SCIROCCHI BAROCCHI

Page 1


GIUSEPPE RESTA

SCIROCCHI BAROCCHI racconti meridiani di amore e rancore


Edizioni Kurumuny Sede legale Via Palermo 13 – 73021 Calimera (Le) Sede operativa Via San Pantaleo 12 – 73020 Martignano (Le) Tel e Fax 0832 801528 www.kurumuny.it – info@kurumuny.it ISBN 978-88-95161-75-4 Foto di copertina: Lavinia Urso Progetto grafico di copertina: Lucio Montinaro Stampato presso Stampa Sud - Mottola (Ta) © Edizioni Kurumuny – 2012


A tutta la mia famiglia. E a tutti quelli che mi hanno dato il piacere di leggere. E mi hanno invogliato a scrivere.


Un doveroso grazie agli amici Francesco Zinno e Livio Romano. Tanto hanno insistito perchĂŠ questa raccolta nascesse. E altrettanto agli amici Luigina De Prezzo e Giovanni Santi che mi hanno ridato la gioia di scrivere.


Indice

7 11

Avvertenza dell’autore Prefazione Livio Romano

13

Tirricate – Radici –

Zoo politico 19 26 32 38 42

La segretaria del comitato Il ragazzo concreto Il ragazzo remora Il ragazzo disoccupato La ragazza rivoluzionaria

Scirocchi e sciroccati 52 69

La comica storia del tragico trasporto della cosa Libertà assassinata

Terre perse 87

La geografia dell’anima – Racconto di un viaggio a ritroso –

93 113

L’eredità di Totu delle Serre Partire è meglio che morire – Trent’anni dopo –

5


Prima che tutto sia polvere 132 141 151 164 168

6

Ricordo di vino Non ci sono più i sapori di una volta – E nemmeno le botteghe – Maledetto toscano – Salentina subalternità culturale – Cambia la vita Quasi una postfazione – Soul Salento’s –


Avvertenza dell’autore

Gli scritti di questo libro sono in parte ripresi, ampliati, contaminati e riediti a partire da quelli pubblicati sul «Giornale di Galatone», sulla rivista «A Levante» o sul blog www.galatown.splinder.com. Il riferimento ai fatti è molto spesso reale, anche se molte storie si sono miscelate e confuse le une nelle altre; alcune sono completamente di fantasia, ma potrebbero essere reali, e chissà se poi non siano successe veramente a insaputa di chi scrive. Invece sono completamente inventati i personaggi dei racconti. Così i nomi. Pertanto sarebbe inutile cercare di associare nomi a situazioni. Non sono del tutto inventati, invece, i nomi del mondo reale, che trovano spazio quando le storie diventano storia. Per facilitare la lettura, nella scrittura della “d” cacuminale palatale invertita (in glottologia “occlusiva retroflessa sonora”) del dialetto salentino per la zona fonetica del brindisino inferiore, si è usata l’ortografia “ddhr”, preferita da Livio De Filippi, riprendendo quanto asserito da Nicola Bernardini, nel suo dotto volumetto edito presso la Tipografia Lezzi in Monteroni di Lecce nel marzo 1985.

7



C’è un paesaggio interiore, una geografia dell’anima; ne cerchiamo gli elementi per tutta la vita. Chi è tanto fortunato da incontrarlo, scivola come l’acqua sopra un sasso, fino ai suoi fluidi contorni, ed è a casa. Josephine Hart, Il danno

Se non potete eliminare l’ingiustizia, almeno raccontatela a tutti. Shirin Ebadi, La gabbia d’oro

Mio paese, così sgradito da doverti amare. Vittorio Bodini, La luna dei Borboni

9


Tra venti scirocchi putti barocchi dai tondi ginocchi guardan dall’alto con fissi occhi uomini sciocchi

10


Prefazione Livio Romano

Ormai ben più di dieci anni fa, quando per la prima volta mi capitò di leggere i pezzi narrativi di Giuseppe Resta, gli scrissi: –Tu sei uno scrittore bulimico come me, fluviale, straripante, si sente che provi un piacere fisico nello scrivere. Mi rispose, fra l’altro, che scrivere lo faceva sentire “in salute”, e l’espressione mi impressionò moltissimo poiché rendeva con esatta icasticità l’habitus mentale al quale mi riferivo. La stessa lingua sincera, potente e sfrenata ho ritrovato in questa raccolta che mette insieme materiali molto diversi tra di loro ma accomunati da un irrefrenabile spirito savonaroliano che, secondo me, è la cifra stilistica che pervade l’intero volume. Resta mette in scena frammenti di realtà paesana, attuali e antichi, appunti di viaggio, notarelle nostalgiche sulla propria e altrui esistenza: costantemente animato dall’indignazione, valore che sembrava morto e sepolto in questo scorcio di inizio secolo dominato da uno svergognato narcisismo collettivo. È un’indignazione, quella che percorre tutte le pagine del libro, animata da un forte sentimento etico-politico ma anche dal rimpianto per valori antichi che sembrano essere stati spazzati via dalla massificazione prima, dalla globalizzazione poi. Ho trovato sorprendente, per esempio, in molti dei pezzi di questo collage, sentir risuonare parole come “onore”, o avvertire, inconfondibile, una basilare scelta di campo che è quella di raccontare le storie degli uomini dal punto di vista della storia della lotta fra le classi, scelta ardita, direi stravagante, in un’epoca di osceno miscuglio di linguaggi e segni. Ed è così che scorrono istantanee di vita giovanile degli anni Settanta, scritte con lingua mimetica e contaminatissima, e pagine di minuziosi ricordi d’infanzia in cui la personale madeleine dell’autore si incarna nella sessula, sorta di paletta per raccogliere i legumi da un sacco di juta. Aria d’aprile (che per l’autore non è, con ogni evidenza, “il più crudele dei mesi”) che invita

11


all’amore e treni lerci che fanno da battesimo all’eterno status meridiano del migrante. Gente che si arricchisce, gente che fallisce miseramente, donne virtuose e donne sfrontate, figli che crescono “con pane e senza pane” (a mio avviso il più sublime modo di dire salentino) e monumenti zurighesi all’emigrante e resoconti di vita quotidiana che devono tutto alla propagazione orale e, per questo, via via più contraffatta (che è come dire: artefatta). In un quadro d’insieme in cui la fiducia per il futuro è assai tenue (lo ricorda programmaticamente Resta: nel dialetto salentino non esiste il tempo futuro, ma siamo pieni zeppi di passati remoti), né s’intuiscono aspettative non dico dal postmoderno, ma finanche dai valori che hanno animato la rivoluzione del costume dal 1968 in poi – sempre qui vissuti e raccontati come posticci, mal digeriti, estranei – resta lo spazio per l’incanto dorato di un bagno purificatore in questo nostro mare amato non meno che deturpato all’interno di Così cambia la vita, l’esito a mio avviso più alto di questa raccolta.

12


Tirricate – Radici –

Ogni volta che ritorno a casa dopo uno sconfinamento oltre il Rubicone, percorrendo la superstrada tra Brindisi e Lecce, mi ritrovo a pensare: cos’è che mi lega al Salento? La lunga distesa d’antichi oliveti, cortina di grigioverdi fronde scintillanti dai tenui baluginii metallici, mi sa di casa, di consuetudine. I cieli, che siano quelli intensamente azzurri della tramontana o quelli opalini dall’appiccicoso scirocco, li sento come i miei cieli: perché? Quando, poco prima di Lecce, gli olivi lasciano il posto alla distesa bassa degli incolti, quando l’orizzonte si espande tra vecchie case dirute e i radi alberi di fico – tra i quali ci si aspetta di scorgere la sagoma di un felino africano appollaiato con la coda penzoloni – mi ritorna l’immagine dei tanti rientri a casa in treno durante il periodo di studio, e poi di lavoro, trascorso a Firenze. Rivivo gli occhi cisposi di una notte scomoda e quasi insonne, il cattivo odore, che rimaneva attaccato addosso, della finta pelle dei sedili della seconda classe di quel tempo, l’unto sulle mani e sulla faccia per un lavabo ferroviario sempre avaro d’acqua. Nelle orecchie risento lo sferragliare ritmico e lento. Nelle narici l’odore di grasso delle rotaie, quello rugginoso dei freni, quello nauseante di uno scompartimento intriso del rancido dei panini residui nelle buste di cellophane. Dal finestrino scorrevano le immagini di una campagna ciclicamente immutabile. I colori variavano secondo la stagione del rientro: predominio del rosso delle terre d’inverno, arate a pochi giorni dal Natale; verde prepotente e straripante, direi barocco, dell’erba punteggiata da sgargianti fiori colorati prima di Pasqua; giallo di biada secca, assordante e odorosa, per il rientro estivo. Costante il volo battente delle gazze. Rivedo la faccia incantata dal sonno e dalla nostalgia del popolo del

13


treno, sconosciuto ma familiare. Facce che sembravano uscite dal film Pane e cioccolata. Salentini “con il cuore negli occhi” – per dirla con il poeta Verri – che, durante gli ultimi infiniti chilometri da Brindisi a Lecce, ammutolivano con le braccia a davanzale sulla traversa del finestrino tirato giù; attoniti; il vento salso tra i capelli. Tra gli emigranti, gli studenti, i militari finivano le celie, i discorsi, le risate. Si rimaneva ammaliati a guardare la campagna cercando d’avvistare le prime fabbriche di Surbo; trasalendo a ogni stridulo rallentamento; le valigie già nel corridoio a esorcizzare un altro cronico ritardo. Ricordo il sottile piacere che si provava quando l’inconfondibile aroma di caffè, proveniente dalla torrefazione di don Nino – sarà per questo che un salentino ama il caffè Quarta? – amico odore di casa, annunciava che la meta era raggiunta. La campagna, quella stessa che fa da sfondo ai servizi televisivi di cronaca nera, lasciava il posto alle prime casacce di leccese corroso, insidiate dal fico selvatico e dal cappero, sino all’invocata stazione, dove occhi bramavano incontrare altri occhi amici, venuti ad accoglierci su quello che è il binario morto d’Europa. Tutta quest’attesa piena di speranza riservava sempre un’amara, angosciosa, sbigottita sensazione d’insoddisfazione. Eppure il mio paese, per chi proviene da Lecce, inizialmente appare come un’oasi con i suoi pini, le antiche ville, le piante ornamentali, la sagoma imponente della cupola della chiesa che si staglia sul paese grigio e bianco. Entrando in paese si cercava con lo sguardo un cambiamento mai avvenuto. Solo nuovi manifesti di lutto. E sgomento. Saranno stati i genitori ogni volta un po’ più invecchiati, qualche amico andato via, quella ragazza tanto ammirata che si era fidanzata o solo la sensazione che il nostro paese, nel frattempo, si era mosso a rallentatore, molto più lentamente di quanto era successo in noi. L’angoscia cresceva ogni volta che si ritrovava il paese più a soqquadro: l’edilizia sciatta e volgare, le case incompiute, le strade sporche, le insegne invadenti, il centro antico violato. Tra i riferimenti sociali in via di disgregazione, ritrovavo i giovani affannati a inseguire lumache, in pa-

14


ziente attesa di un impieguccio concesso da qualche laico santo patrono arrogante ma ben infeudato politicamente. Qualcuno lo ha avuto e ancora oggi vive in costante devozione per grazia ricevuta. Tanti non ancora. Tanti non l’avranno mai. Era il rutilante squallore dei primi anni Ottanta. Il paese idealizzato, quello accogliente e familiare, uterino, che avevamo immaginato per mesi, si rivelava ancora una volta deludente. Per me, che vivevo – e ci stavo tanto bene – nella culla del Rinascimento, consapevolmente altera di Dante e di Luzi, del Brunelleschi e di Michelucci ma anche orgogliosa della ribollita e della fett’unta, la rassegnazione del mio paese all’anacronismo non poteva essere che tragica. Scaturiva la voglia di fare qualcosa, di scuotere l’andamento indolente dei miei paesani, delle loro coscienze. Per questo, forse, si ritorna. Presuntuosamente. Per questo, forse, ci si allontana per non tornarci più. Vinti in partenza. Fui tra quelli che ritornarono, con il cuore in gola. Era una lunga sera di novembre, di pioggia fine, di ponente. Di quell’acquerugiola salsa che fa lacrimare i vetri delle case, quando le luci sono più fioche e le strade più deserte, mentre le gomme delle rare macchine cincischiano lente sull’asfalto viscido tracciando, tra riflessi luminosi, paralleli ghirigori. E ancora adesso ritorno, spaesato, da altri viaggi in altre civiltà sempre più convinto che non siano i soldi a differenziarle. Il denaro è il risultato dell’essere diversi, non il mezzo per essere diversi. Mi ritrovo sempre con la rabbia di non poter ottenere di più, con la consapevolezza d’essere stato impotente di fronte all’indifferenza, alla noia ben concimata, al “chi te lo fa fare”, al disincanto, all’incontrovertibilità dei soliti meccanismi sociali consolidati. Col dolore sordo che comporta la consapevolezza di essere stato lasciato troppo solo, o poco accompagnato, in un’impresa molto grande. Ancora oggi, rientrando dopo un’assenza più o meno prolungata, ogni volta riscopro un territorio saccheggiato, erbacce su bordi di strade

15


sconquassate, oleandri bruciati, branchi di cani randagi che spadroneggiano, le cartacce per strada e una selva di manifestini sui muri. Ritrovo le torme di ragazzi che vagano sbandati alla ricerca, inconsapevole, del loro incerto futuro; uomini seduti a cavalcioni di una sedia sulla porta della bottega ad aspettare chissà che cosa; il traffico anarchico e menefreghista; i soliti ceffi sulla porta del bar. Pure Salvatore, da vent’anni a Milano, sostiene che ogni anno ritrova il paese leggermente diverso: peggiorato. Di contro, Sebastiano cova l’idea di lasciare il Friuli e portare giù la sua famiglia; la moglie, però, è perplessa, fortemente. Le do ragione. Allora che cosa ci fa amare la “terra del rimorso”? Forse le foto dei nostri cari che ci spiano dalle lapidi di un brutto cimitero? I volti confortanti degli amici e dei parenti? Le mura domestiche? Oppure sono le pietre dei muri a secco, o quelle rosate e sapientemente scavate dei monumenti? O è il sapore del pane e pomodoro, della friseddhra con l’origano? Sarà la pagnotta della ’Razzia, la puccia dell’Immacolata o la scapece di lu Panieri? È il sapore acidulo del rosato di Sammartinu? O è quello corroborante del caffè in ghiaccio? Che cosa rende salentini? Lo sfottò acuto e la cogliona irriverente di cui si fa esercizio nei bar? L’energia che pervade quando si ascoltano i ritmi della pizzica tarantata? Quel carattere di sciacuddhri che ci fa diventare folli solo quando non è necessario? O è l’odore della polvere pirica durante le feste? O quello forte del timo che dalla macchia si porta dentro i nostri paesi col maestrale? Forse è quello di nettare e miele e fiori d’arancio che i primi caldi inviano ai nostri sensi le sere di primavera, rimescolandoci gli ormoni e facendo ridere le giovani donne. È il caldo scoraggiante di luglio, che fa impazzire le cicale, o lo scorciacrape tagliente di marzo, che fa spaccare le labbra? Sono i colori arabi dei nostri tramonti, quando Venere gareggia in sfavillio con la falce della luna? Ci accomuna di più il colore cristallino ti lu mare nosciu o il giallorosso? Sono l’intonazione cantilenante e le zeta dolci del dialetto a renderci popolo? O è proprio solo questione genetica?

16


Tutto questo fascino, però, non può annullare i troppi lati negativi. Domenico è ritornato al mio paese dopo tanti anni; a Jesi stava meglio, ma è ritornato. Là è rimasta la figlia, appena sposata, che si commuove di fronte ai pasticciotti che le portano in dono. I miei paesani lontani si ricordano più dei ritmi lenti e del fatalismo rassegnato alla fazza Diu? Hanno scordato le lunghe sere d’inverno nelle quali i paesi sembrano vittime di una malia paralizzante? Ricordano le domeniche a sera, con i paesi deserti e immobilizzati? Hanno memoria di quella politichetta farsesca, personale, faziosa e inconcludente che, a me come ad altri, continua a non piacere? Ma sono ritornati perché le tirricate sono qui. Amano la loro terra. La vorrebbero migliorare. Anch’io amo la mia terra. Patendo. E ancora non so bene perché.

N.d.A.: Questo scritto, oggi riveduto, risale al 2000. Sebastiano e la moglie hanno lasciato il Friuli. Sono venuti a stabilirsi quaggiù. Anche loro hanno cercato di dare uno stimolo. Ma si sono arresi. Il muro di gomma o respinge o ingloba. I loro figli sono ritornati al nord. Domenico, invece, mi dice che vuole vendere casa e tornare a Jesi. Anche lui si è arreso: il paese tanti anni bramato l’ha deluso. Non sono bastati il profumo e il sapore dei pasticciotti per consolarlo. Giorgio invece, allora ripartì, ma è ritornato ancora una volta. S’è portata dietro la giovane moglie veneta entusiasta – per ora – del Salento, e tre figli sgambettanti che allietano la sua nuova casa in campagna. Ritenta ancora e, questa volta, senza paracadute. Spero per la sua bella famiglia che sia più fortunato. Ma in fondo è una speranza per tutti noi. Salvatore non lo vedo più da anni. Forse ha trovato il paese sempre più brutto e ha scelto di non rivederlo più.

17


Zoo Politico

I giovani non hanno bisogno di sermoni, i giovani hanno bisogno di esempi di onestĂ , di coerenza e di altruismo. Sandro Pertini, messaggio di fine anno, 1978

18


La segretaria del comitato

Ah! ‘Sta doccia ci voleva. Ora mi faccio i peli delle gambe… Una ripresa bisogna farla… Un po’ qui… Mi metto la crema su tutto il corpo. Che bella la crema che ti fa lisce e lucide le gambe. Bene! Non sono male. No. Dai. Qualche centimetro in più d’altezza e sarei una fighissima. Certo che se andassi in palestra… ‘Sto culo mi verrebbe più sodo… La pancia più piatta… Ma chi mi dà i soldi per la palestra? Mi piacerebbero un po’ di fianchi in meno… Va beh… Ai ragazzi piaccio! Uffa che noia stirarmi i capelli con la piastra… E oggi fa pure caldo. Mannaggia… Si sta facendo tardi. Alle dieci devo essere al comitato. Che mi metto? Jeans bianco? Jeans nero? Gonnina corta? Pinocchietto bianco? Oggi mi voglio mettere la maglietta scollata. Sì. Quella che ho comprato al mercato giovedì. Con il push up sotto faccio un figurone! Ho visto come mi guardano… Mai negli occhi! ‘Sti porci! Eh eh eh… Allora se mi metto lo scollo non mi metto la mini, altrimenti fa troppo zoccola. Gambe depilate e incremate ma niente mini. Oggi mostro tette, domani mostro gambe. Al comitato già c’è Tamara che si espone tutta, che sembra una che sta davanti al paracarro. Tutta sexy, tutta ammicchi. Le unghie finte con lo smalto a brillantini. Come li lava i piatti? La odio. Pare ce l’abbia solo lei. E quei cretini come la cercano… ‘Sti maschietti che cercano le zoccolette e poi vogliono sposarsi le vergini. Scemi! Ma ce n’è tre che sempre con me cercano di parlare. E uno che viene sempre, uno di questi, è pure bono: Luca. Che begli occhi verdi che ha Luca. Per lei stravedono quei quattro stronzetti che fanno le affissioni, i quattro del settore attacchinaggio. Tamara qui, Tamara lì, Tamara vieni con noi che ci facciamo un cannolo… E

19


lei ride, come la zoccola che è, a questi scemi coi doppi sensi. E si fa toccare, abbracciare, ammicca e promette disponibilità… Perché siamo dieci ragazze al comitato e quattro ragazzi, due squadre di due, coi secchi e le scope attaccano manifesti. Pure sul ponte della superstrada li hanno attaccati ‘sti matti! Che mi metto sotto? Perizoma? Bianco! Panta bianco, perizoma bianco. Push up bianco. Questo semplice. Se no si vedono i merlettini sotto la maglietta aderente. E fa vecchia signora tardona. Ecco. Sto bene. Metto le scarpe di corda con la zeppa e il laccio alla schiava, sì… Sì! Sotto al panta corto sono fighissime. Metto quelle fucsia, come la maglietta. Ecco! Prova specchio. Uhm, positiva, va! Non c’è male. Vado. Passo un attimo a comprarmi un altro rossetto. Passo da Monica, alla profumeria. Ora, con l’anticipo di centocinquanta euro che mi ha dato il candidato, almeno non devo chiedere nemmeno questi soldi alla mamma. Ché quella tiene già i problemi con papà che da due mesi sta in cassa integrazione, c’ha il muso, e ogni volta che deve tirare fuori un centesimo si agita. È la seconda volta in due anni che rimane a casa. Dice che finiremo sotto i ponti, di questo passo. Ma io ho centocinquanta euro miei, e a fine campagna elettorale, il giorno dopo lo spoglio, me ne toccano altrettanti. Però se il mio candidato vince e va alla Provincia me ne dà trecento! No, dico, menomale che Monica – quella della profumeria – mi ha dato questa dritta, che cercavano ragazze per il comitato. Ché lei è la nipote del candidato. E ha fatto il nome mio. Servivano ragazze carine ed esperte di segreteria. Io ho fatto il professionale per segretaria d’azienda. Esperienza non ne ho… Ché sono solo due anni che mi sono maturata. Ma sono carina, rispondo al telefono, curo l’agenda e sono curata io. Tanto non chiama molta gente. Però dice che ho una bella voce, senza tanta inflessione di queste parti, che fa troppo cafona. Così mi hanno messo al telefono e all’agenda. E scrivo le cose sulla lavagnetta velleda.

20


Un mese fa mi sono presentata dal candidato con altre trentadue ragazze e gliene servivano solo dieci. Menomale mi ha scelta. Mi ha detto di essere gentile e sorridente con tutti perché nel comitato entrano i ragazzi. E allora è bene che lo staff di ragazze sia carino, ben vestito, sorridente e che dia un po’ di confidenza ai ragazzi. Così questi si avvicinano, parlano e alla fine lo votano pure, il candidato. Ché se no questi stronzetti pensano solo al calcio e alle moto. E manco vanno a votare. Non gliene frega niente della politica a questi. Ma neanche a me ne fregava, prima di avere il posto al comitato. E pure dopo che sto qui non è che ci capisco tanto. Io alla Tv vedo “Uomini e donne”, “Amici”, il “Grande fratello”, “La fattoria”… ‘Ste cose qua. Quelli con la giacca e la cravatta quando li vedo cambio subito. Parlano di cose che non capisco, litigano sempre. Pure a “Uomini e donne” litigano, pure ad “Amici”. Al “Grande fratello” si menano pure… Ma quelli li capisco. Insomma, io e le mie amiche – amiche, mo: le altre ragazze del comitato, non è che le conoscevo tutte prima – facciamo un po’ lo specchietto per i ragazzi. Me l’ha detto chiaro Monica che la cosa andava così. Non è che me l’ha detto il candidato. No. Quello fa il serio. Pure lui ci guarda. E fa tutto il gentile. Quel montato. Arriva tutto chic, ed è un cafone pure lui… Con i polsini sbottonati… E i calzini corti sotto all’abito grigio. Mamma mia. Con certe cravatte! Se le deve far scegliere dalla moglie. Ché la moglie è tutta vestita con i colorini. E le cravatte, pure, certi colorini... Ma chi si mette più le cravatte? Solo i politici! Se lo senti quando parla di affari al telefono sembra un cafonaccio. Invece poi sorride e fa il figurino. Ma io lo voto. Mi dà trecento euro e se va alla Provincia… Altri centocinquanta! Premio partita, lo chiama. Speriamo che vada. Non per i soldi in più che mi darebbe – almeno ha detto così – ma perché se va alla Provincia mi può aprire la strada per un concorso… Che ne so! Pure a fare l’usciere, la segretaria… Mah!

21


Allora l’altro giorno è venuto vicino a me per vedere le telefonate che avevo ricevuto e i contatti che avevo già attivato per la convention alla trattoria Perla del mare. Mi ha detto tutto serio: –Mi piaci, sai?– e mi ha guardato con l’occhio strano. Io zitta. Che vuole questo? Che ha l’età di mio padre, questo. Mi ha detto: –Dico: mi piaci come lavori.– ah, beh. E io niente, sorrisino e basta. –Mi piace che tu ti stai impegnando, brava!– mi ha detto. E al “mi piace” mi ha guardata in un certo modo, ma non proprio negli occhi, più nella scollatura, ché avevo una maglietta con lo scollo a v e il push up che faceva il suo lavoro. E io: –Grazie, sto qua e faccio quello che devo fare… –No, no… Tu ti impegni. Grazie. Quando mi eleggono, ti trovo una sistemazione. Ti sistemo io per bene… Poi ne parliamo…– mi ha detto. –Una sera ne parliamo.– bah! Una sera? Mi sa che pure questo… Io voglio entrare alla Guardia di Finanza. Veramente. Ho visto una bella serie alla televisione. E c’era una ragazza. Io come quella voglio fare. Chissà se mi raccomanda. Io la sera che ne parliamo glielo dico. Io il fisico ce l’ho. E il diploma di professionale… Si va beh, meglio che niente. Sempre diploma è! Speriamo che mi raccomanda. Lo debbo fare votare. La zia ha detto che il voto glielo dà. E la mia amica Sonia pure. Ma non è facile trovare voti. Per esempio: a casa mia non se ne parla proprio di trovare un voto per il candidato, dico. Mio padre è incazzato. Vota a sinistra della sinistra. –Un operaio è contro i padroni– diceva prima. Mo con la cassa integrazione sta proprio amaro. Se la prende con tutti. Mia madre pure vota a sinistra. Ma meno a sinistra di papà. E quelli al candidato non lo votano. Il mio candidato con questa lista civica di centro non si sa che cosa è. Ma prima era di destra. Ora lista civica di centro. Così a

22


quelli di destra dice che lui pure è con loro, a quelli di sinistra, ce n’è pochi ormai che lo dicono, pure dice che è con loro. Il candidato sa fare il furbo. Perciò lo votano. E io sono contenta. Così o mi trova un posto o mi raccomanda alla Guardia di Finanza. Speriamo. Tanto o destra o sinistra a me basta che danno da lavorare. Con la cassa integrazione di papà stiamo male. Mio fratello è scemo. Quello. Non lavora. Perde tempo con cose strane. Mo va distribuendo volantini. Si fa un culo tanto e lo sfruttano come uno schiavo. E la sera perde tempo a suonare i bonghi e farsi le canne nei giardini pubblici. Che scemo. Io gli ho detto: –Presentati che cercano ragazzi per attacchinaggio. Paga come me: centocinquanta prima e centocinquanta dopo. Più premio partita. Lui dice che a “quello”, così chiama il candidato, lui non attacca i manifesti. Che lui è nato compagno. –Compagno che magno?– lo sfotto io! E lui si incazza e dice che vado a fare la zoccola. Ma non è vero. Solo perché rido e sono gentile? Che fa. Tanto il ragazzo non ce l’ho. Quello di due anni fa è partito a Bergamo. Fa l’elettricista a Bonate Sotto. Dopo sei mesi ci siamo lasciati. Lui là, io qua. Non me la sentivo di fare la vedova. A vent’anni, poi. E lui lì chissà che faceva. Con le bergamasche. Va beh che erano tutte di altri posti, mi ha detto, quelle che conosceva. Pure slave. Le slave sono belle, come la Moric. Chissà quello che faceva. Là. E io qua a fare la vedova e mandarmi le frasi ciccine ciccine con gli sms. Non è cosa. E poi chissà quello che faceva. Là. Ché io potevo fare pure la vedova qua, ma un maschio fuori di casa e libero non lo fa il vedovo. Questo pensavo. Ce n’è uno qua che mi piace: Andrea. È studente di economia. Non c’ha ‘na lira. Quando siamo andati al pub nemmeno mi ha offerto la birra. Ma mi piace. Ma non si è ancora buttato avanti.

23


Ieri è venuto al comitato. Ma mi è sembrato freddo, impacciato. Vuoi vedere che non gli piace che io sto là? Anche perché questo è di destra. Non lo vota il candidato. Nemmeno lui. Mannaggia. Se questo non va perdo il premio partita. Che scemo, Andrea. Fa il geloso, pure. L’ho capito. Io sto là solo per i trecento euro. E per vedere se il candidato poi mi raccomanda. Ché mi ha detto che poi una sera ne parliamo seriamente. Una sera. Che vuole questo? Nemmeno che è il mio ragazzo. Insomma: io non mi sto capendo sola. Che devo fare, che farò dopo… Se mi voglio fidanzare o se preferisco fare la civetta ogni sabato con un ragazzo diverso. Non lo so. Mia madre dice: –Calmati, pensa veramente a che vuoi fare, chiedi se vai a una parrucchiera. Ma io non voglio fare la sciampista. E lei mi dice: –È meglio che perdi tempo con quel comitato?– e io le ricordo i trecento euro. Che con quelli mi sono comprata la maglietta, il reggiseno di seta liscio e oggi vado e mi prendo un rossetto lucido, buono, non di quelli cinesi del mercato che, dicono, sono velenosi. Mo non può essere che passi dalla profumeria ché ho fatto tardi, mannaggia. Certo è che loro parlano ma ai tempi loro era tutto facile. Mio padre il lavoro lo ha trovato alla mia età. Era tornitore. E l’hanno preso ché l’ha raccomandato il segretario del sindacato. Però con quel lavoro si è sposato e si è fatto pure la casa sopra a quella del nonno. Che il nonno era dovuto andare in Belgio per farsela. Mia madre faceva i ritocchi ai capi di un negozio di abbigliamento. Ora il negozio ha chiuso e mio padre è in cassa integrazione. E io ho solo la sicurezza che fra qualche giorno avrò 150 euro. Se me li dà, se mantiene la promessa. Ma se va bene me ne dà trecento e forse mi raccomanda. Se no, o vado a fare la cameriera a Rimini, o la sciampista. E io una casa quando me la potrò fare? Quante elezioni a trecento euro occorrono per farsi una casa? Ecco sono arrivata. Puff... Le dieci!

24


–Ciao, tutte qua? Andiamo a prenderci un caffè? Sentita l’intervista del candidato alla radio, stamattina? No? –Ehi, Tamara! Che bella minigonna hai!

25



Turn static files into dynamic content formats.

Create a flipbook
Issuu converts static files into: digital portfolios, online yearbooks, online catalogs, digital photo albums and more. Sign up and create your flipbook.