Le figlie dello speziale

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Giancarlo Picci

LE FIGLIE DELLO SPEZIALE


Edizioni Kurumuny Sede legale Via Palermo 13 – 73021 Calimera (Le) Sede operativa Via San Pantaleo 12 – 73020 Martignano (Le) Tel e Fax 0832 801528 www.kurumuny.it – info@kurumuny.it ISBN 978-88-98773-16-9 Illustrazione di copertina: Francesco Cuna © Edizioni Kurumuny – 2014


Un libro caldo, pieno d’amore per la terra, il sole, il cibo e le parole. Lo leggi come passeggiando, passando dall’ombra al sole, e mentre leggi cammini, segui l’intreccio, mastichi le parole e ti riempi gli occhi della luce pugliese, assapori il pesce e la verdura, annusi l’aria come un cane. E vivi. Antonio Ferrara

Un giallo avvincente che si legge tutto d’un fiato. Ubicato nella Puglia meridionale, tra Lecce e Otranto, il racconto affascina non soltanto per la trama intrigante che si conclude con un inatteso colpo di scena, ma anche per paesaggi e personaggi, odori e sapori tipicamente salentini che ne costituiscono lo sfondo. Hubert Houben

L’amore per il teatro di Giancarlo Picci emerge dal ritmo incalzante delle sequenze narrative e dalla creazione di personaggi fortemente segnati dalle passioni e dalle traversie della vita, che ben si prestano ad un adattamento teatrale o cinematografico. In particolare, il personaggio di Rosina affascina per la sua fragilità e sensibilità tanto da divenire simbolo-vittima delle relazioni umane. Infine, i paesaggi luminosi del suo Salento diventano la location privilegiata dell’azione. Laura Lattuada



Alla mia famiglia Luogo del dialogo e del conflitto, dove l’aroma rinfrescante della menta si mescola con l’aroma pungente dei chiodi di garofano. Luogo degli affetti e degli eventi imprevedibili, dove l’aroma dolce della vaniglia si mescola con l’aroma galvanizzante del peperoncino. Luogo di sviluppo delle singole personalità che giocano in relazione, dove ogni spezia ha la sua importanza in quanto simbolo di un gusto unico.



Indice

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Nota dell’autore Prologo

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Uno Due Tre Quattro Cinque Sei Sette Otto Nove

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Epilogo Ringraziamenti



Nota dell’autore

Le figlie dello speziale è scaturito da un’idea, balenatami in mente durante una passeggiata in un mercatino di spezie, dove gli odori entrarono confusi oltre la mia pelle e mi chiesero di uscir fuori in forma di scrittura. Spinto dall’entusiasmo di partecipare al Premio letterario “IoRacconto 2013” di Pesaro, l’idea prese forma di un racconto breve – 10.000 caratteri – che si classificò al secondo posto. La giuria apprezzò il lavoro e mi stimolò a ricavarne un romanzo. Pian piano altre idee si sono aggiunte a quelle già esistenti ed è nata la bozza generale del romanzo. Ogni mattina l’ho inciso sul tablet, che ha sostituito il prezioso taccuino di un tempo, durante il tragitto verso l’Università sul tram 19, che collega due quartieri opposti della Capitale. Ora è qui e vede la luce.

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Prologo

Avevo ventisei anni quando giunsi a Cursi. Arrivai nel paese della pietra leccese di sabato, in un pomeriggio afoso di fine giugno; era la mia prima sede da vicecommissario ed anche la prima volta che mi dirigevo più a sud di Perugia. Durante il viaggio, mentre i paesaggi marini del Tacco d’Italia si susseguivano alle vedute montane della mia Umbria, un velo di nostalgia cominciò a invadere la mia mente. Rievocai l’immagine dei miei genitori e di mia sorella, mentre mi salutavano dall’uscio di casa; ripensai al lungo abbraccio di Chiara, la mia promessa sposa, che giurava di venirmi a trovare presto nel profondo sud est italico. Probabilmente la mia prima licenza sarebbe capitata a Natale: troppi mesi lontano dagli affetti! La corriera mi lasciò nella piazza principale di Cursi. Mi guardai intorno e vidi una ventina di anziani seduti ai tavolini davanti al Bar Mimosa. Tra una briscola e una scopa, parlottavano tra loro lanciandomi occhiate di curiosità; si chiedevano chi fosse quel giovanotto dall’aria settentrionale, con una valigia di cartone sotto il braccio. Mentre avvertivo la nostalgia sempre più forte e insopportabile, mi venne incontro un uomo sulla cinquantina dall’aspetto imponente e massiccio. – Lei è il Perugino? – mi chiese. La nostalgia mi aveva così tanto offuscato la mente che non compresi il significato di quel “perugino”. Lo guardai perplesso per un momento, credendo si riferisse al noto pittore di fine Quattrocento.

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Fortunatamente mi salvai dalla prima figuraccia, deducendo appena in tempo che “perugino” si riferiva alla mia provenienza geografica. – Sì, sono di Perugia. Lei chi è? – Il commissario Vercelli, suo superiore! Beh, poteva anche sforzarsi di chiamarmi per nome o almeno per cognome. Mi strinse la mano, impassibile e senza che alcuna traccia di emotività trapelasse dal tono della sua voce. Capii immediatamente di trovarmi dinanzi ad una personalità riservata, forse, a tratti, arrogante. Mi pregò di seguirlo e, insieme, percorremmo la piazza. Percepivo ancora addosso gli occhi curiosi della gente del posto. «Cos’è? Non avete mai visto uno sconosciuto da queste parti?» pensai. Superammo l’antico palazzo feudale e, mentre svoltavamo l’angolo, un odore penetrante di spezie mi assalì e destabilizzò il mio olfatto. Quella combinazione di profumi intensi e dionisiaci avrebbe cambiato l’intera mia esistenza.

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Uno

Il commissario Vercelli mi aveva prenotato una camera presso l’hotel Notti Salentine. Si trattava di una pensioncina di sei camere, che sorgeva dinanzi alla cappella di Santa Marina, cui era affiancato un asilo infantile gestito dalle suore. Marcella, la proprietaria della pensione, capelli corti castani e occhi scuri, era una quarantenne prosperosa dall’atteggiamento assai espansivo. Indossava un vestitino succinto a fiori, con così tanti colori sgargianti da far invidia alla città di Sanremo. Mi spiegò che cinque delle camere erano al piano terra, soltanto una al piano superiore. Poiché tutte erano libere e potevo scegliere a mio piacimento, decisi di stabilirmi nella camera al primo piano: la immaginai come un piccolo eremo, dove avrei trovato riparo dalla confusione e, nel tempo libero, mi sarei dedicato alla mia passione per la pittura. Ero un illuso. Toccai con mano la mia illusione il mattino seguente, quando fui svegliato di soprassalto, alle cinque e mezzo, dal rintocco delle campane di Santa Marina, che annunciavano l’inizio del Rosario. Siccome di notte si boccheggiava a causa del caldo, avevo lasciato la finestra aperta e fui assalito, senza filtri, dalla snervante melodia mattutina delle mie dirimpettaie. «Le campane suonano perché è domenica» cercai di farmi coraggio «così questo problema, almeno durante la settimana, non si porrà.» I veri problemi erano altri. Ero da poche ore in quel territorio

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straniero, ma già mi mancavano la mia casa, mio padre, mia madre, i miei amici. Mi mancava la mia stanza, dalla quale ogni mattina ammiravo le montagne palpitanti di vita in cui intravedevo casolari, siepi erbose, stradine sinuose e greggi al pascolo: ora mi trovavo in una terra in cui tutto era piatto e l’idea del movimento sembrava fosse stata bandita da madre natura. Mi mancava un po’ meno mia sorella Francesca, ma ero sicuro che a distanza di poche ore avrei senz’altro sentito la nostalgia dei nostri stupidi litigi. E, sopra tutti, mi mancava lei, il mio futuro di uomo sereno e felice. Ero solo, rinchiuso in quella misera camera al primo piano, affacciato alla finestra dinanzi alle cause crudeli del mio risveglio... e lei era il mio pensiero fisso. Mi mancava guardarla negli occhi, stringerla tra le braccia, baciarla. Mi mancava il suo odore, un profumo impercettibile, ambiguo all’olfatto, la cui essenza era come se cambiasse di volta in volta. Presi un foglio e cominciai a scriverle una lettera, ma Marcella m’interruppe dopo poche righe per avvertirmi che c’era una visita per me. Si trattava dell’ispettore Giovannino Sanscitarra, per tutti Nino, un trentenne belloccio dal sorriso impareggiabile. – Piacere di conoscervi. Il commissario Vercelli mi ha riferito del vostro arrivo. Ho pensato che non potevate restare solo proprio oggi, che è domenica. C’è un sole meraviglioso, vi porto in giro per farvi conoscere il Salento. – Il suo è un pensiero molto gentile, ma oggi non ho voglia di andare a spasso. Pensavo di sistemare la camera, organizzare un po’ di cose... c’è confusione! – Dottore, sbarcate per la prima volta nella terra del sole e del mare e preferite rinchiudervi in camera? Con questo caldo? Avrete tanti giorni per rimediare allu sciju. – Al... cosa? – Sciju, la confusione! Non voglio ascoltare altre scuse, oggi tra-

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scorreremo la giornata insieme. Il programma turistico prevede una passeggiata nel centro storico di Otranto, e poi a Castro, al paese mio, per pranzare nel paradiso del pesce, dal mio caro amico Tonio. – Sì, ma io... – Come primo piatto linguine ai ricci di mare e come secondo piatto cozze di mare ‘perte all’ampa. – Alla... cosa? – All’ampa! Aperte sul fuoco, in padella! – Tutto molto buono, peccato che io sia poco avvezzo alle cozze. – A... vezzo? Vorrà dire che Tonio penserà al vostro svezzamento, altrimenti risolveremo con una spigola al limone... deliziosa! E per finire, nel pomeriggio andremo da mia madre per un digestivo a vostra scelta: limoncello, nocino, liquore al caffè, al cioccolato, per tutti i gusti! – Anche i ricci, per la verità, non so neppure cosa siano... – Venite dalla montagna, – disse Marcella – forse conoscete solo quelli di terra. – Imparerete – concluse Sanscitarra – e non riuscirete più a farne a meno. – Ispettore, non vorrei essere scortese... – Quasi dimenticavo il tuffo che faremo in mare dagli scogli della mia Castro, imperdibile! Ovviamente dopo un paio d’ore dal pranzo... dopo il digestivo di mia madre, per intenderci. Altrimenti, invece di star su, andiamo giù! Al tramonto! Ecco, sì... un tuffo al tramonto, vedrà che poesia. – Ispettore... – Dottore, mi offendo se non venite – dichiarò, perdendo improvvisamente il sorriso. A quel punto, per non mancargli di rispetto, ma soprattutto sentendomi un po’ colpevole per aver spento quel suo meraviglioso sorriso, accettai la proposta. Gli feci notare, però, che avremmo

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dovuto rinunciare al tuffo in mare, poiché non possedevo un costume da bagno. – E qual è il problema? – mi chiese, riacquistando il sorriso – Vi bastano le mutande di colore scuro, possibilmente non eccentriche e... il gioco è fatto! Altro che gioco fatto. Mi aveva incastrato, lasciandomi a corto di parole, oltreché di scuse. Una cinta muraria poderosa svelò l’affascinante borgo di Otranto, la città dei Martiri. Superate Porta Terra e la vicina torre Alfonsina, entrammo nel cuore del suo fascino: vicoli densi di mistero, scalinate che correvano e si intrecciavano verso i bastioni e, sulle soglie dei palazzi, le palle di pietra lanciate dalle bombarde turche. Perdersi tra i suoi vicoli era come immergersi in un romanzo storico di ambientazione gotica, dove l’amore e il potere si mescolavano, generando intrighi di sapore noir. Dopo una breve sosta al Castello aragonese, arricchito da quattro torri e circondato da un ampio fossato, raggiungemmo la Cattedrale. Ammirai il rosone gotico, ma a colpirmi profondamente fu il mosaico pavimentale opera del monaco Pantaleone. Di forte impatto scenografico, il tema del mosaico era la vita umana, raffigurata allegoricamente da tre alberi, da ognuno dei quali sorgevano diverse rappresentazioni legate alla teologia dell’Alto Medioevo. Nella cappella dei Martiri, adiacente all’altare maggiore, rimasi impietrito alla vista di sette bacheche di vetro contenenti le ossa degli ottocento Martiri di Otranto, trucidati dai Turchi nel 1480 per non aver voluto rinnegare la fede cristiana. Usciti dalla Cattedrale, comprai per Chiara una cartolina che raffigurava il suggestivo lungomare; scrissi cinque righe romantiche, incollai un francobollo e la imbucai.

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Feci notare all’ispettore Sanscitarra che mezzogiorno era suonato ormai da qualche minuto e che era giunto il momento di dirigerci verso il luogo del pranzo. – Tranquillo, dottore. Da Tonio prima delle due non si mangia. Perfetto. Il mio orologio nutrizionale, abituato ad un diverso stile di vita, avrebbe dovuto rispettare le lancette del Sud e avrebbe fatto non poca fatica. – Prima di andare a Castro, non posso non portarvi in un luogo magico dal quale si vede tutto il resto. – Tutto il resto, cosa? – Seguitemi e vedrete. Sanscitarra aveva ragione. Mi portò sul Colle della Minerva, a pochi metri dal porto, piccola collinetta dove furono decapitati gli ottocento Martiri. Da lì ammirammo l’intera città di Otranto, la luce smaltata del suo mare e del suo cielo. Non eravamo i soli a godere di quello spettacolo. Accanto a noi c’era una coppietta in sella ad una bicicletta rossa, impegnata in tenere effusioni. Il ragazzo non evitò di lanciarci un’occhiata di fastidio e, compresa l’antifona, consigliai all’ispettore di tornare indietro. D’altronde, quei pochi minuti mi erano bastati per cogliere il fascino della misteriosa Otranto. A bordo della Fiat 850 Spider rossa di Sanscitarra, percorremmo la costa verso sud. Il paesaggio interno divenne arido e aspro, privo di vegetazione e ricco di muretti a secco, mentre il mare diveniva più profondo e, all’orizzonte, cominciava a regalare le prime pennellate di blu cobalto. Lungo la strada, che seguiva fedelmente il profilo sinuoso della costa, scrutai alcune piante di fichi d’india che, in atteggiamento narcisistico, si esponevano al sole di fine giugno.

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Costeggiammo grotta Palombara, torre del Serpe, torre delle Orte e, giunti a Punta Palascìa, il punto più orientale d’Italia, proseguimmo verso torre Sant’Emiliano. Subito dopo arrivammo a Porto Badisco, piccola insenatura delimitata da due rocce chiare impreziosite di oleandri: qui la riva del mare era di un azzurro luccicante. Sanscitarra mi spiegò che da molti era considerato il luogo in cui Virgilio immaginò l’approdo di Enea, in fuga dopo la guerra di Troia. Dopo Porto Badisco il paesaggio divenne meno arido e sempre più ricco di vegetazione: pinete vastissime coprivano i pendii fino al mare, donando al tutto un aspetto più selvaggio. Giungemmo in un paese dominato da atmosfere orientaleggianti che regalavano scenari fiabeschi: la scogliera rocciosa era ricca di grotte preistoriche e faraglioni. Si trattava di Santa Cesarea Terme. Sanscitarra mi raccontò un’antica leggenda del mondo classico, che narrava della tremenda battaglia tra Eracle e i Giganti, avvenuta proprio lungo la costa della Japigia. Eracle uccise i ventiquattro Giganti, altissimi e violenti, lunghi capelli inanellati e code di serpenti al posto dei piedi. Secondo la leggenda, la dissoluzione dei loro corpi rese sulfuree le acque che filtrano ancora oggi nelle sorgenti di Santa Cesarea. Costeggiammo Porto Miggiano, solitaria e seducente, proseguendo verso la meravigliosa grotta Zinzulusa, ricca all’interno di stalattiti e stalagmiti somiglianti a zinzuli, stracci pendenti. Mi resi conto allora di aver sbagliato: questa terra, a me ignota prima d’ora, non aveva bloccato l’idea del movimento, non era del tutto piatta come avevo giudicato stupidamente, colto dal pregiudizio. Il Salento cominciava a regalarmi il movimento nei colori e nei profumi, diversi da quelli della mia Umbria, ma non meno affascinanti. Intorno alle due giungemmo nella cittadina di Castro, formata da due antichi borghi: Castro alta, costruita su rocce imponenti

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che scendevano a picco sul mare, con le sue stradine ripide richiamava vagamente i miei paesaggi montani; Castro marina, invece, si presentava come un antico borgo di pescatori, con numerose insenature rocciose prese d’assalto dai turisti. Sostammo per il pranzo in una suggestiva trattoria sulla scogliera, qualche chilometro fuori il centro abitato, dinanzi a quel mare tinteggiato di blu cobalto. Tonio, il proprietario, era un cinquantenne cordiale, abbastanza robusto, con folti baffi che gli conferivano un’aria da tricheco. Ci fece accomodare a un tavolino all’aperto, da cui si godeva la splendida vista sul mare. Sanscitarra, senza indugio, gli riferì la mia antipatia per i ricci e le cozze. – Mai mangiati? – mi domandò Tonio. – Per la verità, no. Il pesce e i frutti di mare sono qualcosa a cui non sono abituato. Se potessi avere una bistecchina di carne... – Di cosa? – sussultò Tonio, guardandomi come se avessi bestemmiato – In questa trattoria si mangia solo pesce, la carne non è contemplata nel menù! – Dottore, provate! – m’incitò Sanscitarra – Vi perdete qualcosa di straordinario! – Dottore, seguite il suo consiglio. – riprese il ristoratore – Vi giuro che non ve ne pentirete. Tonio fu di parola. Assaggiai, tutto schizzinoso, la prima forchettata di linguine, con lo sguardo curioso di Sanscitarra fisso sul mio volto. Masticai cauto quel boccone, percependo gradualmente non solo un sapore delizioso, ma soprattutto un profumo paradisiaco a cui il mio naso non era abituato: il profumo del mare. E per me annusare era già assaggiare. L’ispettore esultò con fierezza e con l’immancabile sorriso. Mentre raccoglievo con un pezzo di pane il sugo residuo dei ricci, si avvicinò al nostro tavolo una ragazza mora dai lineamenti

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tipicamente mediterranei. Salutò ammiccante Sanscitarra e lo baciò sulla guancia, bisbigliandogli non so cosa all’orecchio. – Graziella, – mi riferì l’ispettore, dopo che la ragazza si fu allontanata – la figlia di Tonio. Lavora qui in trattoria. Bella, vero? – Molto carina. Siete fidanzati? – No, per carità. A lei piacerebbe, a me... è un’amica. Un’amica con cui talvolta... vabbè, avete capito, no? – No. – risposi secco. – Mhm... ordiniamo le cozze? E se il piatto di linguine era stato paradisiaco, le cozze aperte in padella furono divine. Tutto quel sapore di mare mi fece dimenticare la mia antipatia iniziale. Rimasi incuriosito quando vidi arrivare in trattoria la coppietta incontrata sul Colle della Minerva e condivisi la mia curiosità con l’ispettore. – Non ci avevo fatto caso. Voi, dottore, avete l’occhio del vero investigatore! Non vorrei sbagliare, ma quel ragazzo ha un volto familiare, dovrebbe essere di Cursi. La ragazza non credo di conoscerla, però... bella biondina! – E sono venuti in bicicletta da Cursi fin qui per pranzare? – Non mi stupisco, la trattoria di Tonio è un posto rinomato in tutto il Salento. Non vi ho mica portato in una bettola, dottore! – sorrise, come al solito. Improvvisamente annusai un profumo familiare che mi inebriò i sensi. Rievocai l’immagine della casa in campagna dei miei nonni, vicino Todi. Lì ho trascorso le migliori estati della mia infanzia, correndo libero e spensierato lungo i sentieri alla ricerca della salvia, che mia nonna avrebbe utilizzato per arricchire i suoi piatti prelibati. Sì, quel profumo era salvia. E prima che la nostalgia di quei momenti spensierati mi offuscasse la mente facendomi assaporare la tristezza, intravidi la fonte di quel profumo. Era una fanciulla

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snella e di media statura; i suoi lunghi e fini capelli castani erano raccolti da un fermaglio a forma di rosa. Aveva due buste di plastica in mano. La vidi solo di spalle, perché entrò veloce nella cucina della trattoria, ma ero sicuro che fosse lei la fonte di quel profumo inebriante. – Mi dispiace, dottore, a parte quello del pesce non ho sentito alcun profumo – mi rispose l’ispettore, quando gli chiesi se avesse anche lui percepito un sentore di salvia. – Mah... io ho sentito un profumo intenso di salvia. – Saranno le cozze! Anche se dubito che Tonio metta... – Non erano le cozze. – dissi risoluto. Senza buste in mano, la fanciulla riuscì dalla cucina e invase nuovamente l’aria con quel suo profumo maledettamente familiare. Eppure, l’ispettore continuava a non percepire nulla che potesse avvicinarsi all’odore della salvia. Ed io preferii non indicargli la fonte. La fanciulla aveva gli occhi chiari, forse verdi. Non l’avevo mai vista, eppure mi sembrava di conoscerla da sempre per il suo profumo. Notai che rivolse lo sguardo alla coppietta e s’irrigidì. Il ragazzo ricambiò lo sguardo, ma non sembrò minimamente turbato. Poco dopo corse via ed io, stolto come al solito, mi rimproverai di non aver usato un espediente per conoscerla. Fortunatamente rimembrai l’immagine di Chiara, mia promessa sposa. Mi calmai. Dopo lo squisito pranzo da Tonio, che Sanscitarra volle offrirmi senza sentire ragioni, ci dirigemmo verso Castro alta, all’abitazione dell’ispettore. La madre di Sanscitarra, Concettina, mi accolse con modi cerimoniosi come se fosse una visita del Santo Padre. Il suo dialetto colorito non mi permise di comprenderla. Inizialmente seguii la traduzione dell’ispettore, poi mi arresi e mi concentrai sui suoi

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gesti. Che la sua gesticolazione fosse eccessiva e ugualmente colorita come il parlato, era fuor di dubbio. Ma che, poco dopo, sarei stato costretto a smettere di considerare anche i gesti, non l’avrei mai detto: seguire quella sequenza numerosa e illogica, cercando invano di darle un senso, mi mandò nel pallone. Però capii immediatamente che era una donna di gran cuore, anche troppo. Esibì sul tavolo bottiglie contenenti vari liquori: nocino, limoncello, mandarino, liquirizia, vin cotto, caffè, cioccolato, tra quelli che ricordo, preparati tutti rigorosamente da lei. Poi mostrò un vassoio sul quale troneggiava una torta di pasta frolla, denominata torta pasticciotto, cui seguì un altro vassoio, che conteneva dolcetti di pasta di mandorla. – Mio figlio Nino mi aveva avvertita della vostra visita e mi sono permessa di preparare qualcosa – scandì lentamente l’ispettore, traducendo le parole della madre in modo letterale. «Se questo è qualcosa, cosa avrebbe preparato se mi avesse invitato a pranzo?» pensai. – Desiderate altro? – No, per carità. Mi dispiace aver arrecato tanto fastidio – mi schermii. – Nessun fastidio, è un onore per me! – dichiarò l’ispettore, imitando il tono orgoglioso della madre. Bevvi un bicchierino di liquore al caffè. Sembrerò scontato, ma era squisito, così come squisita era la fetta di torta pasticciotto che mangiai, a cui ne seguì un’altra a causa delle ripetute insistenze della signora. – Questa è buona, fatta in casa. Pasta frolla ripiena di crema pasticciera, non si può rifiutare! – dichiarò con gli occhi sgranati, con l’espressione di chi desiderava ingozzarmi fino a farmi esplodere. Dopo qualche ora di meritato riposo, se tale poteva essere definito, io e l’ispettore scendemmo a piedi verso la scogliera, per-

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correndo i vicoli affascinanti di Castro. Pensavo (e speravo) che l’idea del tuffo al tramonto fosse sfumata, invece sembrava che Sanscitarra non aspettasse altro. Con il mare negli occhi saltellava sorridente lungo i vicoli, come un ragazzino alla scoperta del nuovo giocattolo. Subito dopo essere arrivati sulla scogliera, Sanscitarra si tolse in fretta la maglietta e i pantaloni e si tuffò. In mare c’erano quattro ragazze che galleggiavano beatamente godendosi il tramonto. Non ero intenzionato a tuffarmi con gli slip, ma quel pazzo dell’ispettore mi tediò fino all’esaurimento e fui costretto a raggiungerlo. Maledetti salentini: gioviali, ma testardi! L’acqua era calda e magnifica. In mezzo a quel blu cobalto, mi sembrava di essere protagonista di un acquerello. – Commissario, quelle ragazze ci guardano... e ci sorridono! – Ridono del mio falso costume e non posso biasimarle. – Ma che dite! Sicuramente nutrono un certo interesse per noi, andiamo a presentarci. – Sanscitarra, per carità, non si azzardi! – Perché? Dottore, vi faccio conoscere le bellezze salentine. – Non credo sia il caso. – Ma come? Quattro paperelle indifese che sguazzano libere e noi le lasciamo andar via. Su, che stasera ci divertiamo. – Sanscitarra, non posso. Sono fidanzato ufficialmente, in procinto di sposarmi. – Ah, capisco. E... vabbè, la vostra fidanzata è gelosa? Lo guardai perplesso, fingendo di non capire le intenzioni che muovevano la sua domanda maliziosa. – D’altronde lei ora non c’è, occhio non vede cuore non duole. – Ispettore, fingo di non aver sentito! – Credetemi, un’avventura prima del matrimonio è scena da manuale, sia per l’uomo che per la donna.

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– Da come ne parla sembra una regola prescritta dal medico. – è come se lo fosse! Una piccola gratificazione per affrontare meglio il carcere... ehm, volevo dire... il matrimonio! – Sanscitarra, ha parlato abbastanza. Adesso può smettere? – Io lo dico per voi, dottore. E poi, chi ce lo dice che la vostra... la vostra... come si chiama la vostra fidanzata? – Chiara. – Ecco, Chiara. Tra l’altro, bel nome! Chi ce lo dice che la vostra Chiara non stia, pure lei, rispettando il manuale? – Sanscitarra, ma cosa dice? Come si permette? – Dottore, voi credete veramente che Chiara stia trascorrendo queste lunghe giornate d’estate senza di voi, tra una preghiera e un piatto di minestra? è anche legittimo che alleggerisca in qualche modo l’attesa. – Mi riporti alla pensione, Sanscitarra, subito! – dichiarai con fermezza, uscendo dall’acqua e cercando invano l’asciugamano – Che stupidi, non ci siamo portati neppure un asciugamano! – Non preoccupatevi, ora ci asciughiamo al sole. – Ma quale sole? Ormai il sole è quasi tramontato. – Non preoccupatevi... d’altronde, siamo con la mia automobile. «Meno male!» pensai tra me e me. Io, certamente, non gli avrei mai permesso di salire nella mia automobile così bagnato. – Mannaggia, si prospettava una serata colorata con le quattro bellezze e invece... in bianco! – Sanscitarra, si sbrighi! Ritornammo a Cursi intorno alle ventuno. L’ispettore era stato molto gentile ad offrirsi come accompagnatore in una splendida giornata domenicale; peccato che alla fine avesse rovinato tutto, parlando a sproposito della mia bella Chiara.

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– Siccome volete rispettare la vostra promessa nuziale, vi avverto di fare attenzione a Marcella – mi disse, appena arrivati all’ingresso della pensione – in paese la chiamano Mani lunghe! – Mani lunghe? In che senso? è una ladra? – Ma quale ladra! è una zitella ancora arzilla e potrebbe approfittare del vostro viso educato, laddove se ne presenti l’occasione. – Per oggi lei ha parlato anche troppo, ispettore. Grazie della giornata, ci vediamo domani in commissariato. – Va bene, dottore, poi non dite che non vi avevo avvertito. – Sanscitarra, posso chiederle una cosa? Perché mi dà del voi? – Posso darti del tu? Oh, grazie, speravo che me lo chiedessi! – Certo che no, Sanscitarra, non le ho mica detto di darmi del tu! Semplicemente può darmi del lei, come faccio io. Il voi si usava nell’Ottocento, è roba vecchia. – Ma qui lo usiamo ancora, conferisce un certo tono di rispetto. Veramente io speravo di darvi del tu, dopo la giornata di oggi direi che si è instaurata una certa confidenza tra noi e quindi... – Continui a darmi del voi – sentenziai, uscendo dall’automobile e avviandomi verso la pensione. Mentre entravo, vidi Marcella che salutava un ragazzo dal volto familiare e gli consegnava un pacchetto regalo. Non appena il ragazzo fu uscito, realizzai che era il proprietario della bicicletta rossa, incontrato sia a Otranto che a Castro. «Che strana coincidenza» pensai. Marcella mi salutò, chiedendomi se avessi mangiato. Rifiutai garbatamente le sue proposte culinarie, il mio stomaco implorava pietà. Salito in camera ripresi a scrivere la lettera per Chiara, cercando di scacciare dalla mente le chiacchiere di Sanscitarra, prima che prendessero la forma di biechi tarli. Pochi minuti prima della mezzanotte terminai la lettera e, soddisfatto del risultato, mi buttai

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sul letto, certo che la mattina dopo non ci sarebbe stata nessuna campana a stravolgermi il risveglio. A distanza di anni, continuo a sorridere della mia stupida illusione. Già, perché mi sbagliavo. Le campane suonarono. Stesso orario. «Non c’è più religione» pensai. O, forse, ce n’era troppa. Durante la colazione chiesi a Marcella il motivo per cui le campane suonassero così presto anche di lunedì. Mi rispose che le suore celebravano ogni giorno la messa nella cappella, prima che cominciassero le lezioni all’interno dell’asilo. Che cosa? Quindi ogni giorno le campane avrebbero sconvolto il mio sonno, rovinandomi il risveglio? No, dovevo cambiare. Dissi a Marcella che avrei cambiato stanza, ne volevo una al piano terra, lontana dalle fustigatrici. Individuai una stanza in fondo e mi avviai per vederla, ma la donna mi fermò dicendo che doveva prima sgombrarla da alcuni vecchi scatoloni. – State tranquillo, per stasera sarà pronta! Dopo averla ringraziata, le consegnai la lettera per Chiara, pregandola di imbucarla. Avrei sicuramente passato l’intera giornata al lavoro, quindi non avrei avuto tempo di sbrigare la tanto cara commissione.

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Due

Il giovedì successivo al mio arrivo, un omicidio sconvolse la quotidianità di Cursi. Ero in commissariato, intento a sistemare alcuni faldoni odiosamente sparsi sulla mia scrivania, quando Sanscitarra venne ad avvertirmi. Vercelli quel giorno era a Bari per incontrare un magistrato. – Dottore, hanno trovato un cadavere nella cava di Mesciu Roccu. Pare che si tratti di un giovane. Il luogo del ritrovamento era una delle cave di pietra a cielo aperto, che si trovano lungo la strada che da Cursi conduce a Melpignano. Sul posto c’erano già Ippazio Filograna e Giacomo Montini, due agenti del mio commissariato, insieme al Pubblico Ministero Luisa Pareddu. Il corpo era stato trovato dai cinque operai della cava, tornati dalla pausa pranzo. Riferivano di non aver visto e sentito nulla di sospetto, troppo impegnati a rifocillarsi. Appena sceso nella cava, vidi una bicicletta rossa e cominciai a nutrire uno strano presentimento. Sanscitarra mi indicò il cadavere, che mi parve di riconoscere, nonostante avesse il volto coperto di sangue. Sì, sembrava il ragazzo incontrato per ben tre volte la domenica prima. La testa del giovane era stata fracassata con un sasso e, dall’enorme pozza di sangue in cui giaceva, si intuiva che era stata ripetutamente colpita con rabbia, come confermò poi il medico legale. Nella mano destra stringeva un foulard di seta, ma la terra e il sangue di cui era macchiato non mi permisero di distinguere

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