi, è il momento della speranza cristiana, fondata sul Signore risorto e accompagnata da un ampio sforzo caritativo a favore dei più bisognosi. Mi rallegra molto vedere la Chiesa in Portogallo sollecita e solidale con la sorte del suo popolo, come del resto mi ha appena riferito il vostro Presidente, il Cardinale Manuel Clemente, nelle cordiali parole di saluto che mi ha rivolto e per le quali lo ringrazio, invitandovi a mia volta a proseguire insieme il cammino dell’annuncio della salvezza di Gesù Cristo. Vedo, con speranza, crescere la sinodalità come opzione di vita pastorale nelle vostre Chiese particolari, cercando di coinvolgere il maggior numero possibile di membri nell’incessante opera di evangelizzazione e di santificazione degli uomini. Desidero esprimervi il mio apprezzamento per lo zelo pastorale e per le molteplici iniziative intraprese, individualmente e come Conferenza, negli anni trascorsi dalla visita ad Limina del 2007, anni il cui momento più alto è stata l’accoglienza che avete riservato a Papa Benedetto XVI nel maggio 2010. Di grande utilità per il suo realismo interpellante si è rivelata la successiva indagine generale sulla fede e le credenze del vostro popolo, che ha avuto una prima risposta generale nella Nota Pastorale Promover a renovação da Pastoral da Igreja em Portugal (aprile 2013), con i «cammini, — scrivete — che ora ci proponiamo di percorrere per saper meglio portare Cristo ai nostri fratelli e i nostri fratelli a Cristo». Dai vostri resoconti quinquennali ho potuto dedurre, con autentica soddisfazione, che le luci superano le ombre: la Chiesa che vive in Portogallo è una Chiesa serena, guidata dal buon senso, ascoltata dalla maggior parte della popolazione e dalle istituzioni nazionali, sebbene la sua voce non sia sempre seguita; il popolo portoghese è buono, ospitale, generoso e religioso, ama la pace e vuole la giustizia; c’è un episcopato fraternamente unito; ci sono sacerdoti, preparati spiritualmente e culturalmente, che desiderano rendere una testimonianza sempre più coerente di vita interiore vissuta in modo evangelico, in quanto radicata nella preghiera e nella carità; ci sono consacrati e consacrate che, fedeli al
carisma dei rispettivi fondatori, mostrano alla società contemporanea il valore perenne del loro dono totale a Dio mediante i consigli evangelici della povertà, della castità e della obbedienza, e collaborano alla pastorale d’insieme di ognuna delle Chiese particolari, secondo le direttive del documento Mutuae relationes; ci sono laici che esprimono con la loro vita nel mondo la presenza efficace della Chiesa per un’autentica promozione umana e sociale della Nazione, memori della seguente indicazione del Concilio Vaticano II: «L’apostolato dell’ambiente sociale, cioè l’impegno nel permeare di spirito cristiano la mentalità e i costumi, le leggi e le strutture della comunità in cui uno vive, è un compito e un obbligo talmente proprio dei laici, che nessun altro può mai debitamente compierlo al loro posto. In questo campo i laici possono esercitare l’apostolato del simile verso il
simile. Qui completano la testimonianza della vita con la testimonianza della parola. Qui nel campo del lavoro, della professione, dello studio, dell’abitazione, del tempo libero o delle associazioni sono i più adatti ad aiutare i propri fratelli» (Apostolicam actuositatem, n. 13). In questa consonanza di intenti di vivere la comunione nella Chiesa e di contribuire alla sua presenza nel mondo, si aprono molteplici spazi per iniziative adeguate, in particolare per quanti desiderano vivere l’esperienza del volontariato negli ambiti della catechesi, della cultura, dell’assistenza amorevole ai fratelli poveri, emarginati, invalidi e anziani. Nel rallegrarmi vivamente per tutto ciò, vi esorto a proseguire nell’impegno di una costante e metodica evangelizzazione, ben convinti che una formazione autenticamente cristiana della coscienza sia di estremo e indispensabile aiuto anche per la maturazione sociale e per il vero ed equilibrato benessere del Portogallo. Con viva fiducia in Dio, non perdete il coraggio dinanzi a situazioni che suscitano perplessità e vi causano amarezza, come certe parrocchie stagnanti e bisognose di ravvivare la fede battesimale, che risvegli nell’individuo e nella comunità un autentico spirito di missione; parrocchie a volte incentrate e chiuse nel “loro” parroco, alle quali la carenza di sacerdoti impone, tra l’altro, di aprirsi a una logica più dinamica ed ecclesiale nella comunione; alcuni sacerdoti che, tentati dall’attivismo pastorale, non coltivano la preghiera e la profondità spirituale, essenziali per l’evangelizzazione; un gran numero di adolescenti e giovani che abbandona la pratica cristiana, dopo il sacramento della Confermazione; un vuoto nell’offerta parrocchiale di formazione cristiana giovanile postConfermazione, che tanto potrebbe impedire future situazioni familiari irregolari; infine, il bisogno di una conversione personale e pastorale di pastori e fedeli finché tutti possano dire con verità e gioia: la Chiesa è la nostra casa. Miei amati fratelli, non può non preoccupare tutti noi questa fuga della gioventù, che avviene proprio nell’età in cui le è dato prendere in mano le redini della sua vita. Chiediamoci: la gioventù va via, perché decide così? Decide così, perché non
le interessa l’offerta ricevuta? Non le interessa l’offerta, perché non dà risposta ai problemi e agli interrogativi che oggi la preoccupano? O non sarà semplicemente perché da tempo il vestito della Prima Comunione ha smesso di servirle e lo ha cambiato? È possibile che la comunità cristiana insista a farglielo indossare? Il suo Amico di allora, Gesù, è a sua volta cresciuto, ha preso la vita nelle sue mani, con qualche incomprensione con i suoi genitori (cfr. Lc 2, 48-52), e ha abbracciato i disegni del Cielo su di Lui, portandoli a compimento con l’abbandono completo nelle mani del Padre (cfr. Lc 23, 46). Ricordo che, in un momento di crisi e di esitazione che coinvolse i suoi amici e seguaci e che portò molti di loro a disertare, Gesù chiese ai dodici apostoli: «Forse anche voi volete andarvene?». Gli rispose Simon Pietro: «Signore, da chi andremo? Tu hai parole di vita eterna; noi abbiamo creduto e conosciuto che tu sei il Santo di Dio» (Gv 6, 67-69). La proposta di Gesù li aveva convinti; oggi la nostra proposta di Gesù non convince. Penso che nei testi preparati per i successivi anni di catechesi, la figura e la vita di Gesù siano ben presentate; forse più difficile è diventato incontrarLo nella testimonianza di vita del catechista e della comunità intera che lo invia e lo sostiene, fondata sulle parole di Gesù: «Io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo» (Mt 28, 20). Che Lui ci sia, non ci sono dubbi; ma dov’è che lo nascondiamo? Perché se la proposta è Gesù Cristo crocifisso e redivivo nel catechista e nella comunità, se Gesù si mette in cammino con il giovane e parla al suo cuore, quest’ultimo sicuramente s’infiamma (cfr. Lc 22, 15 e 32). Gesù cammina con il giovane... Purtroppo il pensiero dominante attuale, che vede l’essere umano come apprendista-creatore di se stesso e totalmente ebbro di libertà, ha difficoltà ad accettare il concetto di vocazione, nel senso alto di una chiamata che giunge alla persona dal Creatore del suo stesso essere e della sua stessa vita. La verità, però, è che Dio, nel crearci, indubbiamente liberi nell’esistenza, predispose in un
Nel saluto del patriarca
Linee guida Conversione, comunione e missione. Sono le linee guida seguite dall’episcopato per promuovere il rinnovamento pastorale della Chiesa in Portogallo. Lo ha detto il cardinale patriarca di Lisbona, Manuel Clemente, presidente della Conferenza episcopale portoghese, nel saluto rivolto a Papa Francesco. Le scelte pastorali, ha sottolineato il porporato, sono emerse da una riflessione proposta negli ultimi anni a diocesi e istituti in tutto il Paese, e che ha portato a un documento nel 2013 in cui sono evidenziati gli indirizzi per attuare la riflessione ecclesiale. La decisione di «proseguire in comunione e missione», ha continuato il cardinale, ha trovato nuovo impulso «dall’esortazione apostolica Evangelii gaudium, con la sua esigenza di “conversione missionaria” delle comunità e il grande “sogno missionario di arrivare a tutti”», diventando il «paradigma» dei programmi e degli obbiettivi della Chiesa portoghese. Altro punto di riferimento, ha concluso, è l’enciclica Laudato si’ con la sua spinta verso una «ecologia integrale», di cui la Chiesa portoghese non mancherà «di tener conto».
certo senso la nostra essenza, pensandola e dotandola delle capacità richieste, per una missione concreta al servizio dell’umanità che Egli ama. E ci ama troppo per abbandonarci al caso e alla mancanza di bene. Pertanto la nostra felicità dipende pienamente dal nostro saper individuare e seguire la chiamata a tale missione. Questa libertà predisposta dal più profondo del nostro essere per un bene determinato, il mondo la definisce una contraddizione e, nel suo calcolo delle probabilità, non vede per noi alcuna possibilità di andare a finire nel posto esatto che un Essere infinito ci avrebbe attribuito. Ma il mondo si inganna perché Egli «ha guardato l’umiltà della sua serva e in lei ha fatto grandi cose». Queste parole traducono la certezza di una giovane benedetta, ma che vedeva la stessa misericordia che Dio rivolgeva a lei estendersi «di generazione in generazione su quelli che lo temono» (cfr. Lc 1, 48-50). E non c’è alcun motivo perché una persona, chiunque essa sia, si autoescluda da questo tenero sguardo di Dio sulla sua umile creatura. «Si dimentica forse una donna del suo bambino, così da non commuoversi per il figlio delle sue viscere? Anche se queste donne si dimenticassero, io invece non ti dimenticherò mai» (Is 49, 15). Gesù cammina con il giovane... Al catechista e a tutta la comunità viene chiesto di passare dal modello scolastico a quello catecumenale: non solo conoscenze cerebrali, ma anche incontro personale con Gesù Cristo, vissuto in una dinamica vocazionale secondo la quale Dio chiama e l’essere umano risponde. «Il Signore dal seno materno mi ha chiamato... mi ha plasmato suo servo... per ricondurre a lui Giacobbe e a lui riunire Israele, — poiché ero stato stimato dal Signore e Dio era stato la mia forza» (Is 49, 1 e 5). La Chiesa in Portogallo ha bisogno di giovani capaci di dare una risposta a Dio che li chiama, per tornare ad avere famiglie cristiane stabili e feconde, per tornare ad avere consacrati e consacrate che scambino tutto per il tesoro del Regno di Dio, per tornare ad avere sacerdoti immolati con Cristo per i loro fratelli e le loro sorelle. Abbiamo tanti giovani disoccupati mentre il Regno dei Cieli scarseggia di operai e di servitori... Dio non può volere questo. Che cosa sta succedendo allora? «Perché nessuno ci ha presi a giornata» (Mt 20, 7). Dobbiamo dare una dimensione vocazionale a un percorso catechetico globale che possa ricoprire le varie età dell’essere umano, di modo che tutte siano una risposta al buon Dio che chiama: ancora nel seno della madre, ha chiamato alla vita e il nostro essere si è affacciato alla vita; e una volta terminata la sua tappa terrena, dovrà rispondere con tutto il suo essere a questa chiamata: «Servo buono e fedele... prendi parte alla gioia del tuo padrone» (Mt 25, 21). Non vi manca, amati Fratelli, zelo apostolico e neppure spirito d’iniziativa per raggiungere questo obiettivo, con l’impiego dello sforzo umano legato all’efficacia dell’ausilio divino. Gesù ha detto: «Anche chi crede in me, compirà le opere che io compio» (Gv 14, 12), nonostante la nostra totale indegnità, malgrado la nostra debolezza umana. Anche gli Apostoli erano uomini deboli. Anche Pietro era un uomo debole. Che ci sia, pertanto, uno sforzo di collaborazione, cioè dell’intera Chiesa, perché è stato alla Chiesa che il Signore ha assicurato la sua costante presenza e la sua infallibile assistenza. Dopo questa visita ad limina, riprendete con impegno rinnovato il vostro cammino, portando a tutti la certezza della mia fraterna solidarietà ed empatia. Condivido le vostre inquietudini e le vostre speranze, le vostre preoccupazioni e le vostre gioie; con voi e per voi invoco la Vergine Santissima, verso la Quale non smettete di tendere il vostro cuore con amore filiale. E non dimenticatevi di pregare per me. Vi confermo il mio affetto fraterno e vi imparto la Benedizione Apostolica, con la quale intendo abbracciare anche i fedeli affidati alle vostre cure pastorali.
La Natività della Madre di Dio nell’innografia siriaca
Una veste tessuta di gloria di MANUEL NIN abbondantissima produzione letteraria messa sotto la paternità di sant’Efrem, il grande Padre della Chiesa siriaca morto nell’anno 373, comprende inni in realtà composti a partire dal V secolo ispirati all’innografia di Efrem. Molti di questi componimenti sono dedicati a Maria e alla sua divina maternità, inni che la cantano, meditando e lodando allo stesso tempo il mistero dell’incarnazione del Verbo di Dio. Due di questi inni iniziano con una preghiera a Cristo, affinché sia lui stesso a illuminare il canto del poeta: «La Vergine mi chiama a cantare il mistero che ammiro. Dammi, o Figlio di Dio, il tuo dono di ammirazione, per dipingere un’immagine piena di bellezza alla tua Madre». La verginità di Maria e il concepimento in lei del Verbo di Dio incarnato vengono messi in evidenza con immagini molto contrastanti, a partire dall’umanità stessa di Maria nel suo essere pienamente donna e concepire verginalmente: «Un feto nel suo seno senza connubio, grande prodigio! Latte è nelle sue mammelle, cosa inconsueta! I segni della verginità assieme al latte sono nel suo corpo». E prosegue con delle espressioni che sottolineano la divinoumanità di colui che è nato da Maria: «La Vergine Maria santamente partorisce il Figlio; dà il latte a colui che nutre il genere umano; sulle ginocchia sostiene colui che tutto sostiene. Lei è vergine, ed è pure madre: cosa lei non è?». L’autore prosegue introducendo il tema della verginità — sia in un riferimento alle dieci vergini della parabola evangelica — sia soprattutto tenendo presente la verginità come realtà ecclesiale presente già nel IV secolo nelle Chiese di tradizione siriaca: «In Maria goda tutta la schiera delle vergini, perché una fra esse si è chinata e ha partorito il gigante che sostiene le creature, lo stesso che liberò il genere umano fatto schiavo». Il riferimento cristologico al «gigante» partorito da Maria è preso dai Salmi (18, 6), in un testo che la tradizione dei Padri e le liturgie orientali e occidentali hanno letto e interpretato applicandolo a Cristo stesso nella sua incarnazione e nascita da Maria. Nel primo dei due inni una serie di quattro strofe enumera coloro che per mezzo di lei trovano in Cristo la loro piena redenzione: «Si
L’
rallegri in Maria Adamo ferito dal serpente, perché lei a lui ha fornito la pianta medicinale, si rallegrino in Maria i sacerdoti, perché lei ha partorito il grande sacerdote divenuto vittima, si rallegri la schiera dei profeti, perché in lei si sono adempiute le loro profezie». Il nesso con Adamo guarito dalla medicina che è Cristo stesso porta l’autore a cantare il tema dell’incarnazione e la nascita del Verbo di Dio vista come una nuova creazione: «Maria dette il dolce frutto agli uomini, in luogo di quel frutto dell’amarezza che Eva aveva raccolto dall’albero, Maria tesse una stola di gloria per suo padre che era stato denudato tra gli alberi: rivestendola castamente, egli acquistò decoro». Maria ancora è presentata come vite che produce il vino che è Cristo stesso, riferimento che ha anche un carattere eucaristico, collegato con il vino come bevanda di salvezza: «La vite verginale produsse un grappolo dal dolce vino, e per esso furono consolati dalle tristezze Adamo ed Eva addolorati: gustando il farmaco di vita, e furono da questo consolati dalle loro tristezze». Nel secondo inno dopo aver di nuovo accostato le dieci vergini con le lampade in mano del vangelo di Matteo a Maria vergine che porta la vera luce del mondo, Cristo, l’innografo si dilunga a sviluppare il nesso tra Eva e Maria, tra la caduta nel peccato e la redenzione come nuova creazione: «Per lei si sollevò il capo di Eva rimasto abbattuto. Maria infatti ha portato il bambino che afferrò il serpente, e le foglie della nudità si tramutarono in gloria. Due vergini ha avuto l’umanità: una causa della vita, l’altra della morte; da Eva spuntò la morte, da Maria la vita». E ancora l’autore riprende il tema del vestito di gloria tessuto da Maria nel suo grembo: «La madre caduta fu sorretta da sua figlia, e poiché quella era rivestita di foglie di nudità, questa le tesse e le dette un vestito di gloria». Nei due inni i titoli cristologici dati a Maria sono presi da immagini veterotestamentarie: lei è il campo che non ha conosciuto il seminatore, lei la nave che porta agli uomini il frutto della salvezza, lei la lampada che porta la luce per gli uomini: «Per Maria spuntò la luce che scacciò le tenebre che si erano diffuse tramite Eva offuscando l’umanità. Per mezzo di Maria il mondo è stato illuminato».
L’OSSERVATORE ROMANO
pagina 8
lunedì-martedì 7-8 settembre 2015
All’Angelus il Papa invita alla comunicazione per superare egoismi e chiusure
Il grande ponte Gesù è «il grande costruttore di ponti, che costruisce in sé stesso il grande ponte della comunione piena con il Padre». Lo ha ricordato il Papa all’Angelus di domenica 6 settembre, in piazza San Pietro, invitando i fedeli a superare egoismi e chiusure che creano «tante isole inaccessibili e inospitali». Cari fratelli e sorelle, buongiorno! Il Vangelo di oggi (Mc 7, 31-37) racconta la guarigione di un sordomuto da parte di Gesù, un evento prodigioso che mostra come Gesù ristabilisca la piena comunicazione dell’uomo con Dio e con gli altri uomini. Il miracolo è ambientato nella zona della Decapoli, cioè in pieno territorio pagano; pertanto quel sordomuto che viene portato da Gesù diventa simbolo del non-credente che compie un cammino verso la fede. Infatti la sua sordità esprime l’incapacità di ascoltare e di comprendere non solo
le parole degli uomini, ma anche la Parola di Dio. E san Paolo ci ricorda che «la fede nasce dall’ascolto della predicazione» (Rm 10, 17). La prima cosa che Gesù fa è portare quell’uomo lontano dalla folla: non vuole dare pubblicità al gesto che sta per compiere, ma non vuole nemmeno che la sua parola sia coperta dal frastuono delle voci e delle chiacchiere dell’ambiente. La Parola di Dio che il Cristo ci trasmette ha bisogno di silenzio per essere accolta come Parola che risana, che riconcilia e ristabilisce la comunicazione. Vengono poi evidenziati due gesti di Gesù. Egli tocca le orecchie e la lingua del sordomuto. Per ripristinare la relazione con quell’uomo “bloccato” nella comunicazione, cerca prima di ristabilire il contatto. Ma il miracolo è un dono dall’alto, che Gesù implora dal Padre; per questo alza
gli occhi al cielo e comanda: “Apriti!”. E le orecchie del sordo si aprono, si scioglie il nodo della sua lingua e si mette a parlare correttamente (cfr. v. 35). L’insegnamento che traiamo da questo episodio è che Dio non è chiuso in sé stesso, ma si apre e si mette in comunicazione con l’umanità. Nella sua immensa misericordia, supera l’abisso dell’infinita differenza tra Lui e noi, e ci viene incontro. Per realizzare questa comunicazione con l’uomo, Dio si fa uomo: non gli basta parlarci mediante la legge e i profeti, ma si rende presente nella persona del suo Figlio, la Parola fatta carne. Gesù è il grande “costruttore di ponti”, che costruisce in sé stesso il grande ponte della comunione piena con il Padre. Ma questo Vangelo ci parla anche di noi: spesso noi siamo ripiegati e chiusi in noi stessi, e creiamo tante isole inaccessibili e inospitali. Persino i rapporti umani più elementari a volte creano delle realtà incapaci di apertura reciproca: la coppia chiusa, la famiglia chiusa, il gruppo chiuso, la parrocchia chiusa, la patria chiusa... E questo non è di Dio! Questo è nostro, è il nostro peccato. Eppure all’origine della nostra vita cristiana, nel Battesimo, ci sono proprio quel gesto e quella parola di Gesù: “Effatà! - Apriti!”. E il miracolo si è compiuto: siamo stati guariti dalla sordità dell’egoismo e dal mutismo della chiusura e del peccato, e siamo stati inseriti nella grande famiglia della Chiesa; possiamo ascoltare Dio che ci parla e comunicare la sua Parola a quanti non l’hanno mai ascoltata, o a chi l’ha dimenticata e sepolta sotto le spine delle preoccupazioni e degli inganni del mondo. Chiediamo alla Vergine Santa, donna dell’ascolto e della testimonianza gioiosa, di sostenerci nell’impegno di professare la nostra fede e di comunicare le meraviglie del Signore a quanti incontriamo sul nostro cammino. Al termine della preghiera, dopo aver lanciato l’appello all’accoglienza dei profughi, il Papa ha invitato a superare le tensioni tra Venezuela e Colombia e ha ricordato le tre religiose spagnole beatificate sabato 5 a Gerona. Cari fratelli e sorelle, la Misericordia di Dio viene riconosciuta attraverso le nostre opere, come ci ha testimoniato la vita della beata Madre Teresa di Calcutta, di cui ieri abbiamo ricordato l’anniversario della morte. Di fronte alla tragedia di decine di migliaia di profughi che fuggono dalla morte per la guerra e per la fa-
me, e sono in cammino verso una speranza di vita, il Vangelo ci chiama, ci chiede di essere “prossimi”, dei più piccoli e abbandonati. A dare loro una speranza concreta. Non soltanto dire: “Coraggio, pazienza!...”. La speranza cristiana è combattiva, con la tenacia di chi va verso una meta sicura. Pertanto, in prossimità del Giubileo della Misericordia, rivolgo un appello alle parrocchie, alle comunità religiose, ai monasteri e ai santuari di tutta Europa ad esprimere la concretezza del Vangelo e accogliere una famiglia di profughi. Un gesto concreto in preparazione all’Anno Santo della Misericordia. Ogni parrocchia, ogni comunità religiosa, ogni monastero, ogni santuario d’Europa ospiti una famiglia, incominciando dalla mia diocesi di Roma. Mi rivolgo ai miei fratelli Vescovi d’Europa, veri pastori, perché nelle loro diocesi sostengano questo mio appello, ricordando che Misericordia è il secondo nome dell’Amore: «Tutto quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me» (Mt 25, 40). Anche le due parrocchie del Vaticano accoglieranno in questi giorni due famiglie di profughi.
Ora dirò una parola in spagnolo sulla situazione tra Venezuela e Colombia. En estos días, los Obispos de Venezuela y Colombia se han reunido para examinar juntos la dolorosa situación que se ha creado en la frontera entre ambos Países. Veo en este encuentro un claro signo de esperanza. Invito a todos, en parti-
cular a los amados pueblos venezolano y colombiano, a rezar para que, con un espíritu de solidaridad y fraternidad, se puedan superar las actuales dificultades. Ieri, a Gerona in Spagna, sono state proclamate Beate Fidelia Oller, Giuseppa Monrabal e Faconda Mar-
genat, religiose dell’Istituto delle Suore di San Giuseppe di Gerona, uccise per la fedeltà a Cristo e alla Chiesa. Malgrado le minacce e le intimidazioni, queste donne rimasero coraggiosamente al loro posto per assistere i malati, confidando in Dio. La loro eroica testimonianza, fino all’effusione del sangue, dia forza e speranza a quanti oggi sono perseguitati a motivo della fede cristiana. E noi sappiamo che sono tanti. Due giorni fa sono stati inaugurati a Brazzaville, capitale della Repubblica del Congo, gli undecimi Giochi Africani, a cui partecipano migliaia di atleti da tutto il Continente. Auspico che questa grande festa dello sport contribuisca alla pace, alla fraternità e allo sviluppo di tutti i Paesi dell’Africa. Salutiamo gli africani che stanno facendo questi undecimi Giochi. Saluto cordialmente tutti voi, cari pellegrini venuti dall’Italia e da vari Paesi; in particolare, la corale “Harmonia Nova” di Molvena, le Suore Figlie della Croce, i fedeli di San Martino Buon Albergo e Caldogno, e i giovani della diocesi di Ivrea, giunti a Roma a piedi sulla via Francigena. A tutti auguro una buona domenica. E, per favore, non dimenticatevi di pregare per me. Buon pranzo e arrivederci!
Messa a Santa Marta
Perseguitati perché cristiani L’orrore per la persecuzione che oggi avviene nel mondo, con terroristi che sgozzano i cristiani nel «silenzio complice di tante potenze», è iniziata proprio contro Gesù e ha scandito la storia della Chiesa. Ecco perché «non c’è cristianesimo senza martirio». E la testimonianza della comunità armena, «perseguitata soltanto per il fatto di essere cristiana», deve far trovare a ciascuno lo stesso coraggio di quei martiri, qualora «un giorno la persecuzione accadesse qui». Lo ha affermato il Papa nella messa presieduta, lunedì 7 settembre, nella cappella della Casa Santa Marta. Durante la celebrazione ha avuto luogo la significazione della ecclesiastica communio concessa al nuovo patriarca di Cilicia degli armeni, Gregorio Pietro XX Ghabroyan. Con il Papa hanno concelebrato, insieme al patriarca, il cardinale Leonardo Sandri, prefetto della Congregazione per le Chiese Orientali, con l’arcivescovo segretario monsignor Cyril Vasil’ e il sotto-segretario padre Lorenzo Lorusso, tutti i vescovi membri del Sinodo della Chiesa patriarcale armeno cattolica e alcuni sacerdoti. Per la sua riflessione sul martirio, oltre che dalla presenza dei cristiani armeni, Francesco ha preso spunto anzitutto dal passo evangelico di Luca (6, 6-11) proposto dalla liturgia: Gesù guarisce di sabato un uomo che aveva la mano destra paralizzata. Però «la predica e il modo di agire di Gesù — ha fatto notare nell’omelia — non piacevano ai dottori della legge». E «per questo gli scribi e farisei lo osservavano per vedere cosa facesse: lo spiavano perché avevano nel loro cuore cattive intenzioni». Così «dopo che
Gesù apre il dialogo, e domanda se è lecito fare il bene o fare il male il sabato, loro non parlano, rimangono zitti». Luca racconta che, dopo il miracolo compiuto dal Signore, «essi fuori di sé dalla collera» — e qui il Vangelo usa un’espressione davvero «forte» — «si misero a discutere tra loro su quello che avrebbero potuto fare a Gesù». In una parola, si misero a ragionare su come fare per uccidere il Signore. E tante volte, ha precisato il Papa, nel Vangelo si ripete questa scena. Dunque, questi dottori della legge non hanno un atteggiamento del tipo: «non siamo d’accordo, parliamo». A prevalere in loro, invece, «è la collera: non possono dominarla e incominciano la persecuzione a Gesù, fino alla morte». Anche san Paolo, «discepolo fedele del Signore, soffre lo stesso», ha ricordato il Papa. A confermarlo è proprio il passo della lettera ai Colossesi (1, 24 - 2, 3) proclamato durante la liturgia: «Fratelli, sono lieto nelle sofferenze che sopporto per voi e do compimento a ciò che, dei patimenti di Cristo, manca nella mia carne, a favore del suo corpo che è la Chiesa». Quella di Paolo, ha rimarcato il Pontefice, è «la stessa strada di Gesù: la testa della Chiesa, la segue il suo corpo, la Chiesa». E, del resto, «dai
Concessa al patriarca di Cilicia degli armeni
La significazione della comunione ecclesiastica Durante la celebrazione eucaristica presieduta dal Papa nella cappella della Casa Santa Marta, ha avuto luogo la significazione della ecclesiastica communio concessa al nuovo patriarca di Cilicia degli armeni, Gregorio Pietro XX Ghabroyan, con la lettera pontificia del 25 luglio scorso. Dopo l’Ecce Agnus Dei, prima dello scambio delle sacre specie tra il Papa e il patriarca, è stato letto il testo della monizione, nella quale si spiega che «“comunione” è un concetto tenuto in grande onore nella Chiesa antica e anche oggi, specialmente in Oriente. Per essa non si intende un certo vago “sentimento”, ma una “realtà organica”, che richiede una forma giuridica e che è allo stesso tempo animata dalla carità (costituzione dogmatica Lumen gentium, nota esplicativa previa, n. 2). La ecclesiastica communio che il Santo Padre Francesco ha concesso a sua Beatitudine Gregorio Pietro XX con lettera del 25 luglio scorso, trova ora espressione nello scambio delle sacre specie, che conferma la radice eucaristica della comunione tra il vescovo e la Chiesa di Roma, che presiede nella carità, e la Chiesa patriarcale di Cilicia degli armeni, tramite il suo caput et pater. Accompagniamo il gesto in silenzio orante».
Quindi il Papa ha innalzato la patena con il corpo di Cristo e l’ha offerta al patriarca. I due l’hanno tenuta elevata a quattro mani per poi deporla. Lo stesso è avvenuto per il calice con il sangue di Cristo. Dopo un istante di silenzio, il Pontefice ha offerto il corpo di Cristo e insieme si sono comunicati. Francesco ha assunto il sangue di Cristo dal calice e lo ha poi offerto al patriarca.
primi giorni la Chiesa è perseguitata». Ma fino a quanto lo sarà? Di certo «fino a oggi», ha affermato il Papa. Infatti, ha proseguito, anche «oggi tanti cristiani, forse più che nei primi tempi, sono perseguitati, uccisi, cacciati via, spogliati solo per essere cristiani». E così, come scrive Paolo, «proseguono nel corpo della Chiesa la passione di Cristo, dandone compimento». Francesco ha ripetuto che «non c’è cristianesimo senza persecuzione». E ha suggerito di far memoria dell’«ultima delle beatitudini: quando vi porteranno nelle sinagoghe, vi perseguiteranno, vi insulteranno: questo è il destino del cristiano». Di più: «Oggi, davanti a questo fatto che accade nel mondo, col silenzio complice di tante potenze che potevano fermarlo, siamo davanti a questo destino cristiano: andare sulla stessa strada di Gesù». In particolare, ha detto il Pontefice, «voglio ricordare oggi una delle tante grandi persecuzioni, quella del popolo armeno, in occasione della nostra comunione. Un popolo, la prima nazione che si è convertita al cristianesimo, la prima, perseguitata soltanto per il fatto di essere cristiana». «Noi oggi sui giornali — ha affermato rilanciando le tragiche questioni di attualità — sentiamo orrore per quello che fanno alcuni gruppi terroristici, che sgozzano la gente solo per essere cristiani». Francesco ha invitato a pensare «a questi martiri egiziani, ultimamente, sulle coste libiche: sono stati sgozzati mentre pronunciano il nome di Gesù». E ritornando agli armeni, ha spiegato che questo popolo «è stato perseguitato, cacciato via dalla sua patria, senza aiuto, nel deserto». Proprio «oggi — ha fatto presente — il Vangelo ci racconta dove è cominciata questa storia: con Gesù». E quello «che hanno fatto con Gesù, durante la storia è stato fatto con il suo corpo, che è la Chiesa». In questa prospettiva il Papa si è rivolto direttamente agli armeni: «Oggi vorrei, in questo giorno della nostra prima Eucaristia, come fratelli vescovi, a te, caro fratello patriarca, e a tutti voi, vescovi e fedeli e sacerdoti armeni, abbracciarvi e ricordare questa persecuzione che avete sofferto, e ricordare i vostri santi, tanti santi morti di fame e di freddo, nella tortura e nel deserto, per essere cristiani». Francesco ha pregato il Signore perché «ci dia la consapevolezza di guardare lì quello che Paolo dice» e «ci dia una piena intelligenza per conoscere il mistero di Dio che è in Cristo». E «il mistero di Dio che è in Cristo — ha aggiunto — porta la croce: la croce della persecuzione, la croce dell’odio, la croce che viene dalla collera di questi uomini, questi dottori della legge». Ma «chi suscita la collera? Lo sappiamo tutti: il padre del male». «Il Signore — ha detto ancora il Papa — oggi ci faccia sentire, nel corpo della Chiesa, l’amore ai nostri martiri e anche la nostra vocazione martiriale. Noi non sappiamo cosa accadrà qui: Non lo sappiamo!». Ma, ha concluso, «che il Signore ci dia la grazia, se un giorno accadesse questa persecuzione qui, del coraggio della testimonianza che hanno avuto tutti questi cristiani martiri e specialmente i cristiani del popolo armeno».