CICI CAFARO IO SCRIVO LA REALTà

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CICI CAFARO

IO SCRIVO LA REALTÀ a cura di Eugenio Imbriani


Con il contributo di Dipartimento di Beni Culturali, Università del Salento Istituto “Diego Carpitella”, Melpignano (Le) Città di Calimera

Edizioni Kurumuny Sede legale Via Palermo 13 – 73021 Calimera (Le) Sede operativa Via San Pantaleo 12 – 73020 Martignano (Le) Tel e Fax 0832 801528 www.kurumuny.it – info@kurumuny.it ISBN 978-88-95161-70-9 L’editore si rende disponibile per ventuali richieste di soggetti o enti che possano vantare dimostrati diritti sulle immagini riprodotte nel volume. In copertina: elaborazione grafica di Alessandro Sicuro. © Edizioni Kurumuny – 2012


Indice

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Premessa Sergio Torsello

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Introduzione Eugenio Imbriani

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Bibliografia di Luigi Cafaro Nota al testo Io scrivo la realtà Mana, stornelli e poesie d’amore Antonio Castrignanò

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I canti

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Premessa Sergio Torsello*

Le storie di vita, le narrazioni autobiografiche, sono documenti di inestimabile valore antropologico. Perché mostrano – per dirla con Pietro Clemente – le complesse modalità “attraverso cui la cultura, nelle singole vite, viene appresa, giocata, interpretata, trasformata”. Questa autobiografia di Cici Cafaro, una delle personalità più emblematiche e rappresentative della cultura popolare dell’area grica del Salento, che pure era inspiegabilmente rimasta in ombra nel tumultuoso clima del revival della pizzica, ne è una conferma più che evidente. Un lungo racconto in cui il flusso dei ricordi sembra riannodare le fila del rapporto tra passato e presente, tra esperienza soggettiva e modelli culturali diffusi, tra memoria e identità. La caleidoscopica personalità dell’autore (musicista tradizionale, poeta popolare, animatore culturale subalterno) confeziona qui una testimonianza oltremodo preziosa dal punto di vista demologico, intessuta di informazioni in vivo, sul mondo popolare salentino nell’ultimo mezzo secolo. Ma c’è dell’altro. Nell’immaginifica autobiografia di Cici Cafaro (egregiamente curata da Eugenio Imbriani che da tempo lavora con riconosciuta competenza sul tema delle scritture autobiografiche) si condensano alcuni dei temi cruciali della ricerca etnoantropologica non solo locale: il passaggio dall’oralità alla scrittura, la “scoperta da parte degli informatori della narratività della propria esistenza”, la questione del bilinguismo (grico/dialetto romanzo), le complesse pratiche culturali che vanno sotto il nome di affabulazione tradizionale, il ruolo degli attori tradizionali nei fenomeni di revival. Tutti elementi che ne fanno un documento eccezionale. Un contributo fondamentale nel campo degli studi sulla cultura popolare salentina.

* Istituto Diego Carpitella

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Zollino 1974. Foto di Raffaele Palermo


Introduzione Eugenio Imbriani

Io mi considero una pianta che è orgogliosa di dare i suoi frutti. Cici Cafaro

Avevo dedicato alcune righe, davvero poche, a Luigi Cafaro, qualche anno fa, tra le pagine di un libro, Dimenticare,1 in cui discutevo del rapporto tra memoria e oblio; mi ero fermato sull’esperienza di persone comuni, poco alfabetizzate, cresciute nel contesto sociolinguistico della cosiddetta Grecìa salentina,2 che raccontavano per iscritto una duplice problematica relazione: con la loro lingua madre, un dialetto di origine greca sempre meno usato nella comunicazione quotidiana, in un passato recente generalmente disprezzato dagli stessi parlanti, considerato come indizio di arretratezza e povertà culturale, e con gli intellettuali, gli studiosi non sempre rispettosi nei loro confronti, poiché li sfruttavano come semplici portatori di informazioni – di carattere linguistico e folclorico – e ne utilizzavano i saperi e le competenze per i propri fini, senza offrire in cambio alcun riconoscimento. Tra le persone che in modo esplicito assumevano questa posizione c’erano il poeta Luigi De Santis, nato a Sternatia e scomparso nel 1983, il quale aveva coniato il termine “logoclopi”, ladri di parole, per bollare gli studiosi che si appropriavano delle sue parole e delle sue conoscenze,3 e Luigi Cafaro (Cici, per tutti), che presentavo in

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E. Imbriani. Dimenticare. L’oblio come pratica culturale, Besa, Nardò 2004, cfr. in part. cap. quinto. 2 Nel cuore della provincia di Lecce, comprende alcuni comuni, una decina, in cui esistono ancora dei parlanti residui che conoscono e usano un dialetto di origine greca. 3 Faceva eccezione per il grande linguista Gerhard Rohlfs, il grande linguista tedesco, con cui aveva un rapporto bellissimo, tra uguali, fondato sul rispetto reciproco.

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questo modo: «un anziano signore vivacissimo, vulcanico, amante della sua lingua e delle consuetudini locali, contadino, fruttivendolo, emigrante, esecutore di canti di tradizione e compositore egli stesso»; oggi, mentre scrivo, ha superato da qualche mese la soglia degli ottantotto anni, essendo nato nel 1923, ma da quella descrizione così sintetica che però, rivela la complessità della figura, eliminerei la parola “anziano”, allora usata con funzione puramente descrittiva, perché ormai troppo retoricamente connotata, in questo territorio in particolare, e sovraccarica di significati che includono concetti come saggezza, guida e una tardiva quanto generica attribuzione di meriti. In realtà Cici ha scritto e continua a scrivere per rivendicare il riconoscimento di un ruolo e delle sue qualità, che ritiene di non aver ricevuto in forma adeguata, tanto meno dalla sua comunità; e denuncia il timore che, dopo la sua morte, si rivolgano panegirici compiaciuti alla sua memoria, magari a vantaggio di chi li pronuncerà, non certo di lui che non ci sarà più. Nel primo dei suoi libri, una raccolta di testi poetici e in prosa, dedica una pagina a spiegare «Ja ti ste grafo», perché scrivo, con estrema lucidità (il testo è scritto in grico, ma riporto la traduzione in italiano, ed è datato 26 ottobre 1998): Ho avuto modo di conoscere gente che va in giro per trovare canzoni e quant’altro può essergli utile. Ho conosciuto anche altri che scrivono e fanno libri utilizzando ciò che imparano dalla gente. Io non voglio parlar male degli altri, voglio solo spiegarvi cosa sto scrivendo. C’è chi va in giro ad apprendere le tradizioni popolari, poi, una volta apprese, si crede grande e si scorda di quella gente che gliele ha insegnate. […] Io sono Cici Cafaro, da molti conosciuto; di me parlano libri, parlano giornali ed ha parlato anche la televisione. Malgrado ciò, non ho mai pubblicato nulla di quel che ho scritto e che conservo gelosamente nella mia piccola casa. Ora, invece, all’età di 73 anni, m’è venuta l’idea di pubblicare un libro. Tutto quello che ho scritto è roba mia: io scrivo ciò che mi suggerisce il mio cervello, perché per quanto riguarda la capacità di scrivere, è un bene essere andati a scuola, però la cosa migliore è l’ispirazione che ti dà Iddio perché solo Lui può darti una grande ispirazione, come quella che ho io! Ho scritto molte cose e non voglio che cadano nell’oblio, per questo vi voglio tramandare un po’ di ciò che ho scritto, perché venga a conoscenza di tutti ora che ancora son vivo, altrimenti se ne approprieranno gli altri dopo la mia morte.

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Allora a me non servirà più la fama, è meglio che le mie cose siano conosciute ora dai giovani e dai vecchi! Io non faccio come fanno gli altri che si vestono per bene con i vestiti altrui. Io ho i miei vestiti e devo lasciarli scritti affinché non si perdano, così leggeranno e sapranno tutti che Cici si veste solo con i suoi vestiti!4

Il messaggio risulta molto diretto. Cici, quindi, a un certo punto della sua vita, decide che è tempo di mettersi a scrivere, adottando uno strumento che non possiede perfettamente, ma che manovra con grande efficacia, come vedremo ancora. Il vantaggio, del resto, è più che evidente: scripta manent, senz’altro; la memoria, l’oralità, è tutto troppo volatile, disordinato, impreciso; la scrittura, al contrario, facilita la riflessione, organizza i pensieri, e inoltre fissa, stabilizza, salva. In una bella poesia, O Cici ce e xroni (Cici e gli anni), scritta alla vigilia del settantacinquesimo compleanno, spiega bene questa preoccupazione: scopre di colpo di essere diventato così grande di età, ha fatto tante cose nella sua vita trascorsa, ma non gli basta, vuole arrivare fino a cent’anni e nel frattempo scrivere: ka ja poddhù xronu penfsona na godefso na andaliso, na traudhiso, na xorefso. Arte ca jetti mea pianno pena ca tossa pràmata ca fsero ettime grammena ja tuo telo na ziso ca enna ta grafso na mìnune stin’ghetonia and èpa xamena

4 La traduzione non è di Cici, ma quasi certamente di Fabrizio Pascali, che ha digitato i testi. Il libro contiene poesie e brevi prose in vernacolo grico con traduzione in italiano e altre poesie scritte direttamente in italiano, inoltre i testi di alcune sue canzoni e una scelta di brindisi: il libro si intitola Le poesie di Cici Cafaro poeta della Crecìa secondo la copertina, Le Ispirazioni di Cici Cafaro Poeta della Grecìa nella pagina interna (Calimera, 2001, p. 27), è stampato con il contributo della provincia di Lecce, all’interno di un progetto sostenuto dalla Regione Puglia e finanziato dall’Unione europea: all’epoca Cici non poteva non essere soddisfatto di questo trattamento, ma ne lamenta il carattere episodico.

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ste ce grafi e xera ce mu clei e cardìa ma enna te grafso na mìnune stin’ghetonia.5

In sintesi: è arrivato il tempo di mettere per iscritto quello che ho imparato, perché altri ne facciano tesoro. Egli si impone un compito, insomma, stabilisce un programma e, come chi lo conosce sa bene, lo persegue in maniera quasi sistematica, con una certa regolarità, tanto che trascorre parte del suo tempo componendo versi o stendendo le sue annotazioni. Di questo impegno è parte fondamentale l’amore per la cultura popolare e per la lingua locale di cui ha visto nel tempo il progressivo declino; non mi pare, tuttavia, che la sua posizione sia sostenuta da un sentimento di rimpianto o di nostalgia, che pure, in qualche misura, c’è, forse, come è normale che sia; il suo atteggiamento è piuttosto pragmatico: le tradizioni scompaiono, allora riattiviamole, come egli ha fatto con la festa dei lampioni a giugno, mettendosi a realizzare i lampioni di mille forme, con strutture di legno leggero rivestite di carta velina; e se la lingua non si usa…: i professori, gli intellettuali, ancora loro, sono buoni a parlare della lingua, ma bisogna parlare la lingua, fare in modo che almeno quanti la conoscono riprendano a usarla regolarmente, perché è l’unico sistema per trasferirla ai più giovani; insegnarla nelle scuole serve a poco se poi non entra nei meccanismi della comunicazione quotidiana. Il fatto è che Cici si muove perfettamente a suo agio nel mondo che egli stesso chiama della cultura o della tradizione popolare; è un formidabile archivio di repertori canori, improvvisatore magistrale di brindisi, di stornelli, cantante, suonatore di armonica, autore di canzoni; e poi conoscitore dei funghi e del bosco, amante della compagnia, mattatore instancabile nelle feste e sul palcoscenico, narratore arguto e accattivante:

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«Per molti anni ho pensato a divertirmi/ a suonare, a cantare ed a ballare./ Ora che sono anziano mi preoccupo/ perché non ho scritto tante cose che so;/ per questo voglio vivere: le devo scrivere/ perché restino a tutti, se no andranno perdute./ La mano scrive, mi piange il cuore/ ma devo farlo perché ne resti il ricordo per tutti./ Calimera 20 Maggio 1998», ivi, p. 45.

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e tutto questo, e altro, gli appartiene oggi, non in qualità di ricordo, né come residuo del passato, ma è parte integrante delle sue giornate, del suo modo di intendere la vita. Quasi facendo torto alla sua stessa abilità nell’improvvisazione, compiuti gli ottant’anni, mette insieme qualche decina di brindisi dedicati a varie occasioni, alle figlie, agli amici, e li pubblica in un libretto, con l’intenzione di mostrare ai giovani un modo giocoso per divertirsi e far conoscere una tradizione ormai sparita: pubblica per arrivare agli altri, e nello stesso tempo per lasciare ampia traccia di sé; ma per mettere in evidenza quel che ha prodotto (i versi, le rime, le poesie) trascura di raccontare come ci si arriva, come ci siano persone che riescono meglio di altri nella versificazione orale estemporanea, come si acquisisca una tecnica del genere e la si coltivi e la si arricchisca nell’esercizio dei contrasti. In compenso, gli interessa rendere nota la sua filosofia; per esempio, nelle Considerazioni sull’allegria: Sono nato ed ho vissuto gran parte della mia vita in un mondo in cui bisognava lottare duramente ogni giorno per poter mangiare ma in cui le persone, malgrado tutto, sapevano anche trovare l’allegria, mentre oggi viviamo in una società che, almeno per quello che ci riguarda, non ci fa mancare l’indispensabile materiale ma ci lascia sempre più soli e tristi; perciò penso che una festa debba essere sempre una giornata diversa che alleggerisca il cervello ed i pensieri che ci tormentano: una festa senza allegria è come una minestra senza sale!6

Le feste sono diventate tristi, la gente piega la testa sul piatto e si limita a due parole, si perde lo spirito dello stare insieme e il benessere che ne deriva; è interessante questa sua percezione, perché il territorio nel quale Cici vive, il Salento, da tre o quattro lustri, è ampiamente noto per l’andamento festaiolo delle serate estive, nelle quali, un po’ dappertutto, si consumano manifestazioni all’insegna della musica e della danza popolare. Credo che egli si riferisca a un modo passivo di vivere le feste e le

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I Brindisi di Cici Cafaro Poeta Popolare della Grecìa Salentina, Calimera, 2004, pp. 5-6.

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occasioni conviviali, anche quelle familiari e amicali, alle rituali ammucchiate alimentari (battesimi, cresime, comunioni…), alle folle del sabato sera in attesa al ristorante e a tutto quanto esclude la messa in prova di abilità e creatività proprie nel gioco, nella musica, nel canto. Cici è nato e vive a Calimera, luogo dal nome benaugurante: in greco significa, infatti, buon giorno. La cittadina si trova a pochi chilometri da Lecce, ha poco più di settemila abitanti, fa parte dell’Unione dei Comuni della Grecìa salentina, un’istituzione che da alcuni lustri lavora per la salvaguardia delle peculiarità linguistiche, culturali, paesaggistiche del territorio; è patria, inevitabilmente, di ellenisti illustri come Vito Domenico Palumbo e Giuseppe Gabrieli e sede di associazioni attive nel campo della cultura popolare: tra le presenze più significative va segnalata la Casa museo della civiltà contadina e della cultura grica; dico questo, senza, peraltro, soffermarmi sulle iniziative che regolarmente si registrano nei vari comuni, per significare che, per dirlo in modo generico, l’ambiente è tutt’altro che refrattario al gusto e alla rilettura delle propria storia e alla riattualizzazione del proprio retaggio; ma Cici non si accontenta e in questo contesto rivendica il suo ruolo, non solo di testimone anziano venerabile, ma di autore, non personaggio o informatore per gli usi altrui, ma protagonista in prima persona di una lunga vicenda in cui il suo intervento, la sua azione non sono affatto secondari: A tutti li Assessori culturali chieto scusa ma sento dentro di me un tormento che mi fa sempre pensare all’ingiustizie che cè su questa terra. Dico questo perché spesso sento parlare alla televisione, i giornali, la Gente che si spende tanta moneta per la cultura. Ma la cultura è di chi ha titoli di studio? O di chi impegna la mente, e il cuore perche la scrive, l’ama, e la coltiva, e ama le tradizioni e si impegna per non farle scomparire. Cici Cafaro sin da piccolo prima con la festa di Sant’Antonio con i lampioni,

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poi col grammofono, e non si è mai fermato, facendo rivivere tante tradi= zioni ch’erano destinate a scomparire. […] Ma li Assessori per la cultura non vedono, e non anno memoria. Poeta Cici Cafaro7

Cici pretende il riconoscimento che gli è dovuto della parte che ha recitato nel corso della vita, in uno sfogo che ricorre spesso tra le sue carte e sulla sua bocca; e il fatto che si firmi poeta è il segno di una forte consapevolezza e serve anche ad assegnare alla sue parole un grado di autorevolezza di fronte al quale gli assessori che prende di mira dovrebbero chinare il capo. Vita dura quella di Cici, varia, complicata, dolorosa, ma anche allegra, pienamente accolta, gestita, pensata; egli è un grande narratore, è bello lasciarlo parlare, ascoltarlo, ma ti conduce dove vuole e preferisce spiegare il suo pensiero, presentare il sé più recente, il poeta, il cultore della tradizione. È stato lui a sollecitarmi ad andarlo a intervistare, alla fine dell’inverno 2009; aveva organizzato anche un incontro con Fernando Bevilacqua, comune amico, fotografo e documentarista, dal quale voleva la realizzazione di un film che raccogliesse brani della documentazione video esistente sulla sua persona, immagini che lo riprendono sul palcoscenico, tratte da altri filmati in cui compaiono sue interviste, girate in occasione di premiazioni, e così via. Io coltivavo un’idea un po’ diversa: radunare pagine da lui scritte sulla sua vita, sul lavoro, e la sua attività più recente e accompagnarla con una lunga intervista che doveva fungere un po’ da commento, un po’ da integrazione; per spiegare con quale spirito avesse accolto il mio proposito è bene che riferisca l’esordio dei nostri dialoghi: «Cici: Io scrivo la realtà, non cose dell’immaginazione. Io: Facciamo in questo modo: io ti faccio delle domande e tu rispondi, come ti pare, se sei d’accordo. Quando sei nato? Cici: Quando sono nato. Do-

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Pagina manoscritta databile estate 2009.

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vrei chiedere a mia madre. Vuoi che mi ricordi?».8 Siamo andati avanti, e di cose ne ha dette, interessanti, curiose, mescolando aneddoti, versi, tirate polemicissime in italiano, in grico, nel dialetto romanzo, poi, dopo un po’ di appuntamenti, me lo disse chiaramente: quello che stiamo facendo qui è tutto inutile, non so a che serve, non mi piace. Aveva, in effetti, scritto su un grande quaderno a righe, le sue memorie, in realtà collazionando testi compilati in epoche differenti, cominciando dal 1997, fino al 2010: è lo stesso materiale che pubblichiamo in questo libro, trascritto da Elisabetta Spennato, che ne ha fatto oggetto della sua tesi di laurea, discussa nel luglio 2011,9 nell’ordine che Cici gli ha dato. Le mie conversazioni con lui, per adesso, rimangono nelle cassette, forse qualche pezzo entrerà nel film di Fernando, quando lo monterà, vedremo; ma non mi pare che, nella sostanza, fatta eccezione per i dettagli e la brillantezza dell’eloquio, riferisca cose molto diverse da quelle che ha messo sul quaderno, anche perché sulla materia ha riflettuto non poco e per lungo tempo e, come ho già detto, la sua autobiografia se l’era organizzata. A ulteriore conferma di ciò, a un certo punto ha estratto dalle innumerevoli pagine delle sue annotazioni un foglio in cui aveva tracciato un indice dei temi più importanti della sua esistenza: Racconti della mia vita La carne nascosta la sciavitù dei patroni il nutrimento la passione i giochi le feste dei lampioni i lampioni illuminati a olio il lavoro da bambino la passione

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Registrazione del 25.2.2009, Calimera, casa di Cici. E. Spennato, Autobiografia di un poeta popolare, tesi di laurea in Scienze e tecniche psicologiche, Università del Salento, a. a. 2010-2011.

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il Genitore emigrazione a 15 anni il grammofono le serenate l’ispirazione la poesia l’amicizia Vita Militare lo sbandamento da Vicenza nel 1946 a Imperia incomio solenne nel 1948 sposato 1954 emigrato in Francia 1957 emigrato in Svizzera 1959 emigrato in Germania 1960 emigrato a Nepi, Roma 1963 separato. Da qui incomincia una lunga storia di tradizioni popolari, diventanto il più estremo difensore, e una grande pianta che ha dato tanti frutti alle nuove Generazioni. Un vulcano di canzoni, poesia, barzellette, rime per tutto e per tutti. Attore in almeno 10 film, Italiani, e stranieri. di cui risultano solo due: «i punti storici del salento girato da Ugo ugolini.» «e il sibilo lungo della taranta girato da Paolo Pisanelli

Di traverso, sullo stesso foglio, aggiunge «La storia dei gruppi musicali». Non si può dire, quindi, che non ci abbia ragionato su; e probabilmente proprio la dispersione dei suoi interventi videografati lo ha indotto a chiederne una ricomposizione a Fernando. Vuole produrre un discorso coerente su se stesso, sebbene vanti un numero molto alto, ma non inverosimile, di quaderni colmi di suoi scritti, e forse ne è un segno che produca di tanto in tanto dei brevi curricula in cui ripropone i momenti fondamentali della sua attività, aggiornandoli se è il caso; in questo, dell’ agosto 2009, è segnalato, tra l’altro, il lavoro di Bevilacqua:

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A proposito di ricordi Devo ricordare qualche cosa che ho creato. per lasciare alle nuove generazioni. Attore nel film i punti Storici del Salento nel ruolo di Salvatore Calò, reggista ugo ugolini Attore nel film il sibilo lungo della taranta girato dal reggista Paolo Pisanelli Altro film in corso girato tutto su Cici Cafaro dal reggista Fernando Bevilacqua Autore di dieci libbri sette già stampati altri tre mano scritti fermi a casa trenta quaderni mano scritti di tutte le cose poesie, barzellette, racconti storici, proverbi, rime per brindare, e di tutto. Non meno di trenta canzoni col marchio di Cici Cafaro. Tra queste ci sono quelle molto conosciute, e tanto valudate. La lista potrebbe continuare, senza sapere quando potrebbe finire Calimera 11.8.2009 Poeta Cici Cafaro

Ma veniamo, brevemente, alla sua autobiografia; è scritta su un quadernone a righe, su entrambe le facciate dei fogli, le cui pagine Cici ha provveduto a numerare, tranne l’ultima: sono sessantuno in tutto; l’autore comincia a dividere il tema in capitoli, ma, dopo i primi tre, che riguardano i tempi della giovinezza, dell’emigrazione, della vita matrimoniale finché è durata, procede in modo meno lineare, preferendo raccontare gli episodi più significativi del suo impegno nel campo della cultura popolare. Questa disomogeneità dipende dal fatto che le varie parti del testo sono state redatte in epoche differenti, in un periodo che va dal 1997 al 2010, ma il fatto che siano state comprese in un unico manoscritto, con pagine, ripeto, numerate, in modo da seguire un percorso cronologicamente coerente, testimonia l’intenzione dell’autore di realizzare un testo unitario, un libro, e testimonia di un’urgenza avvertita all’inizio di questa impresa: il diritto alla biografia, il diritto alla propria storia. Un anziano signore lucano, che qualche anno fa aveva steso su

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un quaderno a quadretti i suoi ricordi spiegava di averlo fatto perché «tutti hanno una storia, io perché non ce la devo avere?». Comporre la propria biografia significa dar voce alla propria esistenza, rivelarla, presentarsi agli altri con il proprio abito, quello che si sceglie di indossare; inoltre, cimentarsi con la scrittura è mettersi alla prova: come scrittore, evidentemente, perché bisogna adoperare uno strumento tutt’altro che semplice per raccontarsi, specialmente se non se ne possiede la necessaria padronanza; ma anche – e questo vale in particolare per l’autobiografia – come lettore di sé, come analista della propria soggettività che riflette su se stessa con l’intenzione di “individuarsi”, se così si può dire, cioè cercare quei tratti che meglio consentono di riconoscersi e di rappresentarsi come persona singola: davanti a uno specchio immaginario, su un foglio di carta, davanti a un pubblico più o meno interessato. La scrittura di sé, ha affermato Duccio Demetrio, è atto significativo e rivelatore di una cura di sé. Cici scrive in maniera composita, mescolando i versi con la prosa, storie e commenti, accorate riflessioni e motti arguti e ironici, proverbi e pillole dal vangelo, usando in modo efficacissimo la lingua italiana, malgrado le inevitabili approssimazioni etnografiche e grammaticali (solo una volta cede alla tentazione di scrivere qualcosa in grico); la narrazione ha un andamento episodico, avanza per contiguità di argomenti, per associazione di idee; verso la fine prende quasi la forma del diario. Il nostro ha frequentato la scuola fino alla terza elementare, perché troppo presto si diventava pronti per lavorare in campagna, per questo sorprende la sua disinvoltura nella composizione, l’abilità nel dosare i toni: accorato nel descrivere la solitudine, la delusione, lo sconforto, sentenzioso quando parla di Cici in terza persona, aggressivo e sferzante nella polemica. Il testo è a tratti molto bello; si vada, per esempio, alla pagina 15 del manoscritto, la mia preferita, quando racconta come nasce l’idea della sua prima poesia, mentre trascorre ore durissime al lavoro, solo (una delizia per chi conserva qualche reminiscenza dantesca), o ci si soffermi un attimo su alcune espressioni fulminanti: «aveva un dolce parlare» Ada, p. 24; a p. 40 «era molto bello che correva la notte» e «nessuno era sazio» di cantare con lui; e a p. 54: «Ringrazio tutti quelli che anno fatto di me una storia».

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Prima di congedare queste pagine sono andato a casa di Cici, per chiarire alcuni punti residui della autobiografia e ottenerne la benedizione; l’ho trovato intento a lavorare al riallestimento del grande presepe, fatto con pietre dalle forme strane, che ha sede permanente nel cortile di accesso alla sua abitazione. In casa le solite pile di quaderni e libri sui tavoli e le pareti tappezzate di quadretti, foto, attestati, poesie, manifesti, articoli, come ben sanno i suoi amici; c’è l’angolo riservato alle coppe guadagnate in tre mostre di funghi, con relative foto, di cui va orgogliosissimo, l’angolo riservato alla Grecia… Non avevo ancora visto l’ultima sua apparizione nel film I luoghi dell’altro,10 in cui rilascia una breve intervista sul tarantismo: ho colmato anche questa lacuna. Volevo sapere se c’era qualcosa che ritenesse opportuno aggiungere, come chiosa finale, a questo lavoro e, dopo una breve negoziazione (perché mi ha mostrato quaderni e fogli di scrittura recente) mi ha segnalato e dettato le seguenti righe, scandendo le parole, perché, per lui, importanti: «Poeta popolare e servo del Popolo. A ottantotto anni la memoria storica Creatore e donatore alle nuove generazioni. Come dice Daniele Durante Cici artista a tutto campo Queste sono le virtù di Cici Cafaro, lasciate a tutti come eredità. Calimera 21.8.2011».11 Non prendetelo come epitaffio. Cici mi ha spiegato che ha troppe energie per cambiare il suo stile di vita, per smettere di fare tardi con gli amici, di cantare, suonare l’armonica, scrivere; vuole arrivare a cento, per ricominciare a contare gli anni dall’inizio.

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Francesco Conversano, Nene Griffagnini, I luoghi dell’altro. Diario di viaggio di Joe R. Lansdale in Puglia, 2010. 11 Daniele Durante è musicista e studioso della cultura popolare.

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Bibliografia di Luigi Cafaro

Luigi Chiriatti, Franco Corlianò, Marcello Costantini, Decalimerone. Novelle popolari di …Centopozzi di acetosella acqua, Calimera 1992: alcune novelle contenute della raccolta sono state narrate da Cici Cafaro e ne recano la firma. Cici Cafaro et alii, Loja j’agapi. Parole per amore, Calimera 1997: il volume è una raccolta di poesie scritte in grico da cinque autori. Xristos E. K. Tartaris, To ellenofono idioma grico tis N. A. Italias, Korintos – Calimera 2000: il libro contiene dei testi di Cici sulla parlata grica, scritti in grico, presentati e tradotti in greco da Tartaris. Le poesie [oppure Le Ispirazioni] di Cici Cafaro poeta della Grecìa, Calimera 2001. Cici Cafaro – Poeta Popolare, L’amore di un padre. Stornelli, rime, poesie e racconti in lingua, dialetto e grico, Calimera 2004. I Brindisi di Cici Cafaro, Calimera 2004. Le poesie per Gesù Bambino di Cici Cafaro, Calimera 2004.

Il diario di Cici. Foto di Fernando Bevilacqua


Nota al testo

Cici annota nella sua autobiografia: non posso parlare da intellettua= le, perche la mia cultura, è solo naturale, ma se avessi avuto la fortuna di frequentare le scuole, nessuno avrebbe poduto correggere queste mie parole.

Nessuno ha corretto alcunché del manoscritto, che è stato lasciato così come l’autore lo ha composto. La trascrizione in word di Elisabetta Spennato risulta, quindi, fedele all’originale; la trascrizione della poesia in grico è stata rivista da Cici; nella mia revisione ho curato di rispettare la lunghezza dei righi, per cui il testo a stampa va a capo con il manoscritto, e ho inserito tra parentesi quadre i numeri delle pagine del manoscritto stesso. Inoltre ho indicato nel corpo del testo tra parentesi quadre i pochissimi ripensamenti e le cancellature presenti. Ho aggiunto poche note esplicative, riducendo gli interventi redazionali all’essenziale. [e. i.]

Lampioni per la festa di San Luigi


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Capitolo I

Riasunto delle LE MIE MEMORIE (Cici Cafaro) (74 anni di esperienza) 21-5-23 al 20-11-97 nato a Calimera il 21-5-23. da genitori poveri contadini. (da Cafaro pantaleo, e Esposito addolorata) nella via Cipro N° 144 dove ó vissuto fino al 1948 avevo appena cinque anni che la mattina prima di fare alba, dovevo lasciare il mio tanto amato letto, per andare verso la via di melendugno.1 dove passavano centinaia di cavalli che andavano a lavorare nei campi (Mezzi meccanici non esistevano) per lavorare la terra solo zappa o cavalli. tornato à casa mio padre era gia pronto per andare a campagna. sul tavolo cerano preparate, o un po di padate zuccherine lesse, o un pugno di fichi secchi. li mettevo nella tasca della giacca, e si partiva a campagna senza pane. Poi a mezzogiorno la mia razzione era una reccia. che sarebbe una frisella di orzo, senza olio e senza altro comparaggio. poi la sera quando tornavo a casa che era già buio. Non vedevo l’ora di mangiare qualche boccone di pisello. che solo quello era la cena. noi eravamo in sette di famiglia, e esisteva un solo piatto sul tavolo, dove dovevamo fare la gara, a chi piu era svelto che finito quel piatto non esisteva altro. Solo la pignata e un po di pane. dalle volte anche un po di verdura che la mamma raccoglieva di campagna. e questo sistema e andato avanti, finche ò vissuto nella mia casa, o meglio dire nella casa dei miei genitori. fino alletà di sedici anni. e dopo ò fatto la mia prima emigrazione a brindisi. ma prima di questo ò molto da dire della mia infanzia

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Melendugno, paese ai confini dell’area grecofona, vicinissimo a Calimera.

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[2] la mia era un piccola casetta composta di una stanza e una cucina dove eravamo sette perzone due sorelle tre fratelli e i genitori: mio padre faceva il contadino, e teneva in affitto circa cinque ettari di terreno nella contrata masseria gallo. di propietà di rocco gabbrieli. e in quella piccola casetta doveva essere depositato tutto il raccolto che si faceva dalla campagna. compreso ulivi, e tutte le provviste che servivano per mangiare tutto l’anno. e questa è una cosa importante da far ricordare ai giovani di oggi. che non possono credere neanche dopo che leggono questo mio scritto io mi sazziavo solo quando c’erano i frutti in campagna. del resto era tutto con misura, perché si doveva risparmiare per poter affrontare le miserie della vita: mio padre doveva vendere il raccolto della campagna, per comprarci le scarpe. A proposito di scarpe, tenevo un paio di scarpe, che lavoravo a campagna. poi quando arrivava la domenica, dovevo mettere le stesse, e per pulirle non tenevamo neanche crema allora mi mettevo sotto il camino, dove il muro era tutto nero di fumo, e bagniando la spazzola nell’acqua poi strofinavo sopra il nero del camino, e facevo le scarpe un po nere, per metterle la domenica. apparte che la domenica andavo alla prima messa e dopo dovevo andare a campagna, a lavorare. e io facevo quella vita, ma molti altri stavano peggio di me. Perché in quei tempi il contadino viveva male, ma gli altri vivevano peggio. perché noi tenevamo un po di provviste a casa, ma le altre catecorie dovevano comprare tutto, e i soldi erano molto pochi. [3] io mi ricordo bene che la mia famiglia era invidia= ta da molta gente, perché vendevamo sempre un po’ di quello che producevamo; mentre tanti non tenevano ne soldi ne robba per mangiare

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inzomma si viveva propio male. io la mattina mi riempivo la tasca di fichi secchi e andavo a lavorare senza pane solo i fichi. poi a mezzogiorno mangiavo una reccia, che vuole dire un piccolo pane di orzo biscottato, e molte volte senza niente sul pane. ma voglio ritornare un po indietro, che devo dire che mentre la mattino io mangiavo solo i fichi secchi molti altri bambini mi venivano incontro per chiedermi due fichi, e io li davo uno, due e li mettevano in bocca come se li avessi dato chisà che cosa. poi la sera dopo che era buio si rincasava perche non si vedeva piu per lavorare. Arrivati a casa come cani affamati sul tavolo ncera un grande piatto pieno di piselli, dove sette di noi con un arma micidiale, cioè col cucchiaio attaccavamo come querrieri in quel piatto, ora chi era più svelto mangiava un po di più. non si facevano complimenti. poi quando non mi saziavo, andavo ai fichi secchi e non solo mangiavo io, portavo anche agli amici ma poi quando mio padre vidde che si conzuma= vano troppo fichi cosa fece? una sera vado a prendere i fichi e trovo la sorpresa i fichi erano chiusi a chiave. io mi son rimasto tanto male, ma non ò parlato, ma dopo hò chiesto perche i fichi erano chiusi a chiave e mio Padre dice quando non cè misura viene sula [4] e ancora mi dice bisogna risparmiare la farina quandu la mattra è china. che con questo voleva dire che anche quando si podeva mangiare, era necessario penzare che può finire le provviste perciò non si podeva mangiare tanto. Una mattina dopo aver preso la mia razzione di fichi secchi li ò detto alla Mamma voglio un po di pane. mi sente mio Padre e mi da una sculacciata e disse

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cammina che a campagna è il pane. io sentendo così subbito mi son messo a correre per arrivare presto in campagna, ma quando sono arrivato non ò trovato niente, e solo dopo ò poduto capire che voleva dire che il pane era il lavoro, che col lavore si guadagnava il pane. ora restando all’argomento del pane un giorno lo sento che dice sempre mio Padre, il pane è molto amaro, io lo mangiavo con tanto gusto dicevo dentro di me, forze mio Padre non sa quello che dice, come il pane è tanto buono e lui dice che è amaro. ma io che sin da bambino possedevo un dono di capire qualche cosa col tempo penzando ò capito perché diceva che era amaro….. Perché prima si doveva sudare per fare il pane, essendo che il lavoro era troppo duro il pane diventava amaro. E su questo argomento mi podevo fermare per molte pagine per raccontare tutta la storia della fame, ma chiudo dicendo solo che io ero sazzio solo quando era il tempo che cerano i frutti in campagna.

Ricordi, e passione (Capitolo II) Adesso volio cambiare argomento, io fin da bambino ero sempre tanto appassionato per tutte le cose belle. Cosi la mia prima opera e stata la festa di Sant Antonio [5] che inzieme ad’altri bambini vicini di casa costruivamo i lampioni con canne, e foderati con carta velina e li illuminavamo con dei barattoli pieni d’olio, tramite una miccia di cotone, perche in quei tempi non esisteva luce solo petrolio, e olio. dopo che sono cresciuto un po’ mi sono comprato un grammofono e d’allora la mia casa era come una discoteca, perche in paese erano troppo pochi mi ricordo solo 3, o 4. Molte sere alle ore tardi venivano li amici e andavamo in giro al paese, per portare serenate alle fidanzate. Poi quando tornavo a casa, erano dolori per entrare a casa perchè mio Padre quando andava a letto

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metteva i ferri alla porta, e io restavo fuori senza bussare poi la mamma che tiene il cuore tenero, usciva fuori piano, piano e mi veniva a trovare. In quei tempi non esistevano sopra mobbili per noi poveri ma sul comò c'era una svelia, io la smontavo a pezzi e poi la rimontavo. mio Padre aposto di capire che avevo tanta passione, e tanta capacità, senza mai aver visto fare tali cose, lui mi bastonava per paura che la rompevo ma per me era tanto grande il mio dono di fare cose, e non penzavo che mi bastonava. Poi si è rotta la molla del mio mio grammofono e lo’ dovuto portare per agiungerla. Io ero li presente e ho visto come a fatto, e d’allora non ho avuto più bisogno di maestri. Anzi riparavo i grammofoni dell’amici. Non posso continuare su queste cose altrimenti non finisco mai, solo dico che se mio Padri mi avesse capito il mio mondo sarebbe stato diverso. [6] Arrivato all’ eta di 14 anni avevo una bicicletta e con questa andavo fino a Brindisi a fare la vendemia fu cosi che ho trovato lavoro ad’un mulino verso porta Mesagne, di propieta di una donna Sardagnola. Essendo sempre contro custo per la campagna, mi son fermato in quel mulino che ero diventato come se fossi di Famiglia, mi amavano come un Figlio. Al’'età di diciannove anni son dovuto partire Militare eravamo in piena querra appunto per questo in un anno è partita la classe 22, e 23. son stato destinato a Pordenone , dove c'erano domande per fare un corso da goniometrista, io mi sono presto arrolato, sono stato promosso, e mi hanno portato al deposito, a disposizione del ministero della guerra, cosi ho evitato la partenza per il fronte, dove sono morti quasi tutti come agnellini, li Amici miei.

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Dopo sono stato trasferito a Vicenza, poi viene l’armistizio, e i tedeschi anno occupato l’ Italia. un bel giorno mentre ero di quardi in un ponte passa un treno carico di militari e gritavo scappate, fuggite sono entrati i Tedeschi. Così comincio la grande camminata a piedi, che poi abbiamo trovato un treno che ci porto fino a Bologna ma noi eravamo già vestiti da borgnesi, che questo dimenticavo di dirlo che in casolare di campagna ci avevano vestiti da borghesi. cosi non mi hanno prelevato i Tedeschi. Scampadi da Bologna in campagnia di altri amici si caminava sempre per le campagne, perché se ti pesca= vano i Tedeschi, dovevi combattere contro l’italiani. [7] ma quando arrivati a termoli, ci hanno detto, che c’era un treno che portava a Napoli, che dopo faceva Napoli lecce. Cosi abbiamo preso questo treno, ma prima che arrivasse a napoli, si ferma nelle campagne. gridando tutti giù per terra. cosi dopo poco tempo si sentono arrivare molti apparecchi era di notte ed era tutto buio, ma tutto un colpo è diventato giorno, con i razzi luminosi che buttavano gli apparecchi. vicino a me era un’amico, e li ho detto, andiamo via, e ci siamo messi in cammino per le campagne cosi dopo tanto cammino abbiamo trovato il binario del treno, e abbiamo detto ora sequiamo il binario, che ci porta sicuro al Paese; Ma dopo tante ore di cammino si vede un locale io ho detto qui ce una masseria, andiamo a bussare vediamo se ci fanno riposare un po. e ci siamo messi a camminare verso questo locale, ma tutto a un tratto si sente un grito, chi vo là, alto là. noi col cuore in mano ci siamo fermati, si avvicina costui, ed era un Militare, e ci chiete chi siete, dove andate qui è una polveriera. Io con le gambe che mi tremavano li ho raccontato il tutto. 28


fu cosi come un miracolo, che questa era una Persona molto umana, e commosso dal dispiacere, disse (ha detto) venite con me che ci sono due letti libberi. cosi vi riposate e domani mattina vi mettete in cammino, che a pochi Chilometri trovate il Paese. Cosi ci siamo riposati un po e la mattina ci siamo messi in cammino, e come ci aveva detto quel Militare siamo arrivati al Paese, e qui non erano tedeschi, ma era comando Italiano, cosi un bel momento incontriamo la ronda, e ci fermò e ci ha chiesto documenti, ma noi non evevamo documenti, allora ci porta al comando, e chiete, [8] che disposizioni ci sono per i Militari sbandati, il Tenente risponde trattenerli in prigione fino a nuovo ordine. Cosi ci portano dentro una stanza dove c'era un po di paglia per terra, che si dormiva sopra. ma erano più i pidocchi che la palia, appena mi son seduto sono stato assalito dai pidocchi, mi sono alzato e non mi sono più seduto. Poi la sera ci anno dato da mangiare, e l’acqua stava fuori per lavare la coppa, così quando sono andato fuori per lavare la coppa via e scappo, e non ho saputo mai niente, perché quando ci anno presi abbiamo dato nome falso, penzando che ci lasciavano invece non fu cosi, [cancellato: ma io sono arrivato a casa] ma per mia fortuna mi è andata bene e ho continuato la mia avventura ch’e stata tanto lunga piena di sacrifici, di sofferenza. Sempre con l’anzia di arrivare a casa per respirare aria di casa mia, per abbraccia l’ affetto della mia famiglia, con l’aiuto del Signore, sono arrivato a lecce che ho preso il pulm che mi a portato a Calimera al mio paese natio, che non mi veniva da credere, che dopo tanti sacrifici, e anzia di nost’algia si potesse

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avverare il mio sogno di rivivere le gioie che avevo lasciato tanto tempo fa, ma non è stato proprio così, e adesso vi racconto. una grande, (e per me brutta storia.) [9] Cosi per mia grande fortuna dopo 40 giorni sono arrivato a Calimera. Adeso incomincia il bello. Mentre da per tutto era pieno di manifesti, tutti i militari sbandati si devono presentare al più vicino comando Tedesco arrivato da queste parti il contrario, tutti i militari sbandati si devono presentare al più vicino comando Italiano. Cosi dopo pochi giorni ch’ero a casa, veto arrivare i Carabbinieri che dovevo fare il militare. Cosi mi portano a lecce e dopo pochi giorni mi mettono in partenza per il fronte contro i Tedesci. che cosa strana. quando era a Vicenza i miei ufficiali non si sono ricordati che io ero di quardia al ponte, e sono scappati abbandonando il tutto, poi per fortuna sono stato capace a non farmi prendere dai Tedesci, a combattere contro l’Italiani, dopo dovevo andare a combattere contro i Tedesci a riscio di morire, dopo tanti sacrifici per poter arrivare a casa. questo mi a fatto perdere un po la testa. Loro mi anno messo in partenza, e io sono andato a casa, perche pensavo non sono morto in querra e adesso non devo morire per li errori dei miei ufficiali, perche prima sono scappati, e anno lasciato libberi i Tedesci a occupare Vicenza e poi li dovevano cacciare. Prima abbiamo fatto entrare il ladro a casa, e poi ci dobbiamo mettere a riscio di morire per cacciarlo. Cosi tutte le volte che mi metteva in partenza per il fronte, io me ne andavo a Casa.

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[10] Così dopo tante volte mi anno portato al preventivo Militare di taranto. Ma dopo circa un mese viene l’amministia per i disertori, e sono tornato a fare il militare; (ma non sono morto...) dopo mi anno portato in licuria a imperia e sono ritornato a fare il militare come prima che il mio Generale mi ha fatto i più grandi eloggi a inquatrato tutto il reggimento facendomi un incomio dopo si era tanto affezionato a me che mi voleva tenere per fare il corso di sotto ufficiale, ma io ho voluto ritornare a casa quando si è congedata la mia leva. dopo un mese ch’ero a casa mi scrive il mio Generale con 20 lire dentro la busta che e arrivata alla caserma dei carabinieri, che mi sono visto chiamare in caserma il Maresciallo prima a letto la lettera, che era l’incomio solenne, e dopo me la consegnata. e cera dentro un biglietto che diceva se volio ritornare che mi faceva avere un impieco da Civile. Ma io era tanto lecato alle radici del mio Paese che ho rifiutato questa grande occasione. Che ho sempre penzato che ho sbaliato, perche quella era stata la mia fortuna ma pur troppo quando si è [canc: Vita Civile] giovani non si penza all’ avvenire. e restano solo i ricordi. Per questo motivo a un proverbio che dice, Il giovane se sapesse, e il vecchio se potesse. Ma pur troppo non si può fare niente, e resta solo il pentimento.

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Capitolo III

Vita Civile Tornato a casa mi sono messo a lavorare, ma il lavoro di campagna non era di mio gradimento

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sentivo una forza dentro di me che dovevo arrivare chi sa dove, ma non era possibbile. Cosi come facevo da bambino trainavo il grande bastimento della cultura popolare. dopo due anni che avevo conosciuto una Famiglia che viveva in una masseria, la Figli più piccola si è innamorata di me. Io non la penzavo perché era 7 anni più piccola di me ma lei piu sin innamorava. fu così che una sera ero a ballare in un altra masseria, e lei e venuta, che poi mi a detto che voleva venire con me e lò portata a Calimera, e me la sposai che ho messo su Famiglia. Ma dopo poco tempo un triste destino tento quasi di torliermi la vita. vato con un mio coniato a mare giusto a sant’ andrea sciendiamo a mare da uno scolio chiamato la scala del bastimento e ci siamo allontanati un po. io sapevo poco nuotare, e non sono ritornato in dietro ma ho tentato di salire sopra da uno scolio che sembrava facile, lo scolio era alto circa 6 metri, e son salito ma una volta arrivato sopra mi scivolano le mani e vato giù dove cera solo roccia senza acqua, e così mi son venuti a soccorso con una barca e mi anno portato a casa di mio Padre, che ero quasi morto avevo tre anelli della colonna vertebrale accavallati e uno frantumato. Mi anno gessato dal collo fino a sotto le gambe [12] ho avuto trattenimento d’orina per molto tempo, che la facevo col cadevere. dopo 6 mesi l’ò tolto ma non mi regevo in pieti, e l’ò dovuto fare di nuovo. e dopo quarito non mi podevo piecare, vado dal Dottore e mi a detto che non mi devo piecare di fare qualche cosa in piedi, e devo essere contente perche con quello che ho avuto io non podevo quarire dritto. 32



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