IL DISORDINE UMANO RACCONTATO A MIO NIPOTE

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Aicha Bouabaci

Il disordine umano raccontato a mio nipote Romanzo Prefazione di Ada Donno


Titolo originale: Le désordre humain conté à mon petit-fils © Casbah Editions, Alger – 2002

Traduzione dal francese di Viviana Ingrosso Redazione di Ada Donno In copertina e all’interno disegni di Rita Goffredo

Edizioni Kurumuny Sede legale Via Palermo 13 – 73021 Calimera (Le) Sede operativa Via San Pantaleo 12 – 73020 Martignano (Le) Tel e Fax 0832 801528 www.kurumuny.it • info@kurumuny.it ISBN 978-88-95161-61-7 Stampato presso Martano Editrice Z.I. Lecce © Edizioni Kurumuny – 2011


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Prefazione Ada Donno

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Il disordine umano raccontato a mio nipote Postfazione Aicha Bouabaci


Prefazione Ada Donno

Aicha Bouabaci è una donna dolce e assorta, con un sorriso gentile e un velo di malinconia che non l’abbandona mai, come il ricordo di un dolore. è nata in Algeria in una famiglia – come lei scrive – “con le nonne felicemente ingarbugliate” e vive da tempo in Germania. Ha scritto romanzi, molti racconti e poesie, numerosi articoli e saggi, alcuni dei quali tradotti in diverse lingue. Frequentando con lei negli anni scorsi gli appuntamenti periodici delle donne del Mediterraneo, dove non mancava mai di portare piccoli saggi sapienti della sua parola letteraria, mi lasciavano ogni volta sorpresa e ammirata l’estro e il rigore con cui preparava le sue comunicazioni, che quasi sempre erano il racconto ispirato e commosso, ricco di spunti e sentimenti, di esperienze interiormente rivissute. Il disordine umano raccontato a mio nipote richiama nel titolo, penso volutamente, i fortunati libri-saggio di Ben Jelloun, ma il testo di Aicha s’inscrive piuttosto nella tradizione del romanzo-lettera: per la strategia narrativa adottata, inquieta e spezzata, che consente all’autrice di alternare la narrazione degli avvenimenti alla riflessione e all’evocazione, di modulare i toni della fervida denuncia a quelli della tenerezza; per la sua prosa soffusa di lirismo che estrae gli interrogativi e i temi dalle pieghe più sofferte delle vite narrate; per la sua arte che cerca il senso profondo delle vicende umane anche negli episodi tratti dall’attualità minima e misera, producendo un impatto di lettura forte e inaspettato.

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La vicenda qui narrata si svolge nella Germania dell’immigrazione più recente, dopo il crollo del muro e l’Anschluss dell’Est tedesco realizzata a tamburo battente dall’Ovest rampante. è ambientata tra il 2000 e il 2001 nel paese in cui Aicha vive la maggior parte dell’anno. Ma avrebbe potuto essere ieri e in un altro qualsiasi dei paesi d’Europa. Perfino in un altro qualsiasi paese del Nord del mondo. è la storia di un “respingimento”. Respingimento è una brutta parola coniata dal più recente Ordine politico europeo, quello ossequioso degli interessi economici forti, che ha aperto le frontiere a capitali e merci ma non con pari generosità alle persone. Una brutta parola che si utilizza per definire l’atto del rifiuto opposto ai migranti che risultano in difetto dei previsti Documenti d’ingresso o di soggiorno. Per il rilascio di detti Documenti, l’Ordine europeo ha definito dei criteri il cui rigore si misura in difficoltà e tempo necessario per ottenerli, ma non solo. I criteri servono infatti all’Ordine per distanziare, gli uni dagli altri, quelli che entrano e soggiornano nei diversi paesi europei: prima gli Europei dentro Schengen, poi gli Europei di fuori, poi gli extracomunitari. Fra questi ultimi ci sono ulteriori distanziamenti, più o meno dicibili, che complicano questa invisibile scala gerarchica. Ci possono anche essere altre variazioni dell’ordine di scala, dovute a storiche circostanze o improvvise nuove urgenze sociali e politiche. L’abbondanza di regole, tuttavia, non ha scoraggiato la multicolore umanità che preme su quella che Aicha chiama la “frontiera dell’agiatezza e del progresso”, e che spesso riesce ad introdursi nelle sue maglie più o meno strette e sorvegliate in maniera “irregolare”. Ma a questo punto scatta il respingimento, che in certi casi contem-

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plati viene detto “espulsione con accompagnamento alla frontiera”. Recentemente sono state escogitate anche modalità di respingimento che agiscono prima ancora che gli “irregolari” possano avvicinarsi alla frontiera e spiegare le ragioni per cui chiedono di entrare. Comunque sia, il respingimento è il solerte allontanamento degli irregolari dagli occhi (e dalle coscienze) di coloro che l’Ordine europeo si preoccupa di tutelare. In nome della loro Sicurezza. Il fatto è che, da che mondo è mondo, l’Ordine si legittima in nome della Sicurezza di coloro sui quali vige, attraverso dispositivi più o meno brutali di esclusione degli altri. Nell’antica polis greca, dove con orgoglio si cercano le radici della Moderna Democrazia Universale, c’erano i polìtai, i cittadini, e c’erano gli xènoi, gli stranieri. Gli stranieri erano tutti quelli che dimoravano fuori dei confini delle poleis, oppure potevano stare dentro ed erano tollerati, ma in posizione subordinata. I cittadini immigrati da un’altra polis erano chiamati meteci: a loro a volte veniva riconosciuta la cittadinanza, a seconda delle circostanze e a discrezione delle autorità. Gli stranieri e gli schiavi (che di solito erano prigionieri di guerra) erano non-cittadini. Le donne erano non-cittadine di fatto, perché erano sotto tutela ed esercitavano i diritti di cittadinanza solo per interposto padre, marito o fratello. Sul gioco dell’esclusione/inclusione – in base all’appartenenza sociale o etnica o di genere – si reggeva l’Ordine nella comunità politica antica, codificato e di solito indiscutibile. La moderna polis globale non può però giustificare l’esclusione con l’appartenenza sociale né con quella di genere – non per niente ci sono state di mezzo le Grandi

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Rivoluzioni che hanno prodotto le moderne Costituzioni – ma ha bisogno di contemplare comunque dei “dispositivi di distanziamento” (li ha chiamati così l’autorevole sociologo Norbert Elias) e si riserva ancora di marcare i confini, anche quelli interni, sulla base dell’appartenenza etnica e del paese d’origine. Un dispositivo davvero formidabile contro gli immigrati è lasciarli vivere perennemente in precarietà e sotto lo scacco dell’espulsione. Smisurato. A ben guardare, i confini marcati sono sociali e di classe anche quando vengono chiamati con altro nome, ma questo è un discorso che ci porta più lontano. Nella moderna polis globale l’Ordine costruisce la sua legittimazione sull’esclusione dell’umanità multicolore che brulica all’interno oppure intorno alle frontiere e che compone quelle “vite di scarto” (come le ha chiamate un altro autorevole sociologo, Zygmunt Bauman) in perenne transito tra estraneità ed integrazione, discrezionalità e normazione, marginalità ed inclusione, che possiamo incontrare ogni giorno. Quella narrata da Aicha Bouabaci è una ordinaria storia di respingimento, dunque, neanche particolarmente drammatica, se consideriamo che è priva di particolari raccapriccianti come quelli contenuti nelle cronache di Ceuta, o di Lampedusa, o della Libia, quelle che descrivono corpi senza nome e senza storia alla deriva nel Mediterraneo. Non sempre è necessario indugiare su dettagli orrendi per ottenere attenzione e forse comprensione. A volte basta dare un nome a quei corpi e farsi voce narrante delle loro piccole storie di dolore. Come quella di Ibrahim, immigrato in Germania da diversi anni, di sua moglie Ibtissam, e del loro piccolo

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Ilyès. Ibrahim, avendo una famiglia da sostenere, sopporta con pazienza di vivere la condizione di tanti altri immigrati, paria nella città globale, con un lavoro precario e sottopagato, socialmente invisibile, facilmente ricattabile. Sennonché Ibrahim, nel suo passato di immigrato, ha commesso un errore: un’infrazione, un’impazienza di gioventù. Si trattasse di un cittadino legittimo, le Autorità sorvolerebbero, tanto più che Ibrahim è disposto a pagare il suo piccolo debito pur di vivere libero. Ma l’Ordine che è stato violato non dimentica ed è inflessibile nella punizione. La piccola famiglia deve andarsene, sconfitta, tornare là da dove era partita pensando ingenuamente di avere il diritto di scegliere il paese nel quale costruire il proprio futuro. Ma non partiranno soli: alla cerimonia dell’espulsione, su cui s’indugia con tenerezza minuziosa, li accompagneranno come in trionfo l’affetto e la solidarietà degli amici che restano dentro la frontiera e rappresentano quella “Umanità dolce” che si dà la mano “pour tisser le voile de la Renaissence”. Dalle pieghe di questa storia semplice Aicha estrae interrogativi e temi di riflessione stringenti anche per noi. A quale nazione appartiene il piccolo Ilyès nato da genitori immigrati in terra germanica? Quali sono i suoi diritti? Su quale passaporto può essere iscritto per avere un titolo di viaggio che gli consenta di attraversare le frontiere? E poi: che ne sa il piccolo Ilyès dei dispositivi di esclusione in cui è incappato alla nascita? E che ne sa di dotte disquisizioni, se sia meglio legare il riconoscimento della cittadinanza all’ancestrale concezione dello jus sanguinis oppure a quella territoriale dello jus soli, o se

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né l’una né l’altra siano più adeguate ai bisogni di una umanità mobile e plurale, com’è quella odierna delle migrazioni e della multiculturalità? Il gioco dell’inclusione/esclusione è davvero l’unico modo in cui si può costruire la comunità umana moderna? E chi stabilisce cos’è Ordine e che cosa Disordine? L’antica mitologia greca raccontava l’evoluzione dal Chaos primigenio – un vuoto oscuro prima del tempo – al Kosmos, che era invece ordine e armonia. Dall’eternità al tempo, dal vuoto alla Terra, agli astri, alle genealogie degli dei, degli eroi e degli uomini. Il passaggio è segnato dall’intervento di Zeus olimpico, dio intelligente e portatore d’ordine, il quale ingaggia una dura guerra contro i Titani, divinità primordiali dell’oscurità e della brutalità, che incarnano il disordine: sottomesse infine e relegate nel Tartaro, sono però sempre in agguato, costante minaccia di regresso allo stato di Chaos. Il mito greco è la metafora di una verità semplice: l’umanità ha bisogno di ordine. L’esistenza di regole la percepiamo come ordine e ci dà sicurezza; ciò che percepiamo come non conforme alle regole, è disordine e ci appare una minaccia. Pertanto l’Ordine coincide con il Bene, il Disordine con il Male. Così discorrevano anche le Muse di Platone. Ma la metafora mitologica ci racconta anche che per vincere le forze titaniche, Zeus dovette acquisire ed utilizzare una parte dei loro strumenti (il fulmine dei Ciclopi, per esempio). Forse vuole dirci con ciò che l’ordine non può imporsi se non accoglie al suo interno il seme del principio contrario. Insomma, ordine e disordine sono condizioni relative, non assolute. Tanto è vero che l’una definisce l’altra.

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Non potrebbe essere che ciò che viene percepito come ordine in un contesto, possa essere considerato disordine in un altro? Forse disordine è la condizione di un bambino che nasce in un paese nel quale i suoi genitori sono immigrati, ma non ha diritto di considerarsi cittadino di quel paese. Disordine può essere anche la condizione della famiglia di quel bambino, espulsa dal paese nel quale aveva cominciato a costruire onestamente il proprio futuro. E forse disordine sono i cittadini di quel paese che, davanti al clandestino immigrato senza diritti e senza voce, in vendita sul mercato nero di cose ed esseri umani, si ritraggono indifferenti o infastiditi perché non possono soffermarsi troppo a considerare il valore di persone che pagano quattro soldi per un servizio che loro non vogliono più fare. Disordine è la guerra permanente e preventiva dell’Occidente in nome della propria Sicurezza. Disordine è la fame causata dal mostruoso meccanismo di spreco, dilapidazione, distruzione di risorse sottratte al resto dell’umanità, su cui è cresciuto per secoli quest’ordine vertiginoso che è il modello occidentale che seduce e abbandona. E forse l’ordine plausibile per i prossimi secoli non potrà che essere la restituzione di una parte, almeno, della refurtiva. La percezione di ordine e disordine è determinata culturalmente, dunque. E chissà che, mentre l’ordine dentro la frontiera precipita vertiginosamente, ciò che è stato percepito precedentemente come disordine non appaia “benevolo”, alla fine. Alla fine, le cose potrebbero andare meglio, se alla definizione di un nuovo ordine potessero partecipare quelli

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che sono stati esclusi e si potesse proclamare la “sovranità di questa umanità variegata”, suggerisce Aicha. Ma ancora così non è. Anzi, dentro la frontiera si fa un gran polemizzare e se qualcuno propone per gli immigrati alcuni diritti di cittadinanza, come votare, ricevere assistenza sanitaria, costruire un edificio destinato al proprio culto religioso, è tutto un vociare sgangherato e arrogante. E allora Aicha con la sua scrittura naviga sopra i flutti del disordine mondiale tenendo la direzione caparbiamente contraria ai luoghi dell’indifferenza, dove regna l’ordine insensato, e “fissa sulla carta le immagini dell’insensatezza”, alla ricerca di un altro ordine possibile da narrare. Dalla sua posizione di migrante del tutto particolare (lasciare l’Algeria è stata per lei una “scelta imposta dall’urgenza”, in un momento tragico per il suo paese, ma non è un’emigrante né una rifugiata, nessuno le impedisce di tornare in patria e niente la obbliga a restarne lontana), può penetrare i sentimenti dei suoi conterranei magrebini e condividerne speranze e umiliazioni. Ma sa anche condividere i sentimenti dei fratelli e sorelle africani, medio-orientali, latino-americani, e di tutti coloro nei quali riconosce “la naturale gioia di vivere spesso smorzata da una nostalgia insidiosa”. E sa riconoscere l’Umanità dolce in ogni persona – il poliziotto che ha un attimo di resipiscenza al momento di eseguire il respingimento, le amiche di Ibtissam che facendo ala accompagnano all’aeroporto i “respinti”, la hostess che assume la sua quota di compassione prendendosi cura del loro bagaglio – ogni persona “che non è cieca, che è intelligente, gioiosa e premurosa e che può trovarsi davanti a qualsiasi porta”.

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“Sono sempre a disagio – ha scritto Aicha Bouabaci in un altro suo racconto – davanti alle frontiere: quelle che chiudono, maltrattano, sminuiscono. Come un ipnotizzatore, mi piacerebbe mettermi di fronte ad esse e abbassarle con uno sguardo. Uno solo. Potente”. Costruire lo sguardo che può. è ciò che ha cominciato a fare quella “Umanità dolce e perseverante” che scende nelle strade e con la sua arte implacabilmente smaschera il fallace ordine imperiale, con la sua musica svergogna il decrepito ordine patriarcale e canta il suo disprezzo verso i “cacciatori della libertà”. E caparbiamente li assedia con la narrazione delle sue storie diverse.

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A mio nipote Yazid A tutti coloro che amo A tutti gli esclusi del pianeta.

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La tenerezza è più forte della durezza, l’acqua è più forte della roccia, l’amore è più forte della violenza. Die Zärtlichkeit ist stärter als die Härte, das Wasser ist starker als der Fils, die Liebe ist starker als die Gewalt. Hermann Hesse, 1877-1962

L’Ordine non ama essere scrutato, frugato, messo a soqquadro, scosso… Semplicemente non ama essere disturbato; esso è come l’albero centenario che teme di essere abbattuto dal taglialegna ignorante; non sa il misero profano che la ricrescita è disperatamente lenta e attraversa più generazioni di umani? Chi rivedrà l’albero antico se non sfogliando i ricordi? Immagini fruscianti nei riflessi di luci illividite, quella dell’alba vivificante e quella del crepuscolo rigeneratore… L’Ordine non ama che s’insinuino le dita curiose attraverso le crepe delle sue giunture, cementate da anni, secoli, millenni… Da parte di uomini preoccupati di mantenere il loro potere e di trasmetterlo agli eredi meritevoli. L’Ordine non ha volto, territorio, altra nazionalità che la fredda rigidità delle cifre e delle lettere dalla stessa finalità: dissuadere gli eventuali parassiti, gli importuni ed ogni sorta di agitatori. Per apparire: l’Ordine sereno, l’Ordine onnisciente, l’Ordine sovrano. Chi potrebbe scuotere senza rischi l’edificio sa17


pientemente concepito? Sul frontone: L’Interesse Pubblico dagli ingranaggi dorati rivolge il suo sguardo d’acciaio sulla sua corte attenta… Kàn ya ma kàn fi qadim el zaman… C’era una volta... Yazid, piccolo mio, permettimi di raccontarti la storia triste di un bambino come te... All’inizio della sua storia, una vita serena e inondata d’amore. ***

28 Aprile 2000. Ilyès, un bambino, mediterraneo e due volte africano, vede la luce sul suolo tedesco, accolto dapprima dalla gioia commossa dei suoi concittadini tedeschi. Questa terra è anche la sua. Questa destinazione per lui è naturale e spontanea. Nessun decreto gliela ha imposta. Nel suo passato di feto, non conosceva altre frontiere che quella del Mondo che si stava aprendo per lui senza un visto, senza dover fare la fila davanti ad una cancelleria e senza diritti da pagare. Un’uscita ed un’entrata in tutta complicità con sua madre e la Natura. Nascita non è una parola vana. Né una brutta parola. è un trionfo. Una Festa. Ma chi oserebbe guastare questa festa? Si è pensato fosse necessario che questo piccino potesse fare la conoscenza della sua famiglia dispersa oltre le frontiere; gli occorreva quindi rapidamente un titolo di viaggio; un passaggio naturale consisteva dunque nel chiedere se Ilyès avesse diritto ad un passaporto tedesco. Nel nome dello jus soli e di tutti i santi dei tre Imperi ai quali apparteneva questo piccolo essere! Ma non eravamo in Francia qui: Ilyès non sa18


rebbe stato riconosciuto cittadino tedesco per il solo fatto di essere nato al Bürgerhospital di Francoforte sul Meno. Peccato, perché quella sembrava la soluzione più naturale, la più vicina. Ma non importava. Per l’altro legame naturale e più potente, quello che lo annodava al ventre di sua madre, i suoi genitori si rivolsero alla patria materna affinché il nome di questo neo-nato potesse essere aggiunto al nome della madre sul passaporto di quest’ultima. Senza tener conto della forza di un altro argomento: il bambino è certamente il figlio di sua madre ma è soprattutto il figlio di suo padre in virtù di quella legge inflessibile per cui due persone di nazionalità differente non possono coabitare nello stesso documento ufficiale, fossero anche la madre e il bambino appena nato! Restava da bussare alla porta del terzo Impero il cui battaglio era certamente il più pesante; ma occorreva prima far valere questa nascita in terra straniera e far riconoscere l’atto di nascita rilasciato dallo Standesamt.1 Il viaggio di questo leggero documento e la sua sostituzione con un altro, locale e sigillato stranamente con lo stesso emblematico timbro, durò a lungo, così a lungo che non poté terminare prima del terribile avvenimento che venne a declassare questa preoccupazione che si considerava meramente “amministrativa”.

25 ottobre 2000. Primo “accidente” nella vita di questo bebè le cui uniche manifestazioni si traducono

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Ufficio di stato civile in Germania (nda).

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in pianti, in strilli e in balbettii per esprimere il suo fastidio, la sua gioia, o la sua insoddisfazione. Nell’intimità. In tutta discrezione. Mai, egli ha disturbato l’ordine pubblico. Nessuno, d’altronde, l’accusa di questo delitto: il colpevole è suo padre, Ibrahim, giovane uomo di una trentina d’anni il cui solo crimine è di essersi “dimenticato” su un suolo che non era il suo, di esservisi acclimatato e di averci anche fondato un embrione di famiglia. «I vostri documenti!». Quest’ingiunzione non viene pronunciata per la prima volta: ritornello conosciuto da tutti quelli che hanno la pelle “colorata”, poco o molto; da tutti quelli il cui portamento non è ortodosso, purché non abbiano la nazionalità locale, d’origine; a questi la mano è tesa: essi hanno “peccato”, hanno “scroccato”, per esempio, ma suvvia, non li si umilia davanti ai passeggeri del S-Bahn2 o del U-Bahn,3 ci si mostra piuttosto indulgenti; ci si limita a riempire il formulario d’uso con un sorriso in omaggio! «I vostri documenti!». Glieli avevano già chiesti una prima volta dopo un controllo dei biglietti nella metro. Documenti trattenuti. Passaporto confiscato tre anni dopo. Per essere stato onesto… O ingenuo: spesso è la stessa cosa. Aveva incontrato la compagna tanto attesa che, lei, era in regola. E per creare una famiglia, bisogna essere in regola; di ciò ne era convinto. Allora? Da avvocato consigliato ad avvocato so-

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Treno interurbano di periferia (nda). Metro (nda).

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stituito – con il portafoglio ogni volta alleggerito ed una delusione in più – avevano fatto il loro giro legale. L’uomo di diritto del momento gli aveva tracciato un programma che doveva essere scrupolosamente seguito allo scopo di raggiungere il fine supremo: quel visto per una vita del tutto regolare per questo candidato senza macchia e irreprensibile. Prima tappa: la loro unione da registrare allo Standesamt. Seconda tappa: chiedere asilo politico, anche se ciò ripugna a tutto il suo essere, anche se la politica l’irrita al più alto grado, anche se l’interessato non ha alcun problema, né politico né giudiziario; non ha alcun problema con la morale; neppure con l’economia, il suo ambiente d’origine non è del tutto miserabile! Era partito su una barca… è così che cominciano i sogni! Lavorava: era ricco! Andando e venendo sui flutti familiari del Mediterraneo e più lontano ancora; amando teneramente sua madre e sua sorella che colmava di regali ad ognuno dei suoi scali. Ma era soprattutto ricco di sogni ed ebbro di libertà e di spazio. Un giorno, la barca è arrivata all’approdo; o sono i suoi sogni stanchi infine di aver rimestato tante parole e tanti slanci, tante impetuose visioni? Anche la terraferma ha le sue attrattive: la terra straniera da scoprire; quella che riposa, quella che meraviglia, quella che costringe gli occhi al risveglio; ma anche quella che scuote le coscienze vergini o assopite. Da quale mondo egli veniva? In quale mondo stava dunque per sbarcare? Questa terra germanica… Il popolo tedesco… La lingua tedesca… Tutto da vedere; tutto da conoscere! Non sentirsi più stretti su un solo pezzetto di terra!

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Come non ricordare le parole dei grandi poeti arabi, fieri Signori dell’amore e della libertà! Abu al ’Ala al Ma’ari4 esprimeva il suo stupore davanti a colui che viveva nella casa dell’umiliazione mentre la terra di Allah è di un’immensità infinita. Dopo la prima euforia per il transito di una prima frontiera troppo conosciuta, e il superamento di quella immaginata dell’agiatezza e del progresso, l’incontro con i suoi compatrioti per farsi coraggio, per riconoscere e ritrovare, insieme, i sogni forgiati separatamente! Guardi con occhi pieni di lacrime i poveri emigranti Credono in Dio, pregano, le donne allattano i bambini Riempiono del loro odore l’atrio della Gare Saint-Lazare Hanno fede nella loro stella come i re-magi Sperano di guadagnare denaro in Argentina E ritornare nei loro paesi dopo aver fatto fortuna Una famiglia trasporta un piumino rosso Come voi trasportate il vostro cuore Questo piumino e anche i nostri sogni sono irreali.5 Ma bisogna vivere; bisogna mangiare; e i sognatori diventano degli indifesi! Come lavorare, infatti, se non si ha il riconoscimento alato?6 Da luogo di fratellanza a luogo di condivisione di una corvé scandalosamente remunerata, lui ed i suoi

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Filosofo, poeta e scrittore arabo dell’XI sec. (ndr). Guillaume Apollinaire, Zones in “Alcools”, Gallimard (nda). Allusione all’aquila che simboleggia lo Stato tedesco (ndr).

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simili si fanno strada nell’illegalità. L’illegalità del soggiorno; ma è troppo tardi per tirarsi indietro! I legami sono intrecciati e il ritorno al paese delle vite spente, senza aver acchiappato neanche uno dei sogni, non incanta più nessuno. I giorni si susseguono nella fretta e nell’inattesa cupezza. Gesti concitati per sopravvivere. E questa nostalgia che rode, presa tra il sorriso tremolante del dolce viso della madre. Immagine-forza che frena l’uomo dall’onda del pianto. Il telefono, questo caro e oneroso complice di tutti gli esuli, rompe per un po’ tutte le frontiere. La voce amata e le sue formule ripetute d’affetto inquieto. «Come stai piccolo mio? Quando tornerai da noi?»… Spazi di silenzi annodati e parole volubili per nascondere le parole vere di una vita, che non avrebbe dovuto essere la sua, e i mali di tutti i giorni. Giorni striati d’angosciante incertezza. E notti di glaciale solitudine, a casa di uno o dell’altro amico di miglior fortuna. Dimenticherà mai questi lunghi e miserabili giorni occupati a trasportare i grossi blocchi di pietra sulle sue fragili – ma tuttavia resistenti – spalle, in quei cantieri occasionali comandati da uomini senza fede che, forti della loro nazionalità e della regolarità del loro status, prendono in ostaggio i salari di tutti questi uomini che l’urgenza trasforma in paria? Ma il lavoro forsennato non è più un attributo della virilità?... Quante volte il salario, “poggiato” sul conto bancario di un compagno “regolare”, era stato rosicchiato dei due terzi, della metà? La rabbia, ogni volta era troppo forte per non reagire! Ma come? Chiamare subito quell’imprenditore disonesto al telefono – gli aveva pur dato il numero per raggiungerlo – ma

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per questo tipo di questioni non c’era mai, o meglio si sottraeva con delle promesse e degli appuntamenti improbabili per il saldo della paga. Non aveva commesso l’errore di farsi “intrappolare” un giorno recandosi ad uno di quegli appuntamenti che pensava di aver ottenuto con troppa facilità! Gli era venuto un presentimento: si era allora nascosto dietro un pilastro, davanti ad un negozio, per spiare la persona in questione. Ma in vece sua c’era proprio un poliziotto in uniforme, venuto su denuncia! Non bisognava più contare su questi crediti; i passati e quelli a venire. Non rimaneva da fare altro che mettersi a cercare un nuovo impiego. Dall’edilizia alla pulizia degli uffici, passando per la ristorazione, la sua naturale professione, appresa con diploma nel suo paese. Ma qui, non era il caso di rivendicare il suo autentico status: doveva accontentarsi di ruoli d’aiutante, addirittura di sotto-aiutante cuoco, mentre ricette di sua creazione cantavano nella sua testa! Ma doveva accettare tutto: una paga di dieci marchi l’ora, essere pagato regolarmente in ritardo e lasciare ogni volta, su richiesta, la tangente al capo. Eccola la pretesa suprema dell’ultimo in ordine di tempo: eppure era lui stesso un “anziano” che aveva avuto l’intelligenza di unirsi ad una autoctona. Uno della sua stessa regione, della stessa cultura! Ma senza dubbio era stato colpito da amnesia! E allora si comportava come voleva, come poteva, poiché nessuna “frontiera Schengen” vi si opponeva (come se il numero delle frontiere non fosse sufficiente, era necessario crearne un’altra, forte della forza di tutte le altre). Tutte le sue mansioni, in effetti venivano “dal basso”, in quei territori dove si giocava

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spietatamente con la vita degli uomini; dove la fame lo contendeva alla corruzione; dove la violenza rifiutava di cedere il passo alla ragione; dove, per quanto giovane, non faceva una buona vita. Li vedevo ogni giorno, i miei giovani compatrioti, solcare con spensieratezza e senza discrezione la Zeil, l’immensa via pedonale del centro di Francoforte sul Meno, ed ero divisa tra la tenerezza che mi ispiravano quei giovani sacrificati e il disagio che suscitava in me il comportamento deviante di alcuni di loro. L’esilio economico era cominciato per loro; centinaia di giovani algerini attirati dalla forza del marco tedesco e dalla vita confortevole e tranquilla dell’Europa, si sono riversati qui. Che illusione! Li vediamo spesso, jeans e giubbotti di cuoio, sempre elegantemente agghindati, in due, tre o quattro, conversare rumorosamente spavaldi; come se volessero convincersi – e convincere gli altri – che qui sono a casa. Autodifesa comprensibile: fa così freddo qui! Alcune volte ho assistito a delle transazioni nelle stazioni della metro (Hautbanhof, Hauptwache, Konstabelwache e Galluswarte): due mani che si tendono per passarsi qualche cosa, con un movimento che si vorrebbe discreto; parole a volte slegate, a volte veementi; il denaro; contrattazioni; qualche volta l’accordo vince: dieci marchi, in arabo algerino. Ho seguito altre scene in cui si distingueva l’arabo marocchino, scene nelle quali si mischiava la violenza. Spesso avevo voglia di prendere questi giovani fratelli, questi ragazzi per le spalle e chiedere loro: «Perché?» Ma che diritto avevo di dirgli: «Tornate a casa!» Che cosa si offriva loro a casa? Erano giovani e la giovinezza è sinonimo di vita; e laggiù, nel nostro paese,

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