Le cicale

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VOCI SUONI E RITMI DELLA TRADIZIONE Collana di musica salentina diretta da Luigi Chiriatti



CANTI SALENTINI DI TRADIZIONE ORALE

a cura di Luigi Lezzi

KURUMUNY


Provincia di Lecce Comuni di: Alessano Cutrofiano Melpignano Sternatia

Edizioni Kurumuny Sede legale: Via Palermo n°13 Tel. e Fax 0832.875398 73021 Calimera – Le on line: www.kurumuny.it mail to: info@kurumuny.it ISBN 978-88-95161-05-1 Progetto grafico: Erik Chilly Si ringraziano: Prof. Anna Merendino (Istituto Storia delle Tradizioni Popolari – Università degli Studi di Lecce), Giovanni Chessa (Istituto Ernesto de Martino) © Edizioni Kurumuny – 2007


Indice

Avvertenza

p. 7

Le Cicale e il canto salentino a para uce

p. 11

di Luigi Chiriatti

Il canto a para uce

p. 15

La provenienza del materiale

p. 25

Album fotografico

p. 59

Per un’analisi formale La melodia L’armonia Il ritmo Il timbro

I canti

di Raffaele Palermo

p. 33



Avvertenza Questa ulteriore raccolta di brani della musica tradizionale salentina testimonia, ancora una volta, che in ogni comunità esistono persone che più di altre ricordano; conservano un particolare legame con la storia del territorio, con i suoi simboli, i suoi segni, le sue sonorità. I personaggi e i canti di questa raccolta, per nostra fortuna salvati dall’oblio definitivo, rappresentano solo una piccolissima parte di ciò che il territorio conserva e ricorda. Le poche note che seguono non pretendono assolutamente di essere esaustive delle emozioni che i canti qui eseguiti possono trasmettere, ma servono solo a ricordare e a farci prendere coscienza e conoscenza della ricchezza e della bellezza che ci circonda e che il più delle volte o ignoriamo o ci hanno insegnato a ignorare. Sin da bambino sono stato abituato al canto salentino e soprattutto a quello a para uce. Più persone riunite nelle case o sulle aie, a un certo punto, si mettono a cantare. C’è sempre qualcuno che dice: comuncia ca nui te secutamu (comincia che noi ti seguiamo). Allora si alzano le voci: la prima, la seconda, la contro voce, i bassi, tanti bassi, naturale tappeto sonoro su cui tutte le altre voci si poggiano, si intarsiano e merlettano il canto così come i licheni e i muschi fanno con le pietre dei muretti a secco, disegnano trame immaginarie e senza orizzonte. 7


Paesaggi sonori di rara bellezza e bravura che tracciano un immaginario collettivo di dignità alla vita, che permette a tutti, anche ai più umili, di accedere alle categorie del bello, delle emozioni. Prendere i suoni, fra queste voci – come dicevano le tarantate quando si muovevano tra i musici dell’orchestrina terapeutica – significa aprire il corpo, la mente e farsi qamare da queste: voci addestrate al canto nel rispetto dei ruoli. Cantori coscienti di possedere pienamente la grammatica del canto salentino e le sue infinite sfumature. Grammatica che è la sintesi di infiniti cantori che nel corso della loro esistenza e di quella di altri e altri ancora hanno assimilato, personalizzato, fatta propria e tramandato di generazione in generazione. Cantare a para uce significa avere i canoni di tutta la poesia popolare; non solo una bella voce. Quando si ascoltano questi canti, e i cantori sono bravi, come nei brani proposti, senti la nonna che ti ninna mentre poggi la testa sul suo grembiule, e non è più canto ma cuntu. Senti lu rusciu del mare, e non è più musica ma panorama di principi e re e regine di Spagna e Turchia. Sono i culacchi e gli aneddoti del monaco, figura archetipica e presente da sempre nelle nostre comunità. Sono le passioni, gli amori e le ansie della quotidianità. Quando prendi questi suoni, vedi questi cantori, vedi i loro volti, vedi i loro corpi. Volti e corpi come quelli raccolti da Alan Lomax nel 1954 o come quelli ritratti da Clara Longhini e Gianni Bosio nel 1968. 8


Corpi e volti che ci permettono ancora di emozionarci e di stupirci. Come le cicale che per un breve periodo dell’anno ci stupiscono e ci avvolgono nelle loro sonorità cosÏ naturali e simili alla struttura del canto a para uce salentino: prima voce, contro voce, bassi, tanti bassi. Luigi Chiriatti

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Le Cicale e il canto salentino a para uce

Intorno al solstizio d’estate, ogni anno, nel Salento torna il canto d’amore delle cicale. È un suono continuo, che si interrompe per qualche ora durante le notti più brevi dell’anno e si arresta completamente solo quando tutte le cicale si sono accoppiate. Per circa un mese e mezzo in città come in campagna, lungo le strade trafficate come lungo i litorali solitari, nessuno può fare a meno di ascoltare questo continuo tappeto sonoro che fa da sottofondo a tutte le attività umane, condizionandole forse in qualche modo. Uno stile di canto salentino, come quello che qui si prende in considerazione, presenta diverse analogie con il verso di quest’animale, canoro per eccellenza. Se si accetta per gioco questa relazione, senza pretendere che questo gioco rappresenti una verità scientifica, se ne ricavano diverse suggestioni basate su alcune caratteristiche comuni ai due fenomeni, alla loro forma e al loro contenuto. In entrambi i casi, per esempio, è l’amore (inteso prosaicamente come attrazione fisica, come naturale tendenza all’accoppiamento) a determinare l’azione del canto che, altrimenti visto, può essere considerato solo un inutile spreco di energie. Così gli uomini come le cicale dedicano particolare impegno a questo dispendio energetico che si 11


manifesta nell’eccezionale intensità con cui viene prodotto il suono. Il canto a para uce si esegue nei campi dove si lavora e deve avere un volume tanto forte da poter essere ascoltato anche nei fondi vicini; quello delle cicale è proverbialmente così esasperato che, si pensa tradizionalmente, possa provocare la morte dell’animale. C’è un proverbio salentino che recita la cecala canta canta e poi schiatta, (la cicala, a furia di cantare tanto forte, finisce per crepare). L’alto volume utilizzato fa pensare, in entrambi i casi, a una specie di gara fra tutti i componenti del coro, come se il singolo individuo esprimesse, in tal modo, la voglia di emergere dall’anonimato collettivo per proporsi nella sua unicità al destinatario del canto. Sia per le cicale che per i cantori salentini, l’attacco, cioè il segnale di avvio per tutto il gruppo, è dato da un solo esecutore che gradualmente viene accompagnato dal resto del coro. In entrambi i casi, inoltre, si rileva la stessa concezione molto particolare del ritmo, di cui diremo meglio più in avanti, e che vedremo essere sostanzialmente diversa da quella che si può riscontrare generalmente nelle esecuzioni musicali. Persino il timbro della voce che è richiesto al cantore salentino per esprimersi appropriatamente nel canto a para uce, sembra voler imitare quello delle cicale: specialmente nelle voci maschili tende intenzionalmente a rompersi e a gracchiare, ponendosi agli antipodi della voce cristallina adatta invece al bel canto. A un ascolto attento si noterà che quella timbrica, propria dei cori delle cicale, affiora anche nei battimenti che inevitabilmente si generano nell’esecu12


zione delle note lunghe e conclusive del canto a para uce. Si fa riferimento a quelle dissonanze piÚ o meno intenzionali dovute ai microintervalli fra note che dovrebbero essere all’unisono perfetto e che invece oscillano impercettibilmente nella loro altezza.

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Il canto a para uce

L’espressione salentina cantare a para uce significa propriamente cantare a voci unite, cioè cercando di ottenere un effetto di fusione tra varie voci che concorrono all’esecuzione. Si tratta quindi di un canto corale eseguito con le sole voci, senza alcun accompagnamento strumentale. Questo perché tale stile canoro ha luogo generalmente durante i lavori collettivi come la raccolta o la trasformazione dei prodotti agricoli, attività che richiedono naturalmente l’uso delle mani, e che quindi escludono l’impiego di strumenti musicali. I canti a para uce ottengono un risultato ottimale quando sono eseguiti da gruppi di cantori appartenenti a entrambi i sessi: le voci maschili e quelle femminili, nei ruoli tradizionalmente ad esse assegnati mirano a ottenere, in questo modo, un senso di stabilità armonica e di completezza sonora. Tuttavia non è raro ascoltare anche esecuzioni di gruppi di persone appartenenti tutte allo stesso sesso.

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Per un’analisi formale «Ai fini dell’indagine culturale e antropologica, il modo di emissione, il timbro e la particolare animazione del canto primitivo e popolare sono spesso più interessanti ed essenziali delle melodie stesse». Diego Carpitella

Prenderemo in esame separatamente le diverse caratteristiche di melodia, armonia, ritmo e timbro relativi a questo modo di cantare salentino. La melodia

In genere è costituita da tre linee melodiche che, una volta attribuite a tre sottogruppi, restano a loro assegnate per tutto lo sviluppo del brano. Il canto è iniziato sempre da un solo esecutore che – si dice – ‘ttacca (attacca), cioè espone il tema e se ne assume, in qualche modo, la direzione. Nell’attaccare, infatti, è l’esecuotre che individua e indica agli altri cantori il brano stesso, la tonalità, la velocità di esecuzione e, soprattutto, l’ambito modale in cui si muoverà. Ci soffermeremo particolarmente su quest’ultimo aspetto musicale che è di fondamentale importanza nel trattamento della musica popolare e di quella etnica. Trattandosi di un argomento poco noto a chi possiede solo un’alfabetizzazione musicale di base, sarà opportuno chiarire in una 16


piccola digressione che cosa s’intende per ambito modale. In musica il termine modo non rappresenta un sinonimo di maniera, ma ha un suo significato tecnico ed è, invece, sinonimo di modalità. Scegliere un modo per cantare o per suonare vuol dire dichiarare di attenersi a una particolare disposizione degli intervalli fra i diversi gradi della scala utilizzata. Oggi la musica colta contempla sostanzialmente solo l’uso di due modalità fra le tante possibili e sono quelle che si indicano appunto con le espressioni “modo maggiore” e “modo minore”. Le musiche etniche in generale e, per quello che ci riguarda, la musica salentina, possono svilupparsi anche in altri ambiti modali, utilizzando scale diverse da queste due che sono le più diffuse. In particolare, nei canti che qui vengono riportati, compare anche un altro modo musicale che non è presente né nell’ambito musicale colto né nella musica sacra. Si tratta di un modo che si riscontra anche in altre aree del Meridione d’Italia, corrispondente a uno dei numerosi modi riportati nelle classificazioni antiche e medievali, oggi non più in uso. Semplificando, può essere definito come una scala maggiore che presenta il quarto grado aumentato di un semitono. Detto altrimenti, si può anche definire come il modo di fa perché può essere ricavato dal rapporto che hanno i vari gradi della scala nell’ottava compresa tra due note fa, procedendo in maniera diatonica, cioè considerando i soli tasti bianchi del pianoforte. In questo modo si avrà una scala costituita da sette note che procedono tutte per toni interi (due semitoni), tranne che per gli intervalli che sussistono 17


fra il quarto e quinto grado e il settimo e ottavo grado. Tali intervalli sono, invece, di un solo semitono. Il semitono è, nella scala temperata, la distanza minima fra due note. Mettendo accanto un modo di do (corrispondente alla moderna scala maggiore) e un modo di fa si può notare chiaramente la differenza fra le due organizzazioni di suoni, che consiste nella diversa posizione in cui si trovano i due semitoni: Gradi della scala

I

II III IV

V

VI VII VIII

Note DO RE MI FA SOL LA SI DO Posizione dei semitoni

I

II

III IV V VI VII VIII

FA SOL LA SI DO RE MI FA

Nella classificazione medievale il modo di fa viene denominato come “terzo modo autentico” o anche “modo lidio”. Per comodità, nell’analisi dei singoli brani, anche noi lo continueremo a indicare con tale nome, senza tuttavia presupporre in alcun modo una diretta derivazione storica del modo salentino da quello gregoriano che aveva propriamente questo nome.

La voce che attacca si assume, come dicevamo, anche un ruolo di responsabilità per la riuscita dell’intera esecuzione guidando anche gli interventi altrui, approvandoli o disapprovandoli per mezzo di inequivocabili segnali, spesso non verbali. 18


Una seconda voce che, si dice, la gira, risponde a questa prima voce di attacco. La gira implica una ripetizione, con piccole variazioni, dell’esposizione sia testuale che melodica eseguita dalla prima voce. Un numero variabile di altre voci, all’unisono, partecipano al canto con il ruolo di bordone, cioè di tappeto sonoro. Tale ruolo, nel Salento, viene denominato bassu e segue una melodia elementare costituita da due sole note, la tonica e la dominante dell’ambito modale scelto. Il numero limitato degli esecutori che hanno preso parte alle registrazioni che presentiamo, ha portato spesso alla riduzione a uno, a due o a tre, degli elementi che sostengono la linea del bassu. Tuttavia in molte altre esperienze di ascolto e di registrazione abbiamo potuto rilevare, in questo ruolo, anche diverse decine di elementi. Questo è il ruolo riservato a tutti; anche colui che non possiede particolari doti vocali (di timbro, di estensione o di potenza), o che addirittura non conosce il testo della canzone che viene eseguita, può partecipare all’esecuzione lanciandosi, come si dice, a fare da basso. I tre ruoli sono quindi denominati propriamente con questa fraseologia: Jèu ‘ttaccu, tìe la giri e tutti l’àuri se mìnanu e fànnu te bassu, (io comincio, tu mi rispondi e tutti gli altri si lanciano a fare il basso).

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L’armonia

Da un punto di vista armonico questo genere musicale procede in maniera analoga a gran parte della musica colta e specialmente chiesastica, cioè per sovrapposizione di terze. Non c’è modo di sapere se c’è stata, indietro nel tempo, una tradizione armonica diversa, specifica di questa musica regionale e popolare. Gli esempi più antichi che conosciamo attestano anch’essi la sovrapposizione delle terze ma, trattandosi di documenti scritti, sono certamente filtrati da un’interpretazione colta (chi sa scrivere è colto) e quindi vanno considerati con le dovute riserve. L’andamento per terze sovrapposte di cui parliamo viene ad assumere un particolare colore locale quando le linee melodiche si muovono nel modo lidio di cui si parlava prima, creando intervalli verticali eccedenti o diminuiti rispetto a quelli che il nostro orecchio, educato ai modi maggiore e minore, si aspetterebbe. Il ritmo

La nostra proposta di paragonare il canto a para uce a quello delle cicale ha preso il via proprio da alcune osservazioni sul trattamento del ritmo che si nota in questo stile di canto salentino. Diversamente da quello che accade nella maggior parte delle esecuzioni musicali, nel canto a para uce, come in quello delle cicale, viene messo da parte 20


il rigido rispetto della divisione metronomica del tempo, anche se è evidente che tutti i cantori obbediscono a una qualche legge ritmica di una natura più complessa. Si avverte immediatamente l’impossibilità di suddividere il brano in battute tutte dello stesso tipo, fatte di un uguale numero di tempi, a loro volta tutti della stessa durata, come si può fare normalmente nell’analisi di un brano musicale. Qui non risulta di particolare utilità tentare di definire l’algoritmo sotteso a questo modo anomalo di scandire la durata dei suoni, e quindi ci limiteremo solo a fare alcune considerazioni generali su questo fatto e a sottolineare il fascino di questa curiosa analogia. Rimarcheremo, ancora una volta, la sostanziale differenza che sussiste fra questo modo di fare musica e il trattamento del ritmo che caratterizza, invece, la musica colta. La maniera di considerare l’aspetto ritmico di una cultura deriva anche dalla particolare visione del mondo che tale cultura esprime. La scansione ritmica della musica rimanda infatti, in ultima analisi, alla concezione del tempo elaborata da un soggetto culturale. La comunità salentina, nel caso del canto a para uce, mostra di non volersi assoggettare a una scansione esterna del tempo, imposta da un metronomo, ma di voler dominare questa categoria del pensiero per gestirlo con particolare disinvoltura. Di conseguenza la musica occidentale moderna mostra, attraverso la concezione del ritmo che esprime, un’eccessiva subordinazione rispetto alla stessa categoria temporale, dando luogo a ritmi spesso eccessivamente 21


banali e semplici. Questo fenomeno denuncia una forma di fobia rispetto alla categoria del tempo che non si avverte, invece, in ambito etnico. Facendo un discorso generale si può dire che le musiche etniche si avventurano spesso nella gestione di moduli ritmici molto più articolati e complessi rispetto alla musica colta euro-occidentale. Si pensi al largo impiego di tempi dispari che si fa nella musica balcanica (combinazioni varie, anche nello stesso brano, di tempi suddivisi in battute di 5/8, 7/8, 9/8, 5/4…), o alla poliritmia che si rileva in molta della musica africana. Tornando al genere musicale salentino che stiamo prendendo in considerazione, si dirà che in esso il tempo sembra assoggettato alle esigenze espressive degli esecutori. Per questa sua caratteristica il canto a para uce appartiene a quella categoria di canti monodici e corali che si denominano alla distìsa, cioè eseguiti in maniera distesa, non rigida. Distendere il tempo vuol dire allargarlo o stringerlo a proprio piacimento, a mo’ di un mantice di fisarmonica, costringendolo ad assecondare le necessità di respirazione del cantore o alcune sue particolari intenzioni espressive sottese ai vari momenti dell’esecuzione. Da questo fatto deriva anche, per inciso, l’impossibilità di trascrivere il ritmo di questi brani servendosi della grafia musicale colta, cioè per mezzo delle figure di durata o di pausa di cui questa dispone, se non facendo ricorso a un continuo e paradossale uso di punti coronati o di altri segni di eccezione. 22


Il timbro

È quasi impossibile, oggi, rieseguire in maniera corretta i canti a para uce, soprattutto per la particolare qualità timbrica posseduta dai cantori tradizionali, difficili da imitare da esecutori moderni. Il timbro vocale deriva infatti da molti fattori ambientali, alcuni dei quali oggi sono cambiati in maniera radicale. L’accostamento delle voci salentine a quella delle cicale, per esempio, è suggerito anche dalla ricerca di una sorta di gracidio nel timbro delle voci maschili. Questa caratteristica vocale è il risultato di una serie di elementi che caratterizzano la conduzione generale della vita come la particolare alimentazione, il rispetto di determinati orari nella scansione del sonno e della veglia o il tipo di stress fisico a cui si è sottoposti. Tutti questi fattori determinano, assieme ad altri, la costruzione di un timbro vocale particolare, che ci consente di situare nello spazio e nel tempo una voce che parla o che canta. Stiamo parlando di un timbro che, specie nelle voci maschili, è il risultato anche del tipo di tabacco fumato, spesso autoprodotto e malconservato, e quindi di una cronica affezione bronchiale aggravata dalla particolare umidità degli ambienti di vita e di lavoro. Nei canti della nostra raccolta questa mancanza di limpidezza e di pulizia della voce, lungi dall’essere dissimulata, sembra invece ricercata e utilizzata, in funzione espressiva. Siccome alle voci maschili compete di solito il ruolo di bordone l’enfatizzazione di questa opacità timbrica dissi23


mula volontariamente la voce umana per imitare quasi uno strumento musicale, segnatamente uno strumento ad ancia doppia come potrebbero essere le canne di una zampogna. Ad aumentare quest’effetto concorrono anche i risuonatori utilizzati che sono quelli dell’area della gola e del petto. Le voci femminili, invece, tendono al timbro cristallino e penetrante, ottenuto facendo spesso ricorso ai risuonatori piÚ alti, quelli della testa. Sono queste che, nelle note lunghe conclusive di ciascuna strofa, generano i battimenti e gli stridii ritmici che abbiamo associato al canto delle cicale.

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La provenienza del materiale

Nonostante la conclamata approvazione di cui gode, in questi tempi, la musica popolare salentina va detto che la ricerca etnomusicale nel Salento non ha mai avuto un’impostazione sistematica né si è mai attenuta a una qualche seria metodologia di indagine. Se si escludono quelle poche registrazioni eseguite professionalmente agli albori dell’etnomusicologia italiana da Alan Lomax e da Diego Carpitella, per il resto esistono solo isolate incursioni nel territorio della musica popolare da parte di altrettanto isolati volontari. Una parentesi fortunata, durante la quale si è recuperata una consistente mole di materiale, è stata quella del decennio degli anni ’70. I protagonisti del Movimento politico e culturale di quegli anni teorizzavano esplicitamente la necessità della riscoperta e della valorizzazione del patrimonio culturale delle classi subalterne come argomento da contrapporre all’egemonia storica della cultura borghese. Le diverse pratiche nelle quali si esprimeva l’attivismo della lotta di classe di quegli anni comprendevano infatti anche la riappropriazione della musica popolare. Bisognava recuperarla e diffonderla come strumento capace di arginare il potere alienante della musica borghese. Si sta usando di proposito una terminologia che rimanda direttamente a quel momento storico e sociale, che oggi 25


potrebbe sembrare esageratamente propagandistica, ma che allora era assolutamente corrente e costituiva il linguaggio specifico del Movimento. La si richiama nel tentativo di far calare il lettore odierno in un clima oramai ampiamente storicizzato ma che è stato determinante per le condizioni di quella stagione di ricerca etnografica. Infatti fu proprio con questi obiettivi, indissolubilmente politici e culturali, che anch’io, allora molto giovane, cominciai a interessarmi al settore della ricerca della musica popolare nel territorio salentino. Stimolato da alcuni intellettuali interni al Movimento che esercitavano su di me una forte influenza (personaggi del calibro di Rina Durante, Giovanna Marini o Joyce Lussu), dedicai le mie capacità e le mie energie intellettuali a questa operazione che ritenevo assolutamente necessaria ai fini del riscatto culturale e sociale della classe. Come è noto, tutti gli aspetti della cultura popolare stavano allora per essere sommersi dall’onda grossa del consumismo e del capitalismo che metteva le sue radici anche da noi e si presentava con la faccia della modernità da seguire e da idolatrare. In particolare nell’ambito musicale la cosiddetta canzonetta, attraverso la radio, la televisione e l’industria discografica, s’insinuava subdolamente in tutti gli ambienti sociali (anche e soprattutto in quelli popolari) sostituendosi ai vari stili musicali e canori della tradizione orale. Testi, ritmi, scale e armonie dei canti popolari perdevano gradualmente la loro specificità e si trasformavano sotto l’influsso di questo vero e proprio tsunami. 26


Va specificato che spesso (come nel mio caso) il lavoro di ricerca non veniva concepito come uno studio astratto di etnomusicologia ma si conduceva con uno scopo pratico e immediato: realizzare rapidamente un repertorio che, eseguito insieme alle canzoni di lotta, permettesse a un gruppo musicale di esibirsi durante le manifestazioni di piazza del Movimento per corroborarne le istanze. Ricalcando le orme del più noto Canzoniere Italiano, queste formazioni si chiamavano spesso anch’esse Canzonieri. Nello specifico, il gruppo musicale in cui io militavo prese il nome di Nuovo Canzoniere del Salento. Va altresì aggiunto che in quel contesto gli organi istituzionalmente preposti alla tutela del patrimonio etnografico (come i musei o le biblioteche) non presero in considerazione il lavoro di ricerca condotto dai militanti della contestazione. Né poteva essere altrimenti perché, occorre ricordarlo, le due parti si trovavano effettivamente (e non solo metaforicamente) nei versanti opposti della barricata. Ricordiamo anche che in quel momento di grandi tensioni e rumori sociali erano proprio le istituzioni l’obiettivo della lotta del Movimento che non si limitava a criticarle aspramente ma tentava anche di occuparle e di attaccarle nel loro operato. Le istituzioni, dal canto loro, si arroccavano in posizioni difensive e sclerotiche, in ossequio a una logica manicheistica che oggi nessuno più condividerebbe. Stando così le cose si capisce bene che non poteva esserci assolutamente dialogo fra le due parti e, di fatto, in definitiva, non c’era assolutamente spazio per una collaborazione che, probabilmente, nel settore della musica popolare, 27


avrebbe potuto dar luogo a una più organica operazione di recupero e all’avvio di un’archiviazione dei materiali. Sorprende comunque che ancora oggi non si sia dotato il territorio salentino (che pur vanta una sua ricchezza in fatto di memoria storica, sociale e culturale) di strumenti analoghi a quelli di altre aree che, pur avendo avuto un inizio della ricerca negli stessi frangenti di lotta e di contestazione, hanno comunque provveduto a sviluppare per tempo serie strutture dedicate alla corretta conservazione e all’archiviazione dei materiali. Ci riferiamo, per esempio, all’Archivio di Etnografia e Storia Sociale della Regione Lombardia, suddiviso in Archivio della Comunicazione Orale (A.C.O.) e Archivio delle Immagini (A.Im.). In questo caso (ma è solo un esempio) il lavoro del militantericercatore Bruno Pianta, sostenuto dalle risorse delle istituzioni preposte, ha fatto sì che i recuperi operati nella memoria dell’area padana trovassero un essenziale punto di riferimento per la loro valorizzazione e per la loro consultazione. Tornando alla nostra situazione, si deve però dire che in quel generale contesto di irrigidimento tuttavia non mancò, per fortuna, l’elasticità di qualcuno che, trovandosi a occupare un ruolo di responsabilità all’interno delle istituzioni, fece il possibile per non disperdere del tutto le energie che erano state dedicate alla ricerca sul campo da parte del Movimento. L’Istituto di Storia delle Tradizioni Popolari dell’Università di Lecce, nella fattispecie, si mostrò capace di superare i pregiudizi e, nel 1976, chiamò me, fresco 28


di laurea, a collaborare con l’insegnamento. In questo ruolo mi feci promotore subito dell’acquisto di due registratori audio portatili e di un apparecchio fotografico. Gli studenti furono largamente incoraggiati a utilizzare questi mezzi a supporto del loro percorso didattico e continuarono a farlo, naturalmente, anche dopo la fine della mia collaborazione formale con l’Istituto. Per evitare i rischi di deterioramento connessi al tipo di supporto utilizzato (le audiocassette non mantengono a lungo il loro strato magnetico e risentono degli choc termici e dei salti nel tasso di umidità dell’ambiente), di recente, su invito dello stesso Istituto di Storia delle Tradizioni Popolari, ho provveduto con i miei mezzi a digitalizzarne il contenuto e a trasferirlo su un supporto più stabile. Poiché risalgono agli anni ’70 e ’80, questi materiali hanno oramai acquisito un indubbio interesse tanto per i loro contenuti, quanto per la lingua con cui questi vengono esposti (un dialetto per molti aspetti molto diverso da quello odierno). La presente pubblicazione attinge da questo archivio e si auspica la rivalutazione generale di tutto il materiale che comprende canti, descrizioni di pratiche rituali, racconti e altre divagazioni della memoria degli intervistati. Sull’onda dell’interesse anche non specialistico sorto intorno alla musica salentina, ho isolato alcune registrazioni raccolte da me e da altri (studenti allo stato attuale anonimi, che qui si ringraziano accanto agli esecutori purtroppo altrettanto anonimi). Si tratta di brani musicali ricondu29


cibili a un genere che, con la terminologia locale, si denomina a para uce. Opportunamente ripuliti dai disturbi dovuti alle condizioni e ai mezzi di registrazione (click, pop, humm, hiss, …) e di quant’altro li rendeva ostici alla comprensione e all’ascolto, vengono qui presentati e messi a disposizione per la consultazione. Mi scuso per non aver potuto rimediare ad alcuni difetti irreversibili come la frequente saturazione del segnale e la presenza di rumori di disturbo nella stanza in cui avveniva la registrazione.

Questi documenti sono registrati con molti limiti tecnici. Il ricercatore non è un tecnico della registrazione, è solo uno studente che si presenta agli intervistati con l’avallo di un suo familiare oppure di qualche intermediario che gode della loro fiducia. Generalmente sono state usate apparecchiature di registrazione e microfoni di bassa qualità. Le sedute di registrazione hanno avuto luogo, di solito, all’interno di abitazioni private (spesso la residenza di qualcuno degli intervistati) in cui convenivano, più o meno casualmente, un certo numero di persone. Si doveva anzitutto fare qualcosa per superare il naturale disagio che avvertivano i cantori di fronte a un microfono. Abituati a cantare solo in determinate condizioni ambientali e sociali; in un contesto diverso, in presenza cioè di estranei (l’intervistatore accompagnato da qualche suo collega) e di fronte a un oggetto capace di catturare ogni loro errore (il microfono), mostravano di soffrire per la mancanza degli stimoli che, nelle normali condizioni, dettavano la necessità stessa del cantare e attivavano naturalmente il processo della memoria.

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Ascoltando le registrazioni si avverte il fatto che queste persone, sebbene armate di tutta la buona volontà per assecondare le esigenze del giovane studente-ricercatore, non sono abituate ad attenersi alle regole che esige una sala d’incisione: tossiscono di tanto in tanto per schiarirsi la voce, non si trattengono dal suggerire a bassa voce il testo delle canzoni a chi stenta a ricordarlo e si lasciano andare in apprezzamenti di varia natura senza attendere la fine dell’esecuzione. A tutti loro va la nostra riconoscenza per averci trasmesso una parte del loro vissuto e della loro memoria.

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I Canti

1. 2. 3. 4. 5. 6. 7. 8. 9. 10. 11. 12. 13. 14. 15. 16. 17.

Intro E la lèttera ca me tèsti Alle beriferìe Amore amori no scìri cantànnu La pampanella Quannu ca ci te llavi la mattìna Teresina Vistìtu ti cappuccinu Rosa ti tò manièri Maria Nicola Sapìti ce è succèsu alla vìa te Casarànu Ci te pìji nu carusèddru Lu monicu mèu E mamma mamma tammi lu cerchiu Beddra ci ‘mmàre vài Alla riva del mare Beddra ci stài luntànu

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Note di accompagnamento ai brani

Per ciascun brano forniamo poche note di carattere formale relative all’andamento ritmico, alla modalità, alla tonalità e al trattamento delle melodie. Inoltre mettiamo a disposizione il testo dialettale e una traduzione letterale in lingua senza aggiungere notazioni di carattere linguistico o contenutistico. Tanto il tipo di dialetto quanto il contenuto dei testi offrono in verità molti spunti di riflessione e molti riferimenti ad un contesto culturale che costituisce le radici del presente. In questa sede però lasciamo all’ascoltatore il gusto di ricostruire il significato degli arcaismi e delle parole più difficili da interpretare (magari con l’uso del Vocabolario dei dialetti salentini di Gerhard Rohlfs). I riferimenti ambientali e sociali a cui alludono i testi sono peraltro di relativa chiarezza e rimandano a uno stile di vita noto, nelle sue linee generali, a tutti: ardenti dichiarazioni d’amore, scene di gelosia, delusioni scottanti, aspirazioni a un buon partito. Si tratta di argomenti comuni a tutte le tradizioni musicali, popolari e colte. Ogni cultura però li tratta formalmente in maniera diversa, ogni cantore li interpreta a modo suo e ogni variante si fa testimone di un modo unico di proporre lo stesso argomento aggiungendo qualcosa di nuovo. Il primo e l’ultimo brano non partecipano al genere a para uce: si tratta di nostre esecuzioni e di nostre operazioni di elaborazione e di montaggio. Li abbiamo inseriti perché, ci sia consentito, volevamo anche noi partecipare in qualche modo a questo bel gioco. 34


1.

Intro

2.

E la lèttera ca me tèsti

Il primo brano non è tradizionale. È stato inserito arbitrariamente per riportare il suono suggestivo delle cicale da noi registrato e per tentare di trasportare l’ascoltatore nell’ambiente modale caratteristico del canto salentino. I frammenti di melodie sono tradizionali, liberamente da noi interpretati ed eseguiti attraverso la sovraincisione di due clarinetti.

Attacca una voce femminile che sceglie e impone agli altri la tonalità a lei più consona: un si bemolle leggermente crescente. Questa tonalità andrà a crescere sempre di più nel corso del brano, ma la responsabilità di questa crescita è da attribuire alla voce maschile di basso che, nel prolungare la nota finale, finisce per restituirla, di strofa in strofa, sempre più crescente, fino a raggiungere all'incirca la tonalità del si naturale. L’ambito modale è quello lidio, rispettato per tutto il brano sicché il quarto grado della scala risulterà sempre, per il si bemolle, un mi naturale. Le forme dialettali, come succederà spesso in tutta la raccolta, sono integrate da una terminologia e da determinate costruzioni desunte dalla lingua italiana. Anche questo espediente è usato sottilmente in funzione espressiva: generalmente sono espressi in dialetto i sentimenti più 35


viscerali ed immediati, mentre l’italiano è, a volte, riservato alle locuzioni più formali e impersonali. Il maccheronico che ne risulta è comunque una sorta di cantese, una lingua artificiale propria del cantare, che si vuole intenzionalmente distinguere dalla lingua parlata. E la lèttera ca me tèsti jèu l’àggiu fàtta pèzzi pèzzi e àggiu sapùtu ca me disprèzzi e n’àddru amànte m’àggiu truvà. Più bellìna e più lecànte e più sincèra pe’ fàre l’amòre e me l’hài dàta la pèna àllu còre e finché vìvo la voglio ama’. Finché vìvo e finchè càmpo finché esìste la mia vìta e jò mi vèstu da remìta e prechière pe’ lui farò.

La lettera che mi desti / l’ho fatta pezzi pezzi / ho saputo che mi disprezzi / e un altro amante mi troverò. // Più bellino e più elegante / più sincero per fare l’amore / e me l’hai data la pena al cuore / e finché vivo la voglio amare // Finché vivo e finché campo / finché esiste la mia vita / e io mi vesto da eremita / e preghiere per lui farò. 36


3.

Alle beriferìe

Questo brano è cantato da due sole voci maschili. Adottano un modo maggiore e cantano partendo da una tonica fissata nel re naturale. Anche questi cantori, nella tenuta delle note lunghe tendono a crescere di altezza, per cui alla fine del brano la tonalità finisce per trovarsi intorno a un re diesis. Uggiano Montefusco è una località nelle vicinanze di Manduria e molto probabilmente gli interpreti di questo brano provengono da tale area linguistica. Ne è testimonianza la pronuncia di alcune parole che nell’area leccese hanno la terminazione in -e mentre nel brindisino assumono la terminazione in -i. Nel brano si riscontreranno, a questo proposito, le locuzioni li mattini, l’acqua ti li piscini, ti la funtana al posto delle corrispondenti locuzioni leccesi le matine, l’acqua te le piscine, te la funtana. Alle beriferìe di Uggiàno Montefùscu àbita na figliòla che vàe all’acqua sòla.

Coll’asino e colle ’ncine vae all’acqua alle piscine e tutte li mattini e tutti li mattini. Col secchio e coll’arsòla vàe all’acqua sola sta pìccula figliòla tutta la mia passion.

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Un giorno li tissi bella e fermati un po’ se mi tài da beri l’amore mio sei tu.

L’acqua ti li piscini è chiù pura ti la funtana sta figliòla paisàna tutta la mia passion. Un giorno li tissi bella e fermati un po’ se mi tài da beri l’amore mio sei tu.

L’acqua ti li piscini è chiù pura ti la funtana sta figliòla paisàna tutta la mia passion.

Alle periferie di Uggiano Montefusco / abita una figliola / che va all’acqua sola. // Con l’asino con il basto va all’acqua alle sorgenti / e tutte le mattine / e tutte le mattine. // Col secchio e con l’orciolo va all’acqua sola / sta piccola figliola / tutta la mia passion. // Un giorno le dissi bella / e fermati un po’ / se mi dai da bere l’amore mio sei tu. // L’acqua della sorgente è più pura della fontana / sta figliola paesana tutta la mia passion.

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4.

Amore amori no scìri cantànnu

In questo brano una delle voci maschili di basso si comporta in maniera anomala. Forse per un eccesso di protagonismo mostra pretese interpretative che non competono, di norma, al suo ruolo. Esegue accenni a una linea melodica più articolata rispetto alla semplice alternanza delle note di tonica e di dominante. Si nota inoltre un tentativo di vibrato espressivo che compete di solito, anch’esso, alle sole voci solistiche. Amòre amòri no scìri cantànnu ca ti sèntu la nòtti e ca no nci tòrmu. Tu tièni li billìzzi mo’ ti Sant’Anna li uècchi nèri ti Santa Lucìa. Ci àne alla manu ci la lènza puèrti timmi ci t’ha tajàta e o t’ha firìta. Ju no m’àggia tajàta e no firìta è statu primu amori ci m’è tratìta. Ier sera scìri ma la purtàra tutti li tònni belli e a na filèra.

Drammiènzu nc’èra la mia nnamuràta purtàva lu stannàrdu e la bandièra. 39


Amore amore non andare cantando / che ti sento e la notte e non riesco a dormire. // Tu tieni le bellezze di Sant’Anna / gli occhi neri di Santa Lucia. // Che hai alla mano che porti una benda / dimmi se ti sei tagliata o ferita. // Non mi sono tagliata né ferita / è stato il primo amore che mi ha tradito. // Volli andare da lei ma la portarono via / tutte le donne belle in lunga fila. // Là in mezzo c’era la mia innamorata / portava lo stendardo e la bandiera. 5.

La pampanella

Sono gli stessi esecutori maschili del brano n. 3, a cui si affianca, con il ruolo di basso, una voce femminile. La tonalità è re bemolle e il modo è quello maggiore. La pampanella di la ciràsa la bèlla mia ulìa me vàsa la pampanella ti la ceràsa.

La pampanella di lu finùcchiu iddra si llàrga e iu mi ccùcchiu la pampanella ti lu finùcchiu. La pampanella di la cicora e ti vulìva na nòtte sòla la pampanèlla ti la cicòra. E tu ti larghi e io mi ccucchiu la pampanella di lu finucchiu. 40


Il pampino della ciliegia / la bella mia vorrebbe baciarmi. // Il pampino del finocchio / lei si allontana e io mi avvicino. // Il pampino della cicoria / e ti vorrei una notte sola. // E tu ti allarghi e io mi avvicino / il pampino del finocchio. 6.

Quannu ca ci te llavi la mattìna

La tonica scelta per partire è attorno al si bemolle che è, accanto alla tonica la, quella scelta più di frequente dalle voci femminili. Anche qui tale tonica salirà gradualmente di circa un tono e mezzo per giungere, alla fine del brano, attorno a un do naturale. L’ambito modale è quello maggiore, solo la voce leader accenna, negli abbellimenti, al quarto grado aumentato, caratteristico del modo lidio. Quannu ca ci te llàvi la mattìna l’acqua Ninèlla mìa nu la minàre nu la minàre amòre mìa nu l’ha mmenare Ninèlla mìa nu la minàre. Addù la mini tie nasce na ròsa na rosa e nu rusìddru pe’ nduràre oi pe’ nduràre amòre mia oi pe nduràre Ninèlla mia pe’ ndurare. E passa lu speziàle e se la cìma e face meticìne pe’ sanare

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poi pe’ sanàre amòre mia pe’ sanàre Ninèlla mia pe’ sanàre.

Quando ti lavi la faccia la mattina / l’acqua Ninella mia non la gettare. // Dove la getti nasce una rosa / una rosa e un bocciolo da odorare. // Passa lo speziale e se la coglie / ne fa medicamenti per guarire. 7.

Teresina

Teresina, come Caterina o altri nomi propri femminili al diminutivo, è uno degli epiteti per riferirsi indirettamente all’animale totemico del Salento, la taranta. Per questo, e per altri spunti presenti, questo breve brano può essere considerato facente parte di quell’ampio repertorio terapeutico del tarantismo di cui si sono perse totalmente le notizie. Il riesploso interesse per questo fenomeno non comprende l’ampiezza e la varietà di questo repertorio e tende a considerare la pizzica pizzica come l’unica forma musicale utilizzata nella tradizione salentina per curare il tarantolismo. Sappiamo invece che il repertorio terapeutico poteva comprendere brani dalle caratteristiche più diverse e non necessariamente quelli caratterizzati dal ritmo sostenuto in 6/8 accompagnati dal tipico tamburello. Di questo repertorio variegato parla lo studioso salentino Luigi De Simone in La vita nella Terra d’Otranto, «Rivista Europea» (a. VII, vol. III, 1876, pp.341 sgg.), quando 42


riporta la fisionomia del violinista Francesco Mazzotta di Novoli. Ai tempi dell’indagine di Ernesto de Martino (1959), questo repertorio terapeutico si era già ridotto alla sola pizzica pizzica in 6/8 che ci è pervenuta attraverso la registrazione fatta da Diego Carpitella e acclusa in disco alla prima edizione de La terra del Rimorso. L’attuale manipolazione turistico-festaiola del fenomeno del tarantolismo pugliese che va sotto il nome di neopizzica ha contribuito a generare l’equivoco di questa riduzione e a considerare la pizzica pizzica l’unico genere utilizzato tradizionalmente ai fini della guarigione mentre, a leggere con attenzione lo stesso E. de Martino, così non è certamente. Sarebbe invece oltremodo interessante un’indagine estesa e accurata, capace di far luce su questo equivoco e di ricostruire, per quanto possibile, il corpus delle varie musiche utilizzate nella iatromusica salentina. A conferma della nostra supposizione, questo brano presenta, oltre all’invocazione alla Teresina, anche altri elementi: – Il grido Hi-ha! con andamento discendente, che è certo molto simile a quello emesso dalle tarantate nella cappella di S. Paolo a Galatina e registrato dalla stessa équipe di Ernesto de Martino. – L’espresso richiamo alla capacità di pizzicare e di addormentare della Teresina, che si riferisce alle convulsioni e all’intorpidimento in conseguenza della crisi. Mentre i noti brani ritmici e ossessivi accompagnati dal tamburello fanno leva sull’aspetto convulsivo per portare la tarantata alla frenesia liberatrice, questo brano fa leva 43


sull’aspetto dell’intorpidimento, enfatizzando invece l’azione del dormire e tentando di sedare, per mezzo di una sorta di terapia del sonno, l’individuo in crisi. A ciò contribuisce anche l’andamento lento e ternario del ritmo, simile a quello di molti canti a ninna-nanna. La pizzicariella (altro epiteto dell’animale mitico) offre il suo morso più in basso del ginocchio, cioè sotto le vesti. L’indicazione è assolutamente identica a quella di alcune strofe di pizzica pizzica che dicono Addù te pizzicàu la tarantella / sutta te la putìa te la unnèlla. (Dove ti pizzicò la tarantella / sotto l’orlo della gonnella); oppure Addù te pizzicàu a tie nu te pare / sutta te la putìa te lu vistiàme. (Non si può vedere il punto dove sei stata pizzicata /sotto l’orlo della lunga gonna). L’attacco in si bemolle è della voce femminile leader. Le altre voci si mantengono nei loro ruoli tradizionali. Anche qui c’è una crescita di circa un semitono nel breve svolgersi del canto. Tòre si e tòre no Teresina l’hai fatta bella l’hai pizzicata l’ha’ ddormentà la pizzicariella te pizzicàu chiù sutta te lu scianùcchiu.

Tore si e Tore no / Teresina l’hai fatta bella / l’hai pizzicata l’hai addormentata / la pizzicarella / ti ha pizzicata più sotto del ginocchio. 44


8.

Vistìtu ti cappuccinu

Attacca una voce femminile in tonalità di si bemolle. La girata la fanno all’unisono perfetto fra di loro due voci femminili, mentre il basso, eseguito dalle voci maschili, rientra nel suo ruolo di tappeto. L’ambito modale resta nel modo maggiore. Il testo, molto simile a quello della variante riportata nel brano n. 11, allude al passaggio di un frate cappuccino elemosinante che approfitta della privatezza della confessione per offendere l’onore di una giovane delusa dall’amore. Vistìtu ti cappuccinu jèni a bussà alli pòrti e no no per carità non si bussa così tegnu na fìja a lettu e me la fai morì. Ma prima ti morìri facìtila cunfissàre ca bi lu fàzzu ìu lu pàtri cunfessòr.

Chiutìtinci li pòrti e li finèstre ancòra non vògliu che si sènti la mia ssoluziòn.

La prima domanda fu di quanti amanti avete èdda stèsi li bràccia e dissi ventitrè ma quello che mi ama sta di fianco a me.

L’assoluziòne m’è data mamma che son guarìta io benedìco il prete e il cuori che ci ha 45


guarita è la mia figlia che a letto sta.

Dopu li nòvi mèsi è nato un bel bambino e do l’hìmu a battizzà alla chiesa ti San Martinu lu nòme l’hìmu a mèttri patri Valentìn. E ìu maletìcu il prete e il cuore che ci ha tratìtu ha la mia figlia che a letto sta.

Vestito da cappuccino vieni a bussare alle porte / no no per carità non si bussa così / tengo una figlia a letto / e me la fai morire. // Ma prima di morire fatela confessare / che ve lo faccio io il padre confessore. // Chiudeteci le porte e anche le finestre / non voglio che si senta la mia assoluzione. // La prima domanda fu quanti amanti avete / lei stese le braccia e disse ventitrè / ma quello che mi ama sta di fianco a me. // L’assoluzione m’è data mamma io sono guarita / io benedico il prete e il cuore che ha / guarita è la mia figlia che a letto sta. // Dopo nove mesi è nato un bel bambino / dove lo battezziamo alla chiesa di San Martino / il nome gli mettiamo di padre Valentino. // Io maledico il prete e il nome che ha // tradito ha la mia figlia che a letto sta.

46


9.

Rosa ti tò manièri

L’attacco è della voce femminile, un’altra voce femminile fa la girata e le due voci maschili si assumono il ruolo di basso. La tonalità scelta dalla voce di attacco è un la; il modo è quello maggiore. Rosa ti tò manièri si la chiànta ca fai mpaccìri ci ti tèni mènti.

Tu fai mpaccìri cavalièri e cònti comu mpaccèscu ìu pòviru amante. Nu giùrnu scìi alla ripa ti lu mare ncuntrài na carafìna ti suspìri. Ca ci vinèssi ci m’àma ti còre li tàu la carafìna ti suspìri.

Ci ti l’è dìttu cu vàni a la spìca ci uèi lu crànu ti lu mànnu a càsa.

Tu sei pianta di rosa di due varietà / che fai impazzire chi ti tiene mente. // Tu fai impazzire cavalieri e conti / come impazzisco io povero amante. // Un giorno andai in riva al mare / e trovai una caraffa di sospiri. // Oh se venisse chi m’ama di cuore / gli darei questa caraffa di sospiri. // Chi te l’ha detto di andare alla spiga / se vuoi il grano te lo mando a casa. 47


10.

Maria Nicola

Torna ad aprire la voce femminile e torna la tonica di si bemolle. L’ambito modale è situato sulla scala maggiore. Il testo tende a mettere in guardia le ragazze dal concedersi facilmente a uno che si presenta con le garanzie di ricchezza o di distinzione (lu tenente). Quello che se ne può ricavare è raramente un buon matrimonio e può servire, invece, solo a farsi una permanente all’acconciatura per restare, come recita un adagio, con i riccioli fatti. Maria Nicola bella ci te l’ha fatta fa’ eri na bella signorina t’eri putùta marita’. T’ha purtàta alla massarìa te critìvi ca te rricchìa Maria Nicola Maria Nicola bella ci te l’ha fatta fa’ eri na bella signorina t’eri putùta marita’. Cu li sordi te lu tenente n’hai fatta la permanente Maria Nicola Maria Nicola bella ci te l’ha fatta fa’ eri na bella signorina t’eri putùta marita’.

Maria Nicola bella chi te l’ha fatta fare / eri una bella signorina ti potevi maritare. // Ti ha portata alla masseria / credevi che ti arricchiva. // Con i soldi del tenente / ti sei fatta appena una permanente. 48


11. Sapìti ce è succèsu alla vìa te Casarànu

Per quanto riguarda il testo, il brano è una variante di quello riportato al n. 8 della presente raccolta. Diverso è l’ensemble che lo esegue e diversa è l’interpretazione della linea melodica. Casarano è una località del basso Salento. Introduce la solita voce femminile e propone la tonica iniziale di la bemolle. Nel corso del lungo brano la tendenza a crescere gradualmente in altezza sarà costante fino a concludere con l’innalzamento complessivo di due semitoni. L’ambito modale si muove sui gradi del modo maggiore. Sapìti ce è succèsu alla vìa te Casarànu nu mònecu cappuccìnu lemosinàva.

Scìa limosinànnu e bussàva alle mie pòrte e no no pe’ carità no si bùssa così tègnu na fija a lèttu ca sta pe’ mori’. E se sta pe’ morìre facìtila cunfessàre te la cunfèsso ìo sàntu patre ti cunfessòr. Chiutète le finèstre e li balcòni ancòra pe nu sentìre la mia soluziòn.

La prìma domànda che fece è quànti amànti avète e lei alzò le braccia e disse ventitrè l’amante che mi ama sta di fianco a me. 49


E dopo i òtto mesi la luna s’inalzò e dopo i nove mesi un bel bambino si ritrovò.

Portate a battezzare alla chiesa di Sammartino e di nòme lo mettète pàtre di cappuccìn.

Sapete che è successo alla via di Casarano / un monaco cappuccino elemosinava. // Andava elemosinando e bussava alle mie porte / no no per carità non si bussa così / tengo una figlia a letto che sta per morire. // E se sta per morire fatela confessare / te la confesso io santo padre confessore. // Chiudete finestre e balconi / per non sentire la mia assoluzione. // La prima domanda che fece è quanti amanti avete / e lei alzò le braccia e disse ventitrè / ma quello che mi ama sta di fianco a me. // E dopo gli otto mesi la luna si innalzò / e dopo i nove mesi un bel bambino si ritrovò. // Portatelo a battezzare alla chiesa di San Martino / e di nome lo chiamate padre cappuccino. 12. Ci te pìji nu carusèddru

L’impianto melodico-armonico gravita attorno alla tonalità di do maggiore sulla cui scala è costruito quasi per intero tutto il brano. La prima linea melodica invece, quando ripete il secondo verso di ciascun distico, è tessuta su un inequivocabile modo lidio, facendo sentire il caratteristico fa diesis al quarto grado. Qunado la seconda voce, che si 50


muove parallela alla prima alla distanza di una terza, si trova a dover utilizzare il quarto grado della scala non ha dubbi a eseguire il fa naturale, senza lasciarsi influenzare dall’andamento modale dell’altra voce. Ne risulta, dal punto di vista armonico, un sapore assolutamente inconsueto per il nostro orecchio abituato all’armonia tonale e non modale. La linea di bordone segue la regola di oscillare convenientemente fra la nota di tonica do e quella di dominante sol. Anche in questo brano, nella conclusione di frase, la voce maschile tende a crescere gradualmente e impercettibilmente di altezza sicché, a conclusione del brano, la tonalità di partenza do maggiore si ritroverà cresciuta, più o meno, di mezzo tono. Il testo invita a non prendere in considerazione i pretendenti attempati, anche se si atteggiano a giovanilisti. Quando arriverà il momento della festa bona (l’andare a letto) solo lu caruseddu può garantire abbondanza di pasta e carne, metafora diretta, quest’ultima, degli attributi maschili. Ci te pìji nu carusèddu cu te bàlla e zùmpa a nànzi bèddra mìa te n’ha fàre chiànti ci te spòsa màra a te. Ci te pìji nu vecchiarèddu cu nu n’èssa frizzulùsu pòzza jèssare carùsu ci hai mangiàre gioventù.

Quànnu rrìva la mèju fèsta nu te mànca mài la pàsta 51


càrne t’àunu nu te bàsta pè tiràre lu racù.

Quànnu rrìva la fèsta bòna cerchi l’àbitu te sìta lu scarpìnu verniciàtu sai ca tìce sempre sì.

Ci te crìti ca te la ccatta la gerretta e lu gelàtu quàrche sòrdu ca ha buscàtu pròpiu a tìe lu spènde, sì. Pènza mèju cu se li sciòca cu li amìci àlla tavèrna se ne càreca na cipèrna e a tìe te piàcula cussì.

Se ti sposi un ragazzino che ti balli e salti innanzi / bella mia ti farai molti pianti se ti sposa povera te. // Se prendi un vecchio avrà poco da fare lo spiritoso / deve essere giovane se vuoi mangiare gioventù. // Al tempo della festa non ti mancherà la pasta / carne di agnello a volontà per tirare il ragù. // Quando arriva la festa buona cerchi l’abito di seta / la scarpetta verniciata sai che dice sempre si. // Se pensi che te la compra la giarrettiera e il gelato / quei pochi soldi guadagnati non li spenderà per te. // Pensa più a giocarseli con gli amici alla taverna / se ne riempie le tasche e a te ti trascura.

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13. Lu monicu mèu

Apre e conduce la voce femminile con una tonica attorno a un do. L’ambito è tonale, in tonalità maggiore. Compare, nell’armonia, l’accenno a un accordo di sottodominante oltre ai consueti accordi di tonica e di dominante. Ciò lascia supporre che il brano possa essere giunto alle orecchie degli esecutori in una versione sostenuta da qualche strumento di accompagnamento armonico come per esempio, l’organetto diatonico che si muove prevalentemente sui tre accordi di tonica, di sottodominante e di dominante. E na e na e na lu mònicu mèu se chizzicàa còmu ne piàzze e larirurà lu mònicu mèu se chizzicàa. Lu ziu mònicu mèu ddru tiscrazziàtu ulìu te vàsa quànnu stìa curcàtu

E za e za e za lu mònicu mèu se chizzicàa còmu ne piàzze e larirurà lu mònicu mèu se chizzicàa.

Il monaco mio si eccitava / quanto ne godeva. // Lo zio monaco quel disgraziato / voleva baciarti standosene a letto. // Il monaco si eccita / come gli piacque al monaco che si eccita.

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14.

E mamma mamma tammi lu cerchiu

La tonalità di attacco è do, il modo è quello lidio. I due cantori maschili sono gli stessi del brano numero n. 3 ma a fare la girata si propone una voce femminile che fa anche da basso. E mamma mamma tàmmi lu cerchiu cu mi lu mèntu alla mia cunnèlla e di cussì pàriu chiù bella e lu sposu mi troverò. E più bellina e più licànti e più sincera a far l’amòri lu Ninu mìu è la prìma amòre finché vivo lo voglio amàr.

Mamma dammi il cerchio / che me lo metto alla gonna / così sembro più bella / e lo sposo mi troverò. // Più bellina e più elegante / più sincera per fare l’amore / Nino mio è il primo amore / finché vivo lo voglio amar. 15. Beddra ci ‘mmàre vài

È un brano monodico. Si tratta di stornelli, del genere a stincu, di norma cantati da due o più cantori che si alternano sfidandosi. In questo caso la voce femminile leader si prende tutto lo spazio ed esegue, da sola, tutte le strofe. Infioretta le 54


vocali con molta perizia e mostra, così facendo, grande competenza musicale. Lascia alle altre voci (maschili) il solo compito di imitare l’accompagnamento ritmico di una chitarra. La tonalità di attacco è un si bemolle maggiore che resta correttamente tale fino alla fine del brano. Beddra ci mmàre vai jo’ ’mmare vegnu ci viciu ca te mini jo’ me ne tornu all’occhi te canùscu ca ha chiangiùtu mazzàte ha ùte pe’ l’amore mia. Bella se vuoi venire a casa mia la mèju seggiulìna sarà la tua la mèju seggiulìna sarà la tua ora che non vieni più l’ho data via.

Bella se vai al mare io al mare vengo / se vedo che ti tuffi me ne torno / dagli occhi vedo che hai pianto / le hai buscate per colpa mia. // Bella se vuoi venire a casa mia / la migliore sedia è per te / ora che non vieni più l’ho data via. 16. Alla riva del mare

Un breve brano, dal testo in lingua, introdotto dalla voce femminile leader. La tonica scelta è un la crescente. In questo caso, all’uso della lingua nazionale si accompagna anche una decisa scelta tonale (la maggiore). Questa con55


comitanza fa supporre l’importazione di questo brano da un altro ambito popolare non salentino. Il tipo di arrangiamento, invece, (le solite tre linee melodiche) e il modo di plasmare le timbriche fanno sì che l’atmosfera che ne deriva non sia sentita affatto aliena dal resto dei canti della nostra area. Alla riva del mare ci sta na fontanella tiene l’acqua fresca e bella pe rinfrescare i fior pe rinfrescare i fiori le rose e i gelsomin. 17. Bèddra ci stài luntànu

Canto monodico registrato a Gallipoli. La melodia si muove in un ambito tonale e precisamente nella tonalità di si bemolle maggiore. Il tamburello di sottofondo e il suono delle cicale è stato da noi aggiunto artificiosamente in fase di post-produzione per congedare l’ascolto della raccolta in maniera leggera e, speriamo, suggestiva. Beddra ci stài luntànu e bòi me vìti e bòi me vìti nfàccete àlla finèstra te lu punènte te lu punènte.

Ci siènti frìddu sùntu li mei suspìri li mei suspìri ci siènti càutu ète stu còre ardènte stu còre ardènte. 56


Ci ùnde vìti a màre nu le timìre nu le timìre sùntu le làcreme mèi fiùmi currènti fiùmi currènti. E ci pe l’ària siènti ùci e lamènti ùci e lamènti su jèu ca te chiàmu e nu me siènti e nu me siènti.

Beddra ci òi cu jèni cu te nde pòrtu cu te nde pòrtu àllu paèse mèu tàntu luntànu tàntu luntànu.

Àllu paèse mèu se fìla l’òru se fila l’òru addù se màngia sèmpre pàne te crànu pàne te crànu.

Bella che stai lontana e vuoi vedermi / affacciati alla finestra di ponente. // Se senti freddo sono i miei sospiri / se senti caldo è questo cuore ardente. // Se vedi onde in mare non le temere / sono le mie lacrime fiumi correnti. // E se nell’aria senti voci e lamenti / sono io che ti chiamo e tu non mi senti. // Bella se vuoi venire io te ne porto / al paese mio tanto lontano. // Al paese mio si fila l’oro / là si mangia sempre pane di grano.

57



Album fotografico di

Raffaele Palermo






Stampato presso Stamperia Desa – Copertino (Lecce) 2007



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