UCCIO ALOSI IL CANTO DELLA TERRA

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Si ringraziano Carmine, Merilù, Massimiliano, Maurizio, la moglie Cetta e tutta la famiglia Aloisi, Fernando e Carlo Elmiro Bevilacqua, Sara Bonomo, Luigi Cesari, Gian Piero Donno, Antonio Melegari, Luigino Sergio, Ivan Stomeo, L’Unione dei Comuni della Grecìa salentina e L’Istituto Diego Carpitella. Questo volume è stato curato da Luigi Chiriatti e Sergio Torsello.

Edizioni Kurumuny Sede legale: Via Palermo, 13 – 73021 Calimera (Le) Sede operativa: Via S. Pantaleo, 12 – 73020 Martignano (Le) Tel. e Fax 0832 801528 www.kurumuny.it – info@kurumuny.it ISBN 978-88-95161-59-4 Progetto grafico Alessandro Sicuro 3289683018 Remastering ADD Corrado Productions – Supersano (Le) Chiuso in stampa a luglio 2011 L’editore si rende disponibile per eventuali richieste di soggetti o enti che possano vantare dimostrati diritti sulle immagini riprodotte nel volume.

© Edizioni Kurumuny – 2011


Indice 5

Avvertenza

Luigi Chiriatti e Sergio Torsello 7

Presentazione

Ivan Stomeo 9

Lasciare il concerto

Milena Magnani 15

Uccio Aloisi: il canto della terra

Sergio Torsello 21

Il principe degli stornelli

Antonio Melegari 23

La musica dell’accoglienza

Teresa De Sio 27

Se tu sei nato che devi cantare, canti. Uccio Aloisi dalla terra al palco: la straordinaria mutazione di una voce Flavia Gervasi

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Quando i mondi collidono

Pierfrancesco Pacoda


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Uccio: un amico e un maestro

Daniele Durante 47

In tour con Uccio: quasi un diario

Antonio Calsolaro 53

L’educazione è la cosa migliore che esiste Intervista a Uccio Aloisi

Luigi Chiriatti 67 84

I canti Uccio Aloisi: bibliografia e discografia

Sergio Torsello


Avvertenza Luigi Chiriatti e Sergio Torsello

Questo libro vuole essere un omaggio alla memoria di Uccio Aloisi, una delle personalità più emblematiche del mondo popolare salentino. Ricordi e riflessioni che tentano di ricostruire, senza cedimenti a una facile retorica di circostanza, il profilo umano e artistico di uno dei maggiori testimoni della cultura popolare dell’area meridionale. In un testo memorabile, Le vie dei canti, Bruce Chatwin scrisse: «Gli aborigeni credevano che una terra non cantata sia una terra morta. Se i canti vengono dimenticati la terra ne morirà». Per questo «gli uomini del Tempo Antico percorsero tutto il mondo cantando: avvolsero il mondo in una rete di canto». Come Uccio. Maestro senza cattedra, sedimento di parole e melodie, sontuoso “albero di canto” cresciuto in una terra amara, ma generosa di suoni e colori. Che grazie a lui non morirà.

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Masseria San Biagio Calimera, foto di Luigi Chiriatti 6


Presentazione Ivan Stomeo*

Come Istituto Carpitella, che da quest’anno mi onoro di presiedere, non potevamo sottrarci dal patrocinare la pubblicazione di un libro che racconta la complessa personalità di Uccio Aloisi. Uccio è stato per l’Istituto Carpitella, che ha come obiettivo fondamentale raccogliere, catalogare, conservare, studiare il patrimonio culturale del Salento e in particolare quello legato al mondo popolare, un prezioso, insostituibile compagno di viaggio. Uccio è stato non solo un grande cantore tradizionale ma anche un vero e proprio maestro di vita, un riferimento per tutti coloro che in questi anni di tumultuosa riscoperta si sono a vario titolo avvicinati al mondo della musica popolare salentina. Quante sere abbiamo passato insieme con il suo Vorrei volare, volando con la mente in tutto il Salento a riscoprire suoni perduti, canti e parole che sono pura poesia. Era emozionante quando comunicava dal palco del concertone della Notte della Taranta, i numeri degli spettatori «A quai ave chiui te mille cristiani» diceva ed erano presenti almeno in centomila. Uccio era uno degli ultimi esponenti di un mondo culturale ormai 7


in via di estinzione. Un mondo del tutto estraneo alle logiche della speculazione culturale. Ma come per incanto, con un microfono in mano, diventava una star da palcoscenico. Instancabile, strepitoso nel suo modo di cantare e di suonare all’infinito, dimenticando in quelle ore di concerto la fatica dei tanti lavori svolti nella vita. Vederlo a fianco di Stewart Copeland, di Manu Chao, dei Buena Vista Social Club, per citare solo alcuni dei grandi artisti di fama internazionale che hanno incrociato il percorso artistico di Uccio, si aveva la sensazione di essere davanti ad una grande stella della musica. Quella mano che batteva, con uno stile tutto suo, la pelle del tamburello, trasmetteva un’energia straordinaria, perfezionata nelle estenuanti ronde della festa di San Rocco a Torrepaduli. Quando penso ad Uccio, spesso mi viene in mente l’episodio in cui concede il suo autografo a Stewart Copeland: davvero un bel ricordo. Grazie Uccio, l’Istituto Diego Carpitella, il Salento tutto, ti deve tanto. Per questo motivo lavoreremo sempre per tenere vivo lo straordinario lavoro di recupero della memoria musicale di questa terra che hai portato avanti in questi anni. * Presidente Istituto Diego Carpitella Sindaco di Melpignano

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Lasciare il concerto Milena Magnani*

La tradizione musicale del Salento ha dimostrato nel tempo di essere espressione di un’alchimia particolare, un’alchimia che l’ha salvata dal rischio di involvere in semplice folclore. Sarà perché le note, qui, in questa terra, si sono mescolate a un’energia sottile, un’energia che deve avere a che fare con i menhir nascosti nelle campagne, o con le colonne barocche che resistono alla corrosione. Un’energia che ha reso questa penisola orientale un luogo privilegiato di geografie poetiche, un luogo attraversando il quale, a un certo punto, te pizzica lu core, così non si può che dire, te pizzica lu core mamma mia ci dulore. Eppure tutte le volte che ho sentito argomentare intorno a questa suggestione, mi è parso che i concetti e le categorie teoriche fossero inadeguate, sempre troppo ingombranti o troppo piccole e comunque mai a misura di quello che avrebbero voluto dire. Forse perché c’è un indicibile insito in qualsiasi forma di espressione popolare, uno spazio intimo dentro cui la vita si può mescolare indissolubilmente con le note e che la scienza etnografica e la 9


ricerca sociale non possono, per loro natura, riuscire a raccontare. È lo spazio che si apre nell’animo di chi si trova in Salento, in quella notte di agosto in cui i tamburellisti fanno impazzire la musica e il tempo, improvvisamente, diventa te muddhica e ci si accorge, quasi per caso, che se si schiacciano i piedi sui vecchi problemi, si può avere l’impressione di rinascere. Più batti e batti ‘u tamburreddhu e più sembra che la vita vada bene, e che tutto sommato non sia stato sbagliato viverla come l’abbiamo vissuta fin qui. È l’esperienza emozionale di unirsi a un’euforia più generale, come la rondine ci rondina lu mare, più balli e più sembra di salire su, sopra la piazza gremita di persone. Un possibile poetico che, come ci suggerisce questo libro, non ha bisogno di andare a cercare la sua matrice dentro la letteratura colta sul tarantismo, perché va ricondotto invece a quel modo istintivo e popolare di intendere la festa e la condivisione. Quel modo secondo il quale nella musica ci si deve tuffare e basta. Come in un mare grosso. E a metà viaggio si può persino perdere l’orientamento e ci si può smarrire, anche. Una dimensione dell’esperienza musicale per capire la quale è opportuno considerare il contributo che hanno dato alla attuale cultura popolare salentina alcune personalità chiave, personalità che stanno al centro del movimento attuale della pizzica come fossero dei totem. 10


Perché in effetti, tutto quello che della pizzica tarantata si potrebbe continuare a teorizzare, si è andato a nascondere dentro le loro vite e le ha persino modellate come fa il vento con la pietra leccese. È questo il caso di Uccio Aloisi, il cantore di Cutrofiano che ci ha lasciato nel 2010 qualche mese dopo averci omaggiato sul palco di Melpignano, con il suo tremulo Vorrei volare. Oh quante stelle, così invitava migliaia di persone, quante stelle, vieni a contarle. L’ultimo depositario di un alfabeto popolare fatto di tamburelli e canti d’amore, che ha messo a disposizione la sua sapienza, per accompagnarci qui, sotto il palco aperto di un Salento postmoderno. Un maestro senza cattedra, come lo definiscono egregiamente Luigi Chiriatti e Sergio Torsello in questo testo. Un maestro con le gambe stanche che mi sembra di rivedere perfettamente, mentre riprende fiato seduto su una sedia, con gli occhi pieni di luce. Un uomo che, andandosene, ci fa sentire amplificata la distanza tra il suo universo culturale e il nostro modo di essere cittadini leggeri e moderni, consumatori di cultura mordi e fuggi, onnivori e supponenti. Perché se è vero che un cantore del suo calibro ci lascia in consegna un ricchissimo repertorio musicale, è anche vero che, andandosene, si porta con sé il modo in cui, quel repertorio, lo aveva cominciato a intonare da ragazzo, quando il Salento era una periferia sganciata dal resto e le figure di liberazione erano quelle di 11


quando la terra era povera, era terra di latifondi e di braccianti con le schiene cotte sotto il sole. Si porta via l’inflessione peculiare della propria voce e insieme a questa la nostra illusione di poter dialogare con una vera radice. Un’illusione quest’ultima che si fa progressivamente più debole fino a dissolvere in una dimensione in cui la trasmissione della memoria torna ad essere tutt’uno con la terra, con i ramponi per staccare le olive, con le mani mute di certi anziani che giocano a carte fuori dai bar della piazza centrale. Non è questione di avere sbagliato qualcosa, è la storia dell’evoluzione che è fatta così. È fatta in modo tale che in ogni sodalizio con il passato che si può stabilire, c’è sempre un congedo che poi ci attende alla fine. È la storia di una traiettoria. Una traiettoria che un cantore come Uccio è riuscito incredibilmente a rendere indolore, perché al di là tutti gli intellettualismi, quello che ci ha comunicato è che la vita di un uomo è fatta così. È come le piantagioni di tabacco. Quelle vanno e vengono, ogni tanto si seccano. Mentre la musica no, quella rimane nella vita. E se il tamburello della pizzica dà l’innesco poi è il cuore a stabilire le direzioni. * scrittrice 12


Riccardo Giannotta e Uccio, gennaio 2010 Cutrofiano, foto di Gian Piero Donno 13


Prima edizione della Festa del tamburello, agosto 1982 Cutrofiano, foto di Luigi Cesari 14


Uccio Aloisi: il canto della terra Sergio Torsello*

L’albero di canto, così si chiamano i contadini che secondo l’opinione generale del villaggio sanno a memoria un’infinità di melodie. Bela Bartòk, Scritti sulla musica popolare

«A casa mia si cantava sempre, eravamo una famiglia dove chi più cantava. Facevamo qualunque cosa accompagnandoci al canto, specialmente quando infilavamo tabacco. Mia sorella Maria, se la sentivi cantare… Era una cosa. Le canzoni le cacciava da sotto terra. Mio padre – noi stavamo di là ad infilare tabacco – magari andava a coricarsi, ma dal letto ci faceva il controcanto. Mia madre, finché non è morta, ha sempre cantato». Si raccontava così, Uccio Aloisi nella sua immaginifica autobiografia. E nell’afflato dell’oralità tipicamente contadina emergeva l’immagine di un’esistenza povera, vissuta tra mille difficoltà, eppure intrisa di una sapienza antica, fondata sull’esperienza, ancorata alla sacralità della terra. Impastata di musica “dalla culla alla bara”. Contadino, cavatore d’argilla,

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bracciante, Uccio Aloisi non era soltanto uno dei personaggi chiave del “paesaggio sonoro” salentino ma anche una delle figure più rappresentative della cultura popolare di questa terra. È stato il recente revival della pizzica a farne un’icona del nuovo rinascimento salentino, ma la vicenda di Uccio parte da lontano e affonda le radici in un mondo subalterno in cui la musica era il tessuto connettivo di una vita, l’aria che si respirava, l’espressione di un legame sociale, lo strumento di una comunità che (si) racconta e (si) tramanda. Nato nel 1928 a Cutrofiano, Uccio ha già 50 anni quando la ricerca etnomusicologica si accorge di lui. È il 1978, l’onda lunga del folk revival tocca anche il Salento. Nella raccolta Musiche e canti tradizionali del Salento, curata da Brizio Montinaro sono presenti quattro brani registrati a Cutrofiano dalle voci di Uccio Bandello e Uccio Aloisi. Documenti sonori di singolare bellezza, che fermano su vinile un’esperienza unica, quella degli “Ucci”, nel momento del passaggio dalla performance tradizionale alla dimensione del palco con le sue tecnologie. Una vicenda seminale, conclusasi con la morte di Bandello nel 1998 e confluita l’anno successivo in un disco memorabile, Bonasera a quista casa (a cura di Luigi Chiriatti, Roberto Raheli, Aramirè, Lecce 1999), salutato da un notevole successo di critica e di pubblico. Poi vennero le partecipazioni alla Notte della Taranta, la costituzione del suo Gruppu, il primo disco da solista, Robba de smuju, firmato alla veneranda età di 75 anni, il 16


premio come Testimone della Cultura Popolare Italiana nel 2005, la partecipazione a Craj, lo spettacolo di Teresa De Sio dedicato al folclore musicale pugliese con Giovanni Lindo Ferretti, i Cantori di Carpino e Matteo Salvatore. Un lungo percorso il suo, dai campi assolati del Salento e dal sodalizio più che trentennale con il suo “gemello” Uccio Bandello, ai palchi dei più importanti folk festival italiani. Nuovi spazi, che da teatro della messa in scena decontestualizzata diventano il luogo della definitiva consacrazione presso il grande pubblico (soprattutto giovanile). Uccio era la personificazione di un’alterità latente. Radicale. Già nei tratti somatici. Siamo stati abituati alla figura del cantore salentino piccolo di statura, di colorito scuro. Lui era l’esatto contrario: alto, robusto, penetranti occhi azzurri. Aveva fatto l’occupazione delle terre ma non era comunista (e neppure democristiano) «Perché – spiegava – sappiamo bene chi si mangia i bambini e pure i grandi». Era uno dei più importanti cantori popolari salentini ma nel suo repertorio entravano vecchie canzoni trasmesse dalla radio e dalla televisione, stornelli improvvisati all’occasione, con una procedura di assorbimento e rielaborazione che la dice lunga sul falso principio dell’immutabilità della tradizione. Era passato dalla campagna ai palchi dei grandi festival musicali (tra il 2001 e il 2009 con il suo Gruppu ha tenuto 231 concerti in tutta Italia) conservando il suo spirito indomito, il suo carattere spigoloso, senza cedimenti alle seduzioni 17


dello show business e senza rinunciare alla resistenza di fronte a certe forme pervasive di omologazione culturale: «La tarantella? Alla fine diventa uno scocciamento. Lo scotis? E chi lo conosce? Il tarantismo? Tutte cazzate!». Nonostante l’apparente ambivalenza, nonostante il continuo andirivieni tra passato e presente e nonostante il ripetuto addensarsi sulla sua figura di nuove valenze simboliche, in fondo Uccio apparteneva solo e unicamente – osserva Sandro Portelli – “alle fondazioni della sua cultura”. Come tutti i grandi cantori Uccio era estremamente consapevole dell’importanza del suo ruolo di musicista: «A Bandello, che era perfetto per il canto, io facevo entrate in controcanto che lo abbellivano, perché il controcanto incorona lo stornello. In questo sono imparagonabile, faccio la fioritura, faccio il ventaglio a chi canta, gli do ossigeno, respiro». Parafrasando Roberto Leydi – che coniò i due termini riflettendo sull’incontro con Teresa Viarengo – potremmo dire che Uccio era al tempo stesso un vasto “magazzino” di canti e uno straordinario “interprete specializzato” in grado di darci una testimonianza attendibile della “realtà musicale per nulla semplice e spontanea della tradizione”. Ma non è solo di questo che si tratta. Riletta oggi, la sua autobiografia si rivela sempre più un bellissimo esempio di quel meccanismo che gli antropologi definiscono come la scoperta da parte degli informatori della “narratività della propria esistenza”. Un tentativo di lasciare una segno più profondo, 18


quasi fosse consapevole dell’eccezionalità del documento che consegnava alla pagina scritta: «Le storie di vita – spiega Pietro Clemente – ci fanno assistere allo spettacolo meraviglioso (che mai potrebbe essere “osservato” dall’esterno da un antropologo) di una cultura vista dall’interno di una vita, e di una vita vista all’interno di una cultura». Scrive Maurice Halbwachs a proposito della metamorfosi del ricordo in simbolo: «Ogni persona e ogni fatto storico, da quando penetra nella memoria sociale, si trasforma in un insegnamento, in una nozione, in un simbolo; riceve un senso; diventa un elemento del sistema di idee della società». Non so se nel caso di Uccio sarà così. Ma mi piacerebbe che lo fosse. O forse, chissà, in qualche misura lo è già. * giornalista e ricercatore

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Da sinistra Lucio Meleleo, Uccio e Massimo Manera, masseria Le Carrare Sternatia, foto di Luigi Chiriatti 20



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