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Numero 11 8 ottobre 2014

Mensile a diffusione gratuita di attualitĂ e cultura

B AT T I S T E L L I

Foto M arc o Barc aro tt i

Un cordiale benvenuto al nostro Vescovo


Caccia al drago (rossoverde) Ci avranno fatto caso in molti: la tradizionale casacca bianca della nazionale tedesca di calcio, negli ultimi anni, è stata spesso sostituita da una divisa più colorata. Abbondano il rosso e il nero, che hanno sfolgorato, ad esempio, durante la semifinale con il Brasile; e non mancano gli inserti gialli. È possibile che sia un sintomo del rinnovato orgoglio nazionale aumentato a valle della riunificazione del 1990: il tricolore orizzontale giallo rosso e nero è tornato a rappresentare tutti i tedeschi, e chiede spazio alla vecchia maglia bianca con rifiniture nere (che, comunque, ricordavano anch’essi i colori nazionali di un vecchio stato tedesco: quello prussiano). Del resto, è assai comune che le maglie delle squadre nazionali ricalchino i colori della bandiera: non a caso, oltre alla Ternana, l’unica altra squadra che si presenta in rossoverde è la nazionale del Portogallo. Da questo punto di vista, la nazionale italiana è quasi un’eccezione, visto che l’azzurro eponimo è del tutto assente nel bianco-rosso-verde del tricolore nazionale; ma in realtà si tratta anche in questo caso di una sorta di vestigia storica, perché il colore azzurro fu scelto a suo tempo per omaggiare il colore araldico di casa Savoia, a quel tempo regnante sulla penisola. A ben vedere, anche il rosso e il verde che ogni sabato si trovano così abbondanti in Viale dello Stadio non sono da meno: Terni, al pari di molte altre città, riversa nelle divise calcistiche i colori dello stemma cittadino, che evidentemente gioca lo stesso ruolo delle bandiere nazionali al più modesto livello municipale. Il rossoverde delle sciarpe dei tifosi viene dal drago verde in campo rosso che troneggia sul simbolo urbano: e, come certo molti sapranno, il drago ha un nome e una leggenda che lo ricorda. Tiro il suo nome: ma forse è più noto col nome antico e latineggiante di Thyrus, se non altro perché sono diverse le aziende e le istituzioni del territorio che così lo ricordano nella propria ragione sociale. La leggenda vuole che il suo fiato fosse terribile: pestilenziale e letale, al punto che la popolazione ne moriva ed era pertanto sul punto di abbandonare la conca. Per fortuna, un eroico giovane a nome Cittadini riuscì a far fuori il drago, eliminandolo

Locale climatizzato - Chiuso la domenica Terni Via Cavour 9 - tel. 0744 58188

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dalla faccia della terra e relegandolo per sempre solo sullo stemma della città. L’interpretazione del mito vuole che il drago dall’alito letale altro non fosse che il simbolo della malaria che infestava le paludi del ternano: il Nera scorreva a fatica tra Marmore e Narni, si impaludava: e dove c’era palude, un tempo, c’era anche morte per malaria. L’uccisione del drago, in qualche modo, rappresenta una riuscita bonifica; e non sarebbe male se il cognome dell’eroe, Cittadini, fosse a sua volta una sorta di metafora per sottolineare come tutta la popolazione abbia contribuito al risanamento. Ma i miti e le leggende hanno il loro fascino soprattutto perché non sono affatto tenuti alla coerenza: parlano per simboli, e i simboli sono tali anche -forse soprattutto- perché possono simboleggiare cose diverse, in funzione dei tempi e delle situazioni. È quindi del tutto lecito nutrire affetto per quel draghetto originariamente malefico che oggi dà il volto a Terni: Tirus et amnis dederunt signa Teramnis, si legge nel cartiglio dello stemma cittadino, a ricordare che fu proprio il drago, insieme alle acque del fiume, a dare nome e insegne alla città. Nello stemma ufficiale il drago è alato, eretto e in grado di lanciare fiamme: un drago che sa curare la propria immagine di mostro aggressivo e pericoloso, verrebbe da dire. Va precisato però che quest’icona è relativamente moderna; per lungo tempo, l’iconografia ha riservato a Thyrus un aspetto certo non meno draghesco, ma comunque meno alato e tutt’altro che rampante. Nelle stampe antiche appare infatti come un basilisco, animale terribile che, più che lanciar fiamme dalla bocca, era in grado di uccidere con lo sguardo: e non per niente la leggenda precisa che l’eroico Cittadini sia riuscito ad avere la meglio su Thyrus solo perché lo sguardo letale del drago si riflesse sull’armatura del nobiluomo: in buona sostanza, il drago è caduto vittima del suo stesso sguardo. Nella copertina di un’edizione della “Storia di Terni” di Francesco Angeloni è ben riprodotta l’immagine classica di Thyrus in forma di basilisco: e assomiglia molto alla figura che è presente in questa pagina. E molti ternani certo sapranno che in città c’è una statua, dedicata al nostro draghetto, che lo ritrae proprio in questa forma. È una statua spesso di difficile osservazione, perché è soggetta ad essere facilmente coperta da vegetazione, e forse per questo i ternani che non ne conoscono l’esistenza sono più di quelli che la sanno collocare senza esitazione. Forse meriterebbe un’attenzione e una cura maggiore; in ogni caso, invitiamo i lettori che non ricordano di averla mai vista a ricercarla e trovarla. Una piccola “caccia al drago” celebrativa; quasi una P i e ro F a b b r i caccia al tesoro, in fondo.


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Caccia al drago (rossoverde)

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CONFARTIGIANATO IMPRESE TERNI

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Settembre... tempo di pedalare

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C I D AT

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Zappa che ti passa: tra hobby farmers e sottosuolo

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STUDIO DI RADIOLOGIA BRACONI

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Un palmizio bello da morire

- F Patrizi

Sproverbianno se jiacchiera

- P Casali

Settembre... è tempo di pedalare

- P Fabbri

- G Raspetti

- A Melasecche

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C M T - C O O P E R AT I VA M O B I L I T À T R A S P O R T I

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L i b e r o L i b e r a t i I l c a v a l i e re d ’ a c c i a i o

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RINOPLASTICA MEDICA

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La chiesa di S. Silvestro, tra storia e leggenda

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STUDIO MEDICO TRACCHEGIANI

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Dottore! Chiami un dottore!

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L A B O R AT O R I S A L VAT I

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A Z I E N D A O S P E D A L I E R A S A N TA M A R I A D I T E R N I

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Ai lettori amanti della musica

- S Lupi

- A Crescenzi

Una soffitta sull’universo

- M Petrocchi

- B Galigani

- MV Petrioli

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N U O VA G A L E N O

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La pazza estate tatuata

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La dieta secondo la propria costituzione

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Donna con le ali

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LANDI COSTRUZIONI

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Il ruolo della nutrigenomica nella nutrizione umana

- PL Seri - L Paoluzzi

- F Lelli

Una soffitta sull’universo

- L Falci Bianconi

- M Pasqualetti

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F O N D A Z I O N E C A S S A D I R I S PA R M I O

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Tutti ai concerti!

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CENTRO MEDICO DEMETRA - ERREMEDICA

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Lo sbollito

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ASSOCIAZIONE FILARMONICA UMBRA

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MARCELLO RICCI

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G L O B A L S E RV I C E

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SUPERCONTI

LA

- A Roscini

- A Pepicelli

- V Grechi

- R Bellucci

PA G I N A

Mensile di attualità e cultura

Registrazione n. 9 del 12 novembre 2002, Tribunale di Terni Redazione: Terni, Vico Catina 13 --- Tipolitografia: Federici - Terni

DISTRIBUZIONE GRATUITA Direttore responsabile Michele Rito Liposi Editrice Projecta di Giampiero Raspetti

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Direttore editoriale Giampiero Raspetti

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Le collaborazioni sono, salvo diversi accordi scritti, gratuite e non retribuite. È vietata la riproduzione anche parziale dei testi.

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In settembre, complici giornate più fresche, ho abbandonato le Voyage autour de ma chambre, cui facevo riferimento nel precedente editoriale, e ho iniziato a pedalare, attivamente, poiché sono ancora sostenuto da gambe che, giovanissime, già sgambettavano con il pallone... insomma... inizialmente e per anni si trattava di carta e stracci pressati insieme e legati con lo spago fino ad assumere una forma similsferica poi, verso la metà degli anni cinquanta, ne arrivò uno, di cuoio, spippato dopo aver praticato su di lui ben 120 rattoppi! Giocavamo lungo tutta la strada, fermandoci, ma non sempre, al passaggio di isolate bici o di sparuti carretti. Poi calcio praticato e ancora calcio, presso l’oratorio di San Francesco: una carriera sportiva durata più di cinquant’anni! Forse è per questo che oggi ritengo che il calcio sia tutto e solo da praticare, poco da guardare, per nulla da chiacchierare (io avrei difficoltà insormontabili a parlare del niente!). Forti gambe, dunque. Quella muscolatura appare, su di me, come l’ultima a lasciare il sepolcro e mi ha fatto pedalare di buona lena sulle corsie ciclabili della mia città. Devo così tributare un grande riconoscimento alle varie amministrazioni che hanno, nei tempi, realizzato tali piste. Complimenti! Però, è ora di fare molto di più! La nostra bella Terni potrebbe infatti diventare, vista la sua piatta altimetria, la città italiana pilota per avere traffico quasi tutto in bici. Al più, in particolari tratti, qualche tapis roulant che aiuti a superare il dislivello. Potremmo allora anche noi far capolino nella civiltà, come già avviene nelle città del nord Europa ed evitare di avvelenare l’aria che respiriamo, parcheggiare in modo selvaggio, risparmiare sui tempi, sui costi delle assicurazioni, sul lavoro in genere perché l’intasamento smodato e incivile di macchine è un grande fattore negativo per il lavoro stesso, non solo per la salute dei cittadini! Occorre però che non ci siano più macchine ad ostruire gli ingressi dei marciapiedi o delle piste ciclabili. Occorre che, al centro città in particolare, il ciclista non debba più fare la gimkana, correndo a volte seri rischi, tra le auto che infestano tutto e, più volte, essere costretto a scendere dalla bici perché la strada è letteralmente impraticabile per ostruzione auto di incivili che sembrano avere via libera. E occorre anche che al centrocittà non ci siano strade suonanti con rattoppo, sorta di sentieri a sonagli, ove è molto pericoloso transitare in bici. Ricordo una visita d’istruzione con i miei studenti in Belgio e in Olanda. I nostri giovani passeggiavano come pecore sulle piste stesse, facendosi coprire di improperi dai ciclisti che, lampantemente, non andavano a passeggio, ma si recavano al lavoro, velocemente, senza perdere tempo, senza inquinare! La nostra città ha questa possibilità. Non lasciamocela sfuggire. Continuiamo a realizare piste ciclabili, ma rendiamole utilizzabili! Educare non significa chiacchierare vanamente intorno ai massimi sistemi. Ricorderò sempre la frase di Giovanni Roncalli, Patriarca di Venezia prima di diventare Papa Giovanni XXIII: Meno maestri e più testimoni! Più esempi, più testimonianza, più fatti concreti! Così come uno zozzone che infanga, da altissimi vertici, la vita pubblica diventa un maestro del male e crea un grande buco nero di immoralità diffusa, peggiore di qualsiasi altro debito, così una persona proba che sta nelle istituzioni può favorire emulazioni degne e preziose. Dunque meno chiacchiere e più fatti. Nel nostro caso non si pretende che le Autorevoli Autorità si muovano solo in bicicletta, si vuole che, concretamente e senza indugi, colpiscano chi trasgredisce la normativa. Come dire: se non sanzioni adeguatamente l’incivile che parcheggia nei posti riservati ai portatori di disagi, davanti o dentro le piste ciclabili e se non lo fai con immediatezza con carro attrezzi, le parole non basteranno mai. Occorre dare l’esempio, sapendo che, nel risparmiare la sacrosanta contravvenzione a quel cittadino, diciamo per spirito politicamente bonario, questo comportamento risulta non bonario, cioè violento, nei confronti dei tantissimi, i più, cittadini che ossequiano in tutto e per tutto la legge e che si sentono vilmente traditi da chi non la fa rispettare. Se così non sarà, non sarà civiltà e l’Europa ci aspetterà invano! Giampiero Raspetti


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Zappa che ti passa: tra hobby farmers e sottosuolo Sarà il desiderio di gustare prodotti sempre più genuini, sarà la volontà di trascorrere più tempo all’aperto, sarà che a volte anche il Km-Zero sembra troppo distante dalla nostra tavola, sarà la crisi, ma l’Italia ha sperimentato un livello record di orti urbani. Ben 3,3 milioni di metri quadrati di terreno pubblico, solitamente comunale, ripartiti in piccoli appezzamenti ed espressamente adibiti alla coltivazione a “uso domestico”. Nel 2013 gli orti urbani in Italia sono addirittura triplicati rispetto al 2011 (analisi Coldiretti su dato Istat). Non si tratta di un boom solo italico, gli hobby farmers (i cosiddetti “contadini per hobby” o “coltivatori del tempo libero”) esistono un po’ in tutto il mondo. Si tratta di una fascia di popolazione composta sia da esperti che da nuovi appassionati, che coltivano piccoli appezzamenti di varia natura e collocazione. A livello italiano, prendendo in considerazione le città Capoluogo di Provincia esiste una forte polarizzazione al Nord, con la percentuale che sale all’81%, e poi meno del 75% al Centro e sotto il 10% al Sud. Nel 75% del Centro Italia non rientra il Comune di Terni, che nonostante innumerevoli solleciti pervenuti, a vario titolo, negli anni, non si è dimostrato assolutamente sensibile ad un tema la cui realizzazione rappresenterebbe invece un provvedimento di alto valore sociale, che va incontro alle richieste non solo di anziani, ma, oggi, anche di giovani. Coltivare un piccolo orto dà soddisfazioni anche di tipo economico oltre che garantire, se il terreno non è inquinato né soggetto a cadute di polveri industriali, anche prodotti biologicamente validi. Come in tutti gli ambiti c’è chi innova e quindi anche chi si è organizzato a coltivare addirittura nel sottosuolo piselli, ravanelli, insalata, pomodori e ortaggi affini. Il progetto, denominato Growing Undergrounded, sviluppato a Londra, è ambizioso e futuristico. L’idea è quella di recuperare il reticolo di tunnel sotterranei, ben 10.000 mq, utilizzati durante la Seconda Guerra Mondiale, per destinarli alla coltivazione. I promotori sono due giovani imprenditori londinesi, decisi a ridare vita ad una vasta porzione, normalmente e storicamente, abbandonata della capitale inglese. Peraltro i due ideatori hanno già dimostrato negli ultimi due anni la fattibilità del progetto, arrivando a coltivare nei tunnel sotterranei germogli di piselli, rucola, senape, ravanello, insalata,

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pak choi (cavolo cinese). Grazie alla profondità, i tunnel godono di una temperatura stabile di circa 16°C tutto l’anno, permettendo alla fattoria urbana sotterranea di non interrompere mai la produzione, anche in pieno inverno. Il segreto del progetto, soprannominato non a caso Zero Carbon Food, risiede nell’impiego di speciali luci al LED associate alla coltivazione idroponica (ovvero, come spiega Wikipedia, impiegando una delle tecniche di coltivazione fuori suolo dove la terra è sostituita da un substrato inerte tipo argilla espansa e simili). Per sfatare ogni dubbio sulla qualità del prodotto, è stato ingaggiato il celebre chef Michel Roux Jr. che, dopo un’iniziale e più che comprensibile scetticismo, ha dato il pieno appoggio al progetto dimostrando “in tavola” l’eccellenza degli ortaggi coltivati. L’impatto della fattoria urbana sotterranea sarà ulteriormente ridotto impiegando unicamente energia rinnovabile per il funzionamento della struttura e sfruttando l’acqua della falda sottostante, una volta filtrata, per l’irrigazione. Per raccogliere la cifra necessaria allo sviluppo del progetto, circa 300.000 sterline, i due fautori del progetto si sono affidati al crowdfunding tramite la piattaforma CrowdCube, dove in tempo record hanno quasi duplicato la somma richiesta raccogliendo il 193%, attirando l’attenzione di ben 482 investitori. Per la verità l’esperimento non è esclusivamente inglese; anche in Giappone, all’interno di un grattacielo di Tokyo, una ex banca, nel pieno centro della finanza giapponese, qualche cosa di simile è già accaduto. Il progetto, chiamato Pasona O2, è sostanzialmente una vera e propria distesa di campi agricoli sotterranei in centro città. Ci sono pomodori, peperoni, insalate, fragole (tutto rigorosamente fuori stagione) e molti altri tipi di frutta e verdura; fiori, piante, spezie, il tutto in un’area che copre circa un kmq. Inoltre, visto che siamo in Giappone, non poteva mancare una bella risaia su apposito terrazzamento! Tutto estremamente sterile e hi-tech: un software controlla luci e temperature, luce generata artificialmente, a seconda delle diverse colture, con LED, lampade alogene e lampade ai vapori di sodio. Appurato ciò, rimane da chiederci, cos’altro ci riserverà il futuro? ale ssia.melasecche@libero.it


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U n p a l m i z i o b e l l o da mor ir e Lungo i viali di Phom Penh si può passeggiare all’ombra delle palme che svettano alte e rigogliose. Verso sera la capitale della Cambogia si popola di giovani assetati di musica e trasgressione, dj set risuonano nei locali della movida che tirano avanti fino all’alba, mentre un resort a cinque stelle con piscina sull’attico propone la vista sul paese dove la prostituzione minorile rappresenta ancora la maggiore attrattiva turistica, nonostante le campagne dell’Unicef per insegnare alle famiglie povere che i corpi dei loro bambini non sono un mezzo per fare soldi e nonostante la chiusura del famigerato quartiere a luci rosse denominato Chilometro 11, nome che indicava la distanza dall’aeroporto di questa baraccopoli di bambù e sesso a buon mercato. Sono trascorsi più di trent’anni dalla fine del regime dei Khmer Rossi, solo due dei capi del movimento sono sopravvissuti e si trovano in carcere condannati all’ergastolo. Il tribunale dei crimini di guerra deve ancora decidere se l’uccisione di più della metà della popolazione attuata con metodi spietati dal Fratello Maggiore Pol Pot si possa considerare genocidio; tecnicamente la definizione adottata dall’ONU comprende “gli atti commessi con l’intenzione di distruggere, in tutto o in parte, un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso”. Racconta ne Il cancello François Bizot, testimone diretto dell’avanzata dei Khmer Rossi, inviato dell’ambasciata francese negli anni ’70, che i soldati di Pol Pot avevano il compito di

ripulire la Cambogia dai germi della corruzione e non facevano distinzione tra religioni o etnie, dovevano eliminare le generazioni precedenti e i loro discendenti per ricreare una nuova razza pura e incorrotta, per cui prendevano tutti gli abitanti della città e li deportavano come schiavi nelle campagne. In questa lunga marcia verso i campi di rieducazione, i neonati e i bambini piccoli erano solo un intralcio, i soldati li prendevano per i piedi e li sbattevano violentemente contro le piante del viale principale, dove poi restavano a marcire senza sepoltura. Con questo macabro fertilizzante sono cresciute le palme di Phom Penh che oggi offrono l’ombra ai locali dell’happy hour in quella che il New York Times non ha esitato a definire la nuova capitale del lusso. Tiziano Terzani raccontò nel suo reportage intitolato Fantasmi che aldilà del ponte che separa il paese dalla Thailandia si vedevano i cambogiani barcollare denutriti e diafani come spettri. Oggi si va a Phom Penh in cerca di sballo. La Cambogia è una nazione senza industrie né infrastrutture, vive unicamente dei capitali stranieri che investono nel mercato del turismo e dell’intrattenimento e che vorrebbero trasformare queste sponde del Mekong in un resort a cielo aperto. A chi vuole fare l’alba ballando, il New York Times consiglia vivamente il locale Backstage che il giovedì organizza la serata underground intitolata Drop-dead disco, che letteralmente vuol dire “disco da morire”. Chissà se il richiamo è un omaggio alla memoria di questo popolo o solo un lapsus. Francesco Patrizi

S p ro v e r b i a n n o s e j i a c chiera Hai vistu lu fiju de Marietta?… Ha fattu ha fattu… e ppo’ ha fattu muri’ la madre llà li bbonvecchi!... Dice bbène ‘llu proverbiu… ‘na madre è bbòna pe’ ccento fiji e ccento fiji non so’ bboni pe’ ‘na madre!... ‘N quistu munnu ‘n semo gnente… sapemo ‘n do’ se nasce ma ‘n sapemo ‘n do’ se mòre!… Dicéa lu fiju… stéa bbène stéa bbène e ppo’ la madina doppo era morta!... Sa che ji dico a issu… sta’ ‘ttentu che a Ppasqua mòrono più ‘gnelli che ppecore… Scì… ma l’èrba trista no’ mmòre mai!... Quillu déa li cargi anche a li cani… ma ‘ttentu che qquillu che ffai te vène arfattu!…È vveru che cchi non vòle bbene a le bbestie… mancu a li cristiani… ma tantu è ‘na ròta che ggira!... Aho… ecculu ecculu… ggente trista numinata e vvista… guarda ‘n bo’ se ccome fa finta d’èsse adduluratu… attentu che cco’ qquillu tòcca aécce l’occhi anche de dietro… èsse èsse tuttu pe’ ‘nteresse!...

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Poru me… come faccio mo’ senza mi’ madre?... Fiotta fiotta tantu lu fiottu è llibberu… tu piagni lu mortu e ffreghi lu vivu… ma ‘ttentu… che ccome se sòna se bballa… ‘n bo’ per unu ‘n fa male a gniciunu e… a cchi ttocca ‘n s’arroscia!... Quanno stéa viva… tu madre l’hai mannata llà li bbonvecchi pe’ ffregaje ‘lli ddu’ sordi de la penzione e ccampa’ a sbafu… vòja de laora’ sardeme addossu… ma vatte a gguadambia’ la stozza de lo pane!... Annamo compa’… che cco’ qquistu me tòcca prima penza’ e ppo’ jiacchiera’… sinnò mesà che mme comprometto… co’ qquistu non c’émo gnente da sparti’… Ciài raggione… chi nn’è bbonu pe’ essu… nn’è bbonu mancu pe’ ll’andri!... Poru me… mammetta mia cara aiuteme tu!... A compa’… e cche stai a ’rcomannatte mo’ che ‘n ce sta più?... Aho… quistu chiude la stalla doppo che sso’ scappati li bbòi! paolo.casali48@alice.it


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Libero Liberati Il Cavaliere d’Acciaio Di passaggio a Gualdo Tadino incontro un simpatico giovanotto di 93 anni, Domenico Giulietti. Sapendo che sono di Terni, mi dice che tanti anni fa ha conosciuto il nostro Libero Liberati, raccontandomi un aneddoto riguardante lui ed il campione di motociclismo. A distanza di tanto tempo la gente, non solo i ternani, ricorda ancora le gesta sportive e le imprese di Liberati. Per questo ritengo lo si debba far conoscere ai più giovani. Quest’anno avrebbe compiuto 88 anni, se un destino crudele non lo avesse portato via nel marzo 1962 a seguito di un brutto incidente in Valnerina. La storia sportiva di Libero, così lo si chiamava confidenzialmente a Terni, si avvia nell’immediato dopoguerra. Dopo un primo impiego alle acciaierie di Terni, iniziò a competere nel motociclismo in gare nazionali ottenendo 4 vittorie nel 1947, altrettante nel 1948, una nel 1949 e due vittorie rispettivamente negli anni 1951 - 1952 - 1953 e 1954. Vinse il Campionato Italiano nel 1955 e nel 1956. Il 19 ottobre 1947 il 2º Circuito delle Ferriere lo vide vincitore su una Moto Guzzi da 500 cm³. Sempre nello stesso anno nel velodromo di Terni, in occasione di una giornata motociclistica, si esibì su una Alpino 100 cm³. Nel 1947 vinse anche a Chieti e Frosinone sempre in sella a una Moto Guzzi. Nello stesso anno ricevette una Moto Guzzi Dondolino regalatagli dai suoi concittadini e compagni di lavoro grazie ad una pubblica sottoscrizione. Il 4 luglio 1948 iniziarono le gare del Circuito dell’Acciaio, un anello stracittadino di circa 10 km che comprendeva Viale Brin, Viale Campofregoso, Campomicciolo, Papigno, Viale Brin e che venne considerato uno fra i circuiti più impegnativi d’Italia. La prima edizione della competizione lo vide vincitore sempre su Guzzi 500. Nello stesso anno vinse anche il Circuito di Spoleto e si classificò sempre al primo posto a Chieti e a Frosinone, arrivando secondo nella gara di Cattolica e ritirandosi nella corsa di Caracalla. Il 2 ottobre 1949 si svolse la terza edizione del Circuito dell’Acciaio (la seconda si era tenuta pochi mesi prima nello stesso anno), valevole come 6ª prova del campionato Italiano per conduttori di 2ª categoria, e venne vinta da Liberati. Arrivò anche 2º ad Ancona ed Urbino e 3º a Bologna. Nel 1950 partecipò alla sua prima gara del campionato Mondiale con una Moto Guzzi. Il 29 luglio 1951, in sella ad una Gilera Saturno vinse il 4º Circuito dell’Acciaio, valevole come 5ª prova del Gran Premio della F.I.M. per conduttori di 1ª categoria. Nello stesso anno, sempre con la Saturno, si classificò 1º a Casale Monferato, 10º a Codogno, 5º a Senigallia, 3º a Varese, 4º a Bergamo e si ritirò a Ferrara. Nel 1952 Liberati fu vittima di un brutto incidente in gara a Berna, con uno spettacolare volo di molti metri. Si classificò in questa stagione sportiva: 1º a Parma, 1º a Terni, 1º a Voghera, 7º a Berna, 5º a Casale Monferrato, 2º a Senigallia, 8º a Monza. Nel 1953 e nel 1954 arrivò secondo al Campionato Italiano Seniores classe 500. Nel primo dei due anni gareggiò anche in altre classi utilizzando anche Moto Morini. Nel 1955 Liberati ottenne il suo primo Campionato Italiano classe 500. Vinse le gare di Napoli (19 marzo); Sanremo (3 aprile); Imola (11 aprile); finì secondo classificato a Reims (15 maggio); secondo a Genova (19 maggio); primo a Senigallia (31 luglio) e primo a Mestre (18 settembre). Nel 1956 vinse il secondo titolo italiano consecutivo vincendo a Modena (19 marzo); secondo a Imola (2 aprile); primo a Monza (6 maggio); secondo a Faenza (20 maggio) e a Cesena (17 giugno); primo a Sanremo (24 giugno); primo a Senigallia (29 luglio). In occasione del GP delle Nazioni a Monza del motomondiale 1956 vinse in classe 350 e giunse secondo alle spalle del suo caposquadra in Gilera, Geoff Duke, in 500. Rimangono memorabili i duelli tra i due. La stagione 1957 lo vide conquistare il titolo iridato in 500 grazie alle vittorie ottenute in 4 delle sei gare in programma. Nella stessa competizione ottenne anche il 3º posto finale in 350 con 1 vittoria e 5 piazzamenti sul podio su 6 gare. Sempre nel 1957 la Gilera organizzò anche un tour in Sudamerica e Liberati si classificò al primo posto in competizioni organizzate a Buenos Aires, a Montevideo, al G.P. di Mendoza, al G.P. Mar de la Plata. L’Unione Stampa Sportiva Italiana gli conferì al termine dell’anno il premio di migliore Atleta dell’anno. Il 1957 è però anche l’anno del patto di astensione firmato da Gilera, Moto Guzzi e FB Mondial con la casa motociclistica di Arcore che esce dalle competizioni e Liberati che si trova senza scuderia. Liberati continuò a correre con una moto privata e fece una esperienza nel mondiale del 1959 con una Moto Morini in 250, tornando in seguito a condurre la sua vecchia Gilera Saturno, senza peraltro riuscire ad ottenere risultati di particolare rilievo tra gli anni 1958 e 1960. Nel 1961 partecipò a 5 gare del campionato Italiano Seniores e internazionali, vincendo le corse di Modena (19 marzo), sbaragliando le più veloci Norton grazie ad un’intuizione di Libero di cambiare i rapporti della Saturno, e Genova (1º giugno). Arrivò secondo a Cesenatico e terzo a Sanremo. In quel ‘61 Liberati sfiorò il titolo italiano della 500, battuto dalla Bianchi bicilindrica ufficiale di Ernesto Brambilla. Di quegli anni mi rimangono i ricordi ed i racconti di Remo Venturi l’altro grande pilota spoletino. Nel 1962 la Gilera ritornò alle

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competizioni e Liberati iniziò ad allenarsi per essere in ottima forma per l’inizio dell’attività sportiva. Il 5 marzo 1962, uscito per un allenamento sulla Strada statale 209 Valnerina, scivolò sulla strada bagnata urtando violentemente contro la parete rocciosa. Inutili furono i tentativi di salvargli la vita. L’intera città di Terni pianse il suo figlio prediletto. Una enorme folla seguì il feretro del Cavaliere d’Acciaio. Liberati è entrato nel mito non solo per le sue vittorie, ma perché con lui si è identificata una città che, dopo la guerra, voleva riscattarsi e crescere. Lo sport serve anche a questo. Ciao Libero! Dott. Stefano Lupi Delegato Coni di Terni


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La chiesa di S. Silvestro, tra storia e leggenda Amare il proprio paesino di circa duemila abitanti, significa sì fruirne tutte le tradizioni locali legate a mito e religione, ma significa anche approfondirne scientificamente le proprie radici storico-archeologiche. È questo il caso di Giulio Faustini, giovane archeologo laureato presso la Facoltà di Lettere e Filosofia della Sapienza e studioso del patrimonio culturale dell’Umbria meridionale. Autore di diversi saggi dedicati alla storia di Narni, ha voluto stavolta soffermarsi su quella del proprio paese, Fornole, frazione del comune di Amelia. L’ indagine, basata su ipotesi avvalorate da ricerca d’archivio e perizia archeologica, svela non pochi misteri sulle origini di Fornole e smantella convinzioni e teorie storiografiche ormai datate, o prettamente legate alla leggenda popolare di San Silvestro con il drago. Essendo partito da un’analisi architettonica della Chiesetta di San Silvestro, situata sulla sommità dell’omonima altura immediatamente vicina al borgo, avendo rinvenuto frammenti scultorei e avendo riportato alla luce anche almeno un paio di tombe accanto ad essa, Giulio Faustini è riuscito a collocare storicamente le origini della struttura. E, grazie a ciò, anche a ipotizzarne un collegamento con la nascita e fondazione del borgo di Fornole. Rivelare gli esiti dell’indagine non sarebbe giusto in tal sede. Si rimanda direttamente alla lettura del libro nato da questa ricerca, dettata certamente dall’amore per le proprie radici, ma sostenuta da scienza e cultura, oltre che da metodo. Note, riferimenti, immagini e planimetrie sostengono tutto il percorso della lettura di La chiesa di San Silvestro presso Fornole, Storia di un sito dall’antichità ad oggi uscito nel luglio 2014. Se pensiamo che “La ricerca del Vero è l’avventura per cui il tempo è reso Storia” come ha detto sapientemente M. Bloch, grande storico francese, possiamo affermare che Giulio Faustini ha compiuto con questo testo, coinvolgendoci, un’avventura ancor più appassionante della leggenda. Adelaide Roscini

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Dottore! Chiami un Dottore! Si sente spesso parlare di errore medico e di responsabilità medica, non a caso di recente è stato introdotto, con D.L. 69/13, entrato in vigore il 14 Agosto 2014, l’obbligo per tutti i medici di sottoscrivere un’assicurazione di responsabilità civile e professionale. Ciò fornisce l’esatta misura di quanto il fenomeno sia diventato rilevante. Si può parlare di errore medico quando la scelta effettuata dal sanitario, invece di provocare un beneficio, procura un peggioramento delle condizioni di salute, peggioramento che non è naturale conseguenza della malattia, ma della scelta effettuata. Può trattarsi, l’elenco è solo esemplificativo, di una diagnosi completamente errata, anche a causa della mancata prescrizione di esami che avrebbero potuto fornire indicazioni utili, di una diagnosi corretta, ma effettuata con un ritardo tale da pregiudicare una guarigione che viceversa sarebbe stata possibile, di un intervento chirurgico eseguito in modo errato, e, infine, di una non corretta gestione del post – operatorio. In tutti questi casi, laddove il paziente abbia subìto un danno, inteso in senso ampio, ossia danno alla salute, danno patrimoniale, etc, è possibile richiedere tanto al medico che ha effettuato la prestazione, quanto alla struttura ospedaliera in cui il sanitario opera, irrilevante se la struttura è pubblica o privata, il risarcimento del danno. Ci troviamo nel campo della responsabilità contrattuale, anche se non è stato sottoscritto alcun contratto, il che comporta delle conseguenze, in termini giuridici, di grande rilievo. In primo luogo il paziente sarà tenuto solamente a provare di essersi affidato a quel professionista, in quella struttura, e di aver sofferto un danno in conseguenza del trattamento/intervento subìto. Sarà invece il professionista a dover fornire la prova che l’intervento eseguito, o i trattamenti sanitari prescritti, siano stati effettuati secondo lo stato dell’arte al momento dei fatti, e che nella sua condotta non sia riscontrabile nessuna imperizia e/o negligenza e/o imprudenza. In secondo luogo, il diritto al risarcimento del danno si prescrive nel termine ordinario, ossia 10 anni dall’evento lesivo. Qualora si sospetti di essere stati vittime di un errore medico, è bene richiedere copia della cartella clinica e sottoporre tutta la documentazione ad un medico legale, che valuterà se esiste o meno la responsabilità medica, valutando anche l’entità del danno. Né si deve temere un contenzioso civile eccessivamente lungo, giacché il Decreto del Fare, più precisamente la L. 98/13, ha introdotto la mediazione obbligatoria, non solo nel caso di responsabilità medica, ma anche nel caso di responsabilità sanitaria, in generale, intesa come la responsabilità di coloro che esercitano professioni sanitarie (infermieri, radiologi, ecc.). Nel nostro ordinamento vige poi un istituto, quale la consulenza tecnica preventiva ai fini della composizione della lite, di cui all’art.696 bis c.c., che consente di risolvere piuttosto velocemente la controversia. In questo caso, infatti, viene immediatamente nominato dal Giudice un medico che valuterà tutti gli aspetti; e, considerato che, in un giudizio di questo genere, tutto è nella sostanza rimesso alla valutazione del medico, è facile comprendere quale risparmio di tempo ci sia rispetto ad un giudizio ordinario. È bene precisare che la responsabilità del medico può integrare anche il reato di lesioni colpose, e in caso di Avv. Marta Petrocchi legalepetrocchi@tiscali.it morte del paziente, di reato di omicidio colposo.

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AZIENDA OSPEDALIERA

Struttura Complessa di N

Dottor Sandro Carletti Direttore f.f. Struttura Complessa di Neurologia - Stroke Unit A z ien d a O s p e dalie r a “S. Mar ia” di Te r ni

La Struttura Complessa di Neurologia si inscrive in una organizzazione dipartimentale avviata negli anni ‘90, secondo una moderna e lungimirante concezione, dal dottor Aristide Paci. Ad essa afferiscono professionalità multidisciplinari atte a garantire un completo percorso diagnostico-terapeutico per le patologie del sistema nervoso. L’équipe neurologica assicura la guardia attiva 24 ore su 24 interagendo con le strutture ospedaliere e territoriali; regola con il neurochirurgo e neuroradiologo l’accesso alla degenza, ai servizi e alle strutture ambulatoriali; gestisce i casi urgenti provenienti dal Pronto Soccorso, da altri reparti ospedalieri e da strutture intra ed extraregionali. Il 2 ottobre, dopo un’attenta riorganizzazione, sono stati inaugurati gli ambienti che accolgono, al quarto piano del Corpo Centrale dell’Azienda Ospedaliera S. Maria, il reparto di Neurologia, il Day Hospital e Day service neurologici con il Centro Sclerosi Multipla, il servizio di Neurosonologia ed Emodinamica cerebrale, la struttura di Neurofisiopatologia e la nuova Stroke Unit. L’attivazione della Stroke Unit è la grande novità della riorganizzazione effettuata nel 2014 nella struttura. Finora esisteva un ambiente con posti letto dedicati all’ictus monitorati all’interno della Terapia Intensiva; l’attuale connotazione in Stroke Unit (SU) risponderà alle esigenze più moderne di un’area di degenza ad alta specialità, dedicata specificamente ai pazienti con ictus. La malattia cerebrovascolare rappresenta uno dei maggiori problemi sociosanitari, in quanto seconda causa di morte e prima causa di invalidità a livello mondiale. In Italia sono documentati 200 mila nuovi casi all’anno di cui l’80% è rappresentato da ictus ischemici, con una mortalità del 20% nelle prime 4 settimane, che sale al 30% entro i primi 12 mesi. Il vantaggio delle Stroke Unit, nell’assistenza all’ictus acuto, in termini di ridotta mortalità e disabilità, è stato ampiamente dimostrato dalle metanalisi Cochrane e confermato dallo studio PROSIT che, su una popolazione di 12mila pazienti italiani, ha confermato una riduzione del 25% della mortalità e disabilità residua nei pazienti affetti da malattia cerebrovascolare acuta ricoverati in Stroke Unit. Nella Stroke Unit opera un team multidisciplinare costituito da un neurologo attivo h24 ore, un fisiatra, terapisti della riabilitazione, logopedisti, un team di specialisti in consulenza (internista, cardiologo, nutrizionista); infermieri qualificati e personale di assistenza dedicato allo stroke (operatori socio-sanitari) e medici esperti in ultrasonografia carotidea e transcranica. L’area è costituita da 3 sale di degenza dotate di letti elettrici con relativi monitor multiparametrici, una sala per il personale infermieristico con centrale di monitoraggio e uno studio medico. La Stroke Unit accoglie pazienti con ictus ischemico acuto, con potenzialità di trattamento fibrinolitico endovenoso in base alle linee guida attuali; ictus acuto/ subacuto con necessità di monitoraggio continuo (cardiaco, pressorio, respiratorio, EEGgrafico); attacchi ischemici transitori recidivanti; emorragia cerebrale intraparenchimale e subaracnoidea non suscettibile di trattamento neurochirurgico. In ogni paziente l'assistenza prevede la definizione tempestiva delle cause dello stroke, la scelta della terapia medica, chirurgica o interventistica endovascolare più appropriata, l'attuazione sistematica di misure di prevenzione delle complicanze; la definizione di un programma riabilitativo individuale, che inizia già durante la seconda giornata di degenza, fondamentale per il recupero del deficit e per la prevenzione delle complicanze ad esso correlate (spasticità, lesioni da decubito, stasi polmonare, posture anomale). Il trattamento neuroriabilitativo prosegue, in molti casi, in strutture ospedaliere o extraospedaliere. Il reparto di degenza ordinaria dispone di 6 stanze a due letti con servizi igienici. È dedicato all’attuazione di tempestivi percorsi diagnostico-terapeutici per patologie acute del sistema nervoso centrale e periferico ad eziopatogenesi infiammatoria,

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neoplastica, disimmune, traumatica e degenerativa; epilessia farmaco-resistente con stato di male; patologie di pertinenza neuroradiologica interventistica diagnostica e/o terapeutica (malformazioni vascolari cerebrali e midollari con necessità di puntualizzazione angiografica, stenting ed embolizzazione; crolli vertebrali recenti sottoposti a trattamento di vertebroplastica). Negli spazi antistanti alla degenza ordinaria è collocata la struttura costituita dal Day Hospital e Day Service, presso la quale è attivo il centro Sclerosi Multipla. Tale centro garantisce dal 1996 assistenza per i pazienti, programmazione ed effettuazione degli esami diagnostici e di follow-up, prescrizione, somministrazione e dispensazione di farmaci modificanti il decorso della malattia. Il Centro dispone logisticamente di una stanza di degenza (con due posti letto e due poltrone articolabili) dedicata, in particolare, alla somministrazione delle nuove terapie infusive che possono modificare il decorso della sclerosi multipla nonché quelle previste nelle fasi di riacutizzazione e di un ambulatorio per il monitoraggio cardiologico previsto per la somministrazione di alcune specifiche terapie. Sono attualmente seguiti presso il Centro 180 pazienti in trattamento specifico per la Sclerosi Multipla (250 in totale i pazienti in follow-up), con un incremento del 10% rispetto all’anno precedente ed una costante presenza, stimabile intorno al 15%, di pazienti provenienti da altra regione. Allo stato attuale vengono utilizzati farmaci ad azione immunomodulatoria ed immunosoppressiva quali Interferone, Copolimero, Natalizumab


S A N TA M A R I A D I T E R N I

Neurologia - Stroke Unit La nuova riorganizzazione della Neurologia ha riavvicinato anche il servizio di Neurofisiopatologia, che si occupa della diagnosi clinica e strumentale di alcune malattie neurologiche a carico dei nervi cranici e spinali (elettromiografie e potenziali evocati), del midollo spinale e dello studio dell’epilessia mediante elettroencefalogrammi di base e nel sonno. Con la tecnica avanzata del monitoraggio intraoperatorio, la neurofisiopatologia fornisce un supporto insostituibile nell’ambito del trattamento neuro-oncologico e nella neurochirurgia traumatologica sia cranica che spinale: è il monitoraggio intraoperatorio (IOM), che consente di controllare la funzionalità di importanti strutture nervose nel corso di un intervento chirurgico, supportando il neurochirurgo al fine di garantire migliori livelli di sicurezza e di efficacia. Il monitoraggio longitudinale dei pazienti dimessi dalla Struttura Complessa di Neurologia viene assicurato nell’ambito di una attività ambulatoriale che comprende anche settori dedicati alla diagnosi e terapia di specifiche patologie, quali cefalee, demenze e disturbi del movimento. L’ambulatorio è operativo durante tutti i giorni feriali dal lunedi al venerdi, dalle 11,30 alle 13,30. Nella Struttura Complessa di Neurologia, nei primi 7 mesi del 2014, sono stati ricoverati complessivamente 551 pazienti, di cui 193 affetti da patologia cerebrovascolare acuta; un’ampia casistica è di afferenza extraregionale (circa 100 pazienti dall’inizio di questo anno), in aumento rispetto agli anni precedenti.

Équipe Neurologia Direttore f.f.: Sandro Carletti Personale Medico: Danilo Costanti, Franco Costantini, Maria Stefania Dioguardi, Chiara Di Schino, Francesca Galletti, Enrica Moschini, Francesca Paci, Simonetta Sabatini, Andrea Sensidoni, Cristina Spera Caposala: Stefano Borghetti Infermieri: Bice Barcaroli, Simona Bucioaca, Cinzia Capoccia, Gioia Costantini, Valentina De Zuane, Bruna Domenici, Patrizia Dottini, Rossella Fagotti, Simonetta Ferracchiato, Gianni Giorgi, Roberto Miciano, Gianna Natali o Natalini, Delia Palermi, Vanessa Quondam Angelo, Claudia Tazza

Équipe Neurofisiopatologia Responsabile: Domenico Frondizi Medici: Giuseppe Stipa, Fanelli Cinzia (coordinatrice) Tecnici - Infermieri: Fabio Rusciano, Lina Giorgi, Daniela Gobbi, Patrizia Mazzetelli

Fotoservizio di Alberto Mirimao

e Fingolimod. È imminente, a seguito della recente autorizzazione dell’AIFA, l’introduzione in commercio e, quindi, la dispensazione da parte del centro, di farmaci di ultima generazione (Tecfidera e Teriflunomide). Al Day Hospital accedono, anche, pazienti con patologie neurologiche croniche e/o recidivanti che necessitano di cicli di terapia endovena e pazienti affetti da Sclerosi Laterale Amiotrofica. Attualmente sono seguiti circa 30 pazienti affetti da SLA, in una gestione multidisciplinare che coinvolge il neurofisiopatologo, lo pneumologo, il nutrizionista, l’endoscopista digestivo, il fisiatra e lo psicologo. Inoltre è attivo uno studio di fase 1 sul trattamento della Sclerosi Laterale Amiotrofica con Cellule Staminali Fetali. All’attività clinica della Neurologia si collega il Servizio di Neurosonologia ed Emodinamica cerebrale dedicato all’indagine ultrasonologica dei vasi cerebroafferenti intra ed extracranici mediante tecniche di ricerca avanzata nell’ambito dell’eziopatogenesi delle malattie cerebrovascolari e l’effettuazione di prove di attivazione inerenti all’emodinamica cerebrale, con l’impiego dell’ecocolordoppler transcranico. Tale indagine contribuisce in maniera essenziale alla diagnosi di eventi cerebrovascolari acuti (studio e monitoraggio seriato), in particolare nell’ictus giovanile e criptogenetico, danno cerebrale traumatico (studio emodinamico cerebrale), encefalopatia da cause dismetaboliche, valutazione del vasospasmo nell’emorragia subaracnoidea, procedure di accertamento della morte cerebrale con arresto del flusso ematico cerebrale.

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M itico e mitologico: pe rsonaggi e s t o r i e

FEDRA Fra i personaggi del mito che possono sembrare più odiosi a qualunque lettore, sicuramente c’è Fedra. La sua storia inizia come i tre quarti dei racconti greci sulle principesse: figlia del re di Creta, fugge con uno straniero bello, Teseo. Solo che Teseo la porta con sé di nascosto: sulla sua nave fa salire anche Arianna, la sorella di Fedra, che lo aveva aiutato ad uccidere il Minotauro e ad uscire dal Labirinto grazie al famosissimo filo, sua promessa sposa. Dopodiché, arrivati a Nasso, si abbandona la nostra Arianna senza farsi troppi scrupoli e si parte alla volta di Atene, la città di Teseo. Per i primi tempi, tutto sembra andar bene, se non che la nostra Fedra, dopo aver avuto due bambini da suo marito, si innamora di Ippolito, suo figliastro, che Teseo aveva precedentemente avuto da un’Amazzone, Ippolita. Ma questo giovanotto è un devoto di Artedimede, la dea vergine per antonomasia, e, in suo onore, ha fatto voto di castità, e non sembra affatto interessato alla nostra eroina. E allora Fedra, quantomeno indispettita, pensa bene di raccontare al marito che Ippolito l’abbia stuprata, e dunque lui, marito innamoratissimo, maledice suo figlio, che il dio Poseidone provvede ad uccidere per lui. E a questo punto Fedra, vinta dal rimorso, si impicca.

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Bella sfasciafamiglie! diremmo tutti. Ruba il marito alla sorella, poi la fa abbandonare su un’isola, quindi cerca di tradire lo sposo con il figliastro, non riuscendoci lo fa uccidere dal suo stesso padre, e quando infine ha finito di far danno si suicida. Ah, e mentre se ne va ad Atene da Creta con il suo Teseo non gli ricorda neppure di mettere le vele bianche (simbolo di successo) sulla barca, cosicché il padre di lui, Egeo, vedendole nere, pensa che il figlio sia morto e si suicida buttandosi in mare… Insomma, credo non sia il tipo di donna che ci piacerebbe avere in casa. Come si può giustificarla? Effettivamente è difficile, se non impossibile. Solo che vorrei evitare, in questo caso, di giudicare questa terribile Fedra. Quantomeno in nome del suo sentimento. Mi viene in mente una pagina di Calasso, che la descrive a spiare il suo Ippolito dall’alto del tempio di Afrodite Kataskopia, vicino allo stadio dove lui si dedicava ai suoi allenamenti. Ecco, mi sembra possibile solo immaginare il suo trasporto, distruttivo, sì, atroce, contrario a tutte le norme di una civiltà ordinata, ma soprattutto per questo terribile. È quel sentimento della tragedia greca, che porta in scena i drammi più orribili: una Medea che pugnala i suoi bambini, un Oreste che uccide sua madre, un Agamennone che sacrifica la figlia e mille altre storie cruente. Ma il centro di tutto questo soso i desideri dell’animo. Non da giudicare. Bisogna immedesimarsi in essi. A questo punto sarà possibile purificarsene, vivendo con il protagonista le vicende. Ma prima bisogna ammettere di riconoscere quel sentimento. Maria Vittoria Petrioli


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La pazza estate tatuata

Durante questa pazza estate, tra una bomba d’acqua e l’altra, tra l’ennesima perturbazione atmosferica e un’improvvisa tromba marina, nelle poche giornate in cui il sole faceva timidamente capolino, quasi si vergognasse di mostrarsi sul Bel Paese dopo la figuraccia ai Mondiali, sarà capitato a molti di noi di concedersi un po’ di relax su qualche spiaggia… e qual è la cosa che più è balzata ai nostri occhi impigriti dal dolce far niente? La lunga teoria di ragazze che sfoggiano i bikini ridotti ai minimi termini? Ma no di certo, è uno spettacolo che si ripete tutti gli anni, le adolescenti di oggi amano esibirsi. I ragazzi che, narcisi del III millennio, ostentano il fisico scolpito da ore di palestra? Ma no! Non è affatto una novità, visto il proliferare di palestre e centri benessere che fanno a gara nel proporre un body building perfetto. Oppure la solita schiera di tardone e tardoni che pateticamente si abbigliano e si atteggiano da ragazzi dimentichi dei segni del tempo lasciati sul corpo? No, ancora no! È la logica conseguenza dell’allungamento della vita o meglio della vecchiaia, punto e basta! I nostri occhi semichiusi sono stati improvvisamente costretti a spalancarsi da un particolare: la quasi totalità dei corpi che ci si offrono allo sguardo, giovani, vecchi, maschi e femmine, belli e brutti, è inequivocabilmente segnata da tatuaggi e da piercing. Ce ne sono di tutte le forme e di tutti i gusti, da quelli che compaiono su una parte del corpo, braccio, gamba, gluteo sia a quelli che abbracciano come un’edera l’intero corpo. Alcuni sono disegnati con gusto e maestria, mettendo in risalto la bellezza del fisico... come dimenticare a questo proposito la farfallina di Belen Rodriguez! Altri offrono immagini assurde ed inquietanti che ora prendono forma di draghi ora di serpenti ora di esseri mostruosi quasi ad intimorire chi casualmente vi posa lo sguardo. Buon gusto o meno, ci piacciano oppure no, su di un fatto dobbiamo tutti concordare: si tratta di un fenomeno di costume che coinvolge migliaia di persone, donne, uomini, giovani e non più giovani, per etichettarlo semplicisticamente come una moda passeggera. In questo articolo non vogliamo certo atteggiarci a censori o bollare il fenomeno con giudizi moralistici quasi sempre difficilmente generalizzabili, vista la sua vastità e complessità, cercheremo invece di spingerci più in profondità, analizzandone le caratteristiche e tentando possibilmente di coglierne le intime motivazioni. Viviamo in un’epoca che autorevoli studiosi definiscono postindustriale, post-moderna, in cui il corpo, oggetto-soggetto per eccellenza non è visto come materia, ma come simbolo estetico del nostro esistere. L’aspetto esteriore viene reso più intimo e personale. I tatuaggi e i piercing di origine non occidentale sono forme di interventi sul corpo che hanno il compito di attestare la nostra appartenenza ad un’idea estetica o a una tribù. La cultura dei piercing viene spiegata come un recupero dei valori di semplicità e di verità, come un ritorno alla natura in risposta al forzato allontanamento imposto dalla Rivoluzione Industriale. L’esistenza della verità nel piercing è stata spiegata con il fatto che il dolore provocato durante l’impianto è una delle poche realtà non virtuali oggi esistenti.

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Il contatto con la natura è dato dalla consapevolezza di possedere un corpo, una materialità fisica. In esso confluiscono due componenti: la body art e il primitivo moderno, tendenze che dagli U.S.A. grazie ai media sono dilagate anche in Europa e non solo. Riagganciandosi alle culture orientali l’elaborazione filosofica del piercing vede nella perforazione, dolorosa e spesso masochista, un evento spirituale trascendente in rapporto con esperienze religiose universali e con tutte le altre forme di sacrificio e di sopportazione del dolore, come il fachirismo della religione induista. In questa pratica si mescolano simbologie cristiane, pagane, indù, buddiste, creando un effetto sconvolgente e di disorientamento nello spettatore. Il piercing interessa soprattutto le estremità quali orecchi, labbra, capezzoli, arcate sopracciliari e perfino parti intime tipo la vagina. Ma la pratica più diffusa resta quella che durante la pazza estate ci ha costretto a spalancare gli occhi assonnati: il tatuaggio. Si tratta di una usanza antichissima le cui origini si perdono nella preistoria. Tracce di tatuaggi terapeutici sono stati trovati nella celebre mummia di Similaun scoperta nel 1991 sulle Alpi italiane. Esso è stato in uso in tutte le culture sia antiche che contemporanee, accompagnando l’uomo nel corso dell’esistenza e ha rappresentato una specie di carta di identità dell’individuo o anche un rito di passaggio ad es. nell’età adulta. Fu praticato nell’Egitto faraonico, nell’antica Roma, durante il Medioevo presso i pellegrini via via fino a giungere ai nostri giorni quando, dopo una breve pausa alla fine dell’Ottocento, ha registrato un boom vero e proprio a partire dagli anni settanta. Oggi esistono vari tipi di tatuaggio che elenchiamo senza entrare nel dettaglio: quello Old school caratterizzato da linee nette, quello New school con linee più grosse e colori luminosi, quello Realistico che si ispira alla natura, quello Tribale che si ispira a quelli in uso nelle tribù delle isole del Pacifico come i Maori, i Papua ecc… quello Giapponese dove abbondano dragoni, fiori di loto... Contemporaneamente alla diffusione del fenomeno le tecniche di incisione si sono specializzate e la gamma dei colori si è allargata, ma sono di conseguenza aumentate anche le allergie e i rischi di contagio da malattie molto pericolose come l’epatite B. Sia il tatuaggio che il piercing costituiscono una specie di carta di identità personale, un modo efficace per distinguersi dagli altri, un mezzo per ribellarsi alla massificazione della società industriale, tirando fuori quello che si ha dentro e trasformando il corpo in strumento di comunicazione. Infatti le due tendenze hanno in comune lo stesso fine perché mirano alla trasformazione del corpo esasperandone non senza rischi le potenzialità. Il fenomeno sta dilagando in modo esponenziale, quindi dobbiamo nolenti o volenti rassegnarci a vedere nei prossimi anni, specie nelle spiagge, file sempre più numerose di corpi istoriati e marchiati da simboli più o meno chiari. Conviene pertanto ricordare una celebre massima di un illustre filosofo tedesco: non è bello ciò che è bello, è bello ciò che piace… intelligentibus pauca ovvero a buon intenditor poche parole. Pierluigi Seri


La dieta secondo la propria costituzione Partendo dal presupposto che nutrire un organismo non è un puro atto meccanico volto a mixare alcuni alimenti, ma rappresenta un complesso rito (sia attraverso scelte appropriate e individuali sia nella cura e nell’amore della preparazione), dovremmo essere sempre più consapevoli di ciò che mangiamo perché il cibo nutre non solo il corpo ma anche l’anima e lo spirito. Inoltre dovremmo considerare le necessità individuali legate non solo alle calorie calcolate in base a tabelle numeriche standard, ma tenere soprattutto in considerazione le caratteristiche costituzionali del soggetto che rappresentano le tendenze fisiopatologiche individuali e quindi il possibile cedimento di un organo o di un apparato. Sappiamo infatti che la costituzione individuale è rappresentata da quel complesso sistema che si identifica nella PNEI, ovvero nelle tendenze organiche allo squilibrio in senso psichico, nervoso, ormonale o immunitario. Facendo un esempio, se abbiamo un soggetto che vive costantemente in uno stato di tensione, di nervosismo e di agitazione, dovremmo pensare a degli alimenti che abbiano un effetto calmante ed aggiungere eventualmente dei

condimenti con piante ad azione distensiva e così via. Anche i sapori giocano un ruolo importante; usando infatti un sapore acido freddo che tratta l’eccesso di calore avremo un’azione simpaticolitica ovvero calmante sul sistema nervoso centrale e sulla tiroide (Cynara, Origano, Limone, Tarassaco, Ortica). Il contrario con piante e spezie acide che riscaldano (Rosmarino, Menta, Artemisia, Prezzemolo). Pertanto la conoscenza della propria costituzione è fondamentale in quanto possono essere individuati i punti di forza e di debolezza, le tendenze caratteriali nervose temperamentali ed ormonali, la propensione dunque a certe patologie piuttosto che altre e comprendere attraverso quali meccanismi l'organismo possa adattarsi all'ambiente modificandosi nella sua reattività in base alla costituzione. Una classificazione delle costituzioni che definisce le caratteristiche di ogni tipologia è quella cinese che ne prevede cinque entro cui tutti gli essere possono essere riuniti e che analizzeremo nei prossimi numeri. Dr. Leonardo Paoluzzi Medico chirurgo - Esperto in agopuntura e fitoterapia

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Donna con le ali Avrei dovuto capire subito che quello non poteva essere il legame giusto per me. Lo dico adesso con un ritardo incolmabile e con il rimpianto di non poter contare su altre opportunità. E a ragione, perché parlo da morto. Non chiedetemi com’è cominciata con lei. Io so solo che è stato un tornado, un rapimento violento, uno tsunami dei sensi che m’ha travolto, affogandomi l’anima e il corpo. Era bella, tanto bella che solo a pensare che quel volto potesse nascondere il sospetto dell’inganno, prima che la volontà del raggiro, sarebbe stata una bestialità, una violenza fatta alla logica e al cuore, come pronunciare giaculatorie blasfeme tenendo in mano l’immagine della Madonna. Ne ero convinto, affascinato com’ero dai suoi lunghi capelli corvini, dagli occhi neri e profondi, dai denti perfetti e bianchissimi che si mostravano sotto due labbra rosse e calde come la brace. Non a caso si chiamava Marija; sì con la “j”, perché non era italiana. Nome di tutta garanzia, che non si dà con leggerezza e non si porta senza sapere di avere una missione da compiere. La sua era di fare la mia felicità. E c’era riuscita, quasi fino all’ultimo. Non mi sfiorava il fatto di aver esagerato a idealizzarla. Era perfetta, proprio come ogni uomo desidera che sia la sua donna. “Lasciala perdere -mi ripeteva mio fratello- è una strega. T’ha prosciugato il conto e fra poco anche il cervello. Ti maneggia come un giocattolo, ti manovra come un burattino. Finirà di strizzarti e poi ti butterà nel secchio, come si fa con un limone”. “Sei solo invidioso, come lo sei sempre stato. Dei soldi non mi frega niente. Non ho bisogno di soldi, io, per sentirmi felice. Mi basta la luce degli occhi suoi, nascondermi fra le sue braccia, perdermi nei suoi baci appassionati. Sensazioni a te sconosciute, insensibile come sei e attratto solo dal denaro”. Nella vecchia, isolatissima casa di campagna, ereditata dai genitori scomparsi qualche anno prima, la convivenza obbligata con Adelmo, mio fratello maggiore, era diventata, con il trascorrere dei giorni, insostenibile. Ci seguiva continuamente e ci spiava per poi ridicolizzarci. Non si curava del fatto che, così facendo, il fosso, già profondo tra noi, diventasse un burrone. “M’ha detto che un giorno m’ammazzerà”, disse bruscamente una sera Adelmo, certo di rivelarmi qualcosa che mi avrebbe indotto alla riflessione. Non credevo a una di quelle parole, neppure se l’avessi sentite direttamente uscire dalla sua bocca. Ero sempre più deciso a non sopportare altre falsità da mio fratello. Facevo una fatica dannata ad accettare che proprio lui si opponesse alla mia felicità. Mi rimproverava non solo la relazione, ma il fatto che, a parere suo, avessi anche rinunciato ad aiutarlo nel lavoro dei campi. Reagivo alla sua contrarietà con crescente disprezzo. Dalle risposte secche, passammo agli insulti velati, e da questi a esplicite aggressioni verbali. “Quella donna è un diavolo. Non t’accorgi quanto è brutta e cattiva?”, mi disse un giorno che lei era nei campi. A sentirgli dire che era brutta, lei che era l’immagine dell’armonia, lei che era il simbolo della perfezione, conclusi che fosse irrimediabilmente preda dei sentimenti più bassi e meschini che potessero animare un essere umano. Quell’inverno si annunciò il più triste fra quanti l’avevano preceduto. E non solo perché fosse l’ultimo. Neppure una giornata di sole a rompere il senso di angoscia generato dai rami scheletriti delle querce che sembravano raschiare con le lunghe dita nodose un cielo dai colori deprimenti. Neppure un raggio a squarciare la nebbia densa che, come una coperta infeltrita, indugiava sul lago, laggiù, oltre la siepe di bosso. Notai che le cornacchie, per le quali provavo da sempre un’istintiva repulsione, avevano raddoppiato i nidi fra i rami degli alberi, segno evidente che avevano trovato lì un habitat perfetto. Quegli uccellacci si muovevano a stormi, attaccando ogni fonte di cibo intorno alla casa, con preferenza per il letamaio, gracchiando in modo indegno e insopportabile. Erano diventate aggressive fino all’insolenza e non si spaventavano nemmeno per i gesti che facevo nel tentativo di allontanarle dal davanzale delle finestre che avevano preso l’abitudine di imbrattare senza ritegno. “M’ha detto che un giorno m’ammazzerà -riprese mio fratello con un sorrisetto aspettando la mia reazione- non ho paura, sia chiaro, ma ha pronunciato le parole con cattiveria, con odio. Ti confesso che m’ha fatto venire i brividi dentro”. “Non ci provare, Adelmo. Non riuscirai mai a convincermi delle tue visioni. Sei tu il malvagio. Stai a debita distanza da lei e non mancarle mai di rispetto”. Non potevo concepire come quell’angelo del firmamento, cui mancavano solo le ali, con quegli occhi sinceri, quella pelle di pesca, quei modi dolci e carezzevoli potesse così colpevolmente essere frainteso da Adelmo, né riuscivo

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a immaginare quale disegno avesse in mente mio fratello, se si eccettua il misero calcolo di non vedermi distratto, neppure per un attimo, dai lavori dell’orto. Io la osservavo, quando tutti e tre stavamo insieme, con quanta gentilezza e remissione si rivolgeva a lui, con quanta umiltà e candore lo ascoltava. Di fronte a questa evidenza, mi era impossibile dar credito alle cattiverie di Adelmo. Nessuno mi toglieva dalla testa che era corroso dall’invidia e dalla gelosia. La svolta avvenne un giorno in cui, tornando a casa dopo un’assenza di qualche ora, Marija m’accolse tra le lacrime. Solo dopo una prolungata insistenza mi confidò, fra i singhiozzi: “Mi ha violentata!”. “Dov’è?” le chiesi accecato dall’ira. “È fuori. Ma devi calmarti. Ricordati sempre che è tuo fratello. Quando tornerà non devi dirgli niente. Voglio la pace fra di voi”. Ah, la povera, santa donna! “So io quello che devo fare. Stai fuori da questa storia. Hai già pagato abbastanza”. La voglia di farla finita con lui, una volta per tutte, era accresciuta dalla bassezza commessa, dall’ignominia indicibile del peggiore degli insulti, dall’insanabile vergogna dell’incesto. Non aspettai altro. Avevo ragione da vendere nel giustificare il colpo d’ascia che gli affibbiai in testa al suo rientro. Cadde in ginocchio, senza neppure accorgersi della morte. Mi stupii della gran quantità di sangue che uscì. Marija aveva assistito alla scena per nulla impressionata; come se quella fosse stata la conclusione logica, da lei attesa anzi, intimamente pretesa. La vidi girare attorno all’enorme chiazza rossa, guardare come si rapprendeva velocemente, osservare, inginocchiata, gli ultimi spasmi del viso di Adelmo e poi fissarmi con una smorfia indecifrabile. Mi allontanai. Entrai in cucina e mi versai dell’acqua in una bottiglia. Avevo la gola secca, così secca da non riuscire a parlare. Non mi sentivo in colpa. Mi attaccai alla bottiglia e la vuotai. Lentamente tornai indietro e la colsi nell’attimo di portarsi alla bocca un grumo di sangue. “Che fai?” le gridai. “Nel mio paese si dice che se bevi una goccia del sangue di chi ti odia riesci ad azzerare il maleficio della sua cattiveria”. Mi sentii disgustato e provai a vomitare senza riuscirci. “Bisognerà ripulire, far scomparire ogni traccia. Ora lo seppellirò. Nessuno saprà niente”, dissi d’un fiato. “Ci penso io, non ti preoccupare. Ti vedo sconvolto. Farò tornare il pavimento com’era prima”, s’affrettò a rispondermi. Scesi di sotto per cercare un posto adatto alla sepoltura che individuai in una buca già esistente vicino alla porcilaia. Si trattava di trasportare il cadavere lungo una rampa di scale e farlo scomparire per sempre. Con l’unica testimonianza delle cornacchie, che si erano radunate a frotte intorno alla fossa, depositammo Adelmo sul fondo e cominciai a spalare terra e letame per ricoprirlo. Quegli uccelli odiosi e sinistri cominciarono a gracchiare con intensità, beccandosi l’un l’altro, quasi volessero rivelare all’aria umida e greve la verità inconfessabile. Alcuni mi svolazzavano con insistenza sopra la testa e qualcuno cercava perfino di posarvisi. Alternavo una palata di terra a un’altra contro di loro. Senza successo. I versi sgradevoli e ossessivi mi entravano in testa e mi correvano giù lungo la schiena con un brivido di freddo e di disgusto. Finito il lavoro, le cornacchie se ne andarono tutte, tranne una che rimase a guardarmi di profilo a ricordarmi la colpa, muovendo la testa a scatti, sistemata sul cumulo fresco della sepoltura che percorreva su e giù con la goffaggine d’un’anatra. Quella notte non presi sonno. Mi girai e rigirai nel letto. Fui colto da sonnolenza all’alba, ma una mano mi scosse con dolcezza. Marija, ignara di come avessi trascorso la nottata, teneva in mano il caffè caldo; il profumo si era sparso per l’aria. “Bevilo così bollente, mi suggerì, ti farà bene”. “Non ho chiuso occhio -farfugliai con la voce impastata- ma mi sento sollevato. Adesso siamo liberi -aggiunsi bevendo- liberi di disporre delle nostre vite, senza che nessuno ci ostacoli o critichi le nostre scelte. Ti amo”, conclusi scolando la tazzina. Marija era rimasta immobile di fronte alla finestra; i capelli neri le coprivano le spalle, sopra la vestaglia grigia, lo sguardo perso nella nebbia che, fuori, s’era inghiottita ogni cosa. “Mi sento intorpidito, dissi, faccio fatica a muovere le gambe e sento un calore che mi sale dai piedi, su per tutto il corpo”. “Ti apro la finestra disse senza voltarsi- è il caffè che ti ho dato. Era avvelenato”, rispose glaciale. “E che male ti ho fatto per meritarmi di morire così?”, chiesi balbettando. “Niente, come niente mi ha fatto Adelmo. Intendo dire che non mi ha violentata. Lui è morto perché, odiandomi, mi sottraeva anni di vita; tu muori perché, amandomi, mi trasferirai gli anni che ti erano stati destinati di vivere se non ci fossimo incontrati. Grazie, sei grande, grande... solo un grave errore… ”. Il suono di queste ultime parole si confuse con il gracchiare assordante di una decina di cornacchie entrate nella camera per deridermi dell’ingenuità. Poi, lei si girò lentamente, mettendosi di profilo. Mosse la testa a scatti, inquadrandomi con un solo occhio, quindi, nel silenzio improvviso, aprì il becco, lanciò un odioso “cra, cra” e volò via. Franco Lel l i


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Il ruolo della nutrigenomica nella nutrizione umana La Dietetica e la Nutrizione Umana comprendono una vasta serie di competenze scientifiche che spaziano dall’antropologia alla biologia, dalla biochimica alla genetica fino alla gastronomia. A causa di questi molteplici aspetti è molto difficile analizzare qualsiasi effetto di una dieta o di differenti nutrienti con l’uso dei consueti studi scientifici che correlano causa-effetto. È facile osservare un soggetto febricitante in cui l’azione dell’aspirina fa scendere la febbre, mentre è molto più complicato esaminare come una particolare dieta possa avere i suoi effetti sulla progressione di una malattia, come ad esempio il lupus erytematosus. Ancora, come una dieta anti infiammatoria ricca di acidi grassi omega-3 e povera in calorie possa ridurre l’uso di sostanze anti infiammatorie come il cortisone. Poiché una dieta è composta da molti elementi, è difficile capire quali nutrienti siano relativamente efficaci e quanto influisca il loro corretto rapporto e quantità. A risolvere questo aspetto della nutrizione ci viene in aiuto la ricerca scientifica con i suoi recenti sviluppi in ampie aree sia della profilassi che dei trattamenti. Si parla di Nutrizione Farmacologica intendendo con essa l’uso appropriato e personalizzato del pool di nutrienti per ciascun individuo correlandolo al proprio personale profilo genetico. Ad esempio, per migliore comprensione di quanto sopra esposto, alcuni pazienti rispondono meglio agli acidi grassi omega-3 con

effetto sulla riduzione dei livelli dell’interlochina-6, un fattore dell’infiammazione, mentre altri no; l’attività anti infiammatoria degli omega-3 è correlata al profilo genetico personale. Nasce oggi il settore chiamto Nutrigenomica, nutrizione adeguata ai propri e singolari profili genetici, e questa scienza è in grado di spiegare il differente effetto dei nutrienti sui singoli individui. Per ogni singolo gene sono infatti presenti dei polimorfismi e ciascun individuo ne esprime uno che può essere predisponente o protettivo rispetto ad un processo patologico. Per esempio, diete ricche di zuccheri semplici, in particolare di carboidrati semplici come lo zucchero o bevande dolcificate, porta allo sviluppo di diabete latente in soggetti geneticamente predisposti attraverso un meccanismo di deplezione dell’insulina costantemente stimolata, (meccanismo epigenetico). Conoscere il proprio profilo genetico per quei geni che sono correlati in modo significativo alla nutrizione è semplice e poco costoso, in particolare il lavoro in collaborazione con l’Università di Ferrara, che ha messo in atto le tecniche laboratoristiche di sequenziamento specifiche per la nutrizione, rende possibile l’applicazione della Nutrigenomica anche a livello cittadino. È solo dopo la costruzione del profilo genetico che lo specialista studia la dieta più adeguata con un modello personalizzato sia per situazioni fisiologiche che patologiche. L o re n a F a l c i B i a n c o n i

Una soffitta sull’Universo Un mio amico ha detto che esistono anche i bolidi, è vero?Certamente! Anche se non è un termine propriamente scientifico, il bolide non è altro che una meteora di elevata luminosità che, al contrario di quelle comuni, può presentarsi con una scala di colori ben visibili variabili tra il verde smeraldo, il rosso e l’azzurro elettrico.Ma che direzione hanno?Nel caso di quelle che osserviamo questa sera, sembrano provenire tutte da un medesimo punto, ovvero dalla costellazione di Perseo, per questo si chiamano Perseidi. Non sono le uniche però dell’anno: possiamo assistere regolarmente ad altre piogge di meteore provenire dalla direzione del Leone, quindi Leonidi, dei Gemelli (Geminidi), di Orione (Orionidi), del Toro (Tauridi). Abbiamo poi quelle dette sporadiche, ovvero che non hanno una vera e propria direzione di appartenenza. Perché avvengono regolarmente nello stesso periodo?Quando le comete viaggiano verso il Sole, si lasciano dietro scie di polvere nello spazio e, quando raggiungono la Terra, questa polvere sembra “piovere” nell’atmosfera. Avvengono regolarmente perché ogni anno nello stesso periodo la Terra nella sua orbita, incrocia questi sciami di meteore. Nel caso delle Perseidi la cometa di origine è la Swift-Tuttle.E quante ne possiamo vedere?Considera che le Perseidi sono le più numerose e nel giorno in cui si raggiunge il picco massimo, potremmo vederne oltre 120 in un’ora. Ma sono tantissime! E perché sono chiamate anche “Lacrime di San Lorenzo”?Questa è una domanda Giovanni che aspettavi di farmi da ieri sera! Ti accontento subito: è la notte dedicata al martirio di San Lorenzo e le stelle cadenti sono le lacrime versate dal Santo e vagano eternamente nei cieli, cadendo sulla Terra solo nel giorno in cui San Lorenzo morì creando un’atmosfera magica e carica di speranza. Infatti, a questo è legata anche la leggenda che si possano avverare i desideri di chi si soffermi a ricordare il dolore del Santo. Io penso che non potrei chiedere desiderio più grande di quello che ho già ottenuto! Ho trovato un amico come te, Overlook, che oltre essere un grande “maestro”, hai anche un cuore d’oro! Hai fatto in modo di farmi passare più tempo con i miei genitori, hai risvegliato in loro interessi che ormai credevano dimenticati. Grazie a te la mia paura del buio è passata, ho capito che la notte non è da temere perché, come mi dicesti tu al nostro primo incontro, può riservare meraviglie che neanche immaginiamo! Peccato solo che il cielo dalle nostre parti non sia così pulito come dovrebbe per via sia dell’inquinamento atmosferico che di quello luminoso. Infine essere qui stasera, con te, con mamma e papà, con i miei amici a osservare questo cielo stupendo… cosa potrei desiderare di più? A quella splendida notte ne seguirono molte altre, sia in compagnia dei genitori, sia degli amici, ma anche quando erano solo Leonardo e Overlook si divertivano molto. E’ proprio vero: non si finisce mai di imparare, soprattutto per quanto riguarda l’universo che ci circonda con il suo misterioso fascino. Qui si conclude la storia di Leonardo ed il suo amico Overlook sperando di essere riuscita ad attirare la curiosità dei lettori…il resto a discrezione della fantasia del bambino che è in ognuno di noi! I miei doverosi ringraziamenti vanno: ai lettori che hanno seguito fin qui questo piccolo racconto, a tutti i soci dell’ATA (Associazione Ternana Astrofili Massimiliano Beltrame) che mi hanno spronato e sostenuto nella sua realizzazione, alla Redazione de “La Pagina” che lo ha pubblicato, alla mia amica Antonella Esposito autrice della copertina realizzata meglio di come l’avevo pensata, alla mia famiglia e ai miei amici Alessandro, Claudio, Diego, Elisa, Fabio, Francesco, Gianna, Guglielmo, Irene, Massimiliano, Mauro, Moreno, Ombretta, Raffaella, Sabrina, Sara, Silvia, Sergio, Stefano e Tommaso, che mi hanno sostenuto e continuano a farlo in tutti i momenti più importanti della mia vita. E per ultimo, ma non meno importante, un ringraziamento speciale va mia madre che mi ha regalato la vita, e a tutti i cari amici astrofili ora scomparsi ,con la speranza che abbiano trovato dimora tra le stelle che tanto amavano. Michela Pasqualetti mikypas78@virgilio.it

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La Fondazione Carit, nell’ambito della propria attività istituzionale, oltre a sostenere le associazioni musicali locali per la realizzazione di stagioni qualificate e prestigiose, ospita nella sala “Paolo Candelori” eventi culturali di rilievo. Per questo autunno è in programma l’incontro con l’artista di origine serba Mihajlo Zurkovic dal titolo La musica nella mia ex-Jugoslavia organizzato dall’Associazione Araba Fenice. Il pianista si è aggiudicato numerosi premi in importanti concorsi tra cui: Top Prize al Concorso Internazionale “Petar Konjovic” di Belgrado, Primo Premio all’European Piano Competition di Moncalieri, Terzo Premio al Concorso Internazionale “Frederic Chopin” di Novi Sad, finalista al Concorso Internazionale “Dinu Lipatti” di Bucarest, Primo Premio all’International Forum di Kiev. Ha tenuto il suo primo recital all’età di 12 anni e, da allora, si è esibito in più di 300 concerti solistici, cameristici e come solista con orchestra. Ha suonato in tutta Europa (Italia, Francia, Romania, Ungheria, Russia, Slovenia, Croazia, Montenegro, Bosnia-Herzegovina, Serbia, Macedonia) e negli Stati Uniti. Ha preso parte al progetto “Operation 40 Fingers” grazie al quale ha tenuto una tournée in Italia nella stagione 2007/08. L’anno successivo ha debuttato a New York suonando in due sale prestigiose: la Bechstein Concert Hall e il Symphony Space. Nel 2010 si è esibito in Russia, a San Pietroburgo, nella sala piccola del Conservatorio “Rimsky- Korsakov”, nella sala grande del Mussorgsky College e in una delle sale più importanti della città: il Castello Sheremetev. Ha registrato per numerose reti radio-televisive nazionali: la Radio Svizzera, la Radio Vaticana, la Radio Televisione del Montenegro, MTV2 (canale della Televisione Nazionale Ungherese) e per la Televisione Nazionale Serba. Nel 2009 ha inciso un CD live prodotto dal Centro Culturale “Laza Kostic” e dall’Accademia delle Arti di Novi Sad.

Palazzo Montani Leoni, sede della Fondazione CARIT Corso C. Tacito, 49 Sabato 8 novembre 2014, ore 17,30 Incontro con l’artista Mihajlo Zurkovic. La musica nella mia ex-Jugoslavia 25


Tu t t i a i c o n c e r t i ! Dunque siamo alla ripresa delle attività culturali dell'autunno. La ripresa delle attività lavorative, e scolastiche per i ragazzi, porta con sé una gran quantità di nuove situazioni e di nuovi stimoli, che penso sia bene cogliere ed utilizzare ai fini di una crescita umana prima di tutto. La nostra città offre una serie di appuntamenti culturali che ripartono ad ogni autunno e si protraggono fino alla primavera. Fra esse, ho ben presenti le stagioni musicali, ed in particolare, per ovvi motivi, quella dell'Associazione Filarmonica Umbra, che in questi giorni dà alla luce la sua 40ma edizione e che mi onoro di presiedere da 11 anni, dopo averne vissuto sempre con grande dedizione le alterne vicende sin dagli esordi negli anni settanta. L’impegno di molti volontari, accanto a pochissimi giovani che possono ricevere un piccolo compenso, ha consentito comunque una strutturazione che permette all'Associazione di resistere alle consistenti riduzioni di budget, avvenute negli ultimi anni. A quattro anni dalla chiusura del Teatro Verdi, che ha significato l'abbandono dei concerti sinfonici e di quelli di larghissimo richiamo, posso però dire che la stabilità delle nostre stagioni non ha subìto alcun contraccolpo e che si sono accostati alle attività organizzate nuovi soggetti portatori di nuova linfa, fra cui molte persone di mezza età e diversi giovani, a cui qualche scuola, o meglio qualche insegnante, suggerisce di seguire questi incontri rari e speciali con la musica. Grandi occasioni sono quest'anno alle porte.

A Terni ospiteremo nel concerto d’apertura un grande artista russo che è stato definito da una giuria di critici musicali qualche anno fa “il più grande pianista del mondo”, Andrei Gavrilov, per la prima volta nella nostra città, impegnato in un programma con nove magnifici Notturni di Chopin, accostati ad un capolavoro russo del Novecento, l'ottava Sonata di Prokof'ev. Ma chi vorrà potrà seguire, attraverso la nostra Associazione, anche il concerto inaugurale dell'Orchestra Nazionale dell'Accademia di Santa Cecilia al Parco della Musica di Roma, con un altro mito pianistico russo, Evgenij Kissin, che insieme al direttore stabile Antonio Pappano suonerà il famoso secondo Concerto di Rachmaninov. Questo è solo il la! Seguiranno tante altre avventure concertistiche nel musical, nel jazz, nelle canzoni, nel grande repertorio, con l’ambizione di coniugare cultura e divertimento, nella più ampia pluralità degli esecutori e dei compositori, perché tutti possiamo imparare sempre di più a sentire con i nostri orecchi e farci le nostre idee, senza subire visioni unilaterali del fare musica. Vorrei terminare con il grande augurio a tutti gli organizzatori della nostra città e a tutto il pubblico di poter realizzare quello scambio culturale che costituisce una delle più importanti acquisizioni per la nostra mente e per la nostra anima. Buona avventura! La musica vi aspetta a braccia aperte! Angelo Pepicelli Pre s ident e Ass. Fi l armoni ca Umbra

Bambini e dentizione La pedodonzia o odontoiatria pediatrica è la branca dell’odontoiatria che si occupa della cura dei denti dei bambini, sia che si tratti di denti da latte che di denti permanenti. La cura dei denti da latte è infatti anch’essa di grande importanza per assicurare ai bambini buone condizioni di salute della cavità orale e per favorire il corretto sviluppo della dentatura permanente. Nel bambino piccolo le dimensioni dell’arcata superiore (mascella) ed inferiore (mandibola) non sono sufficienti ad accogliere i denti permanenti che hanno dimensioni maggiori dei denti decidui e sono più numerosi: 32 contro 20 (in fugura). I primi denti da latte compaiono normalmente intorno ai sei mesi di età e a volte la loro eruzione provoca una maggior produzione di saliva nel bambino che, avendo fastidio alle gengive, tende anche a mordere oggetti e manifesta irrequietezza accompagnata talvolta a febbre moderata e diarrea. Successivamente, con la permuta dentaria che va mediamente dai sei fino ai tredici anni circa, i denti da latte verranno progressivamente persi e sostituiti dai permanenti. Nei bambini i denti da latte possono presentare processi cariosi e necessitare di cure così come succede per i denti permanenti anzi i piccoli pazienti hanno esigenze proprie e particolari ed è necessario agire con una buona dose di pazienza, comprensione e sensibilità per ottenere la loro fiducia e tranquillità. A questo scopo durante la prima visita riteniamo preferibile non eseguire alcun trattamento ma dare invece ai bambini la possibilità di conoscere il pedodontista che, instaurando un rapporto fiduciario col paziente valuterà la necessità di eventuali cure. Nell’ambito specifico dell’odontoiatria pediatrica il nostro studio vede la valente collaborazione della dottoressa Michela Santi che, con competenza e passione e nella massima considerazione dell’importanza dell’approccio psicologico verso Alberto Novelli i piccoli pazienti, si occupa della loro salute dentale.

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Lo sbollito Sbaglieremo, ma forse non siamo molto lontani dalla verità, immaginando che, chi ci sta leggendo in questo momento, abbia pensato che avessimo intenzione di parlare di politica, anzi di uno qualsiasi dei più noti o ex noti politici del Bel Paese. Vi confessiamo candidamente che abbiamo avuto una fortissima tentazione di farlo, specialmente dopo aver scritto il titolo, che si presterebbe molto bene alla bisogna. Perché, se ci fate caso senza partigianeria, di sbolliti e di ribolliti è piena l’Italia. E il bello, si fa per dire ovviamente, è che in questa categoria sono presenti tutte le classi: il giovane e il vecchio, il colto e l’incolto, lo sportivo e il sedentario, il ricco e l’impiegato. Ma lo sbollito che vi vogliamo raccontare, sperando di non annoiarvi, è di tutt’altro tipo. Quando la maggior parte degli italiani erano contadini e quelli che avevano trovato posto nelle fabbriche ne mantenevano le tradizioni, il mese di ottobre era dedicato a fare il vino che doveva bastare fino all’anno successivo. Se veniva speciale non arrivava alla stagione successiva perché finiva prima, se invece era scadente veniva temperato con l’acqua e durava tanto, specialmente se aveva preso d’aceto. Il problema era che quando non veniva buono, la causa era difficile da identificare. Non conoscendo il meccanismo biochimico della fermentazione, il perché e il percome, il contadino era portato a darne la colpa a varie cause, alcune sagge altre più strampalate, tipo: abbiamo potato le viti a luna crescente, oppure: abbiamo colto l’uva il giorno della Madonna e ci ha punito. Tra le ipotesi razionali ci poteva essere la stagione balorda col freddo tardivo, oppure le piogge che si erano protratte per troppo tempo; poteva essere anche colpa di un insufficiente trattamento con solfato di rame e calce, oppure perché lo zolfo in polvere era stato usato in ritardo, dopo che i grappoli erano stati attaccati dai funghi, oppure poteva anche essere colpa di un errato procedimento dopo la pigiatura. Allora alle fiere o quando c’era una veglia funebre, i contadini si scambiavano suggerimenti tra loro su come fare il vino buono che reggesse anche durante i calori estivi, senza cambiare di colore e senza inacidire. Uno dei metodi più in voga era lo sbollito, detto anche la sbollita, oppure semplicemente la bollita, secondo il paese o secondo la frazione di residenza. Questa procedura consisteva nel prendere i grappoli di uva rossa, togliere i chicchi ad uno ad uno e riempire con essi un caldaio di rame di un centinaio di litri. Poi a fuoco lento, si rimestava di continuo con un grande bicchiere di rame col lungo manico di legno, detto rammella, finché il livello dei chicchi e del mosto non scendeva di qualche decina di centimetri. A quel punto si spegneva il fuoco e si trasferiva il tutto nelle bigonce di legno precedentemente immerse nell’acqua per renderle impermeabili. Nel frattempo la maggior parte delle altre uve veniva pigiata e messa nel tino a fermentare per un massimo di tre giorni, poi si spillava il mosto e le vinacce rimanenti venivano torchiate. Si torchiava pure l’uva sbollita, che nel frattempo si era raffreddata, e ne veniva fuori un mosto molto più rosso dell’altro, perché più concentrato. A questo punto tutto il mosto veniva messo nella botte a continuare la sua fermentazione. Il commento che si faceva di frequente era che con lo sbollito si dava più colore e più sapore al vino, rendendolo in ogni caso più forte e resistente al degrado. Una variante, applicata in alcune zone, consisteva nel mescolare al mosto lo sbollito senza torchiarlo. Quando finivano di bere il vino di quella botte, sul fondo ci rimanevano le fecce che venivano utilizzate, prima della vendemmia successiva, per impermeabilizzare tutti i recipienti in legno (tini, bigonce, botti e imbuti), insieme all’aggiunta di acqua bollente. Lo sbollito si faceva pure con l’uva bianca, in alternativa o in aggiunta al vino cotto del quale abbiamo parlato nell’ottobre scorso. Questi erano tutti tentativi per avere un buon bicchiere di vino dal sapore costante per almeno una stagione. Gli enologi allora non c’erano e se c’erano, erano come le mosche bianche. Oggi qualcuno può anche inorridire leggendo questi racconti Vittorio Grechi ma essi fanno parte, nel bene e nel male, della nostra storia e della storia del vino.

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