traversamenti
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collana diretta da Anna Chiriatti
Traversamenti sono incontri di creature, di pensieri, di luoghi, di storie, passioni, percorsi, progetti, memorie. Traversamenti sono narrazioni di esperienze, avventure, nostalgie, desideri, partenze. Ritorni. Di fughe e di sogni a occhi aperti. Sentimenti e incanti di realtĂ . Sono movimenti obliqui, in bilico sugli argini di cronaca e racconto. Indagano differenze. Scrutano orizzonti. Scavano le rocce. Scandagliano i fondali. Traversamenti sono interrogazioni del tempo, sconfinamenti di spazi, oltrepassamenti di frontiere. Pietre di fionda che frantumano vetri. Sono tensioni di futuro. Traversamenti.
Fulvio Colucci Giuse Alemanno
Invisibili
Vivere e morire all’Ilva di Taranto Introduzione di Lino Patruno
Edizioni Kurumuny Sede legale Via Palermo 13 – 73021 Calimera (Le) Sede operativa Via San Pantaleo 12 – 73020 Martignano (Le) Tel e Fax 0832 801528 www.kurumuny.it • info@kurumuny.it ISBN 978-88-95161-48-8 In copertina e all’interno illustrazioni di Christian Imbriani. imbriani_christian@hotmail.it I brani presenti in questo volume sono stati scritti tra il 2007 e il 2010.
© Edizioni Kurumuny – 2011
Questo libro è dedicato a tutte le vittime dell’Ilva di Taranto
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Introduzione di Lino Patruno Fulvio Colucci
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Ilva Confessione Angelo Epilogo La città non dimentichi Si chiamava Antonio Il funerale Il dio degli operai La favola del metalmezzadro Intervista a Nino Aurora Pescatore e operaio Bambini Giuse Alemanno
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Ilva si comincia L’Ilva non esiste L’Ilva e Antonio Il vuoto Il silenzio dell’Ilva Cinquant’anni d’acciaio Racconto di Ferragosto
Introduzione Lino Patruno
Sono stato una sola volta nell’Ilva di Taranto, da giornalista. Ricordo che quando ne uscii luccicavo tutto come un albero di Natale: mi dissero che non era polvere di stelle, ma polvere di ferro. Andando in giro nell’immane perdimento di strade e reparti e strutture minacciose, mi prese una strana inquietudine. E mi vidi e sentii sempre avvolto da una nuvolaglia che ti inghiotte e che inghiotti. Quindi posso almeno superficialmente capire il racconto che ne fanno Fulvio Colucci da cronista e Giuse Alemanno da lavoratore. E quanto alle tute, ne so qualcosa di quegli odori e colori essendo io figlio di operaio e avendone viste sgocciolare inchiostro e fatica. Non sapevo tutto il resto, ciò che non si vede perché è custodito nell’animo di chi ogni giorno là dentro si guadagna la vita consumandosela. Perché questo è il principale pregio del loro Invisibili, la narrazione di un’umanità divisa fra la necessità e il rifiuto, la psicologia di chi ogni giorno varca quei cancelli aspettando il momento di uscirne, il malessere di chi sa che non può farne a meno pur essendone sempre tentato, l’incubo della notizia drammatica che un giorno potrà riguardare te ma che anche per questa volta non ti riguarda. Perché si fa presto a dire che l’Ilva è, come siamo abituati a sentirne parlare, il mostro che erutta fuoco e veleni, l’allucinazione di tentacoli che sembrano artigliare la città, lo spettrale scenario arrossato, l’immagine futurista di un pianeta di Avatar che un giorno ci divorerà tutti nell’apocalisse di ciò che resta dell’unica Terra che avevamo e non abbiamo sa-
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puto difendere. L’Ilva non è soltanto il peggiore o il migliore romanzo di fantascienza o il peggiore o migliore film della catastrofe. L’Ilva è anche volti stanchi, epopea di pendolari, famiglie e figli, doveri e rancori, solidarietà e silenzi, verità e menzogne. L’Ilva è carne viva, metafora di una condizione universale, piccolo spaccato di mondo. Una fabbrica non soltanto di acciaio ma di storia e storie. La ricordiamo, quando si chiamava Italsider e la mandarono in Puglia perché fosse uno tra i capisaldi dello sviluppo del Sud, fiore all’occhiello della Cassa per il Mezzogiorno. Il grande stabilimento che non doveva cambiare soltanto un’economia ma addirittura una antropologia. Doveva far nascere il metalmeccanico dove c’era stato sempre il contadino, doveva introdurre l’industria come il tempio profetico di un uomo nuovo da creare, di una religione da diffondere e di un tempo diverso da inventare, doveva riscattare la campagna da un passato da dimenticare e proiettarla in un futuro da santificare. Ciminiere da «magnifiche sorti e progressive». Di quel sogno, o di quell’illusione, o di quell’inganno, di quei grandi stabilimenti è rimasta appunto soltanto l’Italsider anzi l’Ilva. E anche il cambio del nome, al di là del passaggio dalla proprietà pubblica a quella privata, segna una sorta di cesura verso scelte politiche simbolo di una stagione, emblema di una ennesima occasione perduta per le aspettative del Sud. Sono finite in macerie ancora da bonificare tutte le altre cosiddette industrie di base, dalla chimica al petrolio. Quelle che avrebbero dovuto creare una tradizione produttiva dove non c’era mai stata anzi era stata cancellata. Quelle che avrebbero dovuto creare un indotto che nel trionfalismo dei progetti si sarebbe dovuto allargare a macchia d’olio. Quelle che innalzando ciminiere al cielo avrebbero dovuto farne scendere la benedizione.
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Nell’eterogenesi dei fini, cattedrali sono diventate, ma cattedrali nel deserto. Anzi è rimasto il deserto e sono sparite le cattedrali. I metalmeccanici restarono al massimo metal-mezzadri, metà in fabbrica metà nei campi, una perdita di identità che in verità non ne faceva più né metal né mezzadri, né operai né contadini. E lo sviluppo auto-propulsivo che centinaia di convegni avevano promesso e contrabbandato non ebbe mai l’attesa forza di propulsione con quella strategia non si sa quanto troppo fiduciosamente e quanto troppo dolosamente affidata a impianti inquinanti, ingombranti, devastanti. Impianti ad alta intensità di capitale e a bassa intensità lavorativa: insomma una quantità irrisoria di lavoro rispetto all’impiego di risorse, il contrario di quanto al Mezzogiorno serviva e di cui tutti sapevano. Con prodotti intermedi come l’acciaio, la chimica o il petrolio che erano semilavorati per la solita industria del Nord dove diventavano prodotti finiti con annesso profitto che rimaneva lì invece che al Sud. Una beffa. Perciò la salvezza solitaria dell’Ilva in un panorama meridionale in cui neanche Bagnoli ha resistito, il passaggio dall’inefficienza pubblica all’efficienza privata è avvenuto con un peccato capitale addosso. Quello che anzitutto fa di Taranto una fra le città più inquinate d’Italia. Col cielo più plumbeo del Mediterraneo. Con l’adiacente quartiere dei Tamburi, paradossalmente nato come quartiere operaio, sempre sommerso di polvere rossa. Con la denuncia di un numero insostenibile di malattie ambientali, a cominciare dai tumori. Con la continua lotta alla diossina e una lunghissima battaglia legale e politica. Ma la salvezza solitaria dell’Ilva si staglia anche in un panorama umano che, lungi dal creare il progettato uomo nuovo, ha sgominato la mitica classe operaia. L’ha sgomi-
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nata al punto che, come dicono Colucci e Alemanno, ci sono stati casi di scioperi ai quali i padri hanno aderito mentre i figli sono andati a lavorare per conservare il posto: mito addio, è l’ora del bisogno. Dallo scontro di classe allo scontro familiare. Dall’«orgoglio siderurgico» a qualcosa «da chiudere dietro la porta di casa a fine turno». Figli contro padri, sembra il titolo di uno dei film di questi tempi. Padri, aggiungono i due autori in fulminante tono impressionistico, che bloccavano la fabbrica per un’inezia, che avevano un linguaggio incendiario nelle assemblee, che passavano il tempo libero nelle sezioni del Pci col «Manifesto» sotto il braccio. E figli che preferiscono la partita di calcio al dibattito politico (anzi al «dibbattito», come si diceva), frequentano gli ipermercati invece delle sezioni, privilegiano il microonde al Capitale di Marx, hanno il torneo aziendale come coscienza di classe. Figli che, soprattutto, sognano la divisa da carabiniere per andar via di lì. Pur restandone aggrappati con una frustrazione e un addio alle armi che i loro padri non avevano mai vissuto. Una de-sindacalizzazione nel luogo in cui il proprietario Emilio Riva è stato condannato per mobbing a danno di sindacalisti confinati nell’inattività di una palazzina-lager. Anche per questo stenta a ingranare il progetto tanto estremo quanto paradossale di chi si batte per un referendum a favore della chiusura totale dell’Ilva o almeno della sua area a caldo, una chiusura totale camuffata. Una situazione in cui ci sono già stati esodi incentivati di un migliaio di dipendenti sui 13 mila del più grande stabilimento d’Italia e più grande stabilimento siderurgico d’Europa. In cui il ricorso alla cassa integrazione è pressoché continuo e fraziona, divide, spezza la solidarietà. E in cui i massicci investimenti hanno portato solo qualche anno fa a una pro-
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duzione record che la crisi mondiale ha reso ormai un ricordo, anche se i numeri ricominciano faticosamente a salire. Perdereste il lavoro per una coscienza di classe? Per fortuna da un paio di anni lì dentro non si perde più la vita, non ci sono stati ulteriori incidenti mortali per i lavoratori dipendenti. Hanno inciso, inutile nasconderlo, il calo della produzione e la cassa integrazione. Ma anche le misure di sicurezza aziendali, i controlli, le verifiche. Con la regola non detta di «tenere gli occhi aperti, sempre gli occhi aperti», di «guardare sempre la gru, mai darle le spalle». C’è però ancora molto da fare verso certi comportamenti individuali troppo superficiali e disinvolti, verso la «maledetta fretta». C’è però ancora molto da fare per il lavoro in appalto, con le aziende dell’indotto non altrettanto corazzate in queste vitali attenzioni, in grave crisi con la perdita di 5 mila posti di lavoro e la chiusura di molte di loro, troppe. E tuttavia dal 1993, ultimo periodo di gestione statale, gli incidenti mortali sono stati una quarantina, prezzo comunque insopportabilmente alto pagato a un lavoro per vivere e non per morire. Con lentezza dei processi e pene giudicate troppo miti. E sempre «la paura boia di non tornare a casa»: perché, dicono Colucci e Alemanno, «come si fa a spiegare a un bambino che non rivedrà più suo padre solo perché è andato a lavorare»? Questo mio secondo viaggio nell’Ilva attraverso le pagine di un libro mi lascia ancora la loro polvere ovunque «come una estrema unzione». Mi lascia il calore di là dentro, con le loro tute come pesanti corazze. Mi lascia il rumore, «continuo, persistente, fisico». Mi lascia lo scoppio della ghisa liquida che prende fuoco, «una bomba che fa tremare tutto in un raggio di sei chilometri, e ti stordisce, ti afferra, ti svuota». Mi lascia il loro incubo di dover lavorare affron-
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tando la notte, il freddo, la paura del primo turno. Ma mi lascia anche il rapporto difficile della sua gente con la città, tacciata di essere presente solo ipocriticamente ai funerali. E mi lascia la loro sensazione di essere al lavoro «solo con il corpo», invisibili. Di ragazzi attirati solo «da miti balordi di successo, denaro facile e puttanizio» perché «ora c’è più ricchezza ma siamo uomini persi». I bambini di Taranto si sono messi a marciare armati di matite e colori per disegnare un arcobaleno di speranza dove la gioia sembra essere smarrita, per scrivere lettere: «Vorrei che l’Ilva diventasse un parco giochi con i fiori che spuntano nell’erba». E c’è chi continua a parlare di «ricatto occupazionale», o così o niente. Ma ho trovato infine in questo libro di Fulvio Colucci e Giuse Alemanno una definizione dell’Ilva come «monumento del lavoro del Sud». È ciò che mi ha lasciato più convinto. E su cui, nonostante tutto, pianto anche la mia bandiera.
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Ilva
«Facciamo gli operai, ma sogniamo la divisa da carabiniere. La speranza? Andare via, lontano da qui». A Taranto le tute blu dell’Ilva hanno cambiato pelle prima che altrove. La globalizzazione è anzitutto il tempo che non c’è più: per discutere, conoscere, tracciare una linea di demarcazione intorno alla propria identità. La generazione dei Cipputi è scomparsa con l’avvento della privatizzazione dello stabilimento siderurgico, a metà degli anni ’90. Uno svecchiamento rapido e progressivo. La morte del metalmezzadro, la nascita dell’operaio-massa: senza volto, senza nome, senza qualità. Lontano mille miglia dal padre che bloccava la fabbrica per un’inezia, che alle assemblee interveniva con parole di fuoco e la sera ciondolava nelle sezioni del PCI con la copia del «Manifesto» sotto il braccio. Un sondaggio, qualche anno fa, ha rivelato non solo che la divisa da carabiniere è il sogno, ma che i giovani operai preferiscono la partita di calcetto al dibattito politico, gli ipermercati agli incontri nelle sezioni, il forno a microonde al Capitale di Carlo Marx. Il torneo aziendale come coscienza di classe. Tutti in trincea, quando uno di loro cade divorato dal solito incidente, quando è un martello in testa a ucciderli con la fredda, feroce, precisione di un cecchino; o quando, allo scoperto, magari per verificare il maledettissimo fine corsa, ci pensa un tubo a tran-
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ciarli in due con la furia di una cannonata, allora è l’urlo del silenzio a parlare per quelli dell’Ilva. «L’infortunio mortale – raccontano – è come il mare. Non fa differenza tra la tempesta e una bella giornata di sole. Ti prende e ti porta via con sé». I ragazzi d’acciaio non ridono. Sorridono semmai, di un sorriso acerbo, enigmatico. Basta guardare le fototessera dei loro compagni morti. Quando il cadavere di un compagno giace all’obitorio, ammesso che si cerchino parole, è più facile trovare la rabbia. Più difficile vincere la diffidenza e chiedere di capire un giorno qualsiasi, un giorno come tanti, stretto fra la routine del normalista – ingresso in fabbrica poco prima delle sette, uscita alle 16 – e l’ottovolante dei turnisti che corre, vorticoso, lungo un arco diviso in tre spicchi di otto ore con la notte in mezzo e la paura boia di non tornare a casa. Sembra una banalità elencare i turni all’Ilva. Invece è una contabilità preziosa. Perché dietro i numeri ci sono uomini, vite, racconti di carne e sangue, storie di piccole e grandi meschinità, ma anche di gesti solidali rubati al fuoco e alla polvere. Perché normalisti e turnisti vivono vite parallele. Perché per alcuni la normalità dalle 7 alle 16 è una conquista più grande, addirittura, dei mille e settanta euro in busta paga alla fine del mese. Perché «c’è chi fa il deejay o il pizzaiolo e arrotonda, allora il turno gli fa comodo. Tutti devono sapere». Soprattutto chi chiude gli occhi, chi non parla, chi guarda altrove, chi fa finta di niente, immaginando solo un buco nero dove le ciminiere pungono il cielo.
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All’Ilva non c’è tempo per discutere. Le priorità restano la sicurezza sul lavoro, il dialogo tra proprietà e dipendenti, le relazioni stesse fra operai e sindacati, il rapporto tra fabbrica e città. Il modello fordista qui è tramontato prima che nel resto del Paese. Taranto aveva ipotecato il futuro legando i suoi destini economici (e sociali) alla produzione dell’acciaio. La centralità delle tute blu, la loro forza contrattuale e di interdizione, sono solo un ricordo sbiadito. Tutto è nato nella seconda metà degli anni ’90, con la privatizzazione, l’avvento del gruppo Riva, lo sconvolgimento delle relazioni industriali. Il padrone fischiò la fine della ricreazione; insostenibile la posizione dei sindacati perché inconciliabile con la ristrutturazione globalizzante del mercato. Tramontava il loro dominio all’interno dello stabilimento, un dominio in splendida solitudine, generato dalle Partecipazioni Statali. Conquistata progressivamente, a partire dagli anni ’60 e ’70, l’egemonia sindacale era diventata orgoglio siderurgico, influenzando anche culturalmente la città. «Oggi non è più così – spiegano i giovani lavoratori dell’Ilva – e quando i sindacati cantano vittoria, parlando di massicce percentuali di adesione agli scioperi, bisognerebbe guardare ai numeri con realismo. A scioperare sono in pochi». «Potremmo star qui a raccontare per ore, ma solo chi fa il nostro lavoro ci capisce!». Giurare e spergiurare che si manterrà l’anonimato, tentando di spiegare in maniera almeno netta quel che prova un ragazzo dell’Ilva serve a poco. La diffidenza nei con-
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fronti di chi non è come loro, di chi non è uno di loro, sembra un marchio a fuoco. Te la senti addosso, indelebile, sulla pelle. Eppure aiutarli, aiutare quei ragazzi, significa, in qualche modo, dar loro voce con tutte le imperfezioni e i limiti di un racconto. Usando quelle maledettissime parole che, proprio quando una vita si spezza, sembrano ancor più false nella loro diabolica carica seduttiva. «Ci sentiamo abbandonati. La città? È lontana. Un miraggio, oltre il mare. Il sindaco, in Consiglio comunale, ha detto che indossa la tuta da operaio. Ma l’ha mai visto un treno nastri? E le cokerie? Dovrebbe stare un giorno con noi. Dentro lo stabilimento siderurgico. Senza preavviso. Senza squilli di fanfare. Dovrebbe presentarsi ai cancelli della fabbrica, entrare, indossare il casco, la tuta pesante che quando fa caldo è peggio di una tortura. E lavorare. Correre, timbrando sei volte il cartellino con il timore di far tardi, sentendo tutto il peso del tempo che è un tiranno crudele; conoscere noi, le nostre ansie, le mogli appese al filo della TV, la paura di ascoltare – da un momento all’altro, da un giorno all’altro – la notizia: incidente mortale all’Ilva. E un nome, un cognome, che non vorrebbero mai sentire così». Riva ha modificato profondamente le relazioni sindacali: imponendo a Fim, Fiom e Uilm una trattativa estenuante sulla riscrittura dei rapporti per contenere la loro influenza in fabbrica. Una rivoluzione. Senza temere di arrivare a punte di scontro drammatiche come nel caso della palazzina Laf, il reparto confino o reparto
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lager, dove sono stati spediti, alla fine degli anni ’90, i sindacalisti riottosi al nuovo corso. E poi l’eterna debolezza del Mezzogiorno: il lavoro. Riva ha puntato su questo, giocando una carta importante in coincidenza con la ristrutturazione dello stabilimento di Taranto: l’assunzione dei figli dei dipendenti in prepensionamento. All’Ilva il ricambio generazionale è coinciso con uno scontro tra vecchi e giovani. I ventenni e trentenni immessi nel ciclo produttivo, desindacalizzati attraverso una paziente attività di persuasione aziendale e aggrappati al posto come unica risorsa per la sopravvivenza, sono inevitabilmente finiti in rotta di collisione con gli operai sopravvissuti alla rivoluzione in fabbrica: gli ultimi giapponesi nella giungla per i quali il sindacato era, ancora, l’estremo baluardo, lo scudo contro il nuovo padrone. Ci sono stati scioperi, alla fine degli anni ’90, durante i quali non era raro vedere padri che non andavano al lavoro e figli che invece entravano in fabbrica per non rischiare il licenziamento. Non era raro assistere a episodi di tensione: lo scontro di classe trasformato in conflitto tra padri e figli. La nuova questione sociale già sotto gli occhi attoniti di una città prima che diventasse emergenza nel Paese. Frequente vedere padri che scioperavano, accompagnando i figli al lavoro in una biblica confusione dei ruoli tra Abramo e Isacco. Chi si disponeva al sacrificio? Ai ragazzi dell’Ilva l’azienda appare un’entità vicina, vicinissima, eppure astratta. C’è, vede tutto, organizza tutto: dalle mansioni ai budget di reparto per incentivare il lavoro, fino ai tornei di calcetto; prova
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persino ad alimentare lo spirito di corpo premiando sensibilità spiccate verso la fabbrica e record di produttività; e a fine anno ci sono buoni acquisto per i più meritevoli: dal vestiario ai momenti di svago in discoteca. Ma a furia di finire sui giornali e in TV – tra inquinamento e morti bianche – l’Ilva sembra diventare altro. In questo contesto si acuisce, anche psicologicamente, il solco tra lavoro e produzione, ma si alimenta anche lo strappo avvertito dagli operai rispetto alla città. Mai un giovane lavoratore si lamenterà perché l’azienda infrange le regole, anzi: «A disposizione – raccontano – c’è tutto quello che la legge prevede dal punto di vista della sicurezza personale: dal casco, alla tuta, ai guanti». I ragazzi d’acciaio citeranno, piuttosto, i giornali, spiegando che tutti additano l’Ilva per nascondere le proprie colpe. «Si sprecano i titoli sul gigante malato; tutti parlano di morti bianche e ambiente. Tutti dicono che bisogna rivedere gli accordi per la lotta all’inquinamento e per la sicurezza sul lavoro salvo poi lasciarci soli a piangere il prossimo compagno morto sul lavoro». Ecco il punto. Oggi i ragazzi dell’Ilva non hanno più riferimenti. Verso i sindacati c’è diffidenza a meno che non si sia dentro il meccanismo delle deleghe e della rappresentanza. Un club esclusivo. «Ma quello delle tessere di iscrizione – dicono – è un gioco, un Risiko. Ci sarebbero i Cobas, sì. Quelli lo stabilimento lo bloccherebbero, ma sono quattro gatti». Così la politica, con le parole, le promesse, e l’impotenza verso il ricatto oc-
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cupazionale. I limiti dell’azione dei soggetti istituzionali, che incarnavano gli interlocutori privilegiati delle tute blu, si scontano soprattutto sul terreno accidentato e doloroso della sicurezza. I ragazzi dell’Ilva non parlano. Hanno paura, chiedono, a giornali e TV, l’anonimato. Sanno che rischiare il posto è più pericoloso, in una realtà depressa e dissestata come Taranto, di un tubo che trancia in due o di un martello che dal carroponte viene giù come un proiettile. Eppure la voglia di dire qualcosa c’è. Raccontare i propri sogni: «Timbriamo il cartellino un numero infinito di volte, corriamo sempre da un reparto all’altro. Da un giorno all’altro possiamo trovarci a svolgere mansioni diverse. L’ambizione? Lavorare evitando la notte, il freddo e la paura». A casa ci sono mogli, madri, figli molto piccoli che aspettano. Ma questi giovani spesso sono costretti a tener dentro le paure: «A casa della fabbrica non parliamo, per parlare di cosa poi? I dialoghi, anche con i compagni di lavoro, sono una via di fuga. Un altrove che ci piacerebbe raggiungere in fretta, esiste: via dalla fabbrica alla fine della giornata lavorativa. Il pensiero è fisso perché sappiamo di non avere la forza di cambiare le cose. Chi pensa, tra noi, è in minoranza». Non manca l’atto d’accusa verso se stessi: «Generazione dei telefonini e delle fuoriserie acquistate senza aver nemmeno ricevuto la prima busta paga. Così ti sei già indebitato fino al collo. Generazione che riesce a raccogliere tremila firme per avere più tempo durante la pausa pranzo in fabbrica, ma
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poi non riesce a imporre le proprie rivendicazioni per debolezza e conformismo». Generazione che non ha saputo governare – per colpa di una città assente; per colpa del deficit di rappresentatività della politica e del sindacato – la quasi schizofrenica divaricazione tra l’Ilva che rispetta le norme e l’Ilva che finisce sui giornali additata come il mostro che sputa veleno inquinando e divora le vite dei lavoratori sacrificate sull’altare degli incidenti in fabbrica. L’Ilva che organizza la vita. L’Ilva che dovrebbero venire a conoscere i politici. Passassero un giorno in fabbrica capirebbero perché città e stabilimento sono separati in casa. L’orgoglio siderurgico dei padri è sepolto per sempre. L’Ilva era pubblica, si chiamava Italsider, e i nostri Cipputi si permettevano il lusso di studiare, formarsi sul ciclo di produzione dell’acciaio, farne un tutt’uno con i concerti di Giorgio Gaber al circolo Italsider o con le biblioteche popolari, stimolati dal genio incompreso di Peppino Francobandiera. Certo, c’era il Partito (comunista). E c’erano i sindacati. Ora l’Ilva è qualcosa da chiudere dietro la porta di casa a fine turno, facendo calare il silenzio. «Non parliamo. A casa non parliamo mai di lavoro perché dialogare non è facile. E dialogare con chi poi? Tanti di noi avrebbero sognato di fare il carabiniere. Essere fuori, essere altrove. Di questo parliamo sì; oppure lo pensiamo e ce lo teniamo dentro. Perché parlare può far male». Nel finale di trama s’intrecciano interrogativi inquietanti più delle morti bianche, più del solco fra uomo e fabbrica, più del ricatto occupazionale, più del
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nero che colora la paura e la polvere, quanta polvere, tanta polvere. Cumuli e cumuli, che impregnano le ossa, disegnando paesaggi lunari. I sindacati e la politica dove sono? Nei comunicati stampa post mortem dopo il solito incidente? Nel Risiko delle tessere d’iscrizione o nella tombola delle adesioni agli scioperi? Perché lasciano l’iniziativa al drammatico altrove, fatto di silenzi e rifiuti, in cui si barricano i ragazzi dell’Ilva? A politica e sindacati tocca andare controcorrente per riavvicinare fabbrica, lavoratori e città nel segno della sicurezza e del rispetto dell’ambiente. Attraverso un riconoscimento vero, effettivo, non formale, delle posizioni reciproche. Qui non ci sono intese da sottoscrivere, né rendite di posizione da difendere, ma solo vite da salvare. Nei giorni di sole, dal muro di cinta del contestatissimo parco minerali, che corrode la città con le sue polveri inquinanti, sale un piccolo arcobaleno. «È lo spirito dei nostri compagni morti sul lavoro», ha scritto un giovane operaio in una poesia. All’Ilva non c’è tempo per discutere di vivi e di morti. «Quell’arcobaleno – spiegano i ragazzi citando i versi – è l’alito, la brezza, il respiro, di chi non c’è più». Una divinità, forse. Forse un demone. Al quale smettere di offrire sacrifici.
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Cinquanta anni d’acciaio
Chissà come si chiamava il colatore che vide cadere dalla siviera il primo zampillo incandescente dell’acciaio dell’Ilva di Taranto. Le ricorrenze, quando non sono esibizioni da Tartufo, sono utili a fare il punto della situazione: da dove si è partiti, dove si è, dove si vuole arrivare. I cinquanta anni dell’Ilva di Taranto offrono agli analisti del settore, e ai tuttologi in servizio permanente effettivo del territorio, l’occasione di dare risposte. Chi, come colui che scrive, in quella azienda lavora, più che prendere atto della data fatale non deve e, pragmatico come solo un metalmeccanico sa essere, può solo augurarsi che la solidità proveniente da una età più che matura scongiuri in modo definitivo le negatività che investono il settore dell’acciaio da troppo tempo. Ma il pensiero ritorna a quell’anonimo colatore di cinquanta anni fa, e a tutte le migliaia e migliaia di lavoratori che, nel tempo, sono stati dipendenti prima dell’Italsider poi dell’Ilva. Bisognerebbe chiedere anche a loro cosa pensano dei cinquanta anni dello stabilimento nel quale hanno passato tanta parte della loro vita perché, e credo sia giusto si ribadisca, senza i lavoratori acciaio non se ne produce, né una tonnellata, né un chilo, né un grammo. E quando sui media riecheggiano le parole “centralità del lavoro” si
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dovrebbe costantemente avere presente che il lavoro non è una astrazione, è – invece – prodotto peculiare dell’umanità, magari nobile, volendo. Quindi i cinquanta anni dell’Ilva sono interpretabili come una ricorrenza del lavoro, argomento spinoso per questi tempi grigi, ma al quale bisogna dedicare ogni sforzo e ogni energia positiva per venir fuori, tutti insieme, dalle sabbie mobili di una crisi che ci sta estenuando e inghiottendo. Ritengo indecente un governo che si areni davanti alla legge sulle intercettazioni e non sappia esprimere prontezza, qualità e quantità a favore del mondo del lavoro. Nelle feste di compleanno la conclusione è dedicata alla torta e agli auguri. Però, sapete com’è, io in Ilva ci lavoro e non mi va di essere tacciato come servo del padrone: non lo sono mai stato e non appartiene alla storia della mia vita, quindi per me niente torta ma gli auguri, quelli sì, raggiungano sinceri tutti coloro che hanno fatto, sia ora sia negli anni passati, dell’Ilva un monumento del lavoro del Sud.
Pubblicato dalla «Gazzetta del Mezzogiorno» il 10.04.2010
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