Un senso per la politica “Presso gli uffici dello stato civile di ogni comune italiano si fa sesso”. È immaginabile, e soprattutto sperabile, che quando quest’articolo andrà in stampa la lunga diatriba sul disegno di legge sulle Unioni Civili sia ormai uscito dalle prime pagine dei quotidiani, ma mentre scriviamo catalizza ancora tutte le cronache politiche. La frase virgolettata d’apertura, ad esempio, potrebbe ancora diventare legge dello stato, qualora l’emendamento che la sostiene fosse presentato e accettato. Il testo originale del comma 2 del d.d.l. Cirinnà recita “Presso gli uffici dello stato civile di ogni comune italiano viene istituito il registro delle unioni civili tra persone dello stesso sesso”; tra i molti emendamenti presentati, spicca per originalità uno del senatore Lucio Malan che propone, come risulta dagli atti del Senato della Repubblica, di sostituire, al comma 2, le parole “viene istituito il registro delle unioni civili tra persone dello stesso” con le parole “si fa”; cosicché il disgraziato comma 2 diventerebbe, appunto, esattamente quanto riportato in testa a quest’articolo. Quali sono le probabilità che il comma così emendato diventi legge dello stato? Oh, nessuna, questo è certo… anche se verrebbe quasi da auspicare che per miracolo invece lo diventasse davvero, se non altro per vedere come se la caverebbero poi con i decreti attuativi che dovrebbero farlo rispettare. Ma no, l’emendamento verrà certo ritirato, insieme alle migliaia di suoi confratelli; o alla peggio votato e respinto in pochi secondi. Ciò non di meno, ha una sua funzione precisa, strategica e tattica nell’eterna guerra politica. La democrazia è fragile per natura, perché i suoi principi si basano sul buon senso. Il buon senso che dice “serve una regola, parliamone insieme”, e allora inventa l’assemblea, l’agorà, il parlamento; il buon senso che dice “se non siamo d’accordo, faremo come dice la maggioranza di noi, e non seguiremo la presunta autorità di nessuno che si senta a noi superiore, re, imperatore, notabile o prelato che sia”; quello stesso buon senso che dice “se c’è qualcosa che ci sembra opportuno modificare, quando qualcuno propone una legge, parliamone, e votiamo ogni modifica”. Questo il buon senso degli emendamenti: senso importante, cruciale e fondante per la democrazia.
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Ma il buon senso termina qua, poi iniziano le perversioni. Discutere le modifiche richiede tempo, e allora è meglio, se si è in minoranza e una legge non piace, anziché votare “no” e rassegnarsi a perdere, inventarsi cento emendamenti per prendere tempo. Anzi, mille, diecimila, un milione, per bloccare tutto. Non ci sarà il tempo per votarli, tutto finirà in una bolla di sapone. Come fare per proporre tutti questi emendamenti? Oh, si inventa… ci si può perfino divertire, nello scriverli. L’importante è che siano tanti: qui si chiede di cambiare “italiano” con “libico”; qui cambiamo “da” con “di”, qui… qui per far prima chiediamo ad un programmatore di scrivere un software per cambiare a caso una parola con un’altra, altrimenti non si arriverà mai a scriverne un milione. È prassi comune, e non è certo il disegno di legge sulle unioni civili il primo a incappare nell’ostruzionismo fatto con barricate di emendamenti. Prassi comunissima, e attuata a prescindere dal colore politico; al punto che da tempo è stata inventata anche la contromossa, che è sempre un emendamento: un emendamento che consente di accorpare gli emendamenti e votarli tutti insieme. Così, si velocizza, con un salto -op!- si votano tutti (respingendoli, ovviamente) e si rientra nei tempi; e deve essere proprio per questa abilità salterina che quest’emendamento anti-emendamenti viene chiamato “canguro”. Già, ma anche il canguro deve essere approvato; e se non lo sarà, si dovrà tornare ad esaminare gli emendamenti uno per uno. Approva il Senato l’emendamento che prevede che in tutti gli uffici comunali si faccia sesso? No, avanti il prossimo. Approva il Senato che si parli di cittadini libici anziché italiani? No, avanti il prossimo… Ovviamente, tutto ha un senso, per chi sa leggere le manovre della politica. Ma è un senso che non ha più nulla ha che vedere col buon senso, e che per di più ha perso anche un altro senso cruciale, quello del ridicolo. Sarà sempre possibile risalire -col senno di poi, se non altro- alla logica che ha partorito tutta la sequela di azioni strategiche: far perdere la faccia al nemico, rafforzarsi in vista delle elezioni, raccogliere alleanze, dividere gli avversari. Nelle grandi sale che male imitano la prima agorà ateniese, il senso logico di ogni parola, cenno, sospiro è sempre estremamente chiaro e leggibile; ma è un senso lontanissimo dal buon senso. La democrazia è fragile, fragilissima. Scrivere un emendamento ridicolo riesce ad umiliarla, oltre che ad indebolirla. E il senso comune, che è un po’ il fratello scemo del buon senso, fa presto a desiderare alternative ad una democrazia umiliata e offesa: “meglio che decida uno solo, no? Almeno si fa prima, e del resto, come si può far peggio di così?”. Alternative che sono sempre, sempre, sempre, dannatamente e tragicamente peggiori, come si scopre poi, quando è troppo tardi. P ie ro F a bbr i
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Abbasso lo spreco Nuove sensibilità prendono piede a livello collettivo: dalla Francia, che ne ha fatto motivo di orgoglio nazionale, alle iniziative di singoli individui e operatori, on line e off line, ormai è ufficiale, il cibo ancora commestibile non va sprecato! Che cosa prevede la nuova legge francese? Impedisce alle grandi catene alimentari (sopra i 400 metri) di gettare cibo o di rendere l’invenduto alimentare non più consumabile. Un tentativo legale di ridurre i circa 8 milioni di tonnellate di cibo che ogni anno vanno a finire nel cestino. La legge obbliga le strutture individuate a trasferire alle organizzazioni caritatevoli, previa convenzione, il cibo prossimo alla data entro la quale sarebbe preferibile consumarlo, oppure a trasformarlo in mangime per gli animali o ancora in compost. Ma soprattutto integra la lotta allo spreco alimentare nel percorso scolastico e nel campo della responsabilità delle imprese. Sanzioni fino a 75mila euro di multa o due anni di reclusione. Ed ora la Francia, più o meno per le vie ufficiali, cercherà di convincere la Commissione europea a procedere nella stessa direzione. La Francia è stato il primo Paese al mondo a legiferare sul tema, ma altrove non sono mancate negli anni iniziative private. Esiste ad esempio una piattaforma dove gli utenti sperimentano la condivisione dei prodotti alimentari. Ciò che unisce gli utenti in questo caso è proprio la condivisione della battaglia allo spreco di prodotti che potrebbero essere consumati o diversamente utilizzati. La regola aurea è: non dare agli altri ciò che tu non mangeresti. Si tratta di un progetto nato in Germania e si chiama foodsharing.de (esclusivamente in lingua tedesca). La piattaforma è online dal dicembre 2012, con una spesa di 11mila euro per i programmatori, capitale ovviamente raccolto online, e da allora gli utenti sono già 5mila. Che cosa accade in Italia?
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Siamo tutti d’accordo che bisogna evitare gli sprechi e la sensibilità rispetto a qualche anno fa è decisamente aumentata. Ma ancora c’è tantissimo da fare, infatti emerge dal Rapporto 2015 Waste Watcher, con la validazione scientifica dell’Università di Bologna-Distal, che spreco reale e spreco percepito non coincidono. Mi spiego meglio. Il rapporto contiene i primi dati assoluti per l’Italia dei cosiddetti Diari di famiglia, un test che indica quanto si spreca in casa ad ogni pasto. Il risultato? Lo spreco di cibo domestico reale è circa il 50% superiore allo spreco percepito e dichiarato nei sondaggi. Il rapporto, che evidenzia anche alcuni comportamenti specifici, registra che 1 italiano su 2 compila una lista della spesa per prevenire lo spreco e l’eccesso di acquisto (51%), gli stessi intervistati infatti attribuiscono lo spreco domestico all’eccesso di cibo acquistato. 4 italiani su 5, poi, dichiarano di non gettare in automatico il cibo scaduto, ma di voler assicurarsi che sia davvero andato a male. Spostandoci poi fuori casa, la quantità di italiani che chiede o chiederebbe di portare a casa una doggy bag al ristorante, per non sprecare il cibo che avanza, è pari al 30%. Poi, 9 italiani su 10 mettono chiaramente in relazione spreco di cibo e danno ambientale, altrettanti (oltre il 90%) auspicano che il tema dell’educazione alimentare possa essere affrontato già a scuola. Va infatti sottolineato come lo spreco alimentare inquini, tra emissioni in atmosfera per produrre il cibo, quelle connesse al trasportarlo e poi per smaltirlo, se buttato. Ultimo dato, ma non meno rilevante, in Italia nel giro di un anno, si spreca tanto cibo che potrebbe soddisfare il fabbisogno alimentare di tre quarti della popolazione italiana, quasi 44 milioni e mezzo di persone. Non rimane che, anche in Italia, chi, preposto, ne prenda atto e legiferi coscientemente di conseguenza. Ma in fondo, per la verità, sta a tutti noi, nella quotidianità, trasformare in realtà lo slogan Abbasso lo spreco! alessia.melasecche@libero.it
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I colori di un garage in Algeria Una sera, mentre stavano rientrando nel garage senza finestre adibito ad alloggio nella periferia di Orano, in Algeria, Marie, una nigerina di trent’anni e sua figlia di dodici anni vengono aggredite e violentate. Marie corre alla stazione di polizia per sporgere denuncia e scopre di non poterlo fare perché lei e sua figlia sono immigrate clandestine, non hanno documenti né mai li avranno, la legislazione algerina non prevede il rilascio di un permesso di soggiorno e neanche la regolarizzazione degli immigrati. Senza i documenti non si hanno neanche i diritti. Quella sera alla stazione di polizia, Marie e sua figlia scoprono che, dopo aver trascorso tre anni in Algeria, ufficialmente per il paese loro non esistono. Da quando l’economia tunisina è crollata, la Libia è precipitata nel caos e nel Mali tira vento di guerra, l’Algeria, da luogo di transito dei flussi migratori è diventata a luogo di lunga permanenza di chi cerca di entrare in Europa. Con la sua laurea in ingegneria e un po’ di soldi in tasca, Iréne si è lasciata alle spalle il Camerun e ha intrapreso un lungo viaggio verso l’Europa; ha attraversato la Nigeria stipata a bordo di un fuoristrada, ha stazionato ad Arlit nel Niger al confine con il Sahara in attesa di un autobus che non partiva mai, da lì ha raggiunto Orano, che si trova sulla strada per il Marocco da dove, attraverso Ceuta e Melilla, è possibile raggiungere clandestinamente l’Europa. Alla stazione degli autobus di Arlit, Iréne ha consegnato tutti i
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suoi averi, i soldi e il telefono, ai trafficanti, sperava che a Orano avrebbe guadagnato il necessario per ripartire e invece sono già tre anni che cerca di sopravvivere clandestinamente nella periferia algerina. Oggi collabora con una ONG che aiuta i migranti come lei ed è lì che ha incontrato Marie e sua figlia. Come loro due, anche lei abita in un garage senza riscaldamento e senza luce pagando un affitto in nero. Fino a pochi anni fa gli algerini, quando vedevano qualcuno con la pelle scura mendicare in strada, chiamavano la polizia. I migranti venivano tutti rimpatriati, non veniva concessa ospitalità neanche ai rifugiati politici, racconta Iréne, gli algerini non sono abituati ad una società multietnica e neanche a gente di altre confessioni religiose. Nel giro di quattro anni i migranti con la pelle scura sono quadruplicati e la loro permanenza in Algeria si è allungata, con i mutamenti in corso nella fascia nordafricana la società sta cambiando in fretta e il paese si trova in un momento di stallo, con un presidente-padrone novantenne, Abdelaziz Bouteflika, che non si sa se sia capace di intendere e volere o addirittura se sia ancora vivo. Non possono continuare a farci lavorare in nero e ad affittarci questi garage abusivamente e poi far finta che non esistiamo, si sfoga Marie, mentre sua figlia, seduta in un angolo del garage, sta colorando le pareti grigie con i pennarelli che le hanno regalato. Le piace colorare, passa tutto il giorno con quei pennarelli, d’altra parte senza documenti non può andare a scuola e farsi degli amici, spiega la madre. Francesco Patrizi
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Gli YAZIDI - un popolo dimenticato parte II
Nel precedente articolo abbiamo parlato degli Yazidi, un popolo dimenticato, ma finito anch’esso, insieme ai Kurdi, ai Cristiani di Oriente e ad altri gruppi etnici, nel mirino del Daesh-Is. Lo abbiamo definito popolo ma torniamo a precisare che il termine usato è improprio. Essi non costituiscono un gruppo etnico separato. Sono di etnia kurda, con la differenza che praticano una religione diversa nella quale si fondono o si giustappongono apporti musulmani, cristiani ed animistici. Questo carattere decisamente sui generis li ha resi malvisti non solo dai Cristiani ma anche e soprattutto dai Musulmani sunniti che li chiamano “adoratori del diavolo” per una errata interpretazione della figura Malek Taus, l’Angelo Pavone, oggetto di culto da parte degli Yazidi, confuso con Iblis, il Lucifero della religione islamica. Fatto questo che li ha esposti più volte nei secoli a periodiche persecuzioni come il loro cugini kurdi. Non molto chiara è l’origine del nome che deriverebbe secondo la maggior parte degli storici delle religioni dal califfo ommyade Yazid I. Nel numero di febbraio avevamo trattato, nello spazio consentito da un articolo, della loro religione e dei loro usi e costumi, ora ci occuperemo della loro storia. Citati per la prima volta dagli storici arabi nel XIV sec. gli Yazidi fecero parlare di sé per l’eroica resistenza che opposero agli invasori Arabi nella città di Mossul, allora punto strategico di incrocio di importanti vie carovaniere che dall’Asia centrale portavano verso la Siria e il Mediterraneo, oggi importante centro petrolifero. Superarono indenni il dominio della dinastia persiana Safavide e dei turchi ottomani. I Mongoli di Hulegu che avevano occupato l’Iraq e preso Baghdad dopo solo una settimana, a Mossul trovarono la fiera resistenza yzide che li costrinse ad un vasto spiegamento di forze. Gli Yazidi non ebbero vita facile sotto l’impero ottomano che a più riprese li perseguitò. Nel 1892 l’esercito ottomano penetrò nella valle di Lalish, massacrando la popolazione e distruggendo il mausoleo di Shaykh Adi, profeta e riformatore della loro religione. Anche nel XX sec. le cose non cambiarono, una prima persecuzione si ebbe in Iraq nel 1957 penultimo anno di regno di Feysal II. Dopo la proclamazione della repubblica fu Ahmed Hasan Bakr del partito Ba’at a riprendere le persecuzioni nel 1969 e nel 1975. Nello stesso periodo anche la Turchia attuò una politica discriminatoria nei loro confronti. Negli anni Ottanta migliaia di Yazidi turchi furono costretti a lasciare il paese emigrando soprattutto in Germania. Durante il regime di Saddam Husseyn vennero classificati come Arabi, ma pur sempre discriminati. Negli anni 1987-88 Saddam scatenò una durissima repressione; in migliaia furono deportati nella regione montuosa del Jebel Sinjar, loro luogo di origine. Dopo la caduta di Saddam nel 2003 i Kurdi chiesero al nuovo governo iracheno di considerarli kurdi a tutti gli effetti. Nel 2014 la piana di Mossul fu attaccata dalle milizie sunnite fondamentaliste del Daesh-Is guidate dall’autoproclamato califfo Abu Bakr al Baghdadi. Secondo stime ONU si calcola che 5000 Yazidi siano stati uccisi, altri 7000 catturati e venduti schiavi, mentre circa 50 mila sarebbero quelli che hanno cercato rifugio all’estero. Non si conosce con esattezza il loro
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numero considerando che per la loro storia, caratterizzata da periodiche persecuzioni, vivono in vari stati. Il gruppo principale vive o meglio viveva in due zone dell’Iraq, i monti del Jebel Sinjar e distretti di Badinan detto anche Shaykhan e di Dohuk ed è quello che ha subito di più le violente epurazioni del Daesh. Una consistente minoranza yazida era stanziata nella Turchia sud-orientale, precisamente nelle province di Dyiarbakir e Mardin, ma gran parte di essa è emigrata in massa, negli anni ’80 del XX sec., in Germania dove vivono in 40.000. Almeno 50.000 yazidi vivono nell’ex URSS, un gruppo consistente (circa 5000) è stanziato in Siria nei dintorni di Aleppo, un numero imprecisato in Iran, per non parlare di quelli che, seguendo i drammatici flussi migratori, hanno raggiunto il Nord Europa o gli USA. La Diaspora e la situazione caotica in Siria e in Iraq rendono difficile se non impossibile un’esatta stima numerica. Gli Yazidi nella loro memoria storica ricordano ben 73 persecuzioni subite, forse più di ogni altro popolo del martoriato Oriente. Militarmente deboli, anche se di notevole coraggio, numericamente inferiori ai Kurdi, sono proprio essi ad aver subito l’impatto più violento della ferocia integralista del sedicente califfato. I massacri, le distruzioni dei luoghi sacri con danni irreparabili al patrimonio storico-archeologico, per non parlare di stupri e rapimenti, non si contano. Il 01.05.2015 fonti kurde parlano dell’uccisione di 300 yazidi, a cui è seguita la distruzione di Tal Afer vicino Mosul, il 30.11.2015 è stata rinvenuta una fossa con 120 cadaveri…. L’elenco purtroppo non finisce qui. Vittime di tanta ferocia sono soprattutto donne e bambini. Questi ultimi, quando non vengono uccisi, sono rapiti e portati in campi appositi di addestramento per farne, dopo il lavaggio di cervello, dei combattenti o peggio dei martiri pronti ad immolarsi per la causa dell’Islam. Quanto alle donne, specie se vergini, subiscono stupri e violenze di ogni genere, per poi essere vendute come animali al mercato o date in mogli ai combattenti della Jihad. Giova ricordare in chiusura di articolo la storia atroce di Jinan, una yazide che ha avuto il coraggio di raccontare la sua terribile vicenda in un libro, sfidando le ataviche usanze della sua gente che le imponevano il silenzio pena il disonore e la condanna delle autorità religiose. Catturata dai miliziani dell’IS nell’agosto 2014, separata brutalmente dal marito Walid e dai genitori, viene insieme ad altre ragazze segregata subendo ogni sorta di violenze fisiche e morali, dallo stupro fino a costringerla a bere acqua inquinata con topi morti, per costringerla a compiacere i combattenti della Jihad. Jinan, nonostante la giovane età, è una ragazza intelligente ed istruita, parla e capisce l’arabo riuscendo a sapere in anticipo le mosse degli aguzzini. Un giorno riesce a liberarsi insieme alle altre, approfittando dell’assenza dei miliziani, con un telefonino manda un SOS. Liberata, raggiunge dopo un viaggio avventuroso la Francia e da Parigi lancia la sua denuncia raccontata nel libro Schiava del Daesh, testimonianza da non perdere. Jinan è stata fortunata, ora è al sicuro con i familiari, non verrà perseguita dalle autorità religiose per aver parlato di argomenti tabù, ma di quante altre Pierluigi Seri Jinan non ne sapremo nemmeno il nome?
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AZIENDA OSPEDALIERA
S.C. Chirurgia Generale, Deg
UNITÀ DI DA
Dr. Marsilio Francucci Direttore della S.C. Chirurgia Generale, Degenza Breve ed ambulatoriale A z ie n d a O s p e d a lie r a “S. Mar ia” di Te r ni
L’innovazione delle tecniche chirurgiche ed anestesiologiche, con la progressiva diffusione della chirurgia mini invasiva e la necessità di perseguire efficienza ed appropriatezza clinico organizzativa, nel 2004 hanno determinato l’istituzione presso l’Azienda ospedaliera Santa Maria di Terni della Struttura Complessa di Chirurgia Generale Degenza Breve ed Ambulatoriale, ad integrazione dell’Unità di Day Surgery, attiva già dal 1997. L’individuazione di una struttura multidisciplinare, funzionalmente collegata con le altre Unità Operative Chirurgiche, dove effettuare tutta l’attività di day surgery dell’Azienda ospedaliera di Terni ha rappresentato un modello fortemente innovativo per il Servizio Sanitario Nazionale, in seguito adottato da molte altre realtà Italiane. L’attuale organizzazione del reparto si basa sul principio di offrire diversi livelli d’intensità assistenziale in funzione dei bisogni espressi dal paziente, che viene accompagnato lungo l’intero percorso chirurgico. Nella reception, concepita come spazio aperto, si effettuano le attività di pre-ricovero e l’accettazione dei pazienti. La prima accoglienza avviene nelle stanze di degenza o negli spazi adibiti per la chirurgia ambulatoriale “complessa”, dove il paziente viene preso in carico dall’infermiere, che verifica la documentazione clinica e fornisce le informazioni utili a rendere confortevole la permanenza in reparto. Successivamente i pazienti vengono accompagnati in sala operatoria e dopo l’intervento chirurgico vengono assistiti in funzione del trattamento chirurgico effettuato e del tipo di monitoraggio richiesto: sono disponibili 6 postazioni con monitoraggio intensivo post-operatorio, una sorta di recovery room e 14 posti letto per il ricovero ordinario o per il day surgery con pernottamento. Per i pazienti trattati in Day Surgery o in regime ambulatoriale, che necessitano di un periodo di osservazione post-operatoria prolungato, sono stati individuati 3 posti letto cosiddetti “tecnici”, che hanno facilitato l’esecuzione in regime ambulatoriale di interventi relativamente complessi, come l’ernioplastica inguinale ed ombelicale, che il Patto per la Salute considera appropriati solo se effettuati in tale regime assistenziale. Nel reparto, aperto dal lunedì al venerdì, ogni giorno vengono effettuati mediamente 24 ricoveri; ciò rende possibile eseguire ogni anno circa 5.000 interventi chirurgici con una degenza post-operatoria inferiore alle 24 ore. La S.C. di Chirurgia Generale Degenza Breve effettua attività in regime di ricovero ordinario (Week Surgery), di Day Surgery ed in regime ambulatoriale. Vengono effettuate visite specialistiche chirurgiche presso i Poliambulatori 3 volte alla settimana e visite senologiche
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presso il Centro Salute Donna il Martedi ed il Mercoledi, con richiesta del medico curante. L’impegno degli operatori e l’organizzazione del reparto mirano a rispettare la Carta Europea dei Diritti del malato per assicurare la centralità del paziente ed un’elevata qualità dei servizi erogati. Viene garantita la presa in carico globale ed un’assistenza personalizzata per migliorare la sicurezza e la qualità delle cure. Al momento della dimissione, per garantire la continuità assistenziale tra ospedale e territorio e facilitare l’affidamento al Medico di Medicina generale, vengono forniti i consigli comportamentali da seguire, una volta tornati a domicilio, pianificati i controlli post-operatori e consegnata la lettera per il Medico Curante. Per coinvolgere i pazienti nella valutazione del servizio erogato, alla dimissione viene somministrato un questionario per la rilevazione della soddisfazione e della qualità percepita. Le informazioni ottenute vengono utilizzate, in occasione delle riunioni di audit di reparto per migliorare la qualità del servizio. Recentemente la struttura di Chirurgia Generale, Degenza Breve ed Ambulatoriale di Terni ha
S A N TA M A R I A D I T E R N I
genza Breve ed ambulatoriale
AY S U R G E R Y
oncoplastica. Effettua inoltre interventi di proctologia, flebologia, urologia in Day Surgery e di riparazione delle ernie inguinali e della parete addominale. Presso l’Unità di Day Surgery dell’Azienda ospedaliera ha sede la Scuola Speciale di Chirurgia Ambulatoriale e Day Surgery, istituita nel 2011 dall’Associazione Nazionale dei Chirurghi Ospedalieri (ACOI), che prevede un corso ad indirizzo professionale ed un corso manageriale, destinati a professionisti interessati a sviluppare le attività chirurgiche a ciclo diurno. Ogni anno chirurghi ed infermieri, provenienti da tutte le Regioni Italiane frequentano per 3 settimane la struttura e vengono supportati per realizzare un progetto di miglioramento organizzativo relativo alla propria realtà ospedaliera.
Équipe Direttore S.C. Chirurgia Generale, Degenza Breve ed ambulatoriale:
Fotoservizio di Alberto Mirimao
aderito ai principi dell’ERAS (Enhanced Recovery After Surgery), che prevedono la mobilizzazione precoce, la gestione del dolore post operatorio ed una serie di accorgimenti peri-operatori, volti a favorire l’appropriatezza clinico-organizzativa, la rapida ripresa delle funzioni vitali e lo sviluppo delle “buone pratiche cliniche”. Particolare attenzione viene posta all’aggiornamento continuo di tutti gli operatori per favorire lo sviluppo dell’assistenza basata sulle evidenze cliniche (EBM). Per ridurre lo stress legato all’intervento chirurgico viene posta particolare attenzione al comfort durante tutte le fasi del ricovero; inoltre, sempre nell’ambito del processo di umanizzazione delle cure, dopo la recente riapertura del reparto, negli spazi comuni è stata allestita una mostra d’arte permanente (Arte in corsia). La struttura complessa di Chirurgia a Degenza Breve effettua interventi di chirurgia oncologica per il trattamento dei melanomi e delle neoplasie della mammella, assicurando la Biopsia del linfonodo sentinella e le moderne tecniche di
Dr. Marsilio Francucci Dirigenti Medici: Dr. Paolo Fantaccione, Dr.ssa Marina Vinciguerra Coordinatore Infermieristico: Fabrizio Corvi Infermieri: Federica Andreani, Daniela Arcangeli, Stefano Bruni, Giovanna Currao, Maria Cristina Lamberti, Valmarita Massarini, Roberto Orefice, Donatella Perotti, Sonia Pettinacci, Michela Tempobuono O.S.S.: Tiziana Battistoni, Mirella Virili
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Be n e f i c i ami a n t o IN COSA CONSISTONO I BENEFICI AMIANTO? Ai lavoratori che sono stati esposti all’amianto, o che hanno contratto una malattia professionale a causa dell’amianto, l’ordinamento (Legge 257/92 e successive modifiche) ha riconosciuto taluni particolari benefici previdenziali che consistono nella possibilità di raggiungere prima la pensione e/o di ottenere un importo mensile della pensione medesima maggiorato. Il beneficio in questione può essere riconosciuto però solo nei confronti dei lavoratori (o ex lavoratori) dipendenti e, pertanto, non può essere erogato nei confronti dei lavoratori autonomi ancorché costoro abbiano prestato attività lavorativa con esposizione all’amianto. In particolare, sono previsti: 1) una maggiorazione del 50%, ai fini del diritto e del calcolo della pensione, dei contributi di tutti i periodi in cui risulti l’esposizione all’amianto per i lavoratori che, a causa di tale esposizione, abbiano contratto o contraggano una malattia professionale documentata dall’Inail. In tali casi la domanda è ancora oggi proponibile. Per quanto riguarda il beneficio di cui sopra non è richiesta una durata minima di esposizione. 2) maggiorazioni diverse (in relazione al momento in cui è stata proposta la domanda all’INAIL), ovvero una maggiorazione del 50% (ai fini del diritto a pensione e del calcolo della pensione, se la domanda all’Inail è stata proposta entro il 2.10.2003) o una maggiorazione del 25% (ai fini del solo calcolo della pensione, se la domanda all’Inail è stata proposta dal 3.10.2003 al 15.6.2005) dei contributi di tutti i periodi in cui risulti una esposizione qualificata superiore a 100 fibre per litro per oltre dieci anni, esclusi periodi di CIG o Servizio Militare. La condizione per l’ottenimento dei benefici contributivi, in difetto di malattia di cui al punto 1), è quindi che la domanda per il riconoscimento della esposizione all’amianto sia stata presentata all’INAIL entro il 15 giugno 2005. Se però nei 10 anni dalla domanda all'INAIL non si è proposta domanda all'INPS si può incorrere in problemi di prescrizione. La domanda all'INPS, rimasta magari senza risposta, deve essere seguita da azione giudiziaria contro lo stesso INPS entro 3 anni e 300 giorni. In sintesi: - chi si scopre ancora oggi, o domani, affetto da malattia da amianto (tumori polmonari, mesoteliomi, placche pleuriche, tumori dell’ovaio o del testicolo, tumori della laringe, ecc. ecc.) può sempre proporre domanda per i relativi benefici in sede INAIL e in sede INPS; - chi è stato solamente esposto all’amianto (esposizione decennale qualificata, ossia superiore a 100 fibre per litro), può chiedere i benefici in sede INPS solo a condizione che abbia proposto domanda all’INAIL entro il 15.06.2005 (eventuali problematiche prescrizionali vanno esaminate caso per caso). Infine: dopo l’approvazione della Legge di Stabilità 2016 vi sono alcune novità: 1 - il riconoscimento dei benefici per i lavoratori del settore della produzione di materiale rotabile ferroviario che hanno partecipato alle operazioni di bonifica; 2 - la proroga al 31.12.2016 del termine entro cui lavoratori collocati in mobilità con beneficio amianto al 25% possono presentare domanda all’INPS per ottenere il riconoscimento della rivalutazione al 50%;
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3 - estensione dei benefici del Fondo Vittime dell’amianto. Termini per le domande molto ristretti. SE UNA PERSONA OGGI SCOPRE DI AVERE UNA MALATTIA DA AMIANTO E NON HA FATTO LA DOMANDA DI BENEFICI PENSIONISTICI EX NEI TERMINI, COSA PUÒ RICHIEDERE, COME E DOVE? E COS’È IL FONDO VITTIME DELL’AMIANTO? Se un lavoratore scopre di avere una patologia asbesto correlata, fermo quanto ho già esposto al punto 1) può anche proporre domanda all’INAIL (entro 3 anni da quando ha conoscenza della malattia) per il riconoscimento della natura professionale della patologia asbesto correlata ed ottenere così dall‘INAIL l’indennizzo (invalidità dal 6% al 15%), ovvero la rendita (invalidità dal 16% in poi). Ai titolari di rendita per patologie dovute ad esposizione all’amianto o, in caso di morte, agli eredi titolari di rendita a superstiti è corrisposta una prestazione economica aggiuntiva a carico del Fondo Vittime dell’Amianto istituito presso l’Inail. SE UNA PERSONA LAVORA O È PENSIONATA HA GLI STESSI DIRITTI IN PROPOSITO? Sì, ovviamente se un lavoratore è già pensionato (ma non al massimo della contribuzione) ha interesse alla rivalutazione della pensione (sempre che il suo diritto non sia prescritto) per ottenere una maggiorazione del rateo mensile alla luce dei contributi “amianto” che gli dovessero essere riconosciuti. L’AMIANTO È STATO TUTTO RIMOSSO? CI SONO INCENTIVI PER LA RIMOZIONE? L’amianto è stato da sempre utilizzato sotto varie forme: nell’industria; nell’edilizia e nei trasporti. Purtroppo non tutto l’amianto (stante la diffusa e varia utilizzazione) è stato rimosso; ciò che è certo è che dall’anno 1992 le aziende ed i privati si stanno adoperando in tal senso. La Legge istituisce un credito di imposta del 50% per gli anni 20172019 per le imprese che effettuano interventi di rimozione dell’amianto. ALMENO NELLE FABBRICHE È CERTO CHE SIA STATO RIMOSSO TUTTO? Purtroppo no. Come dichiarato anche dal Presidente dell’INPS Prof. Tito Boeri nel novembre 2015 - nel corso dell’Assemblea Nazionale sull’amianto che si è tenuta in Senato il 30.11.2015 - in Italia ci sono ancora 32 milioni di tonnellate di amianto. DOVE E COME È STATO SMALTITO L’AMIANTO RIMOSSO? La rimozione dell’amianto è avvenuta in tre modi: rimozione, sovracopertura o incapsulamento ad opera di ditte specializzate iscritte in apposito albo. Tuttavia, come affermato da Legambiente nell’aprile 2014 (in occasione della giornata mondiale per le vittime dell’amianto), le operazioni di bonifica sono molto lente; il 75% dei rifiuti contenenti amianto vengono esportati per essere smaltiti all’estero (in particolare in Germania). Legambiente lamenta, altresì, giustamente il deplorevole fenomeno, ancora in essere, delle discariche abusive dove vengono abbandonati materiali nocivi tra i quali l’amianto.
Intervista all’Avv. Paolo Crescimbeni
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Circolo Lavoratori Terni La fabbrica dello sport
C’è un inossidabile filo di acciaio che lega le acciaierie di Terni alla propria comunità. Nel corso di tutti questi anni un’intera città si è identificata nella propria fabbrica interpretandola e vivendola oltre il quotidiano lavoro. Il Circolo Lavoratori Terni è la forte rappresentazione di questo cordone ombelicale che unisce il territorio all’Ast. I circoli aziendali del dopolavoro, per oltre un secolo, sono stati luoghi di sport e cultura. La passata ricchezza del tessuto industriale ternano (siderurgia, chimica, elettricità) ha consentito a tante generazioni la pratica sportiva, svolta in una impiantistica qualificata. Ancora oggi godiamo e fruiamo di tali testimonianze. Il CLT nasce nel 1927, come dopolavoro per operai ed impiegati dell’allora Terni, Società per l’Industria e l’Elettricità. In poco tempo, accanto alla struttura centrale sorgono quattro sedi periferiche (Collestatte, Morgnano, Nera Montoro, Sant’Angelo in Mercole di Spoleto). Il numero dei soci cresce in modo esponenziale, in funzione degli occupati, raggiungendo le oltre 18mila unità del 1940. Il positivo entusiasmo per le attività della Società Sportiva della Terni porterà alla costruzione, nel 1925, del glorioso stadio di viale Brin, ribattezzato dai ternani la “pista”, poiché oltre al campo da calcio comprendeva un velodromo con curve paraboliche sopraelevate per il ciclismo ed il motociclismo, oltre ad una pista in carbonella di quattro corsie dedicata all’atletica (Volfango Montanari olimpionico ad Helsinky nel 1952 ha iniziato lì). Quante partite e quante emozioni su quel campo! La squadra della Ternana vi ha scritto pagine di sport a pieno titolo divenute patrimonio storico di una città. Come non ricordare poi le mitiche gesta dei motociclisti del tempo: Liberati, lo spoletino Remo Venturi che vi vinse nel 1950 la sua prima gara, l’esuberante ternano Ferdinando Natali detto Zughero. Quest’ultimo va ricordato per una simpatica battuta. A chi gli chiedeva chi fossero i piloti a Terni, rispondeva: Io e un certo Liberati. Da notare che Libero Liberati già disputava il mondiale, vincendo nel 1957 il titolo iridato. Zughero invece rimane negli annali per una sua funambolica uscita di pista alla parabolica del “B. Brin”. Atterrò miracolosamente incolume, vicino all’ambulanza parcheggiata all’esterno dell’anello. Oggi questo campo, con la preziosa tribuna liberty, non esiste più, sacrificato per far posto ad un parcheggio. È rimasto un pezzo di parabolica, ultima testimonianza di un luogo molto caro agli sportivi ternani. Ho proposto anni fa, al fine di non perderne la memoria storica, la posa di una stele di acciaio inossidabile lungo Viale Brin, con inciso il profilo architettonico del vecchio stadio. Sarebbe bello se l’attuale dirigenza di Thyssen Krupp raccogliesse questa proposta. L’attività del Circolo, in quegli anni pionieristici, provvedendo “all’educazione religiosa, fisica e culturale delle maestranze”, spazia in diversi campi: dalla cultura all’organizzazione di gite, dalle serate danzanti all’intensa promozione dello sport. Dopo la guerra, per il sodalizio ternano, che ha nel frattempo mutato il proprio nome in quello di Unione Sportiva Lavoratori, comincia la ricostruzione: nel 1949 viene inaugurato il complesso sportivo di via Muratori; nel 1960 è sciolta la gloriosa Unione Sportiva con i cui colori avevano gareggiato, fra gli altri, campioni come Amleto Falcinelli, Ernesto Sabbati, Umberto Trippa. Nasce il Circolo Dopolavoro Aziendale nella cui gestione, con l’approvazione dello Statuto dei Lavoratori, entrano anche i rappresentanti sindacali. Nel 1974 viene completata, in via Muratori, quella che ancora oggi è l’attuale sede del Circolo. Nel 1989 la Terni viene rilevata dall’Ilva. Il Circolo e tutti i suoi beni sono affidati al controllo dell’Ilva Gestioni Patrimoniali. Nel 1995 il Circolo viene riacquistato dalla Acciai Speciali Terni, tornando solido punto di riferimento per il mondo sportivo cittadino. Ben undici sezioni sportive sono attualmente operative al CLT con una partecipazione di presenze e di risultati davvero importanti. È di questi giorni l’impegno di AST per riqualificare un’area degradata vicino al centro remiero di Piediluco. Un progetto che consentirà di migliorare l’offerta impiantistica per il canottaggio. Un plauso al dinamico presidente Giovanni Scordo. Ne sarà sicuramente contento l’allenatore della squadra di canottaggio del CLT Fabio Poletti, forgiatore di tanti campioni. Grandi speranze riponiamo su Matteo Mulas. Parlo sempre volentieri del CLT e delle tante eccellenze che esprime, visto che ne ho fatto parte e lo sento ancora come il mio Circolo. Percorrendone i vialetti sempre curati ed in ordine, ripenso con nostalgia ai vecchi colleghi della fabbrica che con passione hanno vestito i panni di dirigenti sportivi per tanti anni. Non me ne vorrà nessuno se, nel chiudere, ricordo il mio amico Alfredo Vinco. Ci ha lasciato troppo presto creando un vuoto non solo nella pallavolo ma nel cuore di chi lo ha conosciuto. St e f ano Lupi Delegato Coni Terni
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Prestare casa, istruzioni per l’uso! Prestare la propria casa a qualcuno, anche quando si tratta dei propri figli, è un gesto che merita una speciale attenzione e va compiuto con grande consapevolezza perché le conseguenze che possono derivarne potrebbero andare ben al di là di quanto immaginato. Giuridicamente si tratta di un contratto comodato d’uso, di quelli che vengono chiamati “contratti di prestito”, normalmente a titolo gratuito. Parliamo di un contratto cosiddetto reale, che si perfeziona, cioè, oltre che con il consenso delle parti anche con la consegna materiale della cosa. Se non c’è la consegna non c’è il contratto. Nel comodato una parte (detta comodante) consegna all’altra (detta comodatario) un bene mobile o immobile per un determinato periodo di tempo. Il comodatario ha l’obbligo di riconsegnare il bene al proprietario (comodante) alla scadenza, stabilita. Il comodatario diviene così titolare di un diritto personale di godimento di un immobile. Questo sta a significare che il comodatario può utilizzare il bene solo per la durata e l’uso pattuiti, custodendolo “con la diligenza del buon padre di famiglia” e non può cedere ad altri il diritto di godere del bene, senza esplicito consenso del proprietario. Qualora il comodatario non rispetti tali obblighi contrattuali, il proprietario può richiederne sia l’immediata restituzione del bene, sia il risarcimento dei danni. Se nel contratto non è espressamente indicata la scadenza, e questa non è neppure desumibile dall’uso cui il bene è destinato, il comodatario è tenuto a restituire il bene non appena il comodante lo richieda, si tratta del così detto comodato ad nutum, art. 1810 c.c. Il contratto di comodato d’uso è disciplinato dagli art. 1803 c.c. e s.s. e viene utilizzato solitamente all’interno dell’ambito familiare rappresentando uno strumento sovente utilizzato dai genitori o da altri parenti come soluzione al problema abitativo delle giovani coppie che vogliono metter su famiglia. Ma cosa ne è della casa quando, ad esempio, il figlio che ha ricevuto l’immobile dal genitore proprietario dopo qualche anno si separa e la casa viene affidata all’altro coniuge? È evidente come in questo caso due sono gli interessi che vengono a scontrarsi: da una lato quello del proprietario, e del suo diritto costituzionalmente garantito a non vedersi privato del bene, dall’altro quello del coniuge assegnatario, il quale ha ricevuto tale riconoscimento proprio in ragione del diritto dei figli alla conservazione del loro ambiente familiare. La Cassazione dopo qualche esitazione con una presa di posizione sin troppo netta, che ha ritenuto che “(…) nell’ipotesi di concessione in comodato da parte di un terzo di un bene immobile di sua proprietà perché sia destinato a casa familiare, il successivo provvedimento di assegnazione in favore del coniuge affidatario di figli minorenni (…), emesso nel giudizio di separazione o di divorzio, non modifica la natura ed il contenuto del titolo di godimento sull’immobile, ma determina una concentrazione, nella persona dell’assegnatario, di detto titolo di godimento (…), con la conseguenza che il comodante è tenuto a consentire la continuazione del godimento per l’uso previsto dal contratto… che questi (il comodante) è tenuto a consentirne la continuazione anche oltre l’eventuale crisi coniugale, salva la sopravvenienza di un urgente e imprevisto bisogno”. Cass S.U. 20448/2014. È evidente come un’applicazione così rigida costituisca un forte deterrente all’uso dell’istituto soprattutto se si compara la gratuità del comodato con il sacrificio potenzialmente illimitato che il proprietario dell’immobile è chiamato a compiere e ciò anche qualora sia un terzo estraneo che, come tale, non dovrebbe avere obblighi di solidarietà post coniugale! Informatevi e buona lettura del codice civile a tutti! Avv. M ar t a Pe t roc c hi legalepetrocchi@tiscali.it
Lu bbarbie b barbierr e
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Barba bbaffi e bbrillantina… le tre “bbi” de lu bbarbiere che tte déa ‘n’ arpulitina co’ l’attrezzi de mestiere. T’arrotava ‘n bo’ li bbaffi te faceva più sbarbatu quarche vvorda ‘n bo’ de graffi e ‘n capellu bbrillantatu. Quillu taju sempre ‘guale ‘n bo’ dettatu da micragna era fattu o a l’ umberta o scrimatu a la mascagna. A lu cliente ‘ffezzionatu in omaggiu pe’ Nnatale ‘n calendariu prufumatu co’ ‘che femmina fatale. Tuttu quantu progredisce mo’ ‘n barbiere è ‘n parrucchiere se po’ di’ se sbizzarrisce
a rrestauralle... le criniere. Li capilli che sso’ bbianchi te li tigne a ppiacimentu ‘n do’ ce stonno ‘n bo’ d’ammanchi prova a ffacce che rrammendu. Lu riportu da sinistra p’arcopritte la pelata e dda destra ‘rva a ssinistra come ‘na rimpatriata. Issu s’è spicializzatu… lu cliente è ppiù ‘siggente… ma t’armane ‘n bo’ spiazzatu se tt’è ‘rmastu pocu o gnente. A ‘llu puntu lu bbarbiere… che mmiraculi non fa… proseguenno ‘llu mestiere… Lei è ssirvitu… mo’ a cchi sta!? Paolo Casali
(Canzone cantamaggio 1998)
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La bucata In dialetto si diceva la bbucàta. Il problema era che a scuola la maestra diceva “il bucato” e, se lo diceva la maestra, era così e basta. L’etimologia della parola è a dir poco complessa. C’è chi sostiene che il nome potrebbe derivare dal fatto che i panni da lavare venivano messi in un apposito recipiente munito in basso di un foro, da cui bucato. Altri esperti invece ritengono che la parola bucato sia connessa col verbo germanico bukon (lavare con liscivia) o dal tedesco-svizzero buchete (insieme dei panni messi in bucato) in cui il suffisso germanico sarebbe stato sostituito dal corrispondente –ata latino. Se così fosse, dicono, si potrebbe sostenere che questa parola risalga a una voce latina di epoca tardo-imperiale, figlia di contatti fra militari romani accampati alle frontiere e i popoli germanici che usavano lavare gli indumenti con questo sistema. Qualunque sia l’origine del nome resta il fatto che fino al 1960 o giù di lì, in Italia e in molte altre parti del mondo, i panni sporchi venivano lavati con acqua e cenere. Scendiamo nei particolari facendo appello alla memoria dei più vecchi. Innanzitutto fare la bucata era compito pesante di tutte le donne della famiglia. Nei rarissimi casi in cui le donne erano insufficienti di numero, si aiutavano a vicenda con le altre del vicinato. Le lenzuola, le federe, gli asciugamani, i teli usati per coprire il pane, le fasce dei neonati e ogni altra stoffa o indumento bianco venivano prima accuratamente lavati col sapone fatto in casa e poi messi in un apposito recipiente, in genere una cassa o una tinozza. Particolare cura richiedeva la scelta del legno con cui il recipiente veniva realizzato. Doveva necessariamente trattarsi del pregiato rovere o del povero pioppo, perché il castagno, per es., stinge colorando l’acqua di rosso. Nelle case delle persone abbienti e in quelle dei nobili, la servitù disponeva di un apposito locale attrezzato all’uopo con recipiente in muratura, o in cotto, con l’indispensabile buco. Sul fondo di tale contenitore venivano stese maglie intime logore e smesse perché agissero da filtro per il drenaggio e sopra si stendeva l’altra biancheria lavata. Il tutto, infine, era ricoperto da un grande telo ricavato da sacchi di iuta usati per contenere lo zucchero, e quindi fatti a trama fitta, atta a trattenere la cenere. A questo punto si potevano usare due metodi: uno consisteva nel versare la cenere del forno, perché in genere priva di particelle incombuste, direttamente sul telo di iuta e sopra di essa l’acqua bollente, oppure la cenere, passata al setaccio se necessario, veniva fatta bollire nel caldaio insieme all’acqua e poi versata sopra la pila dei tessuti. In entrambi i casi la liscivia prodotta penetrava nelle stoffe pulendole e uscendo sporca dal buco posto in fondo al contenitore. Venivano fatti diversi passaggi con cenere nuova e acqua calda e all’ultimo si tappava il foro lasciando i panni a mollo per tutta la notte. Il giorno successivo si toglieva il tappo recuperando la liscivia che fuoriusciva e che, messa a bollire di nuovo, poteva essere usata per lavare i panni colorati. La biancheria veniva quindi risciacquata e poi stesa ad asciugare. Tutti questi faticosi lavori erano abbastanza sopportabili se c’era vicino una sorgente d’acqua con lavatoio annesso. Ma nelle case dei contadini o nelle frazioni sperdute, lontane da fiumi e da ruscelli, fare la bucata era una fatica bestiale. La prima bucata dell’anno si faceva nell’ambito delle pulizie che precedevano la Pasqua. Si caricava un quadrupede, in genere un’asina, con tutti i panni sporchi dell’inverno e si andava al torrente o al fiume più vicino. Le donne mettevano un sacco di iuta arrotolato a mò di cuscino sopra una pietra, vi si inginocchiavano sopra e incominciavano a insaponare e a strofinare i tessuti sopra le pietre levigate dall’acqua. Dopo il risciacquo ricaricavano i panni bagnati e pesantissimi sulla groppa dell’asina e tornavano a casa per metterli sotto liscivia. Il giorno dopo rifacevano la stessa strada per il secondo risciacquo. Questa faticosissima operazione veniva ripetuta due o tre volte l’anno, secondo la quantità della biancheria di scorta portata in dote nel capace baule, se il tempo atmosferico lo permetteva e se non c’erano lavori agricoli impellenti. Le nostre madri, per chi ha superato una certa età, o almeno le nostre nonne o bisnonne per i più giovani, non avevano certo bisogno di andare in palestra per mantenere la linea o per rassodare i fianchi. Quando era sera si contentavano di andare a letto presto per un meritato riposo, poppanti permettendo, in attesa che Vittorio Grechi spuntasse il nuovo giorno che portava altra fatica.
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La Chiesa di San Matteo di Sambucetole (AMELIA) L’edificazione del castello di Sambucetole nel territorio amerino risale alla fine del XIII secolo in un periodo di grande crescita demografica e di notevole fermento culturale e religioso per la nostra regione. A questo periodo è ascrivibile anche la costruzione della chiesa parrocchiale dedicata a San Matteo Apostolo. Nel 1880-1881 il parroco Giuseppe Cesaretti diede inizio a importanti interventi di ampliamento e modifica dell’impianto originale della chiesa di San Matteo, che portarono anche alla trasformazione dell’assetto del castello medievale, in precedenza circondato da mura e munito di una sola porta di accesso. Malgrado le rimostranze sollevate in più occasioni dalla popolazione e documentate in memorie d’archivio, la decisione di ingrandire la chiesa fu portata avanti e completata con la demolizione dell’antica facciata e l’allungamento della navata fino alle mura medievali di cinta del castello, che divennero la base per il nuovo prospetto anteriore dove venne realizzata l’attuale porta. All’interno della chiesa è oggi possibile ammirare, sopra l’altare maggiore, una bella tela datata 1639 del pittore senese Marco Antonio Grecchi (territorio senese 1573 c.- Spello 1651) raffigurante La sacra famiglia con san Matteo, sant’Ubaldo e san Rocco, realizzata sotto il parroco Nereo Trasatti da Lugnano a spese dei comitati del popolo. Oltre al patrono san Matteo, nella parrocchiale di Sambucetole è venerata anche l’immagine della Madonna del Buon Consiglio, la cui invocazione sembra abbia preservato nel XVIII secolo l’antico borgo amerino da una terribile tempesta che nelle terre circostanti aveva disseminato paura e distrutto i raccolti, mettendo in ginocchio gli agricoltori. Nella chiesa di San Matteo sono conservate poi altre tre opere di pregio: la tela raffigurante la Madonna del Rosario tra san Domenico e santa Caterina, la tela con il Sant’Antonio abate e la scultura lignea raffigurante il Cristo Deposto. Nel 2012 la Fondazione Cassa di Risparmio di Terni e Narni ha inteso porre l’attenzione proprio su queste tre opere, che necessitavano di un sollecito intervento di restauro. La tela della Madonna del Rosario, con molta probabilità risalente all’inizio del XVIII secolo, raffigura la Vergine assisa sulle nuvole che porge a san Domenico la corona del Rosario, mentre il Bambino, in braccio a Maria, pone sul capo di santa Caterina da Siena una corona di spine. Sulla destra del dipinto, alle spalle di santa Caterina, è rappresentata santa Chiara che sorregge un ostensorio, mentre in alto, tra le nuvole, appare san Francesco. Sulla sinistra del dipinto sono rappresentati il papa, l’imperatore e il popolo che assistono al compiersi del miracolo; in alto tra le nuove si possono scorgere tre putti alati. Il quadro compare già nell’inventario redatto nel mese di giugno del 1726 dal curato pro tempore Angelo Rossi insieme alla tela della cappella di Sant’Antonio abate, mantenuta dalla congregazione dei confrati. L’opera raffigurante Sant’Antonio abate, riconducibile alla prima metà del ’600, presenta aspetti attribuibili alla pittura di ambito senese. Sulla sinistra è visibile la Maddalena e alla destra sant’Antonio da Padova, alle cui spalle è riconoscibile santa Apollonia che reca nelle mani la palma e il simbolo del suo martirio: una pinza con un dente. In alto, al centro della tela, la Trinità con il Figlio deposto. Tutta la scena è incorniciata da nuvole scure e cupe che si aprono come un sipario alla rappresentazione della Trinità. Sul retro della tela è presente una “toppa” che reca il ricordo di un intervento di “restauro” promosso dal parroco Giovenale Perelli ed eseguito il 4 ottobre del 1824 da Leonardo Santini pictor tudertinus, che si occupò anche della tela della Madonna del Rosario. Le due tele della Madonna del Rosario e del Sant’Antonio, poste nelle cappelle laterali della chiesa di San Matteo, sono contornate da cornici in stucco decorate a motivi floreali intervallati da nastri color oro realizzate nel 1927. L’esecuzione del Cristo deposto va collocata tra la fine del XVII e gli inizi del XVIII secolo. La scultura lignea policroma, di dimensioni naturali, risulta per la prima volta presente nella chiesa di San Matteo nel 1771, in quanto citata nell’inventario redatto dal parroco Stefano Perelli. La Fondazione Carit ha curato e finanziato il restauro delle tre opere e delle cornici in stucco, affidando l’incarico alla restauratrice Cristiana Maria Noci che ha realizzato l’intervento sotto l’alta sorveglianza dell’allora Soprintendenza per i Beni Storici, Artistici ed Etnoantropologici dell’Umbria, che si ringrazia per la proficua Anna Ciccarelli collaborazione. Fondazione CARIT
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