Guerra, fichi e balli

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Rocco Nigro

GueRRa, fichi e balli Salùtëmë tuttë e tu sonë sembë


Ringraziamenti a: La mia famiglia che è sempre e da sempre al mio fianco, Renato Grilli, Valerio Daniele, Marco Cito, Francesco Martelloni, Francesco Catastini, Massimiliano Morabito, Giovanni Amati, le sorelle Gaballo, Antonio Calsolaro, Antonio esperti, Angelo Berardi, Francesco Massaro, Giuseppe oliveto, Valentino Curlante.

Copertina e opere pittoriche di Marco Cito TesTo Rielaborazione di Renato Grilli Correzione di Francesco Martelloni Correzione parti dialettali di Giovanni Amati DisCo Registrato e mixato da Valerio Daniele presso Chora studi Musicali a Monteroni di Lecce Consulenza di Massimiliano Morabito & Giovanni Amati Arrangiamenti di Rocco Nigro

edizioni Kurumuny sede legale: Via Palermo, 13 – 73021 Calimera (Le) sede operativa: Via s. Pantaleo, 12 – 73020 Martignano (Le) Tel. e Fax 0832 801528 www.kurumuny.it – info@kurumuny.it isBN 978-88-98773-15-2 © edizioni Kurumuny / Rocco Nigro – 2014


Al mio nonno valoroso che mi ha trasmesso l’amore per le cose piccole, cosÏ belle e chiare da essere diventate invisibili ai piÚ.



indice

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introduzione Le piccole memorie di Francesco Catastini Prima parte

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La guèrrë di Roccë di Vitalònghë

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Arrivò la cartolina Dall’altra parte del mare Pulivamo dai morti Parlavano il napoletano Arrivai a casa a mezzogiorno

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Seconda parte 51

i sette doni del nonno


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Dopo aver letto, posso dire di Renato Grilli

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il suono della memoria di Massimiliano Morabito

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i ballabili dell’aia

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i brani del disco


Introduzione

Mi chiamo Rocco Nigro e sono un suonatore di fisarmonica. Non lo sarei mai diventato se non ci fosse stato il mio caro nonno, Rocco Nigro anche lui. Questo lavoro è un sentito modo per rendergli omaggio e per dirgli grazie. Non era un uomo di molte parole, mio nonno Rocco. Raccontava volentieri solo le storie della sua guerra; raccontava senza stancarsi solo se ad ascoltare c’ero io, suo nipote Rocco. Dopo la sua morte, sono passati alcuni anni prima che riprendessi in mano le registrazioni che avevo fatto delle chiacchierate con lui, i suoi racconti. Riportare alla memoria la sua figura è stato un fatto profondamente entusiasmante. Una specie di autoipnosi, a volte, per rivivere certi momenti, offuscati dal passare dei giorni. Credo succeda a tutti, in quei casi, di ricordare le cose più impensate, di rivedere particolari a cui non avevi dato allora minimamente peso, mentre li vivevi: l’odore della terra dopo la pioggia, i girini nell’acqua melmosa dello stagno, l’odore della sambuca nel caffè in quel particolare giorno.

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Gli piaceva fino a commuoversi farmi dei regali, già quando ero bambino. Che fossero soldi, dolci, giocattoli o altro, gli piaceva sempre aggiungere un dono speciale, come se fosse un rito segreto tra me e lui: un fico maritato, che mi metteva in tasca con fare furtivo. A lui, diceva, i fichi avevano salvato la vita, e a me avrebbero portato fortuna. Nel procedere del racconto ho deciso così di narrare alcuni episodi legati a quel dono di fico maritato; a cominciare dal primo, nei miei ricordi di bambino, fino a quello dei suoi ultimi giorni. infine, per la parte musicale, ho chiesto agli amici musici, compagni di diverse avventure, di immaginare le atmosfere create da chi suonava allora, quando le coppie danzavano sulle chianche, nelle aie davanti ai trulli nella nostra terra, ai tempi di mio nonno. Così ho cominciato ad ascoltare i vecchi motivi di quel vecchio mondo con umiltà e curiosità. sentivo che per ricreare quei suoni, per far rivivere quelle melodie, si doveva puntare sulla loro gioia e semplicità, sul mistero e il miracolo di come ingenue note di semplici melodie potessero smuovere tante emozioni, così forti e profonde da non potersi più dimenticare. Proprio tutto quello che avevo visto, conosciuto e amato di mio nonno.

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Le piccole memorie

Perché da storico e per giunta toscano, figlio della tradizione dell’ottava rima e del bruscello, mi trovo a introdurre questo prezioso racconto di Rocco Nigro? Non conoscevo Rocco e neppure suo nipote. Quando mi è stato chiesto di scrivere qualcosa, ho domandato di inviarmi il manoscritto. sono state sufficienti le prime dieci righe perché la mia curiosità partisse al galoppo: Rocco nonno di Rocco; Rocco mentore e ispiratore del nipote Rocco, musicista innamorato delle melodie e dei ritmi della tradizione della sua terra, il salento, e di molte altre terre. Perché nonno Rocco è importante per me e per chi avrà la fortuna di imbattersi in questo manufatto costruito con alcuni bei racconti, bei disegni e musica incantevole? Nonno Rocco è una delle moltissime persone che hanno subito la storia, quella con la esse maiuscola, tanto che, nel gergo degli scienziati sociali, non potrebbe essere definito “attore”. Allora, forse, si tratta di una comparsa, una di quelle figure che, nei film, compie azioni di contorno. C’è da dire che molti film sono memorabili proprio grazie alle comparse, che ne segnano i momenti corali e aiutano la sceneggiatura a prendere forma e sostanza. Attraverso nonno Rocco Nigro è possibile capire come ogni singola vita, ogni singola esperienza possa agire la storia (sempre quella con la esse maiuscola) e possa tentare di ristrutturarla secondo le proprie 9


esigenze. inoltre questo racconto, messo insieme all’enorme mole di testimonianze a nostra disposizione, ci restituisce un ricco paesaggio di piccole memorie che mette in condizione gli storici di capire cosa pensavano gli uomini di una certa generazione; come esponevano i fatti e le situazioni da loro attraversate; e come, grazie alle loro narrazioni, spiegavano e tentavano di dare significato a un imprevisto per poi collocarlo in un insieme coerente e privo di contraddizioni. Un paesaggio, dunque, che ci aiuta a comprendere il criterio con cui le persone interpretavano, rappresentavano e valutavano il proprio tempo. Abbandonarsi alla lettura di questo piccolo capolavoro di scrittura breve, spero possa suscitare il desiderio di conoscere meglio la nostra storia. Faccio un unico esempio: l’arrivo della cartolina precetto e, a seguire, il tentativo fallito di diserzione, in pochissime righe ci raccontano moltissimo su quello che è stato chiamato “consenso” nei confronti del regime fascista: ero giovane: non avevo ancora compiuto vent’anni. Ma loro mi dicevano che avevo imparato a sparare alcuni mesi prima, durante i sabati fascisti a san Michele, che si facevano gli allenamenti con le armi. e se sapevo sparare adesso dovevo partire...

il racconto di nonno Rocco, in questo caso, non cerca di autoassolverlo dall’adesione a un regime responsabile delle Leggi Razziali e di aver trascinato l’italia in molte guerre. Ci illustra piuttosto una distanza dal regime. Non si tratta di una lontananza ideologica e consapevole dal fascismo, piuttosto di due universi distinti. Nonno Rocco 10


doveva lavorare la terra per vivere e il regime rappresentava qualcosa di ineluttabile, come il susseguirsi delle stagioni o l’arrivo di una grandinata. È proprio la forma scelta da Rocco per raccontare questo suo pezzo di vita che ci dice molto: le istituzioni, lo stato sono “loro”, qualcosa di sideralmente lontano. e adesso, Rocco, «suonami il Valzer di mezzanotte».

Francesco Catastini Fucecchio, dicembre 2013

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Prima parte

LA GUeRRA Di RoCCë Di ViTALòNGhë

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Arrivò la cartolina – San Michele Salentino, Taranto, Monopoli, Ostuni, Bari –

ero ragazzo. Andavo a lavorare in campagna tutti i giorni, come tutti quelli della mia età. era normale, si faticava tutti per il pane. Ma era faticoso molto, e trattati pure male. Così, se veniva il temporale, eravamo allegri, ché non si lavorava. Ma poi spioveva e ci dicevano: «Sciàmë a runcà l’érvë!» [Andiamo a tirare l’erba]. Dipendeva anche dal fatto che c’avevamo paura che se non facevamo le cose a posto e lo veniva a sapere nostro padre, erano mazzate. i nostri padri non erano come quelli moderni, non so se mi spiego! Le famiglie erano povere quasi tutte. Qualcuna era poverissima. Ma la nostra era pure una famiglia sfortunata, perché oltre alle pessime condizioni economiche c’avevo un fratello che per una febbre forte, una malattia patita che aveva tre anni, ci rimase paralizzato. e io, essendo il più grande dei fratelli, ero il suo tutore, me ne dovevo occupare io per tutto. Così, quando tutti andavano a ballare alla festa di Masserìa Novë*, io dovevo restare a casa col bambino. Crescevo così, come si fa in campagna. Lavorando e facendo le cose da fare. Tutti i giorni e spesse volte pure la domenica. Ma spensierati, ché il domani arrivava da sé, senza che ci pensavi. e dopo, un giorno, arrivò la cartolina.

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era il mese di febbraio del 1940 e da noi non c’era ancora la guerra. Non si vedeva e non si sentiva niente, al paese nostro. Ma dovetti partire lo stesso e nonostante tutto – non è che a casa ci stavamo bene – io non ero per niente contento di partire. ero giovane: non avevo ancora compiuto vent’anni. Ma loro mi dicevano che avevo imparato a sparare alcuni mesi prima, durante i sabati fascisti a san Michele, che si facevano gli allenamenti con le armi. e se sapevo sparare adesso dovevo partire… Andammo a Taranto per la visita. Dopo la visita, ci misero subito nel treno e ci portarono fino a Monopoli. Dico noi per dire quelli di san Michele: eravamo in otto. Mi ricordo ancora tutti quanti: c’era Tumàsë di Pagnìnë, dopo venivano Carlë a Purcarìë e Ronzë d’Annibëlë, poi c’era Minguccë di Piss Piss, c’era Ljicchë di Ciccuneddë, Catadë u Francaviddésë. e c’era pure Palmisano e ultimo c’ero io, Roccë di Vitalònghë. Così mi chiamavano, che era la mia ‘ngiurië. Là a Monopoli, alla caserma, non si stava bene per niente. si mangiava, sì, ma tirava un’aria pesante, brutta assai. Così ci trovammo la sera a parlare di che si poteva fare, e già al secondo giorno decidemmo di scappare! Approfittiamo della distrazione delle guardie, usciamo dalla caserma tutti tranquilli – ché facevamo finta – e ce ne andiamo per la stazione. A pensarci adesso, dico che eravamo giovani e incoscienti. Fu per quello che riuscimmo a salire nel treno diretto a sud, verso ostuni. Quando ci ripenso mi dico sempre: «Che pazzia!» 17


Arrivati alla stazione di ostuni, ce ne andiamo a piedi per la salita che porta fino al paese. Cammina, cammina: non si arrivava mai. A un certo punto viene un carretto, che lo portava un vecchio. Lo facciamo fermare di garbo, e uno di noi gli dice: «Ci porti fino a Masserìa Novë?» Quello ci guarda e fa: «e quanto mi date?» io, bello nascosto, lo tenevo qualche soldo; ma gli altri, non sapevo se lo tenevano pure loro. invece, per la buona sorte, qualche cosa ce l’avevamo tutti. Mettiamo tutto dentro un cappello da dare al vecchio, ma quando passiamo da Catadë u Francaviddésë quello s’impunta come un mulo e dice: «io non pago!» Noi altri lo guardiamo in faccia e gli diciamo: «e allora vienitene a piedi!» e fece proprio così: venne da ostuni fino a san Michele – che saranno dodici chilometri! – tutto a piedi. Lui così e noi col carretto. A casa – per dire come eravamo fatti, che non ci rendevamo conto di niente – siamo rimasti due giorni: a fare quello che si faceva sempre, senza preoccupazioni, per dire, che eravamo disertori. Ché manco la sapevamo, quella parola. Così quando ci vennero a prendere al paese non faticarono molto: stavamo tutti a casa nostra. Ci presero e ci riportarono tutti nella stessa caserma di Monopoli. Ma questa volta non in camerata: in cella ci misero! sotto chiave per una giornata intera. Forse pure senza mangiare – non mi ricordo bene. 18


Ma a ripensarci adesso penso che furono buoni: nonostante che eravamo disertori, non ci fecero processo né niente. Ma, forse, non ci fecero niente perché allora – si capisce – noi gli servivamo come il pane. il 17 febbraio, sempre il 1940, ci presero e caricarono sul treno. Arrivati a Bari, ci inquadrarono, divisero e ci fecero marciare. C’era già la nave pronta che ci doveva portare in Albania: allora soltanto ci vestirono di soldato. salgo sopra tutto vestito, insieme agli altri. era la prima volta che andavo su una barca. e che andavo oltre il mare.

* Fino a qualche decennio fa, san Michele salentino era detto Masserìa Novë. Agli inizi del XVii secolo, Michele Vaaz de Andrada creò, attorno a una masserìa, un piccolo villaggio e lo popolò con novanta famiglie provenienti dalla schiavonia (Balcani). intorno alla metà del settecento i possedimenti furono aggregati al comune di Ceglie Messapica, e agli inizi dell’ottocento passarono al comune di san Vito degli schiavoni (oggi dei Normanni). il contenzioso tra le amministrazioni locali ebbe termine solo nel 1928, quando san Michele salentino fu costituito in Comune.

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Dall’altra parte del mare – Valona, Fier, Scutari, montagna, Korce –

Ci portarono dall’altra parte del mare e ci sbarcarono a Valona. i primi albanesi che vidi – mi ricordo ancora – avevano dei fazzoletti davanti agli occhi per coprirsi la faccia. Mi facevano paura. A Valona siamo rimasti fermi, senza fare niente – solo mangiare e dormire – per tre mesi e più: da febbraio, che eravamo arrivati, fino a giugno, che poi partimmo. Un giorno ci dicono gli ordini e ci mettono in viaggio, a battaglioni. Andavamo a scutari: erano duecentocinquanta chilometri, da fare tutti a piedi – mannaggia! – e quasi mai le soste! Arrivati vicino a Fier, dopo un bel pezzo, io non ce la facevo proprio più. C’avevo un dente messo male, che sanguinava pure. Cominciai a pensare come dovevo fare. Allora mi tengo un bel poco di sangue in bocca e a un certo punto comincio a sputare, tanto che gli altri soldati – e dopo pure gli ufficiali – si spaventano, chiamano l’ambulanza e mi portano fino a Fier, dove stava una specie di tenda di ospedale. e là, finalmente, mangiammo. Alla tenda c’era un ufficiale, un tenente – il tenente De Fiume, mi ricordo ancora il nome – che mi guardò dentro la bocca e mi disse: «Nigro, vuoi vedere che anch’io sono capace di sputare sangue dalla bocca?»

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