La pagina maggio 2011

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Mensile gratuito

N째 05 - Maggio 2011 (85째)


La fine del mondo

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Il viaggio del soldatino di stagno - F Patrizi Paura e lavoro - P Fabbri Non arrendiamoci alle piccole quotidiane vessazioni - A Melasecche L’uomo delle offerte - B Ratini ALFIO Ligabue al Parlamento Europeo - C Colasanti Ambiguità del nuovo - G Gravina Umbriabeecoming - C Mansueti Nucleare à l’italienne - A Liberati Come inquinare il cielo notturno - F Capitoli ALLEANZA Alice nel paese delle... emergenze - P Seri Un viaggio tra le nuvole - L Petrignani LICEO CLASSICO - M D’Ulizia, F Sordini, MC Temperini L’anima della Mecia - V Grechi Dioniso a Carsulae - Fondazione Carit Terni e la Movida: il dirompente successo della noia - L Bellucci L’arte di saper correre senza rovinarsi la vita - LB ALLEANZA - Il “partner” del cliente nella gestione dei risparmi Giuseppe Russo - M Ghione Giuseppe Garibaldi - MG PROGETTO MANDELA - C Stefanelli, C Calcatelli Quest’ignoto infinito - E Lucci Giuseppe Mazzini - F Neri Un tuffo nel medioevo della Valnerina - La bottega delle idee Astronomia - T Scacciafratte, G Cozzari, P Casali, F Valentini SUPERCONTI

LA

PA G I N A

Mensile di attualità e cultura

Registrazione n. 9 del 12 novembre 2002, Tribunale di Terni Redazione: Terni, Vico Catina 13 --- Tipolitografia: Federici - Terni

DISTRIBUZIONE GRATUITA Direttore responsabile Michele Rito Liposi Editrice Projecta di Giampiero Raspetti

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Direttore editoriale Giampiero Raspetti

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La fine del mondo è molto più vicina di quanto si possa temere: 21 corrente mese, secondo le previsioni del reverendo Camping, leader di Family Stations, una comunità religiosa californiana che divulga la propria interpretazione della Bibbia attraverso la Family Radio Worldwide, di sua proprietà (come s’usa). Particolari: il 2% della popolazione mondiale salirà direttamente in paradiso e i peccatori (98%) soffriranno atrocemente ancora per 153 giorni, prima dell'apocalisse finale del 31 ottobre corrente anno. Harold Camping non è nuovo a queste elucubrazioni: ci aveva già provato, decretando per il 6 settembre 1994: ...il giorno in cui Dio scenderà in Terra e distruggerà tutto per colpa dei peccati dell'umanità. Vi risparmio le sue attuali interpretazioni rivelatrici della Bibbia per evitare a qualche lettore una imprevista, ma reale, fine del mondo. Se, per effetto di qualche ripensamento, dovessimo scamparla, ci aspetta pur sempre la fine del mondo decretata, per il 21 dicembre 2012, da una ridicola interpretazione del calendario Maya. E se ci ostineremo ancora a vivere ci aspetta la previsione dei Papi, quella di San Malachia che prevede la fine del mondo alla morte del prossimo Papa. Ritengo utile, per la vicenda malachiana, una parvula delucidazione. La Profezia sui Papi di San Malachia (1094-1148) elenca 112 papi, dal suo contemporaneo Celestino II (1143-1144) fino alla fine del mondo. Ogni pontefice è indicato mediante un breve motto in latino. La profezia fu pubblicata per la prima volta nel 1595 da Arnold de Wyon, pio benedettino, nel suo libro intitolato Lignum vitae (L’Albero della vita). Così dichiara il pio benedettino: Malachia scrisse alcuni opuscoli dei quali io personalmente non ho potuto leggere nulla, all’infuori di una certa profezia che riguarda i sovrani pontefici. Questa profezia, dato che è breve, e poiché non è stata mai data alle stampe e molti desiderano conoscerla, io la riproduco qui.

La 1° sentenza recita: Ex castro Tiberis (Da un castello sul Tevere) - 1° pontefice Celestino II (1143-1144), nato a Città di Castello, sul Tevere, dalla famiglia De Castello... ...poi sono tutte incredibilmente precise fino alla 77°: Crux romulea (La croce romana) - 77° pontefice Clemente III (1592-1605), della famiglia Aldobrandini, oriunda di Roma, con croci nello stemma. Ispirazione divina, dunque! Non c’è che dire! Il Santo Malachia era morto nel 1148 quindi doveva per forza avere avuto l’ispirazione divina! Nel 1592 era però in vita il pio Arnold, quello che pubblica, per la prima volta, l’ispirata opera. Dalla 78° sentenza in poi, dopo la morte del pio Arnold, non c’è nesso di sorta tra sentenza e pontefice. Nessuno, nemmeno faccia di panix, lo troverebbe! Hai capito... il pio falsario Arnold! Falsa dunque (c’era da dubitarne?) anche la previsione sulla fine del mondo: 111° pontefice è l’attuale, Benedetto XVI, sentenziato come De gloria olivae (Dalla gloria dell’ulivo) (?). Per l’ultima, la 112° leggiamo: Durante l’ultima persecuzione che subirà la Santa Chiesa Romana, regnerà Pietro il Romano. Egli pascerà le pecore fra molte tribolazioni. Passate queste, la città dei 7 colli sarà distrutta, e il Giudice tremendo giudicherà il popolo. Sic!

Non vi delizio poi con le previsioni di Nostradamus, davvero ridicole nel loro essere senza senso né costrutto. Due sole volte si trovano, nelle quartine delle sue Profezie, affermazioni precise e verificabili: distruzione della razza umana nel 1732 e fine del mondo nel 1999! Ometto la fine del mondo prevista dalla Monaca di Dresda e dal Monaco Basilio, quella new age dell’età dell’acquario o quella dei teschi di cristallo; mi astengo dal commentare le sciagurate profezie dei soliti squallidi personaggi al passaggio delle comete o in presenza di eclissi; stendo un velo sulle chiacchiere dei tanti predicatori e profeti che, spacciandosi per amici di un potente, profetizzano (pro femi, parlare in nome di) scemenze. Scopi sempre uguali: diffondere terrore, aumentare sofferenze, creare dipendenze, vendere libri, interviste, trasmissioni tv, amuleti. Ci aspetta, comunque, anche quanto scritto, senza datazione esplicita, ne l’Apocalisse (capitolo 6, versetti 12-17): Quando l’Agnello aprì il sesto sigillo, vidi che vi fu un violento terremoto. Il sole divenne nero come sacco di crine, la luna diventò tutta simile al sangue, le stelle del cielo si abbatterono sopra la terra, come quando un fico, sbattuto dalla bufera, lascia cadere i fichi immaturi. Il cielo si ritirò come un volume che si arrotola e tutti i monti e le isole furono smossi dal loro posto. Allora i re della terra e i grandi, i capitani, i ricchi e i potenti, e infine ogni uomo, schiavo o libero, si nascosero tutti nelle caverne e fra le rupi dei monti; e dicevano ai monti e alle rupi: Cadete sopra di noi e nascondeteci dalla faccia di Colui che siede sul trono e dall’ira dell’Agnello, perché è venuto il gran giorno della loro ira, e chi vi può resistere?

T’ho posto innanzi, ormai per te ti ciba.

Giampiero Raspetti


Il viaggio del soldatino di stagno Fiaba riciclata per bimbi che succhiano la plastica

Uffa, l’ho scampata proprio bella! esclamò il soldatino di stagno che avevamo lasciato, dopo varie peripezie, nella stanza dei giocattoli a rimirar la sua ballerina di carta. Sappiamo tutti come finì la fiaba: il diavoletto suggerì al perfido bambino biondo di gettare l’intrepido giocattolo nel fuoco e un soffio di vento fece seguire la stessa fine all’amata cartonata. Il nostro Andersen, però, non conosceva il periglioso prosieguo della fiaba. L’indomani la governante entrò nella stanza dei balocchi, raccolse quel che restava del soldatino e della ballerina e, insieme a pezzi rotti e cianfrusaglie, li gettò nella differenziata della plastica. Venne un grosso furgone giallo che caricò gli sfortunati resti dei due cuori di stagno e cartone e li consegnò a un losco signore dell’hinterland napoletano che, in men che non si dica, stipò 86.070 chilogrammi di materiale plastico e ferro in cinque container, destinazione Qingdao, porto della provincia di Shandong, nel sud della Cina. Il soldatino e la ballerina, abbracciati insieme con un frullatore rotto e un paio di occhiali da sole, viaggiarono tra mille peripezie nelle terre del Sol Levante, incontrarono tanti amici dai nomi strani: il bisfenolo A, l’ABS, le vernici a piombo... tutti uniti dallo stesso destino riciclato. E voi, chi siete? chiese il soldatino ad alcuni compagni di sventura che se ne restavano in disparte. Noi siamo gli ftalati, ammorbidiamo il polimero della plastica. Il soldatino di piombo si fece dubbioso: Ma io non vi ho mai incontrato, eppure di giochi ne conosco. Non siamo mai nominati nei giocattoli - risposero gli ftalati - perché ci usano nello smalto per le unghie, ma… in quel momento il container venne svuotato e il soldatino finì in una grande fornace insieme ai suoi interlocutori; dopo poco ne uscì più morbido e malleabile che mai. Tutti i suoi compagni di viaggio erano stati fusi insieme in un magma poliglotta, in breve infatti il soldatino imparò tante nuove lingue: il vietnamita, il dialetto di Taiwan, il coreano, il cinese parlato nella provincia di Shadong. Sapienti mani lo modellarono e lo verniciarono, ma non resero onore alla sua divisa e ai gradi conquistati in battaglia, infatti assunse le fattezze femminee di un noto roditore: già, ora il nostro soldatino era diventato Minnie, una smorfiosa con un nasino a punta pronto per essere succhiato da bimbi fino a 18 mesi. Nelle nuove vesti topolinesche, il soldato Minnie partì per un mirabolante volo intercontinentale che atterrò di nuovo in Italia. Ora, non ci crederete, ma il nuovo giocattolo venne regalato alla sorellina che, proprio in questi mesi avventurosi, era nata al perfido bambino biondo. Chissà che fine faremo questa volta! sospirava quel che restava della parte maschile del prode soldatino rivedendo la stanza dei balocchi teatro delle sue sventure, quando la poppante, paffuta e smaniosa, si portò alla bocca il nasino del roditore e cominciò a ciucciare. Fu così che gli amici ftalati salutarono il soldatino, la ballerina, gli occhiali da sole e il frullatore… Ci rivedremo presto! esclamarono prima di venire inghiottiti nell’orifizio infantile. Contateci! fecero eco il soldatino e gli altri scarti della lavorazione della plastica partenopeo-cinese. Così finisce la fiaba del soldatino di stagno riciclato. E vissero tutti con i giorni contati. Francesco Patrizi

P a u r a

e

l a v o r o

Il lavoro è importante. Lo è davvero molto, non ci vuole tanto a capirlo: basti pensare che è l’unico sostantivo, insieme a repubblica, che compare nel primo articolo della nostra Costituzione: come dire che è fondamentale quanto la forma repubblicana, quindi quanto la natura stessa del nostro Stato. Ed è importante soprattutto per chi ha nel lavoro la sua sola ricchezza: per coloro, e sono davvero tanti, che non hanno rendite, risparmi, altri redditi se non quelli che sono precisamente riassunti nel numero in basso a destra della loro busta paga. La mancanza del lavoro equivale spesso all’impossibilità di pianificare una vita; la perdita del lavoro, altrettanto spesso, equivale alla perdita stessa del consueto modo di vivere, alla conquista di una nuova, stressante e frustante, ricerca dello stretto necessario: giorno dopo giorno, ora dopo ora. Non può stupire allora se, fuori dalla fabbrica di Viale Brin, si aggirino spaventati migliaia di volti preoccupati del loro immediato futuro e di quello delle loro famiglie. Il lavoro è davvero cruciale, la paura di perderlo stravolge le espressioni del volto, incupisce gli sguardi, accentua le rughe, scava le occhiaie. Ed è quindi naturale che le istituzioni cittadine e provinciali mostrino altrettanta preoccupazione, non fosse altro che per sollecita solidarietà, verso quella paura che aleggia lungo la strada che si apre verso la Valnerina. L’altra fabbrica, quella più piccola, adagiata su quel Corso Regina Margherita che proietta i torinesi verso le valli di Susa e di Lanzo, è invece già morta. Chiusa, sbarrata, con ancora i segni neri dell’incendio. Era uno dei pochi posti in Piemonte dove si riusciva a leggere la scritta “Terni”, subito dopo il rituale prologo composto dalle parole “Acciai Speciali”. E’ chiusa, e non è certo una notizia: doveva essere tale da tempo, prima ancora che a velocizzare lo sbarramento dei cancelli si mettessero sette morti. Proprio all’origine di questa intenzione di chiusura sta il seme della tragedia della Thyssen torinese: una fabbrica che smobilita sta particolarmente attenta ai costi, perché ormai si è rinunciato a vederla come fonte di profitto. Quindi si progettano svendite di macchinari, allontanamento di maestranze, eliminazione dei servizi, mentre ancora gli ultimi aneliti di produzione sono in corso. E il primo costo da eliminare è quello relativo alla sicurezza: è già un gran fastidio quando il mercato tira, figuriamoci quando si è in piena smobilitazione. L‘amministratore delegato Harald Espenhahn, per quanto successe nella notte tra il 5 e il 6 dicembre 2007 è stato condannato a 16 anni e mezzo di reclusione. La sentenza lo riconosce colpevole di omicidio volontario per dolo eventuale, e in questo termine tecnico si nasconde il vero aspetto tragico di tutta la vicenda. L’omicidio volontario è quello che si vede in tutti i film gialli, con un assassino che uccide la vittima avendo intenzione di uccidere. L’omicidio colposo è l’accusa cui deve invece fronteggiare chi causa la morte di qualcuno senza averne l’intenzione. L’omicidio volontario per dolo eventuale è qualcosa che si pone tra questi due estremi: e indica la situazione in cui l’omicida non voleva esplicitamente la morte della vittima, ma era ben cosciente che le sue azioni potevano causarla, e ha accettato il rischio. Si è arrivati a questa sentenza contro il signor Espenhahn perché le indagini che sono state svolte nei suoi confronti hanno trovato prove indiscutibili che l’amministratore delegato era cosciente che nella fabbrica in dismissione di corso Regina Margherita i sistemi di sicurezza erano tutt’altro che a norma, e coscientemente ha deciso che non era il caso di fare nulla per adeguare la situazione. Sapeva che potevano accadere incidenti, anche mortali, e se ne è assunto il rischio, al pari d’un guidatore che passa con il semaforo rosso. Quel guidatore ha investito e ucciso sette passanti, lasciandone agonizzare alcuni per mesi tra dolori indicibili. La fabbrica di viale Brin è in preda alla paura, ma forse la paura è bene superarla, rifiutarla, non scendere a patti morali. Chiedere una sentenza più mite, anche solo nei confronti dell’azienda e non verso il CEO della stessa, significa comunque concedere attenuanti, riconoscere che la necessità di lavorare è più forte del rispetto della vita umana, che concetti come sicurezza, salute, vita sono elementi contrattabili sul tavolo delle trattative sindacali. Non è così. Non dovrebbe esserlo. Piero Fabbri

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Non a r r e n d i a moci alle pi ccol e q u o t i d i a n e vessazioni

cittadini ed associazioni varie. E’ evidente peraltro che nessun servizio viene offerto perché non esiste minimamente una successiva guardiania. E’ evidente che tale fiducia non è possibile riporla nel nostro caso! Capita talvolta che, in ore del giorno particolari, le richieste avvengano anche in presenza di vari posti vuoti. Se non si paga, l’imprecazione è d’obbligo e la minaccia implicita di danneggiamento dell’auto è la prima idea che ti viene in mente, anche perché di casi del genere in Italia sono piene le cronache. Ora, che i problemi nella nostra città siano vari è noto, e proprio per questo sembra logico che i vigili urbani debbano essere destinati al controllo del territorio piuttosto che a compiti di ordinaria burocrazia. Intanto il livello di qualità della vita va degradando di mese in mese. E’ stato detto e scritto che un certo numero di vigili viene impegnato impropriamente all’ex Centro Multimediale, in procedi-

Intervistatore: Salve, posso rubarle solo un attimo? Una intervista per La Pagina. Uomo delle offerte: Ehm… veramente vado un po’ di fretta. Comunque mi dica. I Lei è il frutto di un’evoluzione iniziata miliardi di anni fa. E’ passato dal cacciare gli animali per procurarsi il cibo a scambiarlo con altri beni, a comprare ciò che gli serviva; adesso compra solo ciò che è in offerta. Udo E’ vero. Sono cambiato. E le dirò di più. Mi sono liberato della schiavitù verso la religione: prima, per propiziarmi il favore degli dèi portavo delle offerte al tempio; adesso compro le offerte al supermercato. I So che più ne prende e meno paga. E più accumula punti. Udo Ah i punti! – Gli sfugge una lacrima, poi aggiunge: Batterie di pentole, asciugamani, piatti e posate, io non li ha mai comprati: me li hanno regalati con i punti. I E’ vero che ci sono giornate in cui vaga tra un supermercato e un discount, comprando esclusivamente i prodotti con il cartellino: Solo per oggi? Udo Come si permette! Io non vago affatto! So benissimo cosa devo fare. Guardi… A questo punto l’Uomo delle offerte tira fuori un’agenda dalla tasca della giacca e la mostra con orgoglio all’intervistatore. Non ci sono segnati impegni, appuntamenti, compleanni ma si legge: dall’1 al 7 marzo petti di

laboratori

In ospedale si va raramente per motivi piacevoli e dover aggiungere alle legittime preoccupazioni anche il tormento e l’assillo di trovare un parcheggio senza essere obbligati a doverlo pagare, non al Comune, ma all’abusivo di turno, non è facile. Il problema è che non si tratta di una sola persona che chiede gentilmente l’elemosina ma capita sempre più di frequente di trovarsi nel mezzo di una disputa fra diversi soggetti che, di fronte al malcapitato, si contendono a suon di male parole, la primogenitura della pretesa. Sarà successo anche a chi legge di trovarsi nel mezzo di una contesa agguerrita fra concorrenti. Si tratta di ternani con problemi di droga, di girovaghi a vario titolo e sempre di più di poveri immigrati che evidentemente non trovano altrove la soluzione ai propri problemi quotidiani. Il parcheggio dell’Ospedale S. Maria è ormai da anni in mano ad una situazione di precarietà e sembra che la cosa non interessi alcuno, nonostante le proteste di

menti amministrativi nella gestione delle multe. Che senso ha esternalizzare tale servizio se poi si esternalizza anche il Personale che continua ad essere pagato dal Comune? E’ evidente che in questo modo il costo per il cittadino della gestione di un’ammenda non è quello dichiarato perché ad esso si aggiunge anche quello dei vigili impegnati impropriamente al servizio dell’USI, la sigla attuale dell’ex CMM. Non sarebbe forse meglio riportarne alcuni all’esterno, per rendere l’area dell’ospedale finalmente libera dai ripetuti, insistenti piccoli taglieggiamenti quotidiani? Oltretutto capita in molti casi, spesso i più sfortunati, di doversi recare in ospedale più volte al giorno e per settimane di seguito ed è spiacevole, soprattutto per una donna, talvolta in stato interessante, di dover preferire il pagamento ripetuto di quell’obolo, piuttosto che dover sottostare a situazioni di incertezza, soprattutto di sera. Una città si trasforma, in peggio, ed il suo livello di civiltà degrada quando tali situazioni diventano normali. Dipende da tutti noi non accettarle e chiedere un minimo di impegno da parte degli amministratori perché non c’è cosa peggiore che abituarsi a tutto. Forse coloro che dovrebbero prendere provvedimenti hanno i parcheggi riservati all’interno dell’ospedale e non si rendono conto del disagio della gente comune. alessia.melasecche@libero.it

L’ U o m o delle offerte

pollo a… , dal 7 al 14 biscotti frollini a…. I Mi scusi, non volevo offenderla. Udo Va bene va bene… Adesso però devo andare. Deve farmi altre domande? I Mi parli di lei. Poi la lascio andare. Udo Beh, che posso dirle… ... Ho le tessere di tutti i supermercati della città… I E ruba i volantini della pubblicità condominiale, lo confessi! Udo Ma lei è un maleducato… Come si permette. Io li leggo solamente, poi li rimetto a posto. I Era una battuta, non si alteri. Mi parli dei suoi gusti e la chiudiamo. Udo I miei cosa? I miei gusti…? I Sì, cosa le piace? Udo Io… sono confuso. Mi dispiace, non so rispondere. I Beh, forse perché ha tutto. Il volto dell’Uomo delle offerte si rabbuia. Udo Oh, questo non è vero. Laggiù, da qualche parte, ci sarà sempre un’offerta migliore che io mi sono perso. Saluta con un cenno della mano e corre via. Beatrice Ratini

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L igabue al Parlamento Europeo I l m e s s a g g i o è a r r i v a t o f o r t e e c h i a r o : N I E N T E PA U R A !

Quando ho saputo che Ligabue sarebbe arrivato a Bruxelles per un incontro con la comunità italiana che lavora tra Parlamento e Commissione non mi è sembrato vero: dovevo aver capito male! Non appena però mi sono seduta nella sala 3C50 del Parlamento Europeo ho capito che non era uno scherzo: avrei davvero assistito alla proiezione del documentario Niente Paura e al successivo dibattito. Al momento non riesco ancora a trovare le parole (...eppure ce le avevo qua un attimo fa!) per descrivere le innumerevoli emozioni provate durante l’incontro che mi hanno portata ad alzarmi in piedi, insieme al resto della sala, quando, alla fine della proiezione non abbiamo potuto fare a meno di manifestare il nostro totale apprezzamento del film documentario. Prima della visione della pellicola Davide Sassoli ha introdotto l’europarlamentare Rita Borsellino (poterla vedere da vicino è stata un’emozione fortissima, lo devo ammettere, per tutto quello che

significa e che suo fratello ha significato e significherà!), il regista di Niente Paura, Piergiorgio Gay, il produttore del film (completamente prodotto indipendentemente: forse è davvero troppo scomodo per essere prodotto da qualsiasi delle grandi case di produzione italiane del momento) Lionello Cerri e, ovviamente, lui... il Liga. Dalle mie parti il film al cinema non era arrivato l’anno scorso, quindi per me è stata una vera e propria prima, pur sapendo che ha vinto diversi premi cinematografici in giro per l’Europa e ha riscosso moltissimo successo allo scorso Festival del cinema di Venezia. L’idea di unire la lettura e l’analisi dei primi 12 articoli della Costituzione a una serie di canzoni di Ligabue e a una lunga serie di riflessioni fatte non solo da personaggi come Carlo Verdone, Paolo Rossi, Margherita Hack, Fabio Volo, Don Ciotti o il capitan Zanetti (solo per citarne alcuni), ma anche da persone normalissime che hanno condiviso con la telecamera le proprie esperienze, i propri pensieri e le

proprie speranze e dubbi sul domani. La scelta di fatti storici chiave per il nostro Paese (e/o per l’Europa in generale), l’inserzione di interviste a personaggi storici che hanno fatto la nostra storia o l’inserzione di servizi giornalistici su fatti di cronaca che hanno cambiato la nostra vita sono stati le carte vincenti che hanno reso questo film/documentario qualcosa di incredibilmente emozionante, toccante e coinvolgente. Dovessi mettermi a fare un riassunto del film o a cercare di parlarvi dei cosiddetti punti salienti non potrei davvero riuscirci, non perché non mi ricordi alla perfezione tutto il film, ma solo e soltanto perché merita di essere visto tutto, dall’inizio alla fine, così come si guarda un approfondimento culturale su qualche argomento che ci appassiona particolarmente. Siamo in pieno anno di festeggiamenti per i 150 anni dell’Unità d’Italia, no? Benissimo. Allora per quale motivo non viene incentivata la visione di documentari come questi? Perché non viene incentivato l’approfon dimento di fatti storici importanti non solo come quelli del Risorgimento, ma come quelli della strage di Capaci del 1992, o del bastimento zeppo di clandestini di Vlara del 1991, o dei fatti che hanno visto come protagonista Guido Rossa nel 1979, o alcuni discorsi che Pertini fece ai giovani nel 1980? Perché non viene passato in televisione un film così? Perché non viene sottolineata l’importanza di fatti

relativamente recenti che potrebbero influenzare, in un modo o nell’altro, le decisioni presenti e che potrebbero portare a un eventuale miglioramento della situazione attuale? Perché non viene fatto vedere nelle scuole un film del genere? Bene, questo film documentario ha tutti gli ingredienti necessari per far sì che, alla fine della visione, oltre ad alzarsi in piedi applaudendo finalmente liberamente (durante la proiezione alcuni applausi non si erano potuti trattenere, ovviamente), si arriverà “a voler quasi più bene a questo nostro Paese dissestato”, come ha ammesso Sassoli, riassumendo in poche parole lo stato d’animo generale che serpeggiava in sala. Poter assistere alla visione di un film del genere in una sala del Parlamento europeo, insieme a tantissimi altri giovani che sono dovuti partire dall’Italia per trovare un posto nel mondo, ma che guardano al proprio Paese sempre con nostalgia e tanta amarezza è stato qualcosa di indescrivibile. Alla fine della proiezione, ascol-

tando le parole commosse della Borsellino, sentendo i pareri di Ligabue, del regista e del produttore sulla situazione attuale del Paese e ascoltando le idee di Sassoli che guidava il dibattito, mi sono convinta che, finché ci sarà qualcuno ad amare il nostro Paese, ci sarà sempre una speranza di cambiamento, di innovazione, di miglioramento... non ci resta che non lasciarci abbattere dalla mediocrità di quello che ci circonda e dalle bassezze di cui siamo stanchi testimoni quotidianamente. Sapete che c’è? C’è che siamo noi a dover dare speranza a questo Paese e allora ben vengano i sogni di fuga all’estero per far valere i nostri diritti; ben vengano i periodi di lavoro in terre straniere per migliorare le nostre capacità; ben vengano i viaggi e i confronti che possiamo fare con altre realtà, ma niente paura: l’Italia saprà reagire perché quelli a reagire saremo proprio noi che, dall’estero e all’estero sapremo portare alta la bandiera tricolore e tutto quello che può significare. Chiara Colasanti

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Terni - Via Botticelli, 17 - Tel 0744.421523 - 401882 6


Ambiguità del nuovo I l nu o v o c h e a v a n z a Il nuovo, dunque: proviamo a riavvolgere i fili di una riflessione sul concetto di “nuovo”, per esplorarne le suggestioni e i limiti, le ambiguità, le aporie. Per cominciare, pare che l’attività preferita del nuovo sia quella di avanzare. E non tanto nel senso residuale proprio di uno scarto, quanto nella direzione di un incedere progressivo e inarrestabile, lento ma inesorabile. Detto così, il nuovo che avanza suona però sempre un po’ derisorio. Come nell’omonimo racconto di Michele Serra, dove si immagina un futuro sgangherato (ma non così remoto) in cui il governo ha varato una legge sullo sponsor individuale obbligatorio, da inserire fino nel nome della gente. L’io narrante è un tale Giuseppe Biancosarti Genghini, che ha ceduto alla nuova norma solo in cambio della scelta di uno sponsor a lui familiare: uno sponsor che evoca il nome rassicurante di una vecchia etichetta, ingiallita dietro il bancone del bar. Ed è finito così per entrare in un doppio dissidio, non solo verso il governo che spaccia per modernizzazione un simile mercimonio, ma anche verso il suo stesso partito di (fiacca) opposizione, che pretende di convincere i militanti a scegliere sponsor di pubblica utilità, sull’esempio del virtuoso segretario generale Ignazio Gasdotto Municipale Maselli. Se non che l’effetto sortito è naturalmente quello opposto, e in un clima di tenace e malinconica disobbedienza, il protagonista riferisce tutto un proliferare di compagni Lambretta, Vov, Ciocorì, perfino Due Cavalli e Sidol: come se per ogni preteso avanzamento del nuovo andasse messo in conto un movimento di retrocessione, in direzione ostinata e contraria, che alla fine lascia tutto inalterato. “Tornai a casa anch’io, scrutando la notte piena di neon per vedere se il nuovo, nel frattempo, fosse ulteriormente avanzato. Ma tutto, fortunatamente, mi sembrò al punto di prima.” Sembra quasi un passaggio del Gattopardo. Certo, lo scenario è cambiato: non più la Sicilia del tramonto dei Borboni e dell’imminente (pseudo)unificazione nazionale, bensì la nebbiosa megalopoli dei padani del futuro (o del presente?), una città promiscua e ininterrotta, senza più periferia, dove niente inizia e niente finisce. Ma resiste per contro lo stato d’animo, resiste cioè il sentimento di una profonda impermeabilità al nuovo, tutta italiana; di un immobilismo dove l’incombere del nuovo finisce paradossalmente per rafforzare le consuetudini che la sua retorica vorrebbe pensionare. Come a dire che il nuovo, più si pretende epocale e solenne e più si scopre inefficace, posticcio, ridicolo.

Novità passeggere Non smette di sorprendermi l’ambivalenza di sentimenti che il concetto, la categoria del nuovo è capace di suscitare. L’operetta morale leopardiana Dialogo di un venditore di almanacchi e di un passeggere traduce e mette in scena questa ambivalenza in movenze dialogiche che possiedono la grazia e la profondità dei capolavori. In fondo, a ben guardare, cosa nasconde l’ironia del passeggere? Cosa lascia intendere nell’atto di acquistare l’ennesimo almanacco nuovo? Io ci leggo il tentativo di saldare insieme, in un unico gesto, sia una certa insopprimibile aspettativa per il nuovo, sia la rinuncia a ogni aspettativa. Sotto le mentite spoglie di un uomo della strada, di un illustrissimo signor nessuno, il passeggere esprime così, nel dignitoso anonimato che gli è proprio, un’esigenza che dovremmo fare nostra: quella di aspettare, sì, ma senza aspettarci nulla. L’esigenza cioè di non poter rinunciare del tutto a un’apertura al nuovo, di non poter completamente reprimere nei suoi confronti una qualche forma di vitale curiosità, senza però riuscire neanche a tacere l’istintiva diffidenza, senza tradire nello stesso tempo un malcelato scetticismo. Passeggere: […] Quella vita ch’è una cosa bella, non è la vita che si conosce, ma quella che non si conosce; non la vita passata, ma la futura. Coll’anno nuovo, il caso incomincerà a trattar bene voi e me e tutti gli altri, e si principierà la vita felice. Non è vero? Venditore di almanacchi: Speriamo. Passeggere: Dunque mostratemi l’Almanacco più bello che avete. Il rischio qual è? Che questa ambivalenza degeneri in dissociazione, e anziché venire arbitrata dall’intelligenza, sublimata dall’ironia, questa oscillazione di rassegnazione e speranza ci ritroviamo poi a doverla subire e finiamo per esserne agiti. Nell’aforisma 150 dei Minima Moralia dal titolo (Edizione straordinaria) curiosamente consonante con l’ambientazione quasi da edicola del dialoghetto leopardiano, anche T. W. Adorno si confronta con il concetto di nuovo. E ci mette in guardia proprio da una simile deriva nevrotica: “Il nuovo, cercato per se stesso, prodotto -per così dire- in laboratorio, irrigidito a schema concettuale, si trasforma -nella sua brusca apparizione- nel ritorno ossessivo dell’antico, analogamente a quel che accade nelle nevrosi traumatiche.” A oltre un secolo di distanza dalle meditazioni leopardiane, altri sono evidentemente i bersagli polemici di Adorno: il mondo che si fa sempre più astratto, il declino dell’esperienza, la decomposizione del soggetto. Come altri sono i suoi poeti ispiratori (nella fattispecie, Baudelaire e Poe). Ma analoga sembra la consapevolezza che soltanto nel segno di un’apertura al nuovo sia possibile ribellarsi contro il fatto che non c’è più nulla di nuovo.

P r ur iti di novità E noi? Il nostro presente di cittadini e di educatori come dialoga con l’istanza (l’incombenza!) della novità? Il nostro impegno nella comunicazione come ne accoglie ed elabora le sollecitazioni? In tutta franchezza, ho la sensazione che raramente siamo capaci di valorizzare la complessità di una simile sfida; e la relazione con il nuovo esce anzi il più delle volte strozzata in una scorciatoia, banalizzata in uno slogan, isterilita in una formula con velleità di ricetta. È così che quell’urgenza di novità che informa di sé l’orizzonte della comunicazione si traduce troppo spesso nella mera curiosità per l’ultimo modello di computer portatile o di telefonino cellulare in commercio; ed è così che quell’esigenza di discontinuità che anima da sempre la cultura della democrazia, della novità conserva solo il prurito, abdicando a ogni valenza progettuale. Per non parlare della scuola, dove le pretese sedicenti innovazioni sono già vecchie prima ancora di venire (eventualmente) attuate, e dove rimane ormai ben poco spazio per i dubbi, poco margine per gli interrogativi, scarso interesse di restituire alla novità la sua più feconda e originaria dignità di problema. Sempre in quell’aforisma dei Minima Moralia citato sopra, Adorno parlava del nuovo come di “un punto cieco della coscienza, atteso, per così dire, a occhi chiusi”: non sarebbe forse il momento buono per aprirli, questi occhi, tra una novità e l’altra? Non potrebbe valere la pena di raccogliere la sfida del nuovo per rimettersi (nuovamente) in Giampaolo Gravina questione? unoebino@tiscali.it

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L’associazione UmbriaLab ha ideato un evento per promuovere la regione, valorizzare le attività presenti sul territorio e dare visibilità a imprese, associazioni culturali e sportive, attività enogastronomiche e di intrattenimento. Umbriabeecoming, questo è il nome del festival che si tiene dal 12 al 15 maggio, mira a far conoscere il nostro territorio, a rilanciare il turismo nella nostra regione sfruttando le potenzialità dei social network e cercando di creare una connessione tra turista, servizi e operatori. Presento l’elenco delle attività che si susseguono nei giorni del festival nelle varie città della provincia. Terni - Al C.A.O.S. verranno presentati i progetti connessi al territorio; si svolgeranno i laboratori dedicati alle scuole, le visite ai Musei Archeologico, Moderno e Contemporaneo e ci sarà uno spettacolo di danza contemporanea a cura di Indisciplinarte. - Nella B.C.T. si svolgerà il laboratorio di Live Paint aperto al pubblico. - Al Placebo e all’Origini ci saranno una mostra fotografica, un aperitivo con prodotti biologici e un concerto di chitarra, pianoforte e voce. - Al maneggio di Strettura sarà possibile fare un’entusiasmante passeggiata a cavallo per la valle. Amelia - Si visita il museo e le cisterne romane, la cattedrale e la torre medioevale. Carsulae - Si visita il sito archeologico. Guardea - Si visita l’oasi del WWF, l’Eremo di S. Illuminata e la grotta di San Francesco. Narni - Si visita l’Abbazia di San Cassiano, la Narni sotterranea e il Museo Eroli. Orvieto - Si visita il Duomo e la città sotterranea. San Gemini - Si visita la “città slow”, il borgo medioevale e le cantine enologiche. Cascata delle Marmore - Si potrà fare un’escursione con presentazione del Nordic Walking. Ferentillo - Si visita il museo delle mummie. Montecastello di Vibio - Visita guidata al teatro più piccolo del mondo. Norcia - Escursione a Castelluccio di Norcia. Scheggino - Discesa in canoa sul fiume Nera. Il presidente di Umbrialab, Marco Angeletti, sottolinea che questi assaggini di cultura territoriale saranno completamente gratuiti e mette a disposizione la sua segreteria organizzativa che potrà essere contattata tramite mail per qualsiasi tipo di informazione: festival@umbriabeecaming.it, segreteria@umbrialab.it. Possiamo anche visitare il sito www.umbriabeecoming.it per conoscre il programma completo. Claudia Mansueti - info@claudiamansueti.it

NUCLEARE “À L’ITALIENNE” Per anni la maggioranza parlamentare, tra il silenzio e gli assist di brani significativi dell’opposizione, ha attirato senza alcuna paura i fantasmi del nucleare à l’italienne. Poi giunse la catastrofe di Fukushima e, improvvisamente, la svolta precipitosa, un indietro tutta quasi violento, da parte di quelle stesse forze politiche che, con non poca prosopopea, avevano fin lì celebrato le magnifiche sorti e progressive dell’atomo. Comunque la si pensi sul nucleare, sarebbe grande un Paese la cui memoria

storica non vivesse a governi alterni, ma fosse patrimonio culturale collettivo. Rappresenterebbe un fatto etico con ricadute anche sul piano estetico: capita infatti di ritrovarsi in luoghi significativi della nostra memoria nazionale senza capire perché siano destinati al più totale abbandono. Ma, da questa trascuratezza, possiamo avviare una riflessione sulle contraddizioni del presente. Via Panisperna, rione Monti. Arrivi lì e, quasi meccanicamente, ripensi allo sforzo

di quei giovani italiani che, diretti da Enrico Fermi, lavorarono alacremente presso l’Istituto universitario di Fisica conseguendo scoperte eccezionali che inaugurarono l’era atomica. Poi vennero le leggi razziali e il gruppo andò disperso, finendo per lo più in diverse Accademie degli Stati Uniti. Oggi, in Via Panisperna, di quell’esperienza rimane ben poco. Da 70 anni l’Istituto di Fisica è riallocato presso l’Università “La Sapienza”. L’edificio che fu teatro di straordinari studi è stato da

tempo riconvertito a esclusivo uso direzionale, facendo ormai parte del complesso del Ministero dell’Interno. Via Panisperna, oggi, vive quasi in totale anonimato la propria grandezza.

Come: Illuminare male - Sprecare energia - Inquinare il cielo notturno Nella foto si vede un corpo illuminante di tipo a coppa, molto diffuso a Terni nei nuovi (e/o rinnovati) impianti di illuminazione pubblica. Questi apparecchi sono costosi, moderni, belli, ottimi per orientare il cono luminoso verso terra. Purtroppo però, in molte piazze, vie e strade della nostra città, questi apparecchi sono montati male: ossia in obliquo (come nella foto). Il corpo illuminante in oggetto è progettato e costruito per essere installato perfettamente orizzontale. Montarlo in obliquo determina la dispersione della radiazione luminosa verso il cielo (con spreco di energia), l’abbagliamento degli occhi e una visione peggiore. Il rimedio è semplice: basterebbe metterli in orizzontale. Terni, piazza Fermi: corpo illuminante a coppa

franco.capitoli@teletu.it

ilconvivio.terni@libero.it

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La strada è annunciata con la tipica lastra in pietra ormai opaca e consumata dal tempo, dove i caratteri che ne compongono il nome sono pressoché invisibili. Basterebbe davvero poco per battere l’incuria. Forse non sarebbe male se, dopo la retorica governativa, almeno il Comune di Roma affiggesse una targa sull’edificio del civico 193 di Via Panisperna. E’ qui che, negli anni ’30, in una piccola pensione soggiornarono alcuni ragazzi che avrebbero cambiato la storia del mondo. Erano i ragazzi di Via Panisperna, evidentemente dimenticatissimi anzitutto da chi, in altri tempi -i nostri- ha alimentato improbabili velleità da Grandeur. Ma era solo nucleare à l’italienne. Andrea Liberati

Chiusura Domenica Sera


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Alice nel paese delle….emergenze

l lettore avrà senz’altro capito che si tratta di una semplice battuta! Ma una cosa è certa: se Lewis Carrol fosse vissuto nel terzo millennio e in Italia, anziché nella metà Ottocento e in Inghilterra, quasi certamente avrebbe intitolato il suo capolavoro Alice’s adventures in wonderland come il presente articolo. E’ormai assodato (margine errore: zero) che il Bel Paese dove il sì suona, ovvero l’Italia, da più di un quarto di secolo vive di continue emergenze che si succedono una dopo l’altra, formando una lunghissima catena i cui anelli sembrano estendersi all’infinito. Non a caso l’ultima e più drammatica la stiamo attraversando proprio in questi giorni, quando sulla minuscola Lampedusa si sono riversati migliaia di profughi in fuga dalla Tunisia, dall’Egitto, dalla Libia, paesi destabilizzati da violentissimi scontri interni culminati con l’intervento della Nato contro il regime di Muammar Gheddafi. Emergenza umanitaria, questa etichetta è stata affibbiata ad un’ondata di disperati partiti alla ricerca di una vita migliore verso i ricchi paesi occidentali, a bordo di autentiche bagnarole stipate all’inverosimile che ogni tanto naufragano con il loro carico di miseria aggiungendo tragedia a tragedia. Una sorta di tsunami umano che si è improvvisamente abbattuto sulle coste del nostro paese che per la sua conformazione geografica si protende come una gigantesca mano verso le coste africane del Mediterraneo e la prima a farne le spese è stata Lampedusa la quale, già in precedenza abituata a subire temporanee invasioni (non scordiamocelo!), stavolta ha visto raddoppiare la propria popolazione con gravi problemi igienico-sanitari, ambientali e sociali. Di qui la legittima e giustificata protesta degli abitanti preoccupati della insostenibile situazione venutasi a creare. Sono scesi in piazza in mezzo ad una marea di migranti per ricordare alle istituzioni che un paese come il nostro non può campare solo sulle emergenze. Ora, mentre Francia e Germania fanno quadrato, mettendo da parte Schengen, ben sapendo che la stragrande maggioranza dei migranti, solo di transito in Italia, è diretta verso le loro città, mentre i vari partiti politici litigano folkloristicamente a Montecitorio con caustiche botte e risposte sull’accoglienza o meno di questi sventurati ormai nolente o volente presenti nel nostro territorio, mentre nello scacchiere internazionale la Nato che, dopo varie vicissitudini diplomatiche, ha preso la guida delle operazioni militari, non si decide a dare il colpo di grazia al regime di un dispotico e sanguinario satrapo qual è il colonnello Gheddafi, sembra che la situazione possa essere arginata spalmando la marea umana nelle varie regioni e all’interno di esse in più centri di accoglienza, onde evitare squilibri etnico-ambientali e concedendo ai migranti un permesso di soggiorno temporaneo, allo scopo di definirne la posizione giuridica. Quanto al nostro premier non si è fatto vedere più di tanto in questa situazione, contrariamente al suo ormai proverbiale presenzialismo… discorsi, sorrisi stampati, ma nulla di più… forse troppo assorbito da procedimenti penali a suo carico o da beghe private causate da feste affollate da escort, bunga-bunga e quant’altro. Comunque andranno le cose, anche quando tale emergenza non occuperà più la prima pagina, come è già accaduto ad altre della stessa gravità (ci siamo scordati degli 11.000 Albanesi che si riversarono sul porto di Bari?) il problema resta: cosa faranno questi migranti sebbene disseminati sul territorio nazionale e muniti di permesso temporaneo? Dato per scontato l’ormai proverbiale senso dell’ospitalità e di tolleranza ampiamente dimostrato dagli italiani, si potrà costringerli a stare tutti nei centri messi a disposizione dalle regioni? La maggior parte sono uomini con età massima 35 anni, moltissimi mossi dalla legittima aspirazione ad una vita migliore, molti altri dal desiderio di ricongiungersi ad un familiare, ma un numero imprecisato, come era da aspettarselo, è costituito da delinquenti comuni evasi dalle carceri approfittando della confusione innescata dalla rivolta. Dove andrà a finire questa gente? Forse ad ingrossare le fila dei lavoratori in nero alimentando gli illeciti profitti di imprenditori senza scrupoli con il conseguente aumento di morti bianche oppure ad offrire manovalanza a basso costo a cosche mafiose e criminali che in certe zone del paese costituiscono già di per se stesse un’emergenza? Gli interrogativi sono molti, le risposte obiettivamente difficili. A completare un quadro già inquietante si aggiunge il silenzio di Al Quaeda che non ha fatto ancora sentire la sua voce tramite Al Jazeera, prediletta cassa di risonanza.

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A tale proposito mi affido alle parole di Bertoldo piene di saggezza semplice e nostrana: l’acqua cheta e l’uomo che tace non mi piace. Intanto in Libia continua la guerra con il drammatico strascico di morte e devastazione, mentre i profughi cominciano a partire anche da lì. Fino a questo momento si è dato il giusto e doveroso rilievo ad uno dei più gravi drammi del nuovo secolo, ma questo non ci deve far dimenticare altre emergenze di cui soffre il nostro paese e che sono ben lungi dall’essere risolte, soltanto che, per dirla in termini medici, dallo stato epidemico sono passate allo stato endemico. Prima i riflettori dei media si accendono su di un’emergenza, la tengono per settimane sotto la loro luce accecante, poi ne sopraggiunge un’altra e la luce inevitabilmente si attenua e a poco a poco si spegne… ma l’emergenza resta. Ci siamo dimenticati della munnezza che aveva invaso ed appestato Napoli deturpandone lo splendido panorama e compromettendone l’immagine a livello mondiale? Non si sapeva forse che lo smaltimento dei rifiuti è un affare così grosso da attrarre la cupidigia di potenti e sanguinari clan camorristici quale quello tristemente noto dei Casalesi? Ora gran parte della munnezza ha abbandonato le vie del centro, ma ogni tanto ricompare insidiosa come una malattia cronica che non si può o non si vuole debellare. Anche in quella occasione speciali televisivi, trasmissioni in diretta, confronti, scontri tra politici, poi tutto è tornato nell’apparente normalità. Credo che tutti poi abbiamo stampate nella mente le immagini del devastante terremoto che ha colpito L’Aquila e i dintorni, chi può dimenticare le macerie della Casa dello studente ristrutturata in modo approssimativo (per usare un eufemismo) che hanno sepolto tante giovani vite? Che dire poi dell’Ospedale di recente costruzione, costato migliaia di euro, dichiarato inagibile dopo la prima scossa? Abbiamo dimenticato le centinaia di bare, molte delle quali bianche, allineate durante i funerali di stato? All’Aquila si è tenuto il G8, i grandi della terra, compreso il colonnello Muammar Gheddafi in abito rigorosamente etnico, hanno visto, elogiato i soccorritori, poi hanno salutato e sono partiti. Sono stati predisposti alloggi in muratura per i senza tetto in tempo record… ma dopo? E’ calato l’immancabile sipario e la ricostruzione, nonostante promesse ed assicurazioni, parte a rilento, ma non certo gli affari di alcuni imprenditori, qualcuno dei quali alla notizia del disastro già rideva… sì perché la Terremoti s.p.a. è una macchina che non si deve inceppare! Così di emergenza in emergenza scorre la vita del Bel Paese, ma mi chiedo vogliamo riflettere o no sulla parola emergenza? A casa mia emergenza significa un fatto che esce dalla norma, qualcosa che interrompe bruscamente la normale routine e che richiede un intervento tempestivo, ma non così sembra che la pensino i nostri capi che hanno modificato e stravolto questa parola, al punto da trasformarla in qualcosa di normale, di consueto. In poche parole l’eccezione è diventata regola e la regola eccezione! Incredibile l’inventiva della nostra classe dirigente: è stato cambiato anche il dizionario di italiano! Insomma, dico, un paese come questo può campare di continue emergenze? A complicare il quadro ci si mettono anche gli anchormen dei talkshow delle t.v. pubbliche e private che delle emergenze a ripetizione fanno il loro pane quotidiano e da perfetti tuttologi affrontano gli argomenti più vari confrontando le diverse posizioni, facendo critiche e rilievi. Nulla da eccepire, questo è il loro mestiere! Inoltre va tenuto sempre presente l’irrinunciabile diritto alla libera informazione tipico di ogni democrazia che si rispetti, ma spesso il risultato è che il povero cittadino-telespettatore esca da simili shows con una tale confusione nella testa da non sapere a quale santo rivolgersi. Se all’inizio ha una qualche minima certezza, essa successivamente si sbriciola come i muri della sventurata L’Aquila! Allora a questo punto una bella domanda: cosa accade al cittadino nel paese delle emergenze? La risposta è semplice: è nel completo disorientamento né più né meno come quando Alice si trovò dentro Wonderland con la bella differenza che gli occhioni della fanciulla si sgranavano su un mondo magico, misterioso e affascinante, quelli del cittadino invece su una realtà confusa, contraddittoria e in continua evoluzione, ‘nu gliommere, direbbero a Napoli, una matassa inestricabile Pierluigi Seri di cui non si trova il bandolo.


Un viaggio tra le nuvole Il Messico ti accoglie, dopo un viaggio lunghissimo durato una notte che sembra eterna, con la sua capitale sterminata, abitata da 22 milioni di persone a 2100 metri di altitudine. Ma si dimentica quasi subito di essere in una megalopoli, si è avvolti da una brezza fresca, da una lingua dolce e familiare, da un ritmo di vita che ti sorprende. La storia di questo paese, intreccio di culture indigene, di conquiste spagnole e di una realtà industrializzata e in forte espansione, ci si presenta subito appena entriamo nello Zocalo, la piazza principale di Città del Messico, dove si affacciano tutti gli edifici che rappresentano la religione e l’amministrazione pubblica. La Cattedrale offre un esempio mirabile di sincretismo artistico con la sua facciata in stile barocco spagnolo reso, se possibile, ancora più ricco da echi precedenti la conquista di Cortès del 1521. La piazza è il luogo della memoria, il centro fortemente sentito della vita religiosa e civile dei cittadini, costruita davanti alla sontuosa reggia del leggendario Montezuma. Non lontano dalla piazza c’e il Museo Antropologico, una architettura insieme futuristica e antica dove tutta la storia del paese è conservata e raccontata da manufatti di straordinaria bellezza; avvenimenti storici vediamo illustrati invece dai murales di Diego Rivera, che ha dipinto la schiavitù imposta degli spagnoli e la guerra di liberazione, la nascita delle fabbriche e dei partiti politici, in una narrazione pittorica fortemente drammatizzata. Ma il Messico più particolare e affascinante l’abbiamo visto lontano dai grandi centri urbani, nelle regioni rurali del Chiapas e dello Yucatan, dove vivono quasi inalterati i costumi e le tradizioni degli antichi. Abbiamo visto villaggi piccoli e colorati, dove esiste una agricoltura di sussistenza e un artigianato povero e semplice. San Juan di Chamula, dove indios riservati difendono strenuamente la loro splendida chiesetta bianca con decorazioni floreali sul portale, impedendo di fotografarne l’interno dove si celebrano riti religiosi che sono un insieme di fanatismo cristiano, sciamanesimo e animismo, in mezzo a fumi di incensi profumati. Si sale poi a San Cristobal de Las Casas, adagiata tra le montagne, dove la gente per salutarti ti dice “como està el tu corazon” e dove puoi passeggiare da solo e sentirti straordinariamente a casa. Abbiamo visto le piccole e coloratissime scuole zapatiste che hanno con difficoltà avviato la scolarizzazione di massa, permettendo la conservazione dei dialetti e dei costumi locali, istanza imprescindibile delle popolazioni indigene. Questo è il Messico del presente, ma che dire del percorrere, quando non ci sono ancora altri turisti, i sentieri dei molti, splendidi siti archeologici maya, della maestosa Palenque, la cui piramide ti appare avvolta in una leggera bruma prodotta dalla selva a cui gli archeologi l’hanno da poco strappata, Uxmal che sembra un merletto dorato in cui si nascondono iguane e uccelli esotici, Chichen Itza che nella rigorosità della sua architettura ha un aspetto quasi militaresco. L’uomo moderno resta incantato e rapito da un mondo sconosciuto e forse crudele, dove il sacrificio umano è una consuetudine, disorientato da un simbolismo atavico che permea tutto l’universo maya e che fa pensare che tutto era già stato detto, scritto e rappresentato sulle pulsioni che regolano le relazioni umane. Resta, come monito inquietante all’uomo moderno, la figura che campeggia al centro del calendario maya, un uomo che regge sulle spalle ‘il tempo’ … un concetto che noi, uomini dell’era tecnologica, possiamo capire solo se possiamo misurarlo! Lidia Petrignani

foto LP

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Ri f l et t o r i

s u

Ca

Fare del colloquio con i classici del pensiero l’occasione di una scrittura in cui comprensione specula solo come esercizio esemplare di razionalità argomentativa ma anche come stimolo efficace di edu curare, almeno in passato)... Proporlo come filtro per una considerazione criticamente vigile dell’attua teatrale, della lettera, dell’intervista impossibile, del dialogo... Ecco il lavoro di alcune intense settimane di scuola dedicate a Cartesio e a Pascal in una seconda cla Dei due elaborati che presentiamo, l’uno, di Francesca Sordini, è un racconto capace di restituire, c la mistica penombra del cuore pascaliano; l’altro, di Maria Caterina Temperini, è una sceneggiatura Con un registro amabilmente ironico, l’autrice illumina, attraverso il serrato confronto tra Renée e B dall’abbandono del cuore, quella stessa condizione umana che il grande commediografo metterà a te

L A D I S P U TA Monsieur Pascal avanzava arrancando a fatica tra il fango del largo viale d’accesso della tenuta Bellevue. Era piovuto a lungo, ma era bastato un raggio di sole, forse preludio della primavera, a spingere il conte di Bellevue ad organizzare una delle sue solite cene. Non ci sarebbe stato nulla di male, se non fosse stato per madame Bellevue, la leziosissima, insopportabile padrona di casa, e uno degli invitati alla cena: René Descartes. Monsieur Descartes, intanto, cercava di non essere sballottato troppo qua e là dagli scossoni della carrozza. Allo stesso tempo, rifletteva sull’imminente incontro con Blaise Pascal. Sapeva che il giovinastro, come lo chiamava lui, lo avrebbe messo alle strette. Ma non si preoccupava più di tanto: avrebbe saputo tenere a bada le obiezioni del suo avversario. La cena, abbondante, sontuosa e interminabile, fu consumata. Poi, nel salotto, la conversazione tra i convitati scivolò chissà come dall’equitazione a Galileo Galilei. Monsieur Descartes decise d’intervenire: “Certo Galilei è stato un grande scienziato, ma non gli perdonerò mai di essere stato troppo timido nel formulare il metodo. Darei dieci luigi d’oro per un suo scritto che reciti, passo dopo passo, un metodo come Dio comanda”. Monsieur Pascal intervenne, indispettito: “Non nominate il nome di Dio invano, monsieur Descartes. Dio non si disinteressa del mondo, come credete voi. Ma lasciamo stare… Forse che voi, monsieur, avete formulato un metodo degno di questo nome?”. “Assolutamente sì!” - rispose Descartes. “E’ un metodo che mira a conoscere la realtà”. Pascal: “E’ un metodo che non porta a nulla di certo! E’ solo dubbio, dubbio e ancora dubbio”. Descartes: “Vi sbagliate, monsieur. A qualcosa di certo si giunge: l’esistenza di se stessi come esseri pensanti ed estesi, e tutta la realtà, di cui Dio si fa garante”. Pascal rispose: “Dio non può essere solo garante del mondo, monsieur Descartes. Non funziona come dite voi. Dio non ha dato un colpetto al mondo per poi non sapere più che farne. Dio è amore. E’il Dio di Abramo, di Isacco, di Giacobbe, non il Dio geometra degli scienziati e dei filosofi come voi”. Monsieur Descartes tacque. Abbandonato mollemente su una poltrona, rifletteva su cosa replicare. Alla fine, disse: “Almeno io dimostro l’esistenza di Dio”. Pascal, infervorato, rispose: “Insensatezze! L’esistenza di Dio è problema troppo oscuro per poter essere dimostrato”. Descartes sogghignando disse: “Qui entrerebbe in gioco il vostro spirito di finezza, non è così?”. Pascal sorridendo rispose: “Certamente. Ci sono ambiti, monsieur, talmente oscuri, sfumati, aggrovigliati, che l’uomo non può comprenderli con la ragione, ma ha bisogno del cuore. E’con il cuore che si filosofa, monsieur, non con la ragione soltanto. Il razionalismo non può spiegare tutto”. Descartes: “Avete ragione, monsieur. Il razionalismo non spiega tutte le cose in maniera esaustiva, ma alcune le spiega completamente”. Pascal: “Non del tutto. L’uomo è troppo fragile per essere onnisciente”. Descartes replicò: “Per lei l’uomo è un misero verme che striscia senza dignità”. Pascal sorridendo: “Qui siete voi che sbagliate, monsieur. Se l’uomo si esalta, io lo deprimo, se si abbassa, io lo esalto e sempre lo contraddico, finché non comprenda che è un mostro incomprensibile. L’uomo non è mai onnisciente, come mai totalmente insipiente. E’ in condizione di medietà, anche ontologica ed etica. Egli è sempre a metà strada tra il Tutto e il Nulla, il Voler Essere e quello che effettivamente è. Difatti, invece di accettare la sua condizione con lucidità, preferisce darsi al divertissement, a tutto ciò che distoglie il pensiero dalla morte. Per voi, invece, l’uomo è invincibile. Ha totale arbitrio sulla realtà che lo circonda. Realtà di cui non sapete dimostrare l’esistenza se non per mezzo di Dio. Siete inutile e incerto, Descartes”. L’avversario tacque. Ma, dopo un po’, disse: “L’uomo non è invincibile, monsieur Pascal, altrimenti sarebbe infallibile. L’errore, invece, esiste, ed è dato dalla volontà. Se l’uomo applicasse il metodo alla lettera, se non fosse precipitoso, se il libero arbitrio, la sua volontà non gli mettessero fretta, allora l’applicazione del metodo sarebbe efficace, e l’errore non sussisterebbe”. Pascal non rispose. Si fece portare da bere, aveva la gola secca. Il salotto, gli altri invitati, tutto taceva... Poi, disse: “La vostra filosofia è metafisica, monsieur, e basta. Non c’è altro”. Descartes replicò: “E la vostra, monsieur, è metafilosofia”. Pascal s’irrigidì. Poi, sorrise: “Stavolta avete ragione, monsieur. Fare veramente filosofia vuol dire burlarsi di essa. La filosofia deve riconoscere i suoi limiti. Essa è grande perché tratta problemi che il senso comune elimina e che la scienza non può risolvere col suo metodo. Tuttavia, al contempo, la filosofia non sa, non può risolvere tali problemi. Si arrovella, li insegue, ma non sa darvi risposta. Ci vuole la fede. E’ qualcosa che potreste forse avere anche voi, monsieur, se faceste tutto quello che è prescritto dal rito”. Tacque infine, e così anche Descartes. La conversazione era definitivamente conclusa.

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Francesca Sordini - II IF


a r te si o

e

P a s ca l

ativa e rigore storiografico si uniscano al libero gioco della fantasia... Assumere questo colloquio non ucazione sentimentale (quell’educazione che la letteratura, anche filosofica, ha sempre contribuito a alità... E tutto questo nella forma scolasticamente non convenzionale del racconto, della sceneggiatura

asse del nostro Liceo. on sensibilità interpretativa, l’insuperabile dissidio tra la lucida chiarezza della ragione cartesiana e teatrale, che mette Molière a far da osservatore, tra le quinte, di un incontro tra i due filosofi. Blaise, una condizione umana contraddittoriamente segnata tanto dall’arroganza della ragione quanto ema nel suo teatro degli anni successivi. Prof. Marisa D’Ulizia

RÉC IT D ’ UN RE NCO NT R E

La Provincia di Terni per la cultura

Dagli appunti di regia

Sulla scena vi sono cinque poltrone di velluto rosso e una tenda, a simboleggiare un sipario. Siamo in una sala teatrale qualunque della Francia del secolo XVII. È un freddo pomeriggio del febbraio del 1646. Jean-Baptiste Poquelin, in arte Molière, dopo essere stato imprigionato per debiti, è stato rimesso in libertà e ha cominciato a viaggiare per la Francia con la sua nuova compagnia di teatranti. Pur essendosi esibita in ogni sala, rappresentando un po’di tutto, la compagnia non ha riscosso ancora grande successo e gli affari vanno male. È chiaro il bisogno di una svolta. Molière, dunque, sfruttando le sue conoscenze e le sue relazioni, è riuscito a convocare i due uomini più illustri del tempo, con la speranza che, da questo connubio intellettuale, egli possa trarre ispirazione per le sue commedie. Il suo sforzo di riunire Renée Descartes e Blaise Pascal non sarà vano: da questo incontro, infatti, Molière trarrà spunto per la sua ultima commedia: “Il malato immaginario”.

Renée È permesso? C’è nessuno? Jean-Baptiste? Non si fa mai trovare quel ragazzo! Uno di questi giorni gliela farò pagare… non può prendersi gioco del più grande pensatore del secolo corrente! In questo momento potrei essere in Olanda o in Svezia forse, e non di certo qui a perdere il mio tempo!-sfiorando il velluto delle poltrone- Comode queste sedie! Ne approfitto per rivedere un po’ i miei appunti… c’è questo trattato sulle passioni da completare su richiesta della regina… ah! Les femmes! Io mi siedo, tanto Jean-Baptiste non si vede… [Cartesio si siede e comincia a sfogliare delle scartoffie che ha portato con sé] Blaise Bonsoir -sussurra Pascal entrando in scena- è permesso? R Avanti… vous êtes le bienvenu! Sedete… B Merci monsieur, siete molto gentile! Siete per caso il custode del teatro? R [Balzando in piedi] Come ti permetti? Non mi hai riconosciuto? I giovani di oggi non sanno più cos’è il rispetto! [Sedendosi di nuovo con fare altezzoso] B Pardon monsieur -tossendo- me ne rammarico… ma, ecco… veramente no, non vi riconosco… dovrei? R Hèlas! Il Seicento, il secolo in cui ti ritrovi a vivere, deve tutto a me e tu, ragazzo, osi affermare di non riconoscermi? B Me ne rammarico, monsieur, ma ecco… temo di non avervi mai visto prima… R Mon Dieu! Dove sono capitato! Jean-Baptiste non arriva e sono qui con questo pezzente -sussurrando- Via, sarà meglio che mi rimetta al lavoro… [Cartesio riprende in mano le sue scartoffie e comincia a revisionare il suo lavoro] B [Guardandosi intorno e sbirciando i fogli di Cartesio] Etica eh… azioni, affezioni… si interessa di etica, eh? R Ma quando mai! È un trattato sulle passioni, composto per una gentille femme… ma che ne vuoi sapere tu! B Questo lo dite voi… -sussurrando- non mi avete dato nemmeno il tempo di presentarmi… R Ahah -scoppiando in una risata- questa è bella poi! Non mi hai nemmeno riconosciuto e pretendi che io riconosca te? B Credo di avervi riconosciuto monsieur… siete il grande Cartesio, non è vero? Devo tutto a voi… [Ridacchiando] R Beh, modestamente… [Atteggiandosi] B Se non ci foste stato voi… [Ridacchiando ancora] R Merci, merci! [Atteggiandosi nuovamente] B Chi avrei potuto confutare? [Scoppia in una risata] R Confutare? Non mi dire che sei uno di quelli che ha osato scontrarsi con il mio pensiero! Mon Dieu! B Cercate di evitare di mettere in mezzo il nostro Dio in questioni di poca importanza! R Ecco chi sei! Dovevo aspettarmelo! Quel bigotto di Pascal! Mi è stato chiesto di esaminare alcuni tuoi scritti e devo ammettere che ho sperato di non incontrarti mai… -poi, sottovoce per non farsi sentire- questo ragazzo potrebbe mettermi in seria difficoltà... -di nuovo ad alta voce- come mai qui? B Sono stato convocato da Jean-Baptiste… deve parlarmi… sapete, siamo coetanei! Lo conosco da un sacco di tempo… diventerà un grande artista! R Se solo fosse puntuale… io mi rimetto al lavoro, non ho tempo da perdere… io! [Cartesio si mette a leggere nuovamente il suo trattato] B L’etica vi interessa proprio eh? R Per niente in verità. B Fate male. I filosofi del passato si sono interessati troppo poco ai problemi dell’uomo… non incorrete anche voi in questo errore! R Merci, ma me ne faccio ben poco dei tuoi consigli. I miei interessi sono volti ad altro. Mai sentito parlare delle mie scoperte in campo scientifico, o del mio metodo? B Ovviamente, anch’io mio interesso di matematica… e di fisica, a differenza vostra… R Bah! Sentitelo… il mio metodo, che è comunque valido anche per la fisica, va oltre! È metafisico e applicabile ad ogni campo del sapere. Si compone di quattro regole: l’evidenza, l’analisi, la sintesi e l’enumerazione/revisione… ma che parlo a fare! Tu nemmeno ce l’hai un metodo… B Perché m’interesso di altro… Solo il cuore può dare misura e prezzo alle cose. R Fandonie! Il vero criterio è l’evidenza, la ragione… e il mio metodo è l’unico mezzo utile all’uomo per orientarsi nel mondo, per distinguere il vero dal falso! B E voi siete riuscito a trovare la verità? R Beh… è l’evidenza che mi ci ha condotto! Secondo la prima regola del mio metodo, infatti, bisogna esercitare il dubbio su tutto il sapere e, se si trova un principio sul quale il dubbio non è esercitatile, beh, allora caro Blaise, ecco che quello è il vero, il fondamento! B E voi lo avete trovato, il fondamento? R Dopo lunghe riflessioni, ho avuto l’illuminazione! L’unica cosa sulla quale il dubbio non è esercitabile sono io… B Modesto… [Sussurrando] R Io, come essere pensante! B Ah, ecco… R Infatti non posso dubitare del fatto che io sto pensando in questo momento, non trovi? Dunque esisto! Devo esistere per forza… Cogito ergo sum! B Non so Renée, non vorrei deludervi ma… non siete molto convincente… dopo tutto state cercando di dimostrare il criterio dell’evidenza mediante il cogito e il cogito mediante l’evidenza… è un circolo vizioso! R Oh, insomma Blaise! Sei buono solo a confutare! Mai che tu produca qualche pensiero tuo… B Povero illuso… vedrà tra un po’ di anni -sussurrando- Non è che io non mi interessi alla ragione, o all’ambito scientifico… certamente saprete delle mie innumerevoli scoperte e dei miei trattati, è solo che, vedete Renée, l’uomo, non si deve limitare a seguire la ragione: Il cuore ha le sue ragioni che la ragione non conosce. C’è qualcosa che va oltre i confini della ragione, qualcosa che riesce a rispondere a quei quesiti che l’uomo si pone da sempre, qualcosa che supera sia la scienza che la filosofia. R Perdona la poca finezza nelle mie parole, ma sembra che tu stia sputando nel piatto in cui mangi ogni giorno! Pardon… ma rende bene l’idea! Dopo tutto sei giudicato da molti un bravo scienziato e un buon filosofo… B Beh, lo riconosco e infatti non disprezzo né le scienze, né la filosofia. Dico solo che queste sono limitate rispetto al vero criterio di conoscenza che è la sensibilità, il cuore, l’esprit de finesse. Con questo non voglio dire che la filosofia sia inutile, non lo è affatto in verità, in quanto, ponendo problemi che non sa risolvere, funge da stimolo per giungere alla verità attraverso la Fede. R Ah, la Fede… io non credo. B Si era capito… le vostre dimostrazioni razionali dell’esistenza di Dio sono scarsamente convincenti, e poi incorrono in una marea di circoli viziosi! R Mi correggo… non è che io non creda all’esistenza di una mente superiore che muova il mondo, però non ho in me quel sentimento religioso tipico di un fedele… B Non è necessario che voi crediate per comportarvi come un fedele… perché non provate ad andare in Chiesa o a pregare ogni tanto? Vous abêtira! R Mah non so… chissà… non sono più certo di niente! Mi hai provocato più dubbi di quelli che avevo quando sono arrivato! Se non ti dispiace mi rimetterei all’opera, devo ultimare questo trattato… B Fate pure, mi metterò a scrivere qualcosa anch’io… [I due si mettono a scrivere, dopo un po’ Cartesio sbircia gli scritti di Pascal] R Cosa stai scrivendo? B Oh, niente di importante… ho impresso su carta un mio pensiero… R Dammi qua, fammi leggere: L’uomo è costruito in modo così infelice, da non possedere alcun principio giusto del Vero e molti eccellenti principi del Falso. L’uomo non è che un soggetto pieno di Errore Naturale. Molière [Da dietro il sipario, dopo aver ascoltato tutto il dibattito dei due filosofi] Ecco! Questo è proprio quello che cercavo! -poi, entrando- Bonsoir monsieurs! È da tanto che aspettate? Maria Caterina Temperini - II IF

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L’ a n i m a d e l l a M e c i a Sulla strada che da Castiglioni porta a Cimadimonte, dopo la curva a gomito dei Cesani, a sinistra, passate le case, c’è una controcurva a destra che porta in una zona a pacinu [esposta a nord]. A destra e a sinistra della strada, che una volta era bianca e si chiamava la strada romana, c’è un bosco basso ma fitto di licini e cirèce marine [lecci e corbezzoli]. A metà di questa zona che si chiama Lu lume ‘e la notte [Secondo alcuni il nome si riferisce al fatto che dopo l’omicidio della donna molti dicevano di aver visto un lume che vagava in quel luogo triste. Secondo altri tale nome deriverebbe dal fatto che i contadini della zona distruggevano di notte il bosco per piantarvi olivi. La legge in vigore puniva quelli sorpresi a fare lo scasso. Per questo motivo tale lavoro illegale veniva effettuato di notte con l’ausilio di un lume a olio se non c’era la luna piena] c’è un ponticello sotto al quale passa un fosso che

porta acqua solo quando piove. Sotto a questo ponticello, detto in loco chiavicotto, fu uccisa intorno al 1870 con molte pugnalate una donna, detta la Mecia. Aspromonte lavorava alla Fabbrica d’Armi dell’Esercito. Una sera d’inverno, nel periodo della seconda guerra mondiale, smontato dal secondo turno, giunse con il tram alla Villetta di Montefranco che era notte fonda da un bel pezzo. Scese dalla vettura rabbrividendo dal freddo. Prese la bici, una pesantissima Bianchi, e insieme agli altri operai si incamminò verso casa. Un nevischio gelido turbinava nel cielo sotto la sferza della tramontana. Stanotte ne fa un metru - diceva qualcuno, oscillando pericolosamente sui pedali per tenersi in equilibrio. Al massimo ne fa ‘na sporverata -diceva un altro- Nun vidi che è tramontana e ‘gni tantu se vede la luna?A tramontana ne fa sempre poca… se ‘nvece tira sciroccu allora scì che ne fa menzu metru… Così chiacchierando e sbuffando alla fine Aspromonte rimase solo, dopo aver salutato l’ultimo operaio che abitava a Castiglioni. Da quel punto la salita diventava più impegnativa, perché più ripida e perché, salendo, lo spessore della neve aumentava. La pedalata era buona, sostenuta da due polpacci che sembravano quelli di Bartali e di Girardengo messi insieme. Arrivò così nella zona detta Lu lume ‘e la notte e un brivido freddo gli corse lungo la schiena -insieme al sudore che colava copioso- al ricordo della donna assassinata. Accadeva sempre così a chiunque passasse in quel luogo, specie di notte. Alzando gli occhi dalla ruota anteriore, che crepitava schiacciando il nevischio gelato misto a sabbia, e guardando davanti a sé, per poco non gli prese un colpo. Sopra il muretto del ponte della Mecia c’era una figura bianca, sullo sfondo nero degli alberi del bosco, con due occhi lampeggianti che lo fissavano. Un tremore irrefrenabile lo costrinse a scendere. Pensò di aver visto male. Con tutto quel biancore della strada innevata, il nevischio che continuava a scendere a folate e la luna piena che ogni tanto faceva capolino tra le nubi, non era difficile prendere lucciole per lanterne. Riguardò di nuovo ma la figura bianca con gli occhi accesi era ancora lì. Era senz’altro l’anima della povera donna che non trovava pace e quindi tutte le storie sul lume nella notte dovevano essere vere. Non potevano essersi inventato tutto: qualcosa di vero doveva pur esserci. Cosa fare allora? Tornare indietro fino ai Castiglioni e poi passare per i Calandrelli? Poi la salita ripidissima in mezzo a un oliveto con la bici in spalla e con tutta quella neve? Impossibile! Non c’era alternativa: bisognava passare per forza o per buona voglia da lì. Rimontò in sella carico di adrenalina, biascicò una preghiera per l’anima della defunta e pigiò forte sui pedali. La gomma posteriore slittò, poi fece presa sul breccino misto a neve e con quattro pedalate forsennate l’uomo sfrecciò a lato del ponticello buttando uno sguardo di sghimbescio verso l’orrida figura bianca. In quell’attimo terribile, mentre il cuore stava per scoppiare, il cane si mosse. Era Argo, un bastardo bianco dal pelo lungo, che era venuto incontro al suo padrone nel posto sbagliato e nel momento meno adatto. Mai si era spinto così lontano da casa: al massimo si limitava a farsi incontro al suo padrone solo nei pressi dell’aia, abbandonando per pochi minuti la calda cuccia alla base del grande pagliaio. Dopo le feste e gli abbracci, sfinito dallo sforzo e dalla fifa, Aspromonte si incamminò a piedi mentre Argo gli trotterellava davanti scrollandosi ogni tanto il nevischio da addosso. Vittorio Grechi

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F o n d a z i o n e Cassa di Ri sparmi o di T ern i e N a r n i Suol di Tebe, a te giungo. Io son Dioniso, generato da Giove e da Semèle figlia di Cadmo, a cui disciolse il grembo del folgore la fiamma. Euripide, Le baccanti

Dioniso a Carsulae Su istigazione della gelosa Hera, Semèle, figlia di Cadmo, ottenne che Giove si mostrasse a lei in tutta la sua magnificenza. Il re degli dèi si avvicinò allora, con tanto di folgore, alla sua amata, ma incendiò ogni cosa. In punto di morte, Semèle dette alla luce immaturamente un figlio, Dioniso, che Zeus, trattolo dal grembo della sventurata e cucitolo in una sua coscia, portò a perfetto concepimento. Divenuto adolescente, Dioniso apprese le proprietà della vite e inventò l’arte di fabbricare il vino: da allora vagabondò di terra in terra insegnando agli uomini la viticultura. Dove si recava introduceva il suo culto. Con la sua schiera obbediente di menadi o di baccanti, di satiri e di sileni, brandeggianti il tirso, lungo bastone con una pigna in cima circondato di pampini e di edera, girò nella Grecia e nei paesi barbari, fino nella lontana India. Con il dono del vino allietava il cuore dell’uomo, scacciava cure e dolori e contribuiva alla sanità e al benessere del corpo. La rappresentazione del dio muta nei tempi. Il Dioniso antico (proveniente dall’India), ha aspetto maestoso, barba e capelli lunghi, lineamenti gentili ed è avvolto in veste asiatica, quasi di donna (Dioniso detto Sardanapalo). Il Dioniso posteriore ha una musculatura molle, cadente, forme quasi femminee e fisionomia pensierosa. Una mitra e una corona di pampini e di edera circondano la delicata capigliatura a lunghi ricci ed è comodamente appoggiato a qualche sostegno (statue del Louvre e del Prado). Infine, come dio della ebbrezza, viene rappresentato sotto l’aspetto di un vecchio grasso e ridanciano, spesso adorno di tralci d’edera e di vite e recante in mano grappoli d’uva.

L a splendida statua, ritrovata durante gli scavi di Carsulae ed ora esposta presso il Centro Visita e Documentazione Umberto Ciotti, raffigura Dioniso in aspetto giovanile. E’ simile alla statua del Museo del Louvre (collezione Richelieu) datata II secolo dC. La testa della statua è in gran parte perduta, ma rimangono tracce di una acconciatura con pampini e grappoli d’uva. A fianco del dio è accovacciata una piccola pantera (tra gli animali gli erano sacri il delfino, la pantera, la lince, la tigre, il leone, il capro). Una pianta di vite, carica di grappoli, si avvolge attorno al fusto dell’albero (tra le piante gli erano GR sacre la vite e l’edera).

D ion i so Sa rd a na p a lo Mu se o Va t i c a n o

D io n is o Mu s eo d el P r a d o

D ionis o Mus e o de l Louv re

L’intervento di restauro, condotto dal dott. Adamo Scaleggi sotto l’alta sorveglianza della Soprintendenza per i Beni Archeologici dell’Umbria, è stato finanziato dal Comune di Terni e dalla Fondazione Cassa di Risparmio di Terni e Narni; la stessa Fondazione ha reso possibile la collocazione della statua e l’allestimento nell’ambito del Centro Visita e Documentazione Umberto Ciotti di Carsulae.

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Terni e la Movida: il dirompente successo della noia Da qualche tempo, passeggiando di sera, nei fine settimana per il centro della città di Terni, si assiste a un fenomeno che forse meriterebbe un minimo di riflessione. Tutto incomincia verso le ore 22.00, quando nella zona tra piazza San Francesco, via Fratini e via 1° Maggio, molti giovani si riuniscono davanti ai bar e ai pub. In mano una birra, un super alcolico, uno shortino, come va di moda chiamarlo ora, persone che sorridono, parlano, si lasciano trasportare dalla marea umana che si sposta, la musica che dirada il tempo, l’alcool che stordisce un po’. Le sigarette con le loro evanescenti nuvole di fumo, forse uguali ai pensieri della gente che ormai non sa più come divertirsi, o magari crede che quello sia il divertimento. Certo è, che molte persone che si incontrano in questi posti, sembrano una sorta di zombi, e a ogni metro, a ogni incontro la fatidica domanda: Ciao ragazzi, che fate stasera? Andate a ballare? È questa la frase più gettonata, che dal venerdì sera alla domenica si sente dire tra i giovani. Una domanda che ha quasi sempre come risposta: Non lo sappiamo ancora, forse domani sera. Che noia non c’è niente a Terni. Gruppi di ragazzi incerti se continuare a bere o andare a ballare in uno dei quattro locali più in voga, sballottati dalla musica e da altro alcool. Il vero protagonista della Movida ternana è proprio lui, l’alcool, seguito dalla nevrotica sigaretta di contorno, che in assenza di dialogo, fa sempre comodo e aiuta a dilatare i neuroni, stressati dalla routine del fine settimana. Questo è il divertimento che offre la città: la noia e il ripetersi di consuetudini di svago sono diventate la causa di tanta insoddisfazione generale. La cosa grave è che i giovani lo sanno che così non può andare, ma nessuno propone idee o fa niente per cambiare. Lamentarsi affogando nei drink è la soluzione apparentemente più semplice, tanto, come dice Filippo: Prima o poi cambierà. È solo questione di tempo! Più diplomatica, invece, Laura: Se restavo a casa con il mio cane era meglio. Beh che dire, l’entusiasmo dei giovani non è proprio di casa e pensare che un tempo c’erano meno divertimenti eppure tutto era più entusiasmante. Che cos’è cambiato o andrebbe cambiato? Se adesso i ragazzi vivono con questo peso e incapacità di divertirsi, da adulti che cosa faranno? C’è una sorta di conformismo a riguardo, dove interi gruppi di persone pensano che non ci sia nulla di attrattivo da fare nel fine settimana e sfiduciati nel valore delle persone, si affidano al potere salvifico degli alcolici e delle discoteche, la sola ancora di salvezza, quando invece, altro non sono che luoghi comuni per evadere apparentemente da un senso di vuoto interiore che spaventa. Vittime di questa egregore negativa, dove, se non si beve e non si sballa non si può stare bene, i giovani si sono lasciati abbindolare da questa idea. Si è perso il vero scopo dello stare insieme, il piacere della condivisione e del vivere confrontandosi. C’è una grande assenza di concretezza e dialogo, spesso si parla per dire qualcosa, ma senza realmente credere in ciò che si dice o si pensa. Parlare per non far trionfare il silenzio, che spaventa e allora va coperto con vuote parole. Quel chiacchiericcio della folla, spinto dall’alcool, spesso è solo una copertura al vuoto che provano tanti. Si potrebbe parlare di sociopatia per usare un termine del filosofo Umberto Galimberti, una forma di immaturità affettiva che nasconde una puerilità di fondo, con conseguente indifferenza alle frustrazioni, incapacità di esprimere sentimenti positivi come simpatia e gratitudine, apatia morale accompagnata da falsità e condotta antisociale. È vero che le nuove generazioni vogliono sempre di più e questo bisogno ha generato una sorta di insoddisfazione per ogni cosa che si fa. Si dovrebbe ritornare a valorizzare ogni componente della vita, assaporando ogni momento, vivendolo veramente appieno. Gli enti locali dovrebbero promuovere iniziative alternative ed eventi in grado di dare nuovo vigore alla città. Mancano le idee e i progetti per lo svago, Terni è una città che non può cullarsi sulle attrattive commerciali del centro. Non sono sufficienti i locali per stare bene. I giovani dovrebbero fare due cose: proporre iniziative e progetti, magari aiutati dai servizi locali, allo stesso tempo, dovrebbero riscoprire il piacere dello stare insieme, senza esagerare con alcool e altri surrogati. Arte, spettacoli, viaggi, cene a casa di amici, feste a tema, dialogo e creazione di punti di interesse comuni, sono alcuni dei tanti modi per divertirsi, tanto il segreto è sempre lo stesso: tutti vogliono la compagnia. Uscire dalla massa che pressa e finge di divertirsi è la prima cosa che ogni giovane dovrebbe fare se vuole cambiare la concezione di benessere nei fine settimana e incominciare a stare bene sul serio. Solo abbandonando la consuetudine si può scoprire la novità ed essere, o almeno provare a essere, divertiti ma soprattutto Lorenzo Bellucci lorenzobellucci.lb@gmail.com non annoiati.

L’arte di saper correre senza rovinarsi la vita Corri, corri, corri,… o farai tardi! Mia madre me lo ripeteva sempre, la mattina alle sette, dopo avermi buttato giù dal letto per andare a scuola. Tutto di fretta: la colazione al volo, la corsa per l’autobus, la corsa a scuola, la campanella, pronto per un’altra lezione o quasi. Adesso quel corri, corri, mi sembra lontano anni luce, eppure proprio adesso che non vado più a scuola c’è un bisogno ancora maggiore di correre. Ebbene sì, perché nella vita di ogni giorno, le occasioni e ogni scelta va presa al volo, di corsa. Non c’è tempo per pensarci troppo, tutto fugge e c’è gente svelta in ogni campo e per ogni cosa. Frenesia del vivere? Forse, ma è anche vero che la nostra società è dominata dall’immediatezza, dopo internet ogni cosa è ancora più veloce. Non dobbiamo crogiolarci sotto le coperte della pacatezza, vivere sereni è importante, ma essere pronti a fare lo scatto se necessario, lo è ancora di più. Pensiamo di avere tanto tempo a nostra disposizione, ma non è così. Il tempo è un vecchio tiranno e non gli importa di nessuno. Come fare per non perdere tempo senza morire di tachicardia? Di sicuro ogni individuo ha un suo modo di vivere e un suo ritmo personale, la cosa importante è capire bene cosa fare nella vita e come, senza lasciarsi distruggere dall’ansia. Ottimizzare il tempo per gli impegni lavorativi, casalinghi o magari per lo sviluppo di progetti è una cosa fondamentale. Creare una sorta di tabella organizzativa della giornata o della settimana, organizzando tutto o quasi (se si eccede c’è il rischio di robotizzare l’esistenza e di diventare automi) permette di avere un maggiore controllo delle ore della giornata e di come muoversi per non sprecare tempo e non correre in modo frenetico. La frenesia genera ansia, questa a sua volta lo stress. È importante, allora, capire i punti deboli che fanno sprecare tempo e pianificare con intelligenza ogni momento. L’organizzazione deve diventare un processo naturale, assimilato e fatto proprio, in modo da comprendere il tempo e il ritmo che ognuno possiede e vive. Se tutti riuscissimo a capire questi due elementi, sicuramente otterremo molto di più in ogni campo, con il minore sforzo e il massimo risultato. L’altra cosa fondamentale sono le attese. Ogni individuo vive per il 70 % della sua vita di attese: per il lavoro, la salute, la scuola, per i diciotto anni, la patente, il grande amore, il matrimonio, per ogni cosa abbiamo la palpitazione dell’attesa e quando arriva il traguardo, ricominciamo da capo con altre attese più o meno lunghe. Non viviamo pienamente quello che abbiamo, siamo impazienti di avere e non di essere. Non ci accontentiamo, non gustiamo il sapore della vita. La prima cosa è assaporare e vivere ciò che abbiamo. Rallentando il ritmo nei momenti di piacere e di rilassamento, dovremmo almeno in parte vivere meglio, dando un valore alla nostra esistenza. Esistono poi due nemici, che insieme fin dai tempi più antichi, contribuiscono a rovinare la vita dell’uomo, facendogli perdere tempo. Questi sono Noia e Ozio. La noia subentra quando c’è un continuo ripetersi di situazioni uguali e continue tra di loro, senza il piacere del nuovo e del cambiamento. Questa è la causa della nascita di insoddisfazione e malessere in molte persone, che per sfuggire dalla sua mira sono disposte a tutto, delle volte anche a compiere cose assurde e deleterie. Alcune volte dopo la noia arriva l’ozio, quello stato di chi non fa nulla o di chi pur agendo fa opera inutile e diversa da ciò che dovrebbe fare. L’ozio è il padrone dei vizi. Mai affermazione fu più giusta, soprattutto nella nostra epoca, dove i vizi sono aumentati in modo esponenziale. Per sfuggire all’ozio è fondamentale avere sempre interessi e persone con le quali condividere la vita. Viaggiare, leggere, fare sport, avere hobby, avere gli amici che sono la vera ricchezza della vita, è il segreto per vivere bene. Tutti siamo uguali e ognuno di noi per infiniti motivi è soggetto alla frenesia del tempo. Il segreto è nella pianificazione e LB nell’organizzazione, senza togliere la bellezza dell’imprevisto e della sorpresa, che danno all’esistenza quel gusto unico e speciale.

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Giuseppe Russo Non è agevole catalogare Russo pittore manierista o figurativo o astrattista; il suo dipingere è a se, non è qualificabile e non ha bisogno di esserlo, il suo talento lo qualifica. Russo è stato un Artista veramente degno di questa definizione. Giuseppe Russo, pittore e incisore è nato a Foggia nel 1915 e deceduto a Terni dove ha lungamente vissuto e lavorato, nel 2002. Il suo primo contatto con il pubblico è stato in occasione di una mostra collettiva di pittori ternani nel 1949 e da allora in poi ha partecipato a moltissime mostre di gruppo. Numerose anche le personali sia in Italia che all’estero. Fu uno dei fondatori del premio Terni. Di lui hanno parlato numerose riviste d’arte. Marcello Ghione

Ricordare un amico, un amico che ha lasciato un bel ricordo di sé e della sua arte è sempre bello e lo si fa sempre volentieri. Chi è questo amico? E’ Giuseppe Russo. Non rammento bene in quale occasione l’ho conosciuto, ma certamente sarà stato in una delle riunioni di artisti ternani che abitualmente Pietro Piccioni, presidente degli Allegri Ternani organizzava, per fare festa sì, ma anche per tenere unita la schiera di amici che si dedicavano alla nobile attività dell’Arte. Erano soprattutto poeti, cantanti, cantori maggiaioli, macchiettisti e pittori, tutti simpaticamente legati da uno stesso interesse, quello di mantenere vivo il desiderio di vivere, ricordare e portare a conoscenza degli altri prodotti della creatività sia attuale che del passato, di mantenere viva la ternanità e di alimentare la passione per l’Arte. Parlare di Russo significa, per prima cosa, fare riferimento ad uno stile del tutto personale, molto apprezzato dalla critica ufficiale. Quello che colpisce è la pennellata incisiva, veloce che suscita subitanee emozioni e mette in grado di vedere anche aspetti nascosti che sfuggono alla prima osservazione. Questo particolare è indubbiamente il pregio migliore delle sue Opere.

G i us ep p e G a ri b a l d i I genitori di nonno Valentino erano esperti di mongolfiere che facevano volare nella zona di Sangemini e dintorni in occasione delle varie feste di paese. Era in quelle circostanze così importanti che la mia bisnonna indossava quel prezioso capo di abbigliamento speciale, il fazzoletto rosso del quale andava fiera. Glielo aveva donato una

persona particolare e tutti glielo invidiavano, ma lei non lo avrebbe ceduto a nessuno per tutto l’oro del mondo. Ne era venuta in possesso in un modo speciale. Una mattina, poco prima di pranzo, quando già gli uomini della famiglia stavano risalendo dal campo per il pranzo, la mia bisnonna sentì che un cavallo si stava avvici-

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nando alla casa. Si affacciò alla finestra e vide un uomo con la camicia rossa che si stava approssimando. Quando le fu vicino le disse: Comare, cosa state cucinando di così gustoso che l’odore si sente da lontano? E la mia bisnonna: La zuppa di cicerchie. Gli uomini stanno rientrando dai campi stiamo per andare a tavola, volete mangiare con noi? Si parlava da alcuni giorni delle truppe che si stavano radunando a Terni, ma non avrebbe mai immaginato quel giorno di trovarsi di fronte il loro capo, Giuseppe Garibaldi. L’Eroe gustò molto la zuppa ed il buon vino, la compagnia dei miei bisnonni e dei loro figli, la loro calda ospitalità, tanto che nel congedarsi si tolse di slancio il fazzoletto rosso che aveva legato al collo e con un sorriso lo donò alla mia bisnonna. Da allora quello fu il tesoro di famiglia ed un

vanto per tutti i suoi componenti. Ed ora entrano in gioco le mongolfiere. Un giorno gli abitanti di Cesi invitarono il mio bisnonno, che era di Sangemini, a far volare una mongolfiera per la festa del paese come attrazione e novità da far vedere agli abitanti ed alle persone accorse per l’occasione. Il mio bisnonno accettò anche perché quello era un modo per guadagnare qualche lira oltre al lavoro dei campi, anche se fra Sangemini e Cesi c’era un po’ di ruggine e dell’astio per vecchi motivi, come spesso avveniva a quei tempi fra paesi vicini. Tutto pronto, la festa al culmine, tutti emozionati per l’imminente partenza di quello strano oggetto con il fuoco sotto che lo sta riscaldando per permettergli di sollevarsi in aria, ma niente, la mongolfiera rimane immobile a terra e non vuole saperne di decollare. Gli abitanti di Cesi co-

minciano a rumoreggiare minacciosi, il mio bisnonno è agitatissimo, teme che loro credano stia di proposito boicottando la loro festa a causa delle vecchie rivalità di paese, infatti sente qualche commento poco piacevole nei suoi riguardi e teme che possano far loro del male. La mia bisnonna è terrorizzata e, presa da un istinto di sopravvivenza, scioglie il nodo del fazzoletto rosso, lo afferra e con violenza lo getta sul fuoco che sta ardendo sotto la mongolfiera. Quell’improvvisa fiammata dà l’impulso a tutta la struttura e la mongolfiera tranquillamente e definitivamente si libra nell’aria fra gli applausi entusiasti degli astanti ed un sospiro di sollievo dei miei bisnonni che si abbracciano felici. Il fazzoletto rosso ha forse salvato loro la vita. Il fatto è realmente accaduto 150 anni fa e fra le mie carte c’è un documento che lo descrive. MG


Donostia-San Sebastian Il viaggio delle speranze Sveglia presto, pranzo al sacco e arrivo in ostello. L’inizio di una tre giorni meravigliosa. Il progetto è finanziato dall’Unione Europea ed è uno scambio culturale tra ragazzi italiani (noi giovani del Progetto Mandela), spagnoli (da Madrid, Barcellona e Donostia-San Sebastian), inglesi (Harrows) e Belgi (Seraing). Ci conosciamo da dieci minuti ma siamo già grandi amici, abbiamo cose in comune ma siamo così diversi da farci, a vicenda, domande su domande. Ma cosa siamo andati a fare a Donostia? Non siamo speciali, in effetti, nessun merito particolare per essere stati inviati all’estero. Se non quello di interessarci del nostro futuro... e del nostro presente. La notizia è arrivata quasi inaspettata, insperata. Siamo partiti per ideare proposte di legge da portare al Parlamento Europeo ed è proprio quello che abbiamo fatto. Ci siamo riusciti senza intoppi, difficoltà particolari o incomprensioni, nonostante il problema della lingua. Quella, alla fine dei conti, è stata la barriera più facile da infrangere che, anzi, ci ha legato ancor di più. Le attività comuni sono state tante, e tutte si sono svolte in spazi specifici adibiti a centri giovanili, dedicati interamente a noi ragazzi, gestiti da altri ragazzi poco più grandi di noi, dipendenti comunali e stipendiati. Proprio qui abbiamo potuto toccare con mano l’enorme, abissale differenza tra Donostia e Terni, tra il nostro tipo di organizzazione comunale e il loro. E siamo tornati arricchiti, sognatori coi piedi per terra, determinati, con le idee chiare, desiderosi di essere ascoltati. Chiara Stefanelli

...e poi Bruxelles... Bene, Donostia è andata, ma il tour continua. Dopo la magnifica e costruttiva esperienza nella città basca, è tempo di far fruttare le conclusioni del nostro lavoro. Ed eccoci arrivati all’aeroporto di Bruxelles, un gruppetto un po’ pittoresco che parla non si sa bene più quale lingua, ormai è tutto un misto di inglese, italiano con qualche “s” spagnoleggiante, e un po’ di francese, composto da due ragazzi rappresentanti di ogni città più un rispettivo monitor, pronto a perdersi nei meandri delle metropolitane della capitale europea! E allora, bagagli alla mano, arriviamo, ci sistemiamo in uno scaccionissimo ostello, ceniamo in un ristorantino vicino, cercando di interpretare il menu, e ci corichiamo per prepararci alla giornata successiva. Alzati, lavati e colazionati, ci dirigiamo verso il centro della città per raggiungere una sede dello European youth forum. Qui veniamo accolti da una giovane rappresentante, che poi abbiamo scoperto essere italiana, che ci introduce prima di tutto quest’ente, e poi ci chiede di parlare di noi, del nostro lavoro nelle singole città, ed infine del lavoro che abbiamo fatto a Donostia, riportandogli brevemente le nostre conclusioni. Così dopo aver consegnato la nostra scatoletta, realizzata durante l’attività creativa a Donostia, contenente il nostro lavoro in formato digitale, in una pennetta, più vari slogan sulla cultura giovanile associati alle foto dei nostri bellissimi occhi, ed aver raccolto una valanga di informazioni su progetti europei di cui eravamo all’oscuro creati appositamente dall’UE per noi giovani, come ad esempio lo SVE, “Servizio Volontario Europeo”, ci lasciamo con la promessa che il nostro lavoro venga esaminato. Nel primo pomeriggio, dopo essere stati accecati dal sole riflesso nelle vetrate dei vari uffici amministrativi, e dopo aver scattato svariate foto di gruppo sotto svariati loghi blu con stelline, o insegne del tipo Commissione Europea, ecco che arriviamo al clou, la visita al Parlamento Europeo. Dopo aver passato il check-in ed aver fatto un’altra foto di gruppo, tanto per cambiare, sotto tutte le bandiere dei paesi appartenenti all’UE, si svolge l’incontro con un parlamentare addetto alla comunicazione. Ci viene introdotto così il parlamento europeo, passando tranquillamente dall’inglese, allo spagnolo, al francese, cos’è, da quanti membri è composto, cosa fa concretamente e poi via alle domande, conoscete alcune leggi europee? Qual è secondo voi la lingua ufficiale? Quali sono i criteri per entrare a farne parte? E così via… Finito questo colloquio informativo ci mostrano la sala dove si riuniscono i parlamentari, che quella settimana si trovavano a Strasburgo e consegnata anche qui la nostra scatoletta, ce ne andiamo ancora un po’ elettrizzati per la visita. La giornata si conclude con un po’ di tempo libero, e ce ne andiamo a visitare la Grand Place, le Mannekin Pis e a cercare in lontananza l’Atomium che, data la distanza, abbiamo visto in formato mini. Ultimo giorno, giorno decisivo. Ci rechiamo alla Delegazione Basca, dove ci aspettiamo di avere una risposta alle nostre proposte finali che riguardavano in particolare il miglioramento della partecipazione giovanile, il miglioramento dell’informazione a livello locale dei progetti cittadini, nazionali ed europei, e la creazione di un parlamento europeo giovanile. E così è stato, i membri del consiglio avevano già avuto in precedenza il nostro lavoro, l’avevano esaminato e con questo avevano creato su carta dei progetti da riproporre al parlamento europeo, volti appunto a realizzare i nostri scopi, ce li hanno mostrati ed hanno chiesto il nostro parere, nel caso ci fosse ancora qualcosa da modificare. In ultimo, l’incontro con i media per riportare sempre il nostro lavoro, le nostre conclusioni, le nostre sensazioni, poi pranzo, saluti e baci ed infine aeroporto! Si torna a Terni! Già, ma come si torna dopo un esperienza del genere? Si ha voglia di fare ecco come, fare per migliorare, fare per cambiare, voglia di partecipare attivamente alle varie attività locali, voglia di riportare i riscontri che ci sono stati con le altre città, i punti di incontro e non, si ha una consapevolezza maggiore dei mezzi a propria disposizione e la speranza che si possa fare concretamente qualcosa, anche nella propria città e, indubbiamente, di essere ascoltati. Camilla Calcatelli E poi, perché no, voglia di ripartire!

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Q u es t ’i g n o t o

L’infinito è sempre stato un concetto che ha interessato notevolmente l’uomo. Come definire tutto ciò che non ha limiti né in estensione, né in durata temporale, né in quantità? Come descrivere l’immenso, l’indefinito e l’immensurabile ? L’infinito è sempre apparso di difficile comprensione in quanto non è connesso direttamente con problemi pratici o della vita quotidiana. Il significato è più nascosto, combinazione tra la sempre esistente attrattiva dell’ignoto, dell’innato desiderio

umano di conoscere oltre ciò che si vede, di esplorare al di là del mondo conosciuto e la perfetta astrazione della matematica. Per secoli si sono originate varie ipotesi anche contrastanti sull’esistenza dell’infinito e tutt’ora si cercano risposte sulla sua maggiore o minore concretezza. Il primo a fornire una tesi su cos’è l’infinito fu il grande matematico greco Pitagora, il quale negava l’esistenza dell’immenso in quanto non regolare ed armonioso. In contrapposizione a questa ipotesi vi fu l’interpretazione della religione cristiana, che vide nell’infinito l’anima di Dio ed in esso configurò, di conseguenza, la divina perfezione. Ma ammesso che esista un infinito, come rappresentarlo “in piccolo”?

i n f i ni t o

Il simbolo identificativo fu ideato, nel 1655, dal matematico inglese John Wallis ed è un otto giacente in orizzontale, simile al tracciato delle piste giocattolo dove sfrecciano senza fine i modellini automobilistici. Questo simbolo è anche la semplificazione del mitico uroboros, l’arcano serpente che divora se stesso. Il primo vero concetto d’infinito, tuttavia, è stato fornito soltanto in seguito allo sviluppo del pensiero logico-matematico che, tramite il concetto di retta ha

dimostrato che non c’è un inizio, né una fine nel campo numerico. Un esempio calzante sono i numeri periodici la cui parte decimale costituita da una sola cifra o da un gruppo di cifre, si ripete infinite volte. Resta comunque molto difficile immaginare il concetto di infinito. Una vaga e semplificata idea è fornita dalla linea dell’orizzonte, dalle stelle nel cielo o, più in generale, dall’universo stesso, che non ha, si dice, dimensioni finite. Tuttavia, in quest’ultimo caso, alcuni scienziati hanno ipotizzato che l’universo non sia infinito, contraddicendo molte verità consolidate. Da ciò sorge spontaneo chiedersi: ma allora, l’infinito è veramente “infinito”? Elena Lucci Classe IIIG, ScM O. Nucula

Giuseppe Mazzini: il giovane rivoluzionario

La democrazia: una conquista che agli italiani costò il sacrificio di decine di migliaia di vite, ma che ci ripagò permettendo alla nostra nazione di avere l’unico vero sovrano legittimo, il Popolo! Ebbene, nel 1861 venne creato uno stato indipendente, ma privo ancora del suffragio universale, dato che alle elezioni potevano votare solo i ricchi e i colti, ovvero i nobili proprietari di immensi terreni, i borghesi e tutti coloro che pagavano molte tasse, quindi solo il 2% della popolazione. Il Paese Reale, dunque, composto da contadini, donne, pescatori, allevatori, piccoli mercanti ed artigiani era escluso dalla vita politica e non aveva la possibilità di difendere i propri diritti. In questa situazione c’era qualcuno che, attraverso rivoluzioni ed

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insurrezioni, tentava di far sì che la nostra Patria diventasse repubblicana e democratica, ovvero Giuseppe Mazzini e gli affiliati alla Giovine Italia, da lui fondata nel 1831. Contrariamente a quello che ci si possa aspettare, questa organizzazione era diversa dalla Carboneria e dalla Massoneria, poiché non lottava solo per la libertà del popolo dagli stranieri oppressori, ma anche da una società che imponeva il predominio del più forte, economicamente parlando. Non si accontentava, quindi, di ottenere una Costituzione Liberale, ma voleva far sì che la plebe italiana, unita e determinata, facesse valere le proprie rivendicazioni dopo secoli e secoli di schiavitù, come nel caso dei francesi. Questo vuol dire che noi, dato che non siamo riusciti nel nostro obiettivo immediatamente, siamo inferiori a loro? Assolutamente no: noi, infatti, dovevamo sconfiggere molti principi e monarchi, il Pontefice e perfino l’Impero Au-

striaco di Francesco Giuseppe I d’Asburgo, senza contare gli ostacoli diplomatici che addirittura i nostri alleati ci ponevano e, di conseguenza, occorreva un coordinamento tra eserciti regolari, irregolari e civili, che fu tentato nella Prima Guerra d’Indipendenza, ma che non riuscì. Proprio per questo motivo molti potrebbero considerare Mazzini un utopico, un illuso che, pensando che fosse necessario solo l’intervento popolare, mandò al macello centinaia di giovani, ma non è così. Lui era un uomo con un grande ideale ed un sogno, pronto a sacrificare la propria vita per la Patria ! Avanti, alzino la mano coloro disposti a fare lo stesso, incuranti della propria incolumità. Quasi nessuno, è questa la verità! Non limitiamoci dunque ad affermare: E’ un perdente, non ha mai vinto una guerra ed ha fallito in tutte le sue imprese! Mazzini è riuscito a capire più di un secolo prima quello per cui noi

ci saremmo battuti nel 1900. Lui sognava un’Italia repubblicana e democratica e che l’Europa si confederasse in una unione, e tutto questo corrisponde esattamente a quello per cui tutti noi lottammo, lottiamo e lotteremo! Cerchiamo dunque di avere la sua capacità di guardare lontano, oltre il presente e di avere le medesime qualità che addirittura il Principe di Metternich attribuì a questo Padre della Patria:

Ebbi a lottare con il più grande dei soldati, Napoleone. Giunsi a mettere d’accordo tra loro Imperatori, Re e Papi. Nessuno mi dette maggiori fastidi di un brigante italiano: magro, pallido, cencioso, ma eloquente come la tempesta, ardente come un apostolo, astuto come un ladro, disinvolto come un commediante, infaticabile come un innamorato, il quale ha nome Giuseppe Mazzini. Francesco Neri Classe IA, ScM L. Da Vinci


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Un tuffo nel medioevo della Valnerina

Un percorso intenso di avvistamenti arroccati si snoda lungo tutta la Valnerina e nel percorrerla si capisce come poteva funzionare un efficace sistema di comunicazione e di segnali a vista, per un tragitto lungo chilometri. Da Collestatte a Casteldilago poi di rimando: Montefranco, Umbriano, San Pietro in Valle, Terria, San Valentino, Monte S.Vito, Scheggino, Castel San felice con la sua splendida Abbazia, poi ancora Santa Anatolia di Narco, Vallo di Nera, Piedipaterno, Cerreto di Spoleto, Cascia e Norcia. Come in un ping-pong si viene rimbalzati da paesini gioiello dagli scorci mozzafiato, ad abbazie e rocche. Tanta natura incontaminata ed il continuo luccichio di un fiume quieto che scorre a valle. Qui si incontrano in ogni stagione ospitalità, degustazioni, antichi mestieri, arte e cultura che rinascono e rivivono nelle manifestazioni distribuite in tutto l’arco dell’anno. Ecco tre proposte per scoprire la Valnerina nei suoi molteplici aspetti, ricchi di fascino antico e natura incontaminata. In sette giorni per un approccio completo - 1° giorno: visita alla Cascata delle Marmore, ai borghi di Collestatte, Casteldilago, Arrone e Ferentillo con il Museo delle Mummie e l’Abbazia di San Pietro in Valle. Si consiglia una cena a Scheggino dopo aver passeggiato per le vie del paesino; - 2° g: visita al paese di Vallo di Nera, San Valentino ed all’Abbazia dei Santi Felice e Mauro, Santa Anatolia di Narco. Passeggiata sulle alture di monte San Vito e visita con possibilità di cena alla residenza d’epoca Madonna di Costantinopoli, pregevole complesso abbaziale privato; - 3° g: visita al paesino di Sellano e Cerreto di Spoleto. Nel pomeriggio esplorazione del territorio precino con visita del paese di Preci e dell’Abbazia di Sant’ Eutizio; - 4° g: giornata dedicata alle passeggiate immerse nella natura, a piedi, in bicicletta a cavallo o addirittura con i muli. In mattinata percorso dal mulino alla peschiera (percorso ad anello lunghezza km 3,5; dislivello mt 100; Difficoltà: media). Nel pomeriggio scoperta della Cascata de lu Cugnuntu (percorso a/r lunghezza km 9,7; dislivello mt 100; D: media); - 5° g: Cascia ed i suoi santuari: Eremo della Madonna della Stella a Santa Rita e Roccaporena; - 6° g: il paese di Monteleone di Spoleto con i suoi pregevoli edifici sviluppatisi in sei diverse epoche: protovillanoviana, etrusca, romana, medievale, rinascimentale e moderna. Il ritrovamento della Biga Etrusca (ora a New York) ed il Museo Archeologico; - 7° g: Norcia, visita alla città con i suoi numerosi monumenti, palazzi e chiese. Visita al Museo Civico, alla Mostra Paleontologica ed alla collezione Massenzi… poi full immersion negli itinerari enogastronomici norcini. Un percorso di sport e natura - 1° giorno: Cascata delle Marmore e fiume Nera. Visita alla cascata e passeggiata lungo i sentieri esplorativi del parco. Possibilità di approfondire la conoscenza dell’ambiente attraverso le forti emozioni delle esperienze sportive disponibili, come per esempio: rafting, canoa, river hiking, hydrospeed, torrentismo, speleologia, mountain bike. Cena in ristorante tipico a base di tartufo e carne alla brace; - 2° g: borghi della Valnerina, la Torre di Arrone, le porte di Montefranco e la Rocca di Polino; - 3° g: Ferentillo, visita alle Rocche ed al Museo delle Mummie. Possibilità di free climbing e discesa del fiume in canoa; - 4° g: visita all’Abbazia di San Pietro in Valle, Rocca di Scheggino e Fonti di Valcasana. Possibilità di una giornata a scelta tra la pesca sportiva e l’avventura all’Activo Park. Una passeggiata lunga una settimana - 1° giorno: zona Cerreto di Spoleto, alle pendici del Monte Maggiore con partenza da loc. Macchia sino a Reggiano a/r lunghezza 7 km; dislivello 120 metri; Difficoltà: facile; - 2° g: da Cerreto di Spoleto alla Madonna di Costantinopoli: percorso ad anello lunghezza km 4.7; dislivello mt 180; D: media; - 3° g: da Cerreto di Spoleto, itinerario di ponte: percorso ad anello lunghezza km 4.6; dislivello mt 100; D: difficile; - 4° g: zona Santa Anatolia di Narco, da Caso al Piano delle Melette: percorso ad anello lunghezza km 2,6; dislivello mt 130; D: media; - 5° g: da Gavelli al laghetto: percorso a/r lunghezza km 4; dislivello mt 120; D: media; - 6° g: da S. Anatolia a Castel San Felice: percorso a/r lunghezza km 4,2; dislivello mt 60; D: facile; - 7° g: da Scheggino alla Valcasana: percorso a/r lunghezza km 6; dislivello mt 350; D: difficile.

Foto gentilmente concesse dallo IAT di Terni e dallo IAT di Cascia

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Per i più la terra è nel centro. Il contrario affermano gli Italici, detti Pitagorici. Essi dicono che nel centro è il fuoco, che la terra è un astro e che essa, ruotando intorno alla parte centrale, dà origine al giorno e alla notte. Aristotele, De caelo, B 13. 293 a 18

A n d i a m o i n o r b i t a - L’ e s p l o r a z i o n e d e i s a t e l l i t i d i G i o v e Io, Europa, Ganimede e Callisto, sono i quattro satelliti maggiori di Giove e per l’esattezza, il primo, il terzo, il quarto ed il sesto tra tutti i satelliti del Sistema Solare. Battezzati Medicei da Galileo che li osservò per primo nel 1610, in onore del Granduca di Toscana Cosimo II de’ Medici, vederli al telescopio tutti in fila allineati lungo l’equatore gioviano e che cambiano posizione con il passare delle ore, è uno spettacolo davvero affascinante! Sebbene studiati assiduamente da Terra con i telescopi via via sempre più potenti per circa quattro secoli, rimanevano sempre quattro piccoli mobili puntini gialli riflettenti la luce solare. Ma alla fine degli anni settanta, le due sonde americane Voyager inviarono a Terra immagini ravvicinate di queste Lune di Giove che mostravano vulcani attivi su Io (il più piccolo e più vicino a Giove dei quattro) ed Europa, il più liscio fra tutti i satelliti, faceva ipotizzare che sotto la sua superficie ghiacciata poteva esistere un oceano di acqua liquida. Per la conferma di queste supposizioni dobbiamo però aspettare l’anno1995 quando su Giove arriva la sonda Galileo della NASA che per ben sette anni, oltre ad uno studio approfondito di Giove, ha rivolto particolare attenzione ai suoi satelliti. Ad essa dobbiamo la scoperta di un campo magnetico su Ganimede e la prova che Ganimede Europa e Callisto posseggono una tenue atmosfera. Per quanto riguarda Io, sono stati catalogati oltre 200 vulcani attivi, con un’intensità stimata 100 volte maggiore che sulla Terra, pennacchi che raggiungono i 280 Km di altezza e una grande nube di sodio, calcio ed idrogeno di provenienza vulcanica che avvolge tutto il satellite. Che Io sia un satellite in fermento, è ampiamente dimostrato dalla comparazione delle foto inviateci dalle sonde Voyager e Galileo: in 17 anni la sua superficie ha subìto radicali mutamenti (fig. 1). E veniamo ad Europa (fig. 2), questo satellite leggermente più piccolo della nostra Luna. Gli strumenti a bordo della sonda Galileo confermano che sotto una liscia crosta ghiacciata disseminata da larghe fratture, esiste acqua mantenuta liquida dal calore generato dalle maree causate dalla interazione gravitazionale gioviana. E’ lecito ipotizzare che potrebbe esistere una forma di vita in un ambiente simile a quello delle sorgenti idrotermali presenti sulla Terra in fondo agli oceani o sul fondo del Lago Vostok in Antartide. Parlare solo di questi quattro satelliti è però restrittivo, dal momento che intorno a Giove ne orbitano una sessantina. Sono per la maggior parte oggetti di forma irregolare, che non superano i 10 Km di diametro, con forti eccentricità e moti retrogadi. Si ritiene siano di origine asteroidale, cometaria o frammenti di corpi maggiori venuti a collisione e che sono stati catturati dalla forte attrazione del gigante gassoso. Che nome dare a tutti questi satelliti? Nel 1975 prima e successivamente nel 2004, commissioni costituite dall’UAI (Unione Astronomica Internazionale) hanno stabilito che saranno i nomi delle amanti e dei discendenti del Dio. Scelta più che giusta a mio parere, visto che Zeus è famoso per le sue frequentissime avventure erotiche extraconiugali, e che Tonino Scacciafratte ha sparso il suo seme senza pensarci due volte! Presidente A.T.A.M.B. - tonisca@gmail.com

Osservatorio Astronomico di S. Erasmo Osservazioni per il giorno venerdì 27 Maggio 2011 Saturno è ancora visibile in prima serata e naturalmente sarà l’oggetto più gettonato, ma non mancheremo di puntare un paio di ammassi globulari (M13 e M15) rispettivamente nelle costellazioni di Ercole e del Serpente che per l’assenza della Luna risulteranno sicuramente più brillanti. Anche se le temperature notturne stanno mitigando, raccomandiamo di venire all’osservatorio ben equipaggiati (come a dire: vestitevi bene!). Faremo anche delle simulazioni al computer per spiegare concetti semplici di geografia astronomica e cercheremo insieme ad occhio nudo tutte le costellazioni presenti sulla volta celeste. TS

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Una

costellazione

al mese

L a Vo l p e t t a e l a F r e c c i a Questo mese e il prossimo sono costretta ad occuparmi di quattro costellazioni tipicamente estive e che comunque sono visibili dopo la mezzanotte anche a maggio e giugno. In pratica ho esaurito le (fig.1) costellazioni! Sono tutte e quattro comprese tra il Cigno e l’Aquila. Cominciamo dalle prime due la Volpetta o Volpecula e la Freccia o Sagitta. Quest’ultima è facile da individuare posta com’è tra Albireo, nel Cigno, e Altair, la stella più luminosa dell’Aquila. E’ una minuscola costellazione (fig.1) la cui disposizione delle stelle ricorda effettivamente quanto è richiamato dal nome. Possiamo facilmente immaginare una freccia la cui punta è costituita dalle stelle eta (η) e gamma (γ), mentre la coda è disegnata dal triangolo acuto costituito dalle alfa (α), beta (β) e delta (δ). Ci sono numerosi riferimenti mitologici riguardo alla Freccia: viene vista come l’arma con cui Apollo uccise i Ciclopi oppure il dardo con cui Cupido fece innamorare lo stesso Apollo della dea Dafne o ancora la freccia con cui Ercole uccise l’Aquila che Giove gli aveva aizzato contro. Vero gioiello della costellazione è l’ammasso globulare M71, facilissimo da rintracciare, appena a sud del punto medio della linea che congiunge gamma e delta Sagittae: al binocolo appare come una massa nebbiosa non particolarmente appariscente. Se avete individuato la Freccia, la Volpetta (fig.2) è il disordinato gruppo di stelle fig.2 tra questa e il confine meridionale del Cigno. Fu creata di punto in bianco da Hevelius alla fine del XVII secolo per tappare un buco tra il Cigno a nord e la Freccia a sud. Il gruppo principale di stelle della Volpetta è costituito da un triangolo ottusangolo con la stella alfa (α) che si trova a circa 3° (dimensione del pollice a braccio teso) a sud di Albireo (la famosa doppia colorata del Cigno), al vertice ottuso. Questo triangolo individua la parte occidentale della costellazione che si proietta nella parte più densa della Via Lattea. Il resto della costellazione, un vero e proprio “tappeto di stelle” se lo si osserva con un binocolo, si estende prevalentemente ad est di questo triangolo. Seguendo la linea Albireo e alfa Volpeculae, ad una distanza di circa una volta e mezza quella tra questi due astri, si giunge ad un ammasso stellare, i cui componenti sono vicini solo prospetticamente, chiamato “ammasso di Brocchi” o “attaccapanni”: sei astri quasi perfettamente allineati formano la barra e altre quattro stelle luminose il gancio (fig. 3). E’ un oggetto bellissimo visto attraverso un binocolo dove la sua forma appare però rovesciata. Per rintracciare invece l’altro splendido oggetto della Volpetta M27 o nebulosa Dumbbell o “manubrio” potete partire dalla stella gamma Sagittae e spostarvi fig.3 verso nord di circa tre gradi. Attraverso un binocolo 7x50 mm appare simile ad una macchia nebbiosa situata in un campo scintillante ricchissimo di stelle e stelline. Giovanna Cozzari


D i a b o l i c a

Lu Planetariu La sera de lu ggiornu de Santu Stefanu... co’ Zzichicchiu semo annati su ppe’ li prati. Non è che so’ statu tantu ‘ntusiasta d’èssece annatu perché c’evo ‘n bo’ de sunnu ‘ddietratu e ppo’ c’era ‘na strina che mme facéa rimpiagne lu callucciu de casa mia. Issu... pe’ pperde pure più tembu... s’era portatu lu telescopiu e... mentre me spiegava lu funzionamentu... cercava de famme ‘mpara’ ‘n saccu de cose su lu cielu… dicennome ‘n do’ steva Orione... Aldebaranne... la Polare... li Gemelli... lu Cancru... co’ ttuttu quill’erudimentu... io... sarà statu lu friddu... ‘nvece de èsse contentu me so’ ‘ntesu come ‘n ghiru ‘n letargu e j’ho fattu... giustu pe’ ccerca’ de accorcia’ ‘llu martiriu... Ammappete se qquante ne sai... tu si che ssì ‘n astronumu! Senti ‘n bo’... a ‘stu puntu io non me sento neanche ‘n vicevice astrofilu... e ppo’ me se so’ ccongelati tutti li fettoni... ma ‘n ce sta che andru modu pe’ osserva’ le stelle?... Me tt’ha rispostu... ‘N andru modu pe’ osservalle ce sta pure... è qquillu de stassene a ccallu dentro ‘na stanza e gguarda’ lu Planetariu... però tocca aveccelu! ‘Na specie de ombrellu apertu ‘n do’ ce vène proiettata ‘dentica spiccicata... da ‘na specie de attrezzu che je sta sotto... tutta la vorda celeste... co’ lo Sole, la Luna, li pianeti, le stelle... ‘nzomma co’ ttutti l’oggetti ‘stronommici. De planetari qui a Terni ce n’avemo quarcunu... all’Itisse... a Amelia... a… a Lunardi’... ce lu volemo compra’ anche noi?... Come se mme fossi svejatu de soprassardu j’ho dittu... No, no... per carità... preferisco congelamme e gguarda’ lu cielu, quillu veru!... Lo sai che sso’ scaramanticu!?... E cche cc’entra?... C’entra perché ce cape! A mme l’ombrelli aperti dentro ‘na stanza pare che mme portono scalogna! paolo.casali48@alice.it

ASTROrime... Procione E’ una stella luminosa (l’ottava) sette volte il nostro astro... (Sole) qualcun dice “cagnolosa” (Cane Minore) di color bianco giallastro. E’ una stella a noi adiacente... (circa 11 a.l.) e dal nome... è il suo splendore (Pro-Cyon) che precede dall’oriente l’alfa del Cane Maggiore. (Sirio) PC

A L G O L

Tra divinità, eroi e creature elette che popolano il cielo stellato, si insinua … un “Diavolo”, per di più portato da uno dei miti più popolari della cultura antica: Perseo. Nel racconto mitologico, Medusa era una delle tre Gorgoni, l’unica mortale, dall’aspetto terrificante e dallo sguardo pietrificante. In realtà era una giovane bellissima dai lunghi capelli, che però ebbe la disavventura di amare Poseidone proprio nel tempio di Atena, che per lavare l’onta subìta, trasformò la ragazza in un mostro ed i suoi capelli in serpenti. Perseo, con l’aiuto di Atena, la catturò, decapitandola, e dopo svariate vicissitudini donò la testa di Medusa alla dea, che la pose sul suo scudo. Il personaggio di Medusa, a differenza degli altri, non è rappresentato nel cielo da una costellazione, ma da una singola stella della costellazione di Perseo: Algol. Fin dall’antichità questa stella è stata considerata diabolica: veniva definita stella di Satana, stella del fantasma, demone luccicante. La rappresentazione di Algol nelle immagini arabe: Gli arabi la chiamavano Ras Al Gul, la testa del diavolo, gli ebrei Rosh ha Ras Al Ghul è quella testa barbuta e demoniaca in mano al paladino saraceno (il nostro Perseo). Satan, la testa di Satana, o anche Lilith, la prima moglie di Adamo, che abbandonò il Giardino dell’Eden e fu demonizzata. Ma perché tanta ostilità, perché identificare questa stella con il male? La ragione è presto spiegata. Algol, stella visibile ad occhio nudo, non ha una luce costante come le altre stelle, ma si indebolisce in maniera molto evidente per qualche ora ogni tre giorni circa. Ed una simile caratteristica è stata interpretata dagli antichi, che credevano il cielo immutabile, come segno della collera divina e quindi di cattivo auspicio. Per il patriarca biblico Enoch la stella era rappresentata da un uomo barbuto con il collo macchiato di sangue; secondo una leggenda magrebina invece, era una lampada, che una ragazza, schiava dell’orco al-Gol ricopriva di veli, affievolendone la luce, per segnalare al suo amato Perseo che l’orco era in casa, mentre togliendo i veli e ridando luminosità alla lampada segnalava il via libera; ma un giorno i due amanti vennero sorpresi da al-Gol, che uccise la ragazza, ma a sua volta venne decapitato da Perseo, che da allora viene rappresentato nel cielo con la testa barbuta dell’orco tra le mani, e in ricordo della sua amata, Perseo, nel cielo, continua ad affievolire e ravvivare la lanterna. Nell’antica Cina, l’asterismo composto da alcune stelle di Perseo era definito Ta-ling, la grande fossa, quella in cui venivano gettati i cadaveri dei giustiziati. A ridare un po’ di dignità a questa stella ci pensò l’astronomo italiano Geminiano Montanari, che nel 1667 scoprì che Algol era un sistema binario ad eclisse, mentre dopo oltre un secolo, nel 1782, l’inglese John Goodricke ne scoprì la periodicità della variazione. Algol, una delle stelle variabili più famose e più studiate, è un sistema composto da una stella primaria molto calda e brillante e da una seconda stella più fredda e meno luminosa. Quando la stella secondaria passa davanti alla primaria, crea un’eclisse e quindi ne abbassa la luminosità ai nostri occhi. Non si tratta però di una stella doppia visuale, poiché, anche osservandola con potentissimi telescopi ed effettuando massicci ingrandimenti, essa ci appare sempre come un unico corpo, in quanto le due componenti del sistema sono molto vicine (parlando di distanze astronomiche ovviamente, giacché esse distano tra loro 10,8 milioni di km). Algol A, la stella primaria del sistema, rispetto al Sole, ha diametro 2,9 e massa 3,7 superiore, mentre la luminosità è 120 volte maggiore. Algol B invece ha diametro 3,5 e massa 0,81 superiore al Sole, mentre la luminosità è 5 volte maggiore. Studi più recenti hanno ipotizzato l’esistenza di altre due stelle nel sistema di Algol. Fiorella Isoardi Valentini

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