PER CANTI E CANTINE

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PINO DE LUCA

PER CANTI E CANTINE note di un viaggio enofonico in Salento


Gli scritti, qui rivisitati ed arricchiti, sono stati pubblicati nella rubrica del venerdì del «Nuovo Quotidiano di Puglia», fra il 2011 e il 2012.

Edizioni Kurumuny Sede legale Via Palermo 13 – 73021 Calimera (Le) Sede operativa Via San Pantaleo 12 – 73020 Martignano (Le) Tel e Fax 0832 801528 www.kurumuny.it • info@kurumuny.it ISBN 978-88-98773-07-7 © Edizioni Kurumuny – 2014


Ringrazio tutti coloro che con la fatica di ogni giorno tengono alta la vigna. Ultimi custodi di un territorio martoriato.



Così di vino in vino altro cantando

Un percorso fra le province di Brindisi, Lecce e Taranto, attraverso campagne e paesi piccoli e grandi. Pellegrinaggio per una quarantina di cantine, visitate spesso senza dichiararne la ragione. Canzoni vecchie e nuove per la strada; alcune sembrano scritte apposta per un vino. Il vino, dunque, per la memoria e non per l’oblio. Per ricordare quanto vino di rabbia ha accompagnato il pane della solitudine in vite precedenti indimenticate ed indimenticabili, anche se consegnate all’archivio di quello che è stato. Si comincia, signori. Si sale e si scende, come sulle montagne russe. Salite lente e faticose, per godersi panorami che lasciano senza fiato per un attimo e regalano tantissimo respiro per molto, molto tempo. E poi via, veloci come il lampo verso nuove mete e nuove sensazioni. Il vento in faccia è forte e odoroso, da aspirare profondo a rinfrancare spirito e mente, anche in tempi bigi e di rade speranze come quelli che stiamo vivendo. Accostare vino e musica, cantine e cantori è un esercizio che, con mezzi diversi, ha già fatto Clark Smith, fondatore di Vinovation, il più ardito dei centri di innovazione enologica del mondo. Per la verità, fin dai tempi più remoti, il canto, la musica

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e la danza erano coniugati con il vino in ogni festa, aristocratica o plebea che fosse. In questa nostra terra generosa di vite e di vita, mi proverò, contando sull’aiuto di molti per colmare le mie infinite lacune, a suggerire la liaison tra un vino e una canzone, una musica o una poesia partoriti nella stessa terra. Parto e partenza. Partenza per un viaggio nell’aura del non tempo e del non luogo, la medesima del somewhere & forever. La meta? Dove note e parole intessono arabeschi, intrecciandosi come i tralci della vite. Principieremo da Copertino, la più vetusta delle cantine cooperative del Salento, e ogni pagina sarà una nuova tappa di questo viaggio, di percorsi irregolari, tra cantine piccole e grandi, cantori d’alta fama ed artisti meno noti, vini freschi e briosi o severi e sontuosi. Come le canzoni: leggere e spensierate o profonde e taglienti. E alla fine del viaggio canteremo perché abbiamo bevuto e berremo perché abbiamo cantato; non le Malebolge saranno attraversate, ma il quarto cielo. Ilari ebbrezze ed armoniose cante, ci fan corifei di Sigieri di Brabante.

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Cupertinum

Copertino, comune dalle probabili origini bizantine, adiacente alla più antica ed estesa città di Nardò, presenta numerose caratteristiche interessanti. Ha una storia singolare ed intrigante, come moltissimi centri della penisola. Il luogo mi ha colpito perché è quello della nascita della prima cantina cooperativa del Salento. Nel 1935, trentasei persone decisero di fondare una cantina sociale che, in qualche modo, proteggesse i contadini dal rasoio che i compratori di uve, noti per lo spessore del pelo sullo stomaco, usavano mettere alla gola di chi coltivava. Il rischio di svendere il prodotto o lasciarlo marcire sulla pianta era scongiurato. Ma quanta fatica per tenere insieme una comunità di soci, in una terra nella quale la cooperazione non aveva alcuna esperienza. E invece, negli anni, la Cupertinum s’è rafforzata e ha acquisito un ruolo produttivo e una rilevanza nazionali ed internazionali, valorizzando le uve prodotte nelle terre di Carmiano, Arnesano, Monteroni, Galatina e Lequile, oltre che a Copertino. Ora viaggia sotto la guida di Francesco Trono, presidente dal 2013, e la supervisione tecnica dell’enologo Giuseppe Pizzolante Leuzzi.

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La Cupertinum ha storia salda e radici d’antica tradizione, e come tutto ciò che è forte di un’identità consolidata, non teme sperimentazione e innovazione. Prodotti ex novo, ma anche contaminazioni di produzioni classiche e di rocciosa definizione. Del Negroamaro IGT della Cupertinum vorrei dire. Un Negroamaro non in purezza, prodotto di cantina; lavorato come si deve lavorare un Negroamaro, ma aggiungendo delle piccole dosi di Merlot – le famose dosi qb che dipendono dal lotto, dal tempo e dalla fantasia del momento. Contaminazione dichiarata e positiva, che permette di ottenere un vino che alla vista si presenta di un rosso rubino intenso e luminoso; al primo naso prevalgono ribes e lampone, poi anche il moccaccino e, nel finale, un leggero speziato. Armonico in bocca, rotondo; evidente il nerbo del Negroamaro ammorbidito dalla sinuosità aromatica del Merlot. Va lasciato in bocca per qualche secondo prima d’esser deglutito: una leggera masticazione ne amplia la persistenza e le sensazioni retrolfattive. Apritene una bottiglia della vendemmia 2007 e, mentre prende un po’ d’ossigeno, cercate l’assolo che Android ha regalato ad un San Siro stracolmo, un giorno di maggio del 2008. Conservate l’ultimo sorso per il finale possente e liberatorio. Quanta energia e quanta voglia di vivere ci si ritrova... Chi è Android? È come il Negroamaro della Cupertinum. Andrea Mariano, copertinese dalla nascita, quasi dal primo vagito si esprime in armonie sonore; edifica una solida cultura musicale al Conservatorio, poi preferisce sperimentarsi sul campo

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piuttosto che incorniciare il diploma e comincia a contaminare il suono del pianoforte con altre tastiere. Emergono sonorità straordinarie che guarniscono le performance dei Negramaro e la voce fenomenale di Giuliano Sangiorgi. La musica elettronica fu una contaminazione sperimentale ed è ormai un classico: son passati quarant’anni dall’edizione di Kraftwerk da parte dell’omonimo, perseidico, gruppo fondato da Ralf Hütter e Florian Schneider nei primi anni Settanta. Anche il Negroamaro, che ha arricchito tanti vini, può farsi contaminare e magari, fra quarant’anni, parleremo di queste sperimentazioni come di veri e propri classici. Per ora sappiamo che, in un fazzoletto della terra del Salento, mondi distanti si son fusi in uno solo. Che sia il Negroamaro o i Negramaro non è dirimente, a me basta godermeli insieme: lo trovo splendidamente esaltante.

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Jo, figlio di terre libere

Il nostro viaggio in compagnia di Bacco, Euterpe e Polinnia, ci porta da Copertino a Taranto. È ancora estate e la costa dello Ionio, quando è scevra dall’opera dell’uomo, è splendida: spiagge bianche e acqua cristallina. Una volta a Cuba ci venne da dire: che bel mare, sembra di stare ai “Quattro gatti”... Da Copertino si scende verso Porto Cesareo percorrendo la litoranea: Torre Lapillo, Punta Prosciutto, Torre Colimena, Specchiarica, San Pietro in Bevagna; pausa presso un vigneto a due passi dal mare, con alberelli schierati come militari in formazione, alberelli che portano i segni del tempo. Non sono reclute, ma veterani che hanno molto combattuto; son lì, testimoni di mezzo secolo di storia, senza piegar la testa, a difesa di un fazzoletto di terra rossa e feconda. Poi ancora la costa, fino a Lama: alla casa di un giovane che solo sette anni or sono ha deciso di diventare agricoltore, anzi vignaiolo. Si è innamorato di questa terra e di questi ceppi vetusti. E la vigna gli ha risposto, non certo con la baldanza e la copiosità della gioventù, ma con la forza serena della qualità e dell’esperienza.

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Gianfranco Fino e sua moglie Simona hanno legato alla terra il loro futuro, consapevolmente e per scelta. Non hanno ereditato nulla e nulla avevano da proteggere: sono viticoltori per pura scelta e in pura autonomia. Il nome di Gianfranco e Simona è legato all’ormai universalmente noto “Es”, Primitivo che ha estimatori sull’intero pianeta. M’intriga invece quel fazzoletto di terra dove nasce lo “Jo”, Negroamaro in purezza da alberelli di mezzo secolo in riva al mare di San Pietro in Bevagna. Un vino che vive una maturazione di nove mesi e un affinamento di sei, ma se lo si lascia riposare anche un anno non c’è nulla di male, anzi. Non è un vino comune, è fatto per grandi occasioni di riflessione, solitaria o collettiva. I suoi 14,5 gradi alcolici servono a riscaldare; i suoi profumi complessi, pieni, ampi e persistenti – di frutti rossi, certo, ma anche speziati, di cacao e di tabacco – e il suo gusto deciso, possente ed elegante sono dirimenti nel decidere che fare. Ogni decisione importante ha bisogno di memoria, ha bisogno di ceppi antichi, lavorati da chi sa bene che La fatica è di più sulle braccia scure lacrime non ne abbiamo più, facce scolpite e dure voglia di cambiare.

“Jo”, che di quei ceppi e quelle braccia è figlio, ci aiuta perché ogni decisione sia per difendere la nostra terra.

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Quei versi sono di una voce straordinaria, di Taranto, che cantava a Sanremo la voglia di liberare la propria terra. È la voce di Mariella Nava, nome notissimo del mondo della canzone pop; ma forse quella canzone, Terra mia, non siamo più in tanti a ricordarla. Ne son passati di anni, quelle parole sono state troppe volte dimenticate e vilipese. Ma è stata anche una voce profetica: dieci anni dopo Gianfranco e Simona hanno deciso di prenderne un pezzo, e adesso la Terra mia di Mariella Nava è un po’ più libera e ha in “Jo” un grande e forte testimone.

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Preghiera

Dallo Ionio all’Adriatico, dal desiderio di riappropriarsi della terra a quello di riprendersi l’umanità. Con il Patto dell’Arca, Noé riconquista la propria umanità ubriacandosi nella vigna; così Gesù, nell’istituzione eucaristica, trasfigura in sacro quanto di più terreno ci sia: il pane e il vino. Ne son nate tante, di preghiere; alcune codificate dal ministero, una moltitudine impressionante private e privatissime. Matonna ti lu mare è una preghiera. Nata dall’interazione ventennale di Mimino Gialluisi e Bozzi Mozzi (Sergio Mangia), colonne portanti di un gruppo musicale che ha fatto la storia della canzone popolare salentina: Santu Pietru cu tutte le chiai. Strana preghiera – profumata di mare e sudore invece che d’incensi – comincia subito potente e potente prosegue, ma mai scomposta, mai adirata o ricattatoria. Una petizione onesta, a voce alta e distesa, perché chi è in alto ricordi chi conduce una vita grama, chi si fa le mani a sangue remando nelle tempeste per poter crescere i suoi quattro figlioli. Parole di grande dignità e insieme di grande umiltà. Ascoltavo questa canzone mentre, da San Pietro Vernotico, seguivo verso nord la strada provinciale 78. Masseria Maime. Zona a vocazione vitivinicola da sempre, a due passi dal mar 17


Adriatico, recentemente acquisita dall’azienda Tormaresca di Castel del Monte. I nuovi proprietari non hanno fatto scempio di colture e culture; sapientemente ne hanno tratto il meglio, riprendendo e valorizzando vocazioni, precazioni e imprecazioni. “Masseria Maime” è anche l’etichetta di un Negroamaro in purezza che della Matonna ti lu mare ha l’impronta. Profumi complessi, di lampone e frutti rossi del sottobosco – ho sentito evidente il corbezzolo maturo – in seconda battuta anche spezie esotiche e ginseng, con un finale quasi vanigliato. Possente al gusto, da subito, ma insieme gentile, mai aggressivo, men che meno supponente. Resta a lungo a far compagnia al palato, di buona acidità e persistente, come il pescatore che invoca la Madonna anche nel mare in tempesta sulla sua scorza di nocciola: “Masseria Maime” non prevarica e non deborda, ma è lì sereno e forte a rappresentare chi non ha paura del destino, nemmeno quando è solo di fronte all’immenso. Ho versato tre dita di “Masseria Maime” del 2007 e ho alzato il volume: davvero emozionante la combinazione, quando la canzone finisce e finisce anche il vino, si prova una sensazione di forza e, insieme, di grande tenerezza. Lo so, ho dimenticato qualcosa; capita sempre, quando si scrive di un’emozione. Ho dimenticato di dir del colore, ma son sicuro che lo avete indovinato. Rubino intenso. Rosso. Provate a metterli insieme, ad ascoltare la musica e a gustare il vino. Ad occhi socchiusi, magari pregando la Madonna del mare: per Mimino, per Sergio, e per tutte le chiavi di San Pietro. Io torno ai remi.

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L’Astore

È tempo di lasciare le coste e scendere, scendere fin nella Decatrìa Chorìa, equidistanti dal mare che circonda il Salento. A quattro leghe dallo Ionio e quattro dall’Adriatico, c’è una terra soleggiata e argillosa, spazzata dai venti che dei due mari portano i profumi, e in mezzo il paese della crita: Cutrofiano. Alla via Giuseppe di Vittorio, al numero uno, ci sono una pineta e una masseria intitolate all’accipiter gentilis, rapace matriarcale, capace di un volo rapido e acrobatico per districarsi tra le zone della macchia e della boscaglia. “L’Astore” è il marchio della famiglia Benegiamo, che produce vini coniugando l’antica tradizione e la nuova tecnologia, finché questa si mantiene rispettosa e costruttiva per l’ambiente. Un appezzamento di terra più a nord di Cutrofiano, in agro di San Pietro in Lama, è ancora popolato da alberelli di Negroamaro che furon messi a dimora nel 1947. Nodosi e contorti dall’età e dalle mani dell’uomo, danno pochi grappoli ormai, ma composti da acini sani, forti e dolci come il più dolce dei nettari divini. Provenienti da tempo lungo e per lungo tempo – almeno trenta mesi si lascia maturare il meraviglioso succo di queste bacche rosse. Ne vien fuori un pro-

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dotto scuro, rosso profondo, dagli inconfondibili aromi di mora matura, prugna e spezie; uno dei pochi vini al quale il legno fa benissimo. Possente di spalla e persistente nel gusto, racconta nel bicchiere la terra, la fatica, il sole e il vento di un Salento lento lento lento, ma che sa far ballare chiunque quando lancia la sua aria stisa. Qui dove L’Astore vola e gli alberelli ritrovano senso e onore nelle 3500 bottiglie che “Alberelli” si chiamano, qui aria stisa è la voce di un monumento della canzone salentina, Uccio Aloisi, che ci manca tantissimo. Fin da ragazzo e fino alla fine, ha cominciato a far tutto cantando, con i suoi straordinari stornelli che pennellavano situazioni, caratteri e paesaggi in piccole strofe. Quadri che la sua voce magica rendeva comprensibili anche a chi non conosceva l’italiano né tanto meno il salentino, e che ritmava al suono di tamburelli e organetti capaci di far muovere i piedi anche agli ammalati di gotta. Me lo ricordo ancora in una sua rivisitazione di stornelli che cantano il vino, ad una Sagra te lu Purpu (sagra del polpo) a Melendugno del 2009: ci quandu muero vau a ‘mparaisu, ci nun ‘nc’è mieru buenu nun ci trasu

diceva la versione originale e dal palco Uccio, alla tenera età di ottant’anni, irriverente come solo i grandi sanno essere, la trasformò in

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ci quandu muero vau a ‘mparaisu, ci nun ‘nc’è mieru buenu nà ce trasu

accompagnando quel “nà” con il gesto dell’ombrello. Me l’immagino, Uccio, il 21 ottobre del 2010 che, chiusi gli occhi su questa terra, si presenta a San Pietro. Il simpatico signore lo invita ad entrare, offrendogli una tazzina di caffè di nota marca. Uccio lo guarda, fermo sulla soglia, e gli dice: “Cafè? Ce mieru teniti?”, pronto a tornarsene da dove stava venendo. San Pietro rimane sbigottito, non sapendo che fare chiama la direzione. E arrivano Uccio Bandello e Uccio Melissano, con una di quelle 3500 bottiglie di “Alberelli” di casa L’Astore. Uccio li guarda con i suoi occhi pieni di mare, e intona Fior di zagàre n’auru picca se putìa campare ma puru a quai ‘nc’ete nu cumpare l’amici, lu mieru e se po’ cantare.

Il Paradiso, ora, è un’altra cosa.

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Brandisio

Dalla città della kryta alla città delle ceramiche: continuiamo il cerchio che ci fa percorrere il grande Salento in senso orario, alla ricerca di piccoli scrigni con grandi tesori. Da Cutrofiano a Grottaglie. Ci lasciamo alle spalle un’azienda agricola di antica tradizione, lasciamo il Negroamaro e incontriamo una specie di alieno il cui nome è Oreste Tombolini. Ammiraglio Oreste Tombolini, già comandante del Battaglione San Marco, che – dismessa la divisa della Marina Militare – ha indossato i panni del contadino. Oreste eredita dal nonno materno alcuni appezzamenti di terreno in contrada Petrelli e contrada Mancini (vigna di oltre quarant’anni) nell’unica zona a saliscendi del manduriano; investe tutta la sua cospicua liquidazione nel rinnovare una piccola cantina a Carosino e il ‘deriposatoio’ (deposito e riposatoio) a Grottaglie, e si mette a produrre vino, evitando ogni possibile contaminazione con la chimica sia in vigna che in cantina – a meno di quantità infinitesime di bisolfito di potassio, usato come antisettico. L’unica annata disponibile è la 2009 – poco più di mille bottiglie – perché la vendemmia 2008 è stata riservata all’uso per-

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sonale. Adesso s’avvicina il tempo di aprire la 2010, circa duemila bottiglie. Per il 2011 ci sarà da capire come andrà, visto che figuri di pari idiozia e delinquenza hanno appiccato un incendio che ha devastato i vigneti, il 22 settembre 2011. Ma di questo si occupano le forze dell’ordine, che speriamo giungano presto a una qualche conclusione. Il buon Oreste produce un Primitivo in purezza che, a mio parere, potrebbe essere annoverato tra quei vini d’ospitalità che da noi si usavano un tempo, e che continuano ad usarsi in Inghilterra. Vino da salotto, magari accompagnato da qualche tarallo con il pepe. Dopo l’armonizzazione con la natura, nei vigneti di Oreste non esistono erbacce, solo piante di compagnia alla vite; Oreste sta cercando di armonizzare il suo primitivo con la musica classica, cercando sinestesie fra Mozart, Chopin, canti gregoriani e barrique. Non so bene immaginare il risultato, ma so che un accordo enofonico esiste con questo Primitivo dal colore profondo, e dalle proprietà organolettiche e salutari extra-ordinarie. Struttura e corpo possente maturati in una vigna in perfetto equilibrio di natura, in dieci mesi di barrique e dieci di bottiglia, si rivelano nel prezioso liquido scaraffato, filtrato – consiglio di conservare il deposito per farne un eccellente risotto – e lasciato respirare per un paio d’ore, di sera. Lo si fa scivolare in un balloon ampio e si gusta, con piccoli sorsi e sensi desti a cercare tutta la saggezza e il coraggio in esso racchiusi. Provando a in-

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dovinarne nome e progenie, a dominare la sua forza. Non c’è mente così cupa da non liberarsi ai suoi profumi e alla sua forza, né cuore di principessa così gelido da non sciogliersi. L’ultimo sorso è come Calaf che sfida la tenebra: Dilegua o notte tramontate stelle all’alba vincerò.

Lasciare il vino in bocca finché un Mario del Monaco su vinile non esplode l’ultimo “Vincerò”, deglutire e attendere che gli oltre sedici gradi e la ricchezza tannica e polifenolica esplodano insieme al tripudio delle note musicali. Si fonderanno nella parola chiave: Amore, lo stesso che, per dirla con Dante, “move il sole e l’altre stelle”. È l’amore che Oreste ha per la sua piccola terra, la sua piccola cantina, le sue piccole botti, le sue poche bottiglie. È tempo di svelarne il nome: “Brandisio”, come il nonno di Oreste. Primitivo al 100%, così primitivo da rappresentare un pezzo di futuro. Bentornato a terra, Ammiraglio.

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Remedia amoris

Lasciato il manduriano, limite messapico occidentale, scendendo verso est s’incontrano Francavilla Fontana e, subito dopo, Latiano. Siamo nel cuore della piana brindisina: terra piatta, rossa, abilissima a rubare l’acqua e a nasconderla rapidamente, assorbendola o convogliandola in fiumi carsici alimentati dai capoventi. Il cuore della terra calda e dura, ma anche fertile e generosa. Qui allignano coltivazioni grandi in dimensione e qualità, e le viti sono forti e prodighe. L’abbondanza aiuta il pensiero lieve, il silente ed imperscrutabile sorgere di sentimenti e di passioni che, in secchezza e carestia, sono un po’ più difficili a maturare. In terre fertili, anche le piante meno rudi riescono ad offrire la loro dolcezza a chi sa coglierne la sensibilità. Appena tre miglia romane a nord di Latiano, c’è una masseria, Partemio, dove ci si può fermare per molte cose, e in particolare per le vigne d’Aleatico che vi son poste. Non mi avventuro sull’origine dell’Aleatico, come molti usano fare, citando a sproposito Pier de’ Crescenzi e associando “moscadelle e lugliatiche” con quest’uvaggio così prezioso e diffuso in Puglia. Preferisco

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semplicemente ricordare l’Aleatico come unico vitigno che è IGT per tutta la Puglia e che contribuisce, in blending, all’aroma e al gusto di tanti nostri grandi vini. Qui alla Tenuta Partemio si produce anche in purezza, ottenendo un elisir dal colore rosso cupo, con un naso fitto e intenso anche se non invasivo e un gusto pieno e dolce senza essere stucchevole. Un Aleatico dolce come si comanda, compagno di passioni e di sentimenti. So bene che di questo nettare ormai tutti tessono lodi e che le mie parole son minuscole a fronte di tante voci altisonanti, ma, con una punta di civetteria, rammento solo a me medesimo che ebbi a raccontarne quando ancora si chiamava solo con il nome del vitigno. Erano giorni di passione: Recondita armonia di bellezze diverse! È bruna Floria, l’ardente amante mia! E te, beltade ignota, cinta di chiome bionde, tu azzurro hai l’occhio, Tosca ha l’occhio nero! L’arte nel suo mistero le diverse bellezze insiem confonde...

E come l’asino di Buridano, indeciso tra due covoni, morì di fame, così la passione lascia il posto al suo parente più stretto: il patimento delle mille domande che essa si porta appresso, inappagate e inappagabili. E quella romanza termina, lasciando

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spazio alle note d’un clarinetto solo, in Si minore. Del ricordo di quando “lucevan le stelle e olezzava la terra”. Ogni rumore s’acquieta e la voce di Cavaradossi accompagna struggente la penombra: “Oh! dolci baci, o languide carezze”, mentre le mille e una domanda si accavallano e s’infrangono sugli scogli dell’inesplicabile. Non basta rileggere il Remedia Amoris di Publio Ovidio Nasone per sanare la cesura. È tempo di un altro “Remedia Amoris”, quello liquido di Tenuta Partemio, fatto di Aleatico di Puglia al 100%. Versato nella copita a prender aria – mentre si mastica un fico mandorlato – comincia ad esalare i suoi profumi, a mitigare l’eco dell’urlo di dolore del tradito, pur per la salvezza: Svanì per sempre il sogno mio d’amore... L’ora è fuggita... E muoio disperato! E non ho amato mai tanto la vita!...

Masticato il fico, è tutt’uno portare alla bocca il piccolo calice, sorbirlo con delicatezza mentre la testa ronza piena di perché... E l’Aleatico si allarga, invade e pervade, si rifugia ovunque vi sia un percettore di gusto. La copita, ormai vuota, giace sul tavolo: nessuna risposta è arrivata, nessuna! Miracolosamente, però, si son dileguate le domande.

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Rosa del Golfo

Lasciamo il Muro Tenente, avamposto fortificato dei Messapi, e ripercorriamo il territorio che sotto il mitico Arthas ebbe fulgore. Ci addentriamo profondamente fino ad Alytia o, come oggi si denomina, Alezio. Una delle città da cui tutto ebbe inizio: centro della civiltà del popolo tra due mari, integratosi con Càlabri e Sallentini, che, per la sua civiltà, seppe stupire anche gli Ateniesi. In questo feudo dimora la cantina di Lucia e Damiano Calò, anch’essa di antica storia; avendo un paio di secoli, è nota al mondo intero, come son noti i suoi vini. In particolare, il “Rosa del Golfo”; così importante che l’intera azienda ha assunto questo nome. Ma, come è nostro uso, non ci fermiamo alla fama di un vino per celebrarne i fasti. Cerchiamo fra le pieghe, a volte della tradizione e a volte dell’innovazione, e da lì proviamo a far emergere sinestesie enofoniche al servizio di piccoli piaceri del palato e dell’anima che possano condire le nostre vite, così spesso soggette a tristezze e travagli. Questi percorsi sono spesso impervi ed avventurosi; costringono a lunghe giravolte, certamente faticose ma non prive di fascino. Come esploratori si seguono fiuto ed esperienza: è facile allora comprendere perché ci immergiamo in Alytia. Il nome è

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replicato dai suoi fondatori, che la leggenda vuole provenienti dall’Acarnania, di cui Alytia era la capitale. L’Acarnania esiste per davvero. Ora ha come città più importante Missolungi, nella quale la meningite pose fine alla vita di Mad Jack, il più grande fra gli esploratori d’ogni cosa. Da lì, forse, partirono per rifondare Alytia, poi divenuta Aletia, Aletium, Aletion e Baletium, e financo Picciotti. Un potpourri di crescita e desolazione, di guerre e floridi commerci. Ma sempre, fin da quando Alcibiade rimase impressionato dalla capacità delle donne di sedere a tavola e discutere con gli uomini d’ogni argomento, l’area s’è contraddistinta come capace di grandi innovazioni, di morire e rinascere dalle proprie ceneri con rinnovato vigore. Ovvio che, in tutto il Salento, solo qui poteva nascere l’idea di uno spumante di Negroamaro e Chardonnay con metodo champenois. Rifermentazione in bottiglia e lunga permanenza sui lieviti (24-30 mesi) per ottenere una bollicina sottile e persistente, d’una delicatezza al naso e al palato da render lieto ogni convivio, da farsi apprezzare per freschezza e carattere da chi non ha pregiudizi, da chi sa render lieta una serata sapendo che donne e uomini son di pari diritto anche al piacere, da chi sa concedersi momenti di gioia condivisa indugiando e promuovendo allegria e convivio. E si prova a librar la voce tra commensali sorridenti e partecipi, invitando tutti, ma proprio tutti, ad un liberatorio “Libiamo ne’ lieti calici”; ponendo ascolto attento alle parole di Violetta:

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tutto è follia follia nel mondo ciò che non è piacer.

E i calici siano colmi di Brut Rosé di Rosa del Golfo, fresco il giusto, su crostacei crudi insaporiti da una vinaigrette d’olio extra vergine di oliva di prima molitura e succo di melagrana salentina... Un soffio di vitalità e d’allegria, utilissimo quando si è circondati dalla tetraggine e il cupo manto dell’ignoranza sembra aver sopravvento sopra ogni lume di ragione. Mi ascolto la Traviata, gusto un calice e brindo a Brizidia, principessa di Alytia ai tempi della Lega Messapica e della Dodecapoli narrata da Lucio Strabone. Brizidia, forse reale o forse inventata, è per me l’essenza stessa di Alezio: mito e sostanza di tante persone che, in questa piccola, antica città, mi onorano della loro, a volte davvero fraterna, amicizia.

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Anarkos

Dalla culla della Messapia di nuovo rimbalziamo in alto, alle mura sotto le quali Archidamo perì. Città di Manduria. Ci torneremo spesso in questa città, nota al mondo per le sue mura e per il Primitivo. Questa volta ci troviamo un vino strano, composito e scomposto, che si porta dentro la ribellione all’omologazione e all’oblio di un mondo forse aspro, forse duro, ma tracimante fascino. Andiamo a trovare un vino che mi fece assaggiare molti anni fa la mia amica Patrizia, una strana etichetta sulla bottiglia: una “A” racchiusa in un cerchio, rossa su fondo nero. “Anarkos” è prodotto dall’Accademia dei Racemi con un blending dei vitigni più tipici del Salento: Primitivo, Negroamaro e Malvasia. Una fusione ardita, che produce un vino particolare, inimitato e certamente inimitabile, dal colore rosso rubino, insieme cupo e luminoso. Dai profumi forti di more mature, persistenti; più si lascia nel bicchiere e più diventano invasivi, ma sempre piacevoli. Il gusto è pieno, di grande corpo, vellutato e rotondo eppure asciutto. Non lascia traccia alcuna, purché sia accompagnato con cibi all’altezza. Un vino che ha molte doti, tranne quella d’essere ruffiano, di adire a compromessi o a ge-

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nuflessioni. “Anarkos” paga le sue scelte, consapevole che scegliere vuol dire rinunciare. Vino per compagnia? Non credo. Forse vino da compagnia. Da letture di poeti maledetti e da canzoni toste. Stappare la bottiglia, versare facendo cadere il rosso sul fondo del calice. Con la bottiglia fortemente inclinata, tanto da riempire il collo. Con quel rumore che è come il battito di un cuore, dapprima veloce e poi sempre più lento, lasciando sgorgare il vino del colore del sangue arterioso. Vivo, nonostante tutto e nonostante tutti. E lasciarlo lì, sul tavolino vicino al camino acceso. Una sedia a dondolo, in legno, un libro di fotografie vintage e Mino De Santis che canta le sue canzoni ordinate e disordinanti. Lo prendiamo in prestito da Tuglie per accompagnare “Anarkos”, non fosse altro che per la coincidenza tra l’etichetta del vino e quella del suo Scarcagnizzu, primo cd di canzoni in italo-salentino. Scorrono le canzoni; le pagine in bianco e nero rimandano immagini di guerre e sofferenze, di volti di eroi senza nome trafitti dall’oppressore e dall’oblio. Tra una nuvola di fumo e l’altra, il toscano brucia educatamente e silenziosamente impregnando l’aria di odor di tabacco. Di cavalli indomabili, di scarafaggi e gechi canta Mino, di alberi di ulivo e di feste patronali. Poi della dura vita di un bastardo, di un cane senza padrone, randagio: una vita difficile, fatta di lunghi digiuni, di pioggia e di freddo, di violenza e di malattie. Di mille peripezie e mille momenti di debolezza e disperazione.

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Le pagine mostrano una foto di Riccardo Cucciolla e Gian Maria Volonté, nello splendido film di Giuliano Montaldo in cui impersonano Nicola Sacco e Bartolomeo Vanzetti. Per qualche ragione ci ricordiamo del vino; prendiamo il calice, ci guardiamo, i profumi assalgono il naso e stimolano l’assaggio. Il ritornello de Lu cane di Mino De Santis non può non tornare in mente gustando “Anarkos”: La libertà, eccola qua.

Buffo e improvviso vuoto di memoria. Ma l’etimo di anarchia è a(n)-archein, ovvero assenza di governo, o a-narké, ovvero voglia di restar svegli? E mi vien da pensare, pomposamente, d’aver fatto un po’ di cultura.

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Immensum

Da Manduria verso sud est. Una riga dritta d’asfalto che, poco prima di Avetrana, si trasforma in superstrada a quattro corsie e termina nella cantina sociale di San Pancrazio Salentino, testimone di una possibile connessione veloce tra Taranto e Lecce. Naufragata, tra brame di politici e insipienza di tecnici, nell’ennesima incompiuta. San Pancrazio, giravolte, poi verso San Donaci su un altro rettifilo. Poteva essere una via razionale, ma, come accade spesso, un costoso intervento è riuscito a rendere difficile ciò che nasceva semplice usando, ovviamente, l’inutile. Scorre l’auto e scorre la musica nel cielo d’autunno, una voce calda: al secolo, Giorgio Guidi. Come tutte le belle voci non teme la musica, i suoni s’intersecano con parole che restano chiare e comprensibili: Io son sicuro che per ogni goccia per ogni goccia che cadrà un nuovo fiore nascerà.

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Ecco San Donaci; il rettifilo si stringe e ti porta al municipio, a sinistra la chiesa di Santa Maria. Dovresti proseguire dritto e invece l’auto t’invita, magneticamente, a svoltare a destra. Esegui: il Calvario e, di fronte, il cimitero. Non avendo il dono della fede, non ci si aspettano segnali divini. E invece è un segnale, non divino ma di vino: Cantine Candido. Il cancello spalancato, lo spiazzo, la cantina. Una dozzina di tute blu si muovono leste e silenziose. Si prendono cura delle tante etichette di questa storica azienda. Meravigliose. Le tute e le persone che ci sono dentro. Una scaffalatura semplice, fra tanti cartoni pronti a partire per il mondo. Le bottiglie le danno un’aria elegante, sembra una vetrina. Singolare, c’è chi s’arrabatta per far vetrine che valorizzino i prodotti. Qui sono i prodotti a valorizzare la vetrina. Non sai bene cosa scegliere. Memoria d’estate. Di San Lorenzo, di Carlo e di Santa Caterina di Nardò. Bicchieri tintinnanti sotto le stelle cadenti. Un distinto signore, elegante nell’aspetto e nel comportamento. Quante cantine e quanti vini il 10 di agosto al Club La Vela. Percorsi enologici guidati e suggeriti. Ma lui, con il viso da marinaio e il sorriso di chi conosce il mondo, a botta sicura, con l’Immensum comincia e con l’Immensum finisce. Già, “Immensum”, una delle straordinarie contaminazioni che il Salento produce. Un blending di Negroamaro (70%) e Cabernet Sauvignon (30%), che già dal colore si presenta elegante e deciso: rosso intenso, riflette il viola alla luce diretta. Al naso, è denso di prugna e mirto e, in fondo, cioccolato

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e caffè in grani; se si lascia respirare nel bicchiere, anche di tabacco. In bocca è pervasivo, rotondo, grasso oserei dire, e lungo, lunghissimo. Singolari la delicatezza dei tannini, affinati dalla giusta permanenza nelle botti piccole, e la giovanile freschezza. “Immensum” allora, poi in macchina verso casa. Per ogni goccia che cadrà un nuovo fiore nascerà.

È l’Immensità dalla voce di Johnny Dorelli, figlio di Nino D’Aurelio. Padre e figlio cambiarono nome per avere successo. Io, per questo vino, ho, solo per un momento, cambiato strada. Ma ne valeva la pena.

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Questo libro è stato fatto da:

Luigi Chiriatti direttore editoriale Alessandra Avantaggiato redazione, editing, bozze Alessandro Sicuro progetto grafico e copertina Editrice Salentina stampa tipografica

Stampato su carta ecologica certificata FSC proveniente da foreste gestite in modo responsabile



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