Numero 1 2 1 gennaio 2015
Mensile a diffusione gratuita di attualitĂ e cultura
Buon 2015
L’albero delle pistole Non bisogna regalare armi giocattolo ai bambini. Il principio è ormai ben giunto nelle coscienze degli adulti. C’era un tempo in cui i negozi dei giocattoli avevano quasi soltanto due reparti: quello delle bambole per le bambine, e quello delle pistole per i maschietti. Una netta e chiara divisione di scaffali, e soprattutto una precisa e chiarissima determinazione dei ruoli e compiti futuri. Non è più così, per fortuna; o per lo meno, non lo è più in maniera così rigorosa e categorica come era un tempo. Esistono molti giocattoli che sono adatti ad ogni sesso infantile, e soprattutto è molto diminuita l’ansia genitoriale che riteneva scandaloso e pericoloso per un infante giocare con trastulli pensati per l’altro genere. E le armi, poi… se i giocattoli preparano davvero alla vita, allora le armi giocattolo sono indubbiamente la peggiore preparazione possibile. Una palestra di violenza, di prevaricazione; nel migliore dei casi, una scuola per piccoli militari, e quando c’è bisogno di militari significa che i tempi che si vivono non sono tempi piacevoli. Ma è anche vero che più delle regole prefabbricate conta il modo di applicarle, le regole. Si può educare alla prevaricazione e alla violenza anche senza utilizzare facili simboli come un fucile a tappi. È possibile, e generalmente è più crudamente efficace, istruire un bambino alla violenza semplicemente educandolo a considerare gli altri come diversi da sé, come soggetti -o peggio oggetti- da combattere, prevaricare, usare. Ci si riesce benissimo, ed è pratica talmente diffusa che forse non è esagerazione classificarla come il peggiore dei mali dei nostri tempi. Per contro, persino una cosa intrinsecamente sbagliata come il regalare armi giocattolo può avere aspetti divertenti, curiosi, e magari educativi. Molti anni fa, in un quartiere molto periferico della nostra città, c’era un uomo che cercava disperatamente delle pistole giocattolo di piccole dimensioni. Non troppo piccole, a dire il vero, ma un po’ più piccole di quelle che si trovavano facilmente nei negozi. Era un uomo sulla cinquantina, operaio dell’acciaieria, che come buona parte dei suoi coetanei e concittadini si muoveva ogni giorno in bicicletta per raggiungere la fabbrica e per tornare a casa. Ma era un uomo con qualche peculiarità: era molto più facile vederlo sorridere che restare serio, specialmente se incontrava
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dei bambini. Tra le ragazzine del quartiere era famoso perché immancabilmente, quando ne vedeva un gruppetto di tre o quattro, rivolgeva loro il suo insindacabile giudizio: La più bella è quella con le calzette rosse!, per poi allontanarsi ridendo sotto i baffi nel vedere le testoline scattare immediatamente e in perfetta sincronia verso il basso, a controllare il colore delle calze. Naturalmente, nessuna delle bambine aveva le calze rosse; anche perché, ovviamente, se qualcuna le avesse indossate, “la più bella” sarebbe stata quella con le calze verdi. Le pistole -piccole, ma non troppo piccole- erano davvero difficili da trovare. L’uomo chiese aiuto in famiglia, a parenti ed amici, e in qualche modo riuscì a procurarsi una mezza dozzina dei giocattoli ricercati. Naturalmente, una ricerca così strana aveva acceso la curiosità degli interpellati, e furono in molti a chiedere spiegazioni. A che cosa mai potevano servire, ad un operaio cinquantenne, delle pistole giocattolo di quelle dimensioni? Subissato dalle domande, l’uomo dovette alla fine svelare il mistero. Scese in cantina, e ne riemerse con sei o sette pistole giocattolo, di quelle normali. Alcune comprate nuove, altre recuperate, aggiustate e ripulite. Sono per i ragazzini del quartiere, spiegò agli amici. Gliele darò fra qualche giorno, ma non come regalo. Mentre parenti e amici lo guardavano sempre più incuriositi, lui li guidò dietro casa, nell’orto. Aveva diversi alberi da frutto, per lo più peschi: li “regalava” ai figli, ma anche ai ragazzini; ogni bambino del quartiere, più o meno, era convinto di possedere uno di quegli alberi, anche se ignorava di averlo solo in comproprietà con altri. E naturalmente, ogni bambino poteva mangiare i frutti del “suo” albero. Ho fatto credere ai ragazzini di avere nell’orto un albero delle pistole, spiegò una volta giunti sotto ad un pesco nell’orto. Vedete? Sono già spuntate le prime… Sull’albero erano infatti state sistemate delle minuscole pistole, di pochissimi centimetri. Erano originariamente ciondoli per portachiavi, che aveva liberati dall’anello di metallo e legato ai rami con piccoli rametti verdi. Queste gliele ho fatte vedere, e fra qualche giorno ci metterò le pistole normali, quelle “mature”, insomma… e mentre tutti guardavano allibiti l’albero delle pistole, continuò: ma mi servono delle pistole intermedie, per fargli credere che crescono, no? Il mistero era svelato, e di lì a poco i ragazzini del quartiere ebbero le loro preziose pistole colte direttamente dall’albero. Erano armi giocattolo, ma è difficile immaginare che possano avere contribuito a formare dei violenti e degli assassini. Più probabilmente, hanno generato sorrisi anche a distanza di anni, quando i ragazzini si saranno finalmente resi conto dell’elaborata sceneggiata che aveva orchestrato quell’uomo. Si chiamava Riziero. Secondo alcuni, il nome potrebbe venire dall’antico francese, e potrebbe derivare proprio dalla parola “sorriso”. Piero Fabbri
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L’ a l b e r o d e l l e p i s t o l e
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CONFARTIGIANATO IMPRESE TERNI
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Fiore di pesco
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C I D AT
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Ma come ti vesti?
F i o r e
- P Fabbri
- A Melasecche
- P Casali
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STUDIO DI RADIOLOGIA BRACONI
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Le ragazze pericolose del Nepal H U N G RY H E A RT S
- F Patrizi
- L Ta r d e l l a
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C M T - C O O P E R AT I VA M O B I L I T À T R A S P O R T I
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I l C O N I d i Te r n i a c c e n d e l e s t e l l e
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F R AT T U R E V E RT E B R A L I D A O S T E O P O R O S I
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Jobs Act
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I S T I T U T O D I B E L L E Z Z A S A N D R A C R I S T O FA N E L L I
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Rischio per la salute: i coloranti
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L A B O R AT O R I S A L VAT I
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A Z I E N D A O S P E D A L I E R A S A N TA M A R I A D I T E R N I
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Clown VIP Terni
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N U O VA G A L E N O
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La tranquillità d’animo e la crisi
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campili
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La patria degli eufemismi
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LANDI COSTRUZIONI
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L’ i n v i t o
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FA R M A C I A B E T T I
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Un matrimonio di guerra
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C O R S I D I D A N Z A O R I E N TA L E
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LIBRI
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ARABA FENICE
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M A S S I M O Z AV O L I
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G L O B A L S E RV I C E
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SUPERCONTI
LA
- S Lupi - V B u o m p a d re
- M Petrocchi
- L Falci Bianconi
- PL Seri
- S Moroni
- F Lelli
- V Grechi
- R Bellucci
PA G I N A
Mensile di attualità e cultura
Registrazione n. 9 del 12 novembre 2002, Tribunale di Terni Redazione: Terni, Vico Catina 13 --- Tipolitografia: Federici - Terni
DISTRIBUZIONE GRATUITA Direttore responsabile Michele Rito Liposi Editrice Projecta di Giampiero Raspetti
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Direttore editoriale Giampiero Raspetti
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p e s c o
Si erge carico di fiori il pesco, non tutti diventeranno frutto. Risplendono chiari come spuma rosata attraverso l’azzurro e la fuga di nuvole. Simili a fiori si schiudono i pensieri, centinaia ogni giorno, lasciali fiorire! Lascia a ogni cosa il suo corso! Non chiedere qual è il guadagno! Vi deve pur essere gioco e innocenza e dovizia di fiori, altrimenti per noi sarebbe troppo piccolo il mondo e la vita non un piacere. Piena fioritura, Hermann Hesse
- G Raspetti
Te r n i p a s t i c c i o n a
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Se siamo riusciti a rendere ultraprivilegiata un’ampia casta di omuncoli, a depenalizzare alcuni gravissimi reati, a sdoganare fascismo, ignoranza ed immoralità, a minacciare rudemente la scissione da quello stesso Paese in cui si è stati ignobilmente al governo per un arco di tempo ventennale, a imporre al Parlamento di coniare leggi ad personam per non andare in galera, a insozzare quasi tutti i consigli regionali, ma anche di quartiere o di caseggiato, con il furto, dalle caramelle agli elastici per le mutande... se siamo riusciti a consegnare un partito a gente di altra parte, facendo eleggere il direttivo di un condominio dai condòmini del palazzo di fronte, a riempire la partitica di chiacchiere, a ficcare in parlamento gente del tutto impreparata anche per leggere un sussidiario, a convogliare lo scontento in uno scontento ancora più greve, a far sì che un numero elevatissimo di persone serie, oneste, intelligenti, non vada più a votare... ebbene... non è più possibile andare avanti così! Se non vogliamo passare iterativamente dalla prima all’ennesima repubblica delle banane, finché democrazia resista, ascoltando sempre le stesse falsità, gli stessi spropositi, le stesse critiche agli altri e non a se stessi, le stesse prese per i fondelli... non è più possibile andare avanti così! Malcolm X soleva dire che da un uovo di gallina nasce una gallina, non un’oca. Il politicante di oggi, qualsiasi sia il partito, è figlio di questo politicume, lo respira, mangia e beve questa poltiglia. Agisce e reagisce sempre all’interno della stessa dimensione corrotta. Non può capire altro! E allora urge cominciare da capo! Occorre rinnovare la Politica, fare e non distruggere, proporre e non sbraitare, lontani sideralmente dagli attuali partiti! Noi, germoglio quasi insignificante, ma germoglio, pensiamo ad una Associazione Culturale Politica: Fiore di pesco. Figlia del tempo, perché virtuale, e di una intrepida speranza, perché avversa al dilagante tornaconto personale. E figlia dei fiori, naturalmente. Non interessata a fede ideologica, ma a ragione e a cultura. Un’Associazione senza galoppini, segretari, presidenti, tantomeno candidati imposti in lista, ma solo simpatizzanti che non fanno gruppo, non si accatastano come pecore per pietire privilegi, si riconoscono dal comportamento, quello di tutti i giorni, non quello dei dì di festa. Nessun rapporto con chi amministra alle spalle dei lavoratori, chi dice cioè di difenderli, ma non ha mai lavorato o, se lo ha fatto, è stato solo per incarico di partito, ma passione per la meritocrazia e per la responsabilità personale. La politica di Fiore di pesco non è assiale, ma assiologica, dei valori, e reca con sé la presunzione che molti di questi siano condivisibili e che molte idee possano essere utili a futuri amministratori, qualsiasi sia la loro bandiera. Nessun interesse per lo scacchiere partitico attuale, nemmeno per riferimenti di cronaca minuta, Fdp vuole discutere e redigere insieme le nuove lettere dell’alfabeto comune, i sani comportamenti, le necessarie direzioni. Ci rivolgiamo quindi a coloro che: - desiderano impegnarsi per la città, a favore di tutti e non per una loro parte (casta, combriccola, club di mutuo soccorso, amichetti e compagnucci di merenda); - pensano che gli amministratori di un territorio debbano aver già mostrato, come persone, quel che valgono, e non essere soltanto individui che, non avendo mai realizzato alcunché di positivo per la città, vanno cianciando che lo farebbero per certo, qualora eletti; - pensano che i partiti siano da rinnovare profondamente tanto negli uomini quanto nelle strutture. Siamo dunque degli illusi, ma... ... Vi deve pur essere gioco e innocenza e dovizia di fiori, altrimenti per noi sarebbe troppo piccolo il mondo e la vita non un piacere. Giampiero Raspetti
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Ma come ti vesti? Generalmente l’abbigliamento è per i giovani e i meno giovani uno degli elementi alla base della creazione di un’identità univoca, per differenziarsi dagli altri e avere riconosciuta un’individualità distintiva. Cresciamo con l’idea di fondo che ci porta a dividere il mondo in persone interessate al proprio aspetto e persone che non lo sono. Il problema è che fino ad oggi quando si è parlato di libertà ed individualità e si fa riferimento al mondo della moda, si finisce sempre per parlare di questo o dell’altro marchio, di conformismo, di idoli, icone e di tante regole. Ora, sembra non essere più così. L’ultima moda è: non essere di moda. La parola normcore è, in inglese, la fusione di due parole: normal, normale, e hardcore, irriducibile. La parola in sé è intraducibile, ma l’idea è chiara e indica una rivendicazione di normalità, contrapposta al dover essere alternativi a tutti i costi (in questo caso si parla di hipster). Neologismo ideato dalla società di ricerche newyorkese K-Hole nel suo recente studio sulle nuove tendenze giovanili (e sul nuovo concetto di gioventù) per esprimere un pensiero che parte dall’aspetto estetico ma che ha radici più profonde e interessanti.A renderlo un fenomeno analizzato e studiato da chi fa della moda argomento di studio sociale è stato un articolo del New York Times, dove si faceva notare che a passeggio per le strade di New York ormai è impossibile distinguere “tra i turisti, gli americani medi di mezz’età e i giovani artisti newyorkesi. Tutti indossano jeans slavati, comode scarpe da ginnastica e felpe di pile da montagna e sembra che abbiano appena finito un giro turistico con la guida”.
Parlando di moda e di vestiti, quindi, i normcore sono quelli che si vestono con i jeans, quelli normali, non quelli attillati, con le classiche magliette con lo scollo tondo, i sandali tipo escursionista o le scarpe da ginnastica, con i pantaloni della tuta o felpe e maglioni senza troppe pretese. Tutto qui? Tutto qui. Per chi è normcore sono assolutamente vietati i marchi, per lo meno in vista. Gli abiti devono essere semplicissimi, quelli che appunto potrebbe indossare un turista o un adolescente delle scuole medie. Come cantava anche Lucio Dalla “l’impresa eccezionale è essere normale”, e a quanto pare, la vera moda è indossare vestiti e accessori assolutamente banali per passare quindi inosservati ed essere decisamente all’ultimo grido. Abbastanza paradossale. Quali sono le nuove icone? Gente di tutto rispetto. Steve Jobs e Mark Zuckenberg hanno aperto le danze, basti pensare al look minimal con lupetto nero e jeans volutamente sformati del primo o alle felpe fintamente casual del secondo (che di recente ha dichiarato di possedere una sfilza di magliette tutte uguali perché non vuol perdere tempo decidendo cosa indossare ogni giorno fra tante cose diverse), seguiti dal Presidente americano Barack Obama, dallo spericolato Bear Grylls, e addirittura sua altezza Kate Middleton. Mi chiedo: siamo davvero sicuri che l’essere normcore ci renda meno schiavi del look? Insomma, per alcuni non sembra in realtà sia cambiato molto, se per essere normali occorra aderire ad un sorta di manifesto condiviso, come per tutto il resto. Un manifesto che mira a rendere tutti coloro che decidono di avere uno stile normcore, uguali, se non a tutti almeno a qualcun’altro. alessia.melasecche@libero.it
Terni p a st i c c i o n a ‘ n filone da sfrutta’ ‘N quistu munnu che cce se ‘nfutura ‘n do’ noi penzamo sulu a gguadambia’ la vita pe’ qquarcunu è ppropiu dura e nun cià ‘n tozzu mancu a stuzzica’. Appuntu a Tterni che ‘lla tradizzione… ch’ancora oggi se sta ‘ttramanna’… dev’èsse pe’ i ternani ‘na missione de pane e ccòre che sta a lléita’. E qquistu gran filone va sfruttatu e “Tterni pasticciona” lo po’ fa’... lu munnu tuttu quantu va sfamatu e non ze pòle propiu più ‘spetta’. Lu fornu certu s’è mmeccanizzatu ma resta ‘nalteratu lo sapore... facemo che ‘llo pane non salatu possa ‘rriva’ ‘n do’ serve co’ ‘n amore.
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(Lo pane de Terni)
Se forma lu ‘mbastu ancora all’andica co’ qquillu contrastu de crosta e mmujica… de Terni è lu vantu ‘stu pane ch’è sciapu ‘gni notte de ‘ncantu s’arfà ‘n bo’ da capu... ‘n tozzu de pane ‘n ze nega a gniciunu… che spettru la fame che ccrambi a ddiggiunu. noi… danno du’ fette ‘na goccia ce pare ma co’ le goccette ce s’émbe lo mare. aolo.casali48@alice.it
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Le ragazze pericolose del Nepal Più della notte e dei serpenti, più del freddo e della fame, è degli uomini che ha paura la giovane nepalese di 13 anni incontrata da una giornalista inglese nel distretto di Achham. Quando con la pubertà sono arrivate le prime mestruazioni sua nonna l’ha confinata in una capanna lontano dal villaggio. Recita l’antica tradizione del chaupadi che in quei giorni entra nel corpo un demone e la donna non può toccare né cibo né acqua perché li contaminerebbe, non può toccare un uomo e neanche una mucca perché li farebbe ammalare, non può restare in casa perché attirerebbe i serpenti e non può toccare un albero perché lo farebbe seccare all’istante. Per questo la ragazza resta in isolamento in una capanna a riso e lenticchie, con l’acqua del fiume per dissetarsi e una stuoia di juta per coricarsi. Terminato il periodo, uno stregone la insulta e la percuote finché il maligno non abbandona il suo corpo. Le cause di decesso delle giovani nepalesi sono il fuoco acceso per scaldarsi che sovente incendia la capanna, i morsi di serpente e gli uomini; infatti non tutti i maschi si lasciano intimorire dal chaupadi e rapire e stuprare una ragazza lasciata sola nel bosco non è un’impresa difficile. Nel 2005 la Corte Suprema del Nepal ha dichiarato illegale questa tradizione, ma la vita nei villaggi racconta una realtà lontana dalla legge, dove la donna rappresenta un elemento problematico nella vita dell’uomo come dimostra il caso, salito di recente agli onori della cronaca, della pianificazione
familiare ordinata dal governo indiano nello Stato di Chhattisgarth, un’operazione che prevede un rimborso di 1400 rupie (circa 18 euro) alle donne che si offrono spontaneamente per essere sterilizzate. Con una semplice operazione di chiusura delle tube si pone un limite al proliferare della famiglia senza intaccare il potere e il piacere del maschio. Molte donne si sono presentate trascinate dal marito, poiché a loro non è concesso di prendere decisioni indipendentemente, e si sono sottoposte all’intervento. Un solo medico, in cinque ore, ne ha sterilizzate 80. Tutto sarebbe filato liscio se non fosse che 14 sono morte e 54 si trovano ora in gravissime condizioni. Si sospetta che l’antibiotico somministrato da quel medico dopo l’intervento contenesse un potente topicida. Così un’accidentale contaminazione di sostanze tossiche ha evidenziato la drammaticità del programma di sterilizzazione che l’India porta avanti dagli anni ’50 quando, per mettere un argine all’incremento demografico, se l’è presa direttamente con l’utero femminile, ricettacolo di demoni e di piaceri. In un caldo pomeriggio estivo, nella campagna isolata di Achham, la tredicenne prende confidenza con la giornalista, si fa bella e si lascia fotografare sulla soglia della capanna, racconta che vorrebbe raggiungere la mamma in città, lontano dai serpenti e da sua nonna, una vecchietta non cattiva ma devota a quella terribile tradizione, poi sorride e si incammina verso il fiume dove l’aspettano le altre ragazze per lavarsi, giocare e rimirarsi nello specchio dell’acqua. Francesco Patrizi
Primo Piano L’inizio della storia d’amore fra Mina, italiana trapiantata a New York, e Jude, ingegnere americano, avviene nell’angusto bagno di un ristorante cinese, dove i due ragazzi si trovano intrappolati, per espletare delle esigenze fisiologiche provocate dal cibo appena mangiato. Si conoscono, si guardano, si scrutano. Noi che li osserviamo non possiamo non notare l’alchimia che si crea fra queste due anime inquiete, delicate e dolci, entrambe belle in un modo che non ha nulla a che fare con la bellezza. La passione esplode, i corpi si esplorano e si conoscono. E poi, del tutto naturalmente, l’amore produce il suo frutto: un bambino indaco, che una veggente predice a Mina già in fase di gravidanza; un bambino la cui purezza diventa per la madre un bene prezioso e da preservare con attenzione. Fino alle estreme conseguenze. Saverio Costanzo, alla sua terza prova registica dopo il bellissimo La solitudine dei numeri primi, torna come non mai a lavorare sui corpi dei suoi attori. La camera a mano (inquieta come le anime dei personaggi) si muove vorticosa negli spazi quasi sempre angusti, e le ottiche spaventosamente grandangolari contribuiscono a rendere l’atmosfera chiusa, irrespirabile, claustrofobica. Il pubblico vive il dramma insieme ai personaggi, l’empatia è palpabile in ogni istante.
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HUNGRY HEARTS di Saverio Costanzo
Fino ad un finale che esplode all’improvviso e ci scuote nel profondo. Il più grande merito del film di Costanzo (tecnicamente impeccabile, dalla fotografia di Fabio Cianchetti alle musiche di Nicola Piovani) è lo sguardo con cui sceglie di raccontare i suoi personaggi. Uno sguardo attento, indagatore, ma assolutamente imparziale, che non giudica i suoi protagonisti, costringendo il pubblico a fare altrettanto. Perché dietro ad ogni scelta giusta o sbagliata di Mina e di Jude non c’è altro che l’amore. Un amore estremo, disperato, “affamato” come ci suggerisce il titolo. Un amore che si nutre di carne e di sangue, di pelle e di nervi, raccontato nella sua natura più primitiva, ancestrale, fisica. Un amore che, irrazionalmente ma del tutto naturalmente, unisce e poi separa, facendosi beffa di un uomo che appare sempre più piccolo e insicuro, incapace di comprendere ciò che per natura non ha limiti. Saverio Costanzo ci racconta, in maniera matura e sincera, di come la nascita di un bambino muti le geometrie di una coppia; di come ciò che per secoli ci è stato raccontato come il percorso più naturale del mondo, non abbia in realtà nulla di naturale, e possa rivoluzionare e stravolgere vite e destini in modo imprevedibile. Personaggi meravigliosi, e una regia che li osserva e danza insieme a loro, restituendoci emozioni autentiche e vive. E rendendoci, come mai prima d’ora, parte di una storia che ci appare lontana. Ma che non è mai stata così vicina. Lorenzo Tardella Per altre recensioni visitate il blog www.ilkubrickiano.wordpress.com
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I l C O N I d i Te r n i accende le stelle Successo straordinario per la Festa dello sport organizzata dal Coni lo scorso dicembre. Una straripante marea di sportivi, alla presenza del sottoscritto, del Presidente Regionale del Coni Ignozza, del Vice Presidente Rosati, del sindaco Di Girolamo, dell’assessore allo sport del Comune di Terni Giacchetti e dell’assessore Regionale Paparelli, ha riempito la sala rossa di Palazzo Gazzoli, a testimonianza dell’affetto e dell’apprezzamento per il lavoro svolto dal Coni di Terni nell’anno appena concluso. Molte le persone in piedi durante la cerimonia nella quale sono stati consegnati riconoscimenti a dirigenti, società ed atleti under 18 che hanno conquistato titoli italiani ed internazionali. Una folla festosa ha calorosamente applaudito tutti i premiati con le stelle, targhe e diplomi del Coni. Nell’intervento di apertura ho ripercorso un anno di attività sportiva, ricordando l’azione del Coni Point di Terni sempre al servizio dello sport, delle federazioni e degli enti di promozione. Da segnalare in particolare i seminari organizzati dalla Scuola Regionale dello Sport riguardanti tematiche quali: l’alimentazione, la gestione dell’impiantistica e la comunicazione. Ed ancora la realizzazione del Progetto “Sport all’Orizzonte” presso il Carcere di Terni. Un progetto che proseguirà anche nel 2015. Un anno caratterizzato dalla vertenza delle acciaierie che ha segnato nel profondo la comunità ternana. Lo sport quindi come strumento di tenuta sociale e testimonial, attraverso le sue eccellenze giovanili, della Terni che riesce e va avanti. Tanti i ragazzi e le ragazze premiate, con la faccia pulita ed il cuore aperto. Sono loro la speranza di questa città, con la loro determinazione e il loro impegno. Il nostro futuro è affidato a giovani come Chiara Crovari che, seppur giovanissima, ha partecipato ad una Olimpiade riscuotendo importanti successi. Tanti altri talenti sportivi ci sono e ci daranno ulteriori soddisfazioni. Abbiamo il dovere di coltivarli dando loro fiducia. Questi temi sono stati ripresi nel suo intervento dal presidente Ignozza, con il quale ho condiviso l’onore di premiare l’olimpionico di Helsinki Volfango Montanari. Un applauso scrosciante ed una di standing ovation della sala per Volfango, già vice presidente del Comitato Provinciale del Coni di Terni e dirigente sportivo di grande valore. Per lui una meritatissima Stella d’oro al merito sportivo. Tutta la mia gratitudine a Montanari per quanto ha fatto nel corso della sua lunga carriera sportiva, ritenendolo un grande esempio di serietà comportamentale. La Stella d’argento è stata consegnata a Massimo Bordoni, dell’Associazione Italiana Arbitri. Stella di bronzo all’Asd Gruppo Canoe Terni. Molti applausi anche per i giovani atleti e per le associazioni sportive che hanno conquistato titoli italiani, internazionali e mondiali. Ricordiamo che per la: Federazione Ciclistica Italiana i riconoscimenti sono andati ai giovani atleti Elia Baccello, Tommaso Bianchetti, Riccardo Ricci e Giacomo Serangeli; Federazione Italiana Canoa e Kayak riconoscimenti a Samuel Marcucci, Valentina Manzoni, Alberto Migliosi, Gaia Sanna e Asia Tolomei; Federazione Italiana Danza Sportiva premiata la società S.S.D. Samba rappresentata dalla coppia composta da Daniele Canepone e Sofia Canepone; premiata anche l’Asd Dance Studio Florida’s per i risultati delle atlete Francesca Cenci, Veronica Costa, Camilla De Santis, Ana Maria Enache, Alessandra Liorni, Elisa Stella, Azzurra Romano e Valentina Romano; Federazione Italiana Hockey e Pattinaggio la targa ad Alessio Rossi; Federazione Italiana Nuoto è stata premiata Sofia Martini; Federazione Italiana Pentathlon Moderno sono stati premiati Cristina Ercolini e per l’Asd PM Pertica Flavio Calderini, Tommaso Marchignani e Marco Vestrucci. Federazione Italiana Scherma le targhe a Lavinia Berardelli, Chiara Crovari, Lucia Lucarini, Vally Giovannelli, Emma Guarino e per l’Accademia Drago Scherma Asd Francesco Carnevali, Matteo Fausti ed Alessia Lucentini; Federazione Italiana Sport Equestri premio ad Ilaria Di Mitri, Emanuele Garofoli, Francesco Garofoli, Sara Maurizi ed Alvise Sed; Federazione Italiana Tennistavolo ad essere premiati sono stati Mattia Cerquiglini e per l’Asd TT Campomaggiore Terni Matteo Cerza, Lorenzo Liti, Filippo Niculae e Leonardo Pace, tutti accompagnati dal presidente dell’Asd Zefferino Mancini; Unione Italiana Tiro a Segno il premio è stato assegnato a Pier Giorgio Nardi. Nella veste di Presidente regionale del Comitato Nazionale Italiano Fair Play ho consegnato un premio speciale al maestro di tennis Fabio Moscatelli per l’attività svolta, unitamente ai suoi collaboratori, nel carcere di Terni. Sono stati poi consegnati alcuni premi che il Comune di Terni ha attribuito a personalità ed atleti ternani particolarmente meritevoli. A ricevere il premio il motociclista Danilo Petrucci, pilota della Moto GP. Premi speciali anche all’allenatore di cavalli da corsa Luigi Biagetti, allo specialista dei 400 metri ostacoli Leonardo Capotosti, al campione del mondo di subbuteo Francesco Mattiangeli, alla Asd Tuttingioco, al dirigente calcistico Aulo Guiducci, per il Karate ai due giovanissimi Simone Brunetti e Veronica Fiorelli. Dott. Stefano Lupi Delegato Coni di Terni
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JOBS ACT A sentire queste due paroline straniere, ormai divenute, nostro malgrado, molto familiari, una serie di domande si spintonano nella testa: che cosa è, cosa cambierà nel nostro complesso sistema lavorativo, saprà risollevarci dal baratro nel quale siamo finiti? Iniziamo con le cose semplici. Il Jobs Act è una legge delega ossia una legge ordinaria, approvata dal Parlamento, che conferisce al Governo, nell’ambito dei princìpi generali in essa previsti, il potere di determinarne i contenuti, in modo concreto e puntuale, mediante l’adozione delle norme attuative, i cosiddetti decreti delegati. L’attenzione dei media si è molto concentrata sul famigerato art. 18 dello Statuto dei lavoratori e ciò soprattutto per le implicazioni ideologiche e di equilibrio politico che la vigenza o meno di tale articolo comporta. Tuttavia, l’intento del Jobs Act è quello di incidere in senso globale nel mondo del lavoro occupandosi di tutti gli aspetti di maggior rilievo: in primo luogo viene promosso il contratto di lavoro a tempo indeterminato come forma principale di contratto, rendendolo maggiormente appetibile per le imprese; le nuove assunzioni saranno a tutele crescenti in relazione all’anzianità di servizio; si intende rafforzare l’alternativa scuola lavoro. La legge mira al riordino della normativa sugli ammortizzatori sociali, della normativa dei servizi per il lavoro con la semplificazione delle procedure concernenti gli adempimenti sia a carico dei cittadini sia a carico delle imprese. La legge stabilisce che in caso di riorganizzazione aziendale, motivata da ragioni oggettive, la disciplina deve essere riorganizzata bilanciando l’interesse dell’impresa con quelle del lavoratore senza l’obbligo di adibire i lavoratori ai compiti per i quali erano stati assunti, o per incarichi superiori, come è invece nella disciplina attuale. Viene prevista l’introduzione del compenso orario minimo applicabile non solo ai rapporti di lavoro subordinato ma anche a quelle di collaborazione continuata e continuativa nell’ottica, comunque, di una semplificazione e razionalizzazione delle forme contrattuali attualmente esistenti. É prevista, infatti, al fine di evitare duplicazioni, difficoltà di applicazione e interpretazione, l’abrogazione di tutti quei contratti che si rivelino incompatibili con il testo emanato. Quanto al famigerato articolo 18 dello Statuto dei lavoratori per i licenziamenti illegittimi, le nuove regole escludono il reintegro del lavoratore e prevedono solo il diritto al risarcimento economico in proporzione all’anzianità di servizio. Per i lavoratori neo-assunti, rimarrà l’obbligo del reintegro soltanto nel caso di licenziamento discriminatorio, ossia legato a pregiudizi, razziali, sessuali o politici. Se il lavoratore è licenziato per ragioni economiche non ci sarà il reintegro, ma avrà diritto soltanto a un indennizzo in denaro, proporzionale agli anni di anzianità lavorativa. Quanto ai licenziamenti disciplinari, il lavoratore, potrà in teoria essere reintegrato nell’azienda a seguito di una sentenza del giudice. Le nuove norme verranno applicate solo ai lavoratori assunti dal 1° gennaio 2015. Il Jobs Act è una legge complessa, ma sostanzialmente una legge di princìpi. Il compito di concretizzare tali princìpi spetterà poi ai decreti delegati. Se la montagna avrà partorito il topolino oppure tale legge costituirà un’occasione di ammodernamento e razionalizzazione del mondo del lavoro, potrà dirlo solo il tempo. Avv. Marta Petrocchi legalepetrocchi@tiscali.it
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R i sc h i o p e r l a s a lu te : i c o lo r a n ti Prima che una sostanza chimica sia accettata come additivo alimentare devono essere soddisfatti i requisiti di efficacia tecnologica e sicurezza d'uso. Per quanto riguarda l'ultimo punto, l'additivo, usato a livelli normali per tutto l'arco della vita, non deve comportare alcun rischio di tossicità per l'uomo . Come ho ricordato nell'articolo precedente deve essere stabilita una Dose Giornaliera accettabile (DGA in inglese ADI: Acceptable Daily Intake), ovvero la quantità di additivo che può essere ingerita giornalmente, per un lungo periodo della vita, senza comportare rischi per la salute. L'opinione scientifica, infatti, si basa sul concetto che la potenziale tossicità della sostanza chimica non dipenda soltanto dalla sua natura ma anche dalla quantità che ne viene ingerita. La DGA corrisponde alla centesima parte della quantità di sostanza risultata senza effetti tossici sugli animali da laboratorio. Si esprime in mg per Kg di peso corporeo per giorno. Se per un additivo è di 10 mg, significa che un uomo di 70 Kg potrà ingerirne 700 mg al giorno. Più è basso il valore della DGA più è alto il rischio tossicologico della sostanza. Il Comitato JEFCA (Joint Expert Committee of Food Additives) della FAO/OMS ha suddiviso le sostanze usate
come additivi in cinque categorie: - additivi con DGA permanente: quando i dati tossicologici sono sperimentalmente accertati e soddisfacenti; - additivi con DGA temporanea: quando l'informazione tossicologica non è sufficientemente dettagliata; - additivi con DGA non specificata: vale a dire senza specificazione numerica in quanto la tossicità è molto bassa e tale da non costituire alcun rischio per la salute; - additivi con DGA non stabilita: quando mancano documentazione scientifica sulla tossicità o innocuità dell'additivo; - additivi da non utilizzare: quando l'uso normale supererebbe comunque la dose di sicurezza. Un ulteriore motivo di preoccupazione circa l'uso degli additivi deriva dai processi di bioaccumulo nell'organismo e dalle interazioni con i nutrienti o altri additivi contenuti negli alimenti. Le combinazioni che si possono verificare possono portare a fenomeni di sinergismo con aumento della tossicità totale di antagonismo con diminuzione dell'effetto tossico oppure con formazione di metaboliti tossici nocivi. Ế da ricordare infine la Dose Massima Consentita DMC che è la concentrazione massima espressa in mg/Kg oppure in mg/l di un additivo consentita per tipo di alimento o bevanda anch'essa sottoposta a norma di legge. Lorena Falci Bianconi
Le Olimpiadi in un Paese normale La candidatura di Roma, o meglio, la sua autocandidatura a sede delle Olimpiadi del 2024 ha una sua chiave di lettura. Né precisa, né intuibile, ma pratica, sì. Non è detto che ad ospitare i giochi quadriennali debbano essere le nazioni con maggiore disponibilità economica; l’offerta risponde sempre a calcoli materialistici, seppure differenziati da interessi politici. Quella avanzata dal premier Renzi, sembra rifarsi a questo solo aspetto. Vuole essere un’iniezione di fiducia, guardare al futuro dicendo agli italiani che possiamo permetterci di accogliere mezzo mondo, di mostrare a tutti il fascino dei tesori di famiglia, creare opportunità per future visite, accrescere gli interessi culturali dei quali siamo da sempre espressione, costruire paralleli accordi di sviluppo, alimentare curiosità e apprezzamenti gastronomici, inorgoglirci delle opere d’arte che possediamo, sbizzarrirci in edificazioni che nascono da tecnica, fantasia e arditezza di architetti che tutto il mondo ci invidia. Ma ce lo possiamo permettere veramente questo lusso? Abbiamo fondi e risorse umane per affrontare un evento tanto impegnativo? Siamo in grado di ben figurare nel consesso delle nazioni chiamate a svolgere un ruolo d’immagine così importante? Certo se guardiamo al Mose, all’Expo, a Roma Capitale e poi, scendendo, a Napoli, Reggio Calabria, Bari, al contrastato Ponte sullo Stretto… beh, qualche dubbio su come e quanto
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siamo capaci di realizzare i progetti è legittimo. Diciamocelo francamente: siamo messi male a livello di corruzione. L’Uganda sta meglio di noi nella classifica dei Paesi più corrotti. Noi non ce la facciamo a staccare la Botswana. Perché offrire a maneggioni e politici un’ulteriore occasione di affossare la nostra posizione in classifica? E lasciamo perdere se l’organizzazione di eventuali Olimpiadi risponda a una scala di priorità. È già troppo chiedercelo. La risposta sarebbe tranciante. Certo, le condizioni che stavano alla base della decisione che l’Italia prese nell’ospitare le Olimpiadi nel 1960 sono totalmente diverse. Eravamo lanciati in una crescita economica senza limiti; la speranza di benessere era al top, la voglia di vivere, creare e di lasciare segni nelle pagine della Storia era al massimo. Unità politica e di intenti nel Paese facevano intravvedere un futuro indelebilmente roseo. Ci sono, oggi, segnali simili? Tutto, al momento, volge al peggio. Tutto consiglia prudenza; l’attesa è gravosa, come l’aria che da qualche anno si respira. E, allora, perché? Perché sbandierare entusiasmi inesistenti? E ancora. La proposta di ospitare i Giochi può rappresentare un motivo valido per dare una sferzata alla volontà di rinascita? In un Paese normale, sicuramente. Ma non nel nostro. Giocondo Talamonti
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AZIENDA OSPEDALIERA
An n o 2 0 1 4 , è i n i z i a t a l a
Dott. Andrea Casciari Direttore generale A z ie n d a O s p e d a lie r a “S. Mar ia” di Te r ni
Ristrutturazione immobiliare, riorganizzazione logistica ed organizzativa, riqualificazione tecnologica con arricchimento del parco apparecchiature. Per l’ospedale di Terni il 2014 ha rappresentato l’inizio della grande trasformazione. Gli interventi programmati, di cui molti già conclusi o in corso, comportano un investimento complessivo di 35 milioni e 700 mila euro di cui: 16 milioni 900mila euro relativi al programma straordinario degli investimenti dell’Azienda ospedaliera di Terni finanziato dalla Regione e dal Ministero (ex art.20 della L.67/88, come rideterminato con DGR n.53 del 28.01.2013 collegato all’Accordo di programma tra Ministero della Salute di concerto con il MEF e la Regione Umbria); altri 16 milioni di euro sono le risorse regionali e aziendali messe a disposizione per altri interventi di riqualificazione e 2 milioni e 800mila euro si riferiscono a donazioni. Nell’ambito degli interventi straordinari (ex art.20), il 15 dicembre 2014 l’ospedale di Terni ha dato il via ai lavori per la ristrutturazione delle facciate (1milione 237mila euro) e per l’adeguamento antincendio (3milioni 600mila euro) che prevedono anche importanti cambiamenti strutturali nel corpo principale del complesso ospedaliero e che saranno ultimati entro il 2015. In particolare, nei prossimi mesi l’edificio centrale sarà interessato da interventi di risanamento conservativo delle facciate e delle strutture in cemento armato, sostituzione delle tapparelle, tinteggiatura esterna, realizzazione di 7 scale esterne, di una torre servizi per 2 monta-lettighe, compartimentazione, con murature e porte antincendio, di 3 scale interne. La realizzazione di tali opere -spiega il direttore generale Andrea Casciaricontribuirà, senza alcuna interruzione dei servizi e nel rispetto delle norme igienico-sanitarie dell’attività assistenziale, alla ridefinizione di un lay-out più appropriato dell’ospedale e faciliterà le azioni di miglioramento organizzativogestionale dei percorsi di cura dell’Azienda ospedaliera “S. Maria” di Terni. A fine dicembre è stata aggiudicata la gara per l’acquisto di un nuovo acceleratore lineare e la costruzione del bunker che lo ospiterà, per un importo complessivo di 2,5 milioni di euro. Di ultimissima generazione, la nuova macchina, -sottolinea il direttore Casciariconsentirà alla struttura di Radioterapia oncologica di proseguire anche nei raffinati trattamenti già in atto (per esempio la radiochirurgia, la radioterapia stereotassica toraco-addominale e la radioterapia ad intensità modulare) e di migliorare ulteriormente la qualità delle prestazioni oncologiche di radioterapia attraverso evolute tecniche quadridimensionali. É in fase conclusiva il completamento del servizio di Medicina Nucleare in continuità con la PET-TAC, donata dalla Fondazione Carit e già operativa da aprile 2014. Gli interventi, ammessi al finanziamento il 31 luglio scorso per 1 milione e 900mila euro (1.805.000 euro a carico dello Stato e 95.000 euro a carico della Regione), prevedono anche la sistemazione delle strutture complesse di Endoscopia digestiva od operativa, Epatologia e Gastroenterologia in un’unica struttura di diagnostica e interventistica, precisamente nei locali lasciati liberi dall’attuale medicina nucleare. Ad oggi sono in corso le sedute riservate per l’esame degli elaborati progettuali presentati dai concorrenti partecipanti alla gara. É scaduto il 9 gennaio il termine per la presentazione delle offerte per l’appalto dei lavori di ristrutturazione e di potenziamento tecnologico della Diagnostica per immagini e Radiologia, che valgono complessivamente 4milioni e 600mila euro (di cui 4.370.000 euro a carico dello Stato e 230.000 euro a carico della Regione). Tutta la diagnostica per immagini sarà raggruppata in un’unica area omogenea
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al secondo piano seminterrato, dove sono già presenti Tac, RM e angiografo. L’acquisizione di nuove apparecchiature radiologiche comprende teleradiografi, impianto radiologico biplanare, una nuova TAC (la terza) e un nuova risonanza magnetica (la seconda). L’intervento prevede anche la realizzazione di un reparto autonomo di neuroradiologia interventistica che sarà collocato al primo piano adiacente alle sale operatorie. É in scadenza il 9 gennaio anche il termine di presentazione delle offerte per la gara di appalto integrato relativa all’adeguamento agli standard qualitativi di alcuni servizi del presidio ospedaliero. Una operazione che consentirà di fare una contestuale radicale riorganizzazione dei servizi per piano e area dipartimentale. L’appalto, che vale 2milioni e 563mila euro, è stato suddiviso in due lotti. Un lotto riguarda la ristrutturazione della degenza di ortopedia che sarà collocata al quarto piano, del day surgery oculistica ed annessi servizi ambulatoriali e blocco operatorio (due sale operatorie) al secondo piano, degenza della chirurgia vascolare e week hospital cardiologia al sesto piano. Il secondo lotto riguarda la ristrutturazione del servizio di Anatomia patologica e relativo laboratorio, nella palazzina distaccata. A ciò si aggiunge l’acquisizione di attrezzature varie per quasi 500mila euro: quattro ecografi per vari reparti, un apparecchio radiologico mobile per la Radiodiagnostica, attrezzature da destinare all’Anatomia patologica e il completamento del sistema di video endoscopia per la Chirurgia Toracica. Numerosi sono i lavori non ricompresi nell’art. 20,
S A N TA M A R I A D I T E R N I
a gr a nde t rasformazi o n e
degenti. Il 2014 ha visto anche il primo accreditamento istituzionale del Santa Maria. Si tratta del Servizio di Immunoematologia e trasfusionale (lavori per 200mila euro). Dopo questo primo traguardo, nel 2015 si darà l’avvio alle procedure di accreditamento di altri reparti e servizi ospedalieri. È stato inoltre aggiudicato un mutuo di 5milioni di euro per l’acquisizione di attrezzature sanitarie e degli interventi connessi alla sicurezza degli impianti elettrici del complesso ospedaliero (impianto rilevazione fumi e idrico contro gli incendi, impianto illuminazione di sicurezza ed emergenza, nuova cabina di trasformazione e gruppi elettrogeni). Tra gli obiettivi della direzione generale rientra anche il condizionamento generale centralizzato dell’ospedale (2milioni e 700mila euro stimati); a tal fine è già in corso la procedura per la progettazione generale e, nel frattempo, sono in corso i lavori esterni per il posizionamento dei gruppi frigo. Nel 2014, inoltre, è stata sistemata tutta la rete fognaria all’obitorio e si sono conclusi i lavori per la riqualificazione dell’intera area per un importo di 100mila euro; oltre ai già citati ascensori, sono stati ultimati anche i lavori per la mensa e l’acquisizione di attrezzature varie e arredi per 2,4 milioni euro. Infine, -conclude Andrea Casciari- nel 2014 sono state aggiudicate le procedure per l’acquisizione di una nuova TAC da 64 strati al Pronto Soccorso e di circa 200 letti di degenza per una valore complessivo di 1milione di euro finanziati dalla Fondazione Carit. La Fondazione Carit nel corso dell’anno aveva già finanziato la Pet-Tac e i ventilatori per la Rianimazione. L’Associazione Aiutiamoli a vivere contribuirà al processo di riqualificazione del nosocomio con una donazione di 200mila euro destinati alla struttura complessa di Chirurgia toracica.
Fotoservizio di Alberto Mirimao
che sono conclusi, in corso o programmati -aggiunge il direttore generale Andrea Casciari. In particolare, nell’ambito delle opere di ristrutturazione e di adeguamento del dipartimento di Scienze Neurologiche al quarto piano, la realizzazione del Servizio di Neurologia Degenza e Stroke Unit (2milioni e 200mila euro) è stata ultimata all’inizio di agosto 2014 e il reparto viene utilizzato già da settembre. Sono in corso i lavori per il reparto di Neuroriabilitazione intensiva. Inoltre, con l’attivazione il 18/11/2014 del secondo montacarichi sono terminati anche i lavori di adeguamento e ristrutturazione di due impianti di sollevamento montacarichi. È in via di ultimazione la prima fase lavorativa dell’intervento di ristrutturazione e ampliamento del servizio di Nefrologia e Dialisi (1milione e 800mila euro). L’11 dicembre sono iniziati anche i lavori per la realizzazione di un impianto per la distribuzione di acqua osmotizzata a servizio della struttura di Nefrologia e Dialisi. Nel mese di ottobre 2014 l’Azienda ospedaliera ha completato la ristrutturazione della rete informatica (600mila euro) consolidando il Network e passando allo standard 10 GBit per la comunicazione in radiologia e altri servizi critici, presupposto, questo, per la diffusione dell’informatizzazione della cartella clinica nei reparti e per il miglioramento dell’efficienza dei servizi con il sistema di distribuzione dei farmaci in monodose. Completata la copertura Wi-fi è ora allo studio la possibilità di accesso alla rete Internet per i
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C l o w n V I P Te r n i Clown VIP Terni -VIP sta per Viviamo In Positivo- è una delle 54 associazioni di volontariato, federate con VIP Italia ONLUS, sparse in tutto il territorio nazionale e nella Repubblica di San Marino. VIP Terni nasce nel 2008, dopo un percorso formativo di due anni fatto dai soci fondatori nell'associaizone di Vip Perugia, viaggio iniziato da due ragazze che avevano un sogno in comune per Terni: VIP! Da quel momento ad oggi, i numeri parlano chiaro: partiti in 7 nel lontano 2008 ora Vip Terni conta un organico di 72 persone, e sempre maggiori richieste di adesione. Parliamo solamente di richieste, perché per poter entrare a far parte della nostra Associazione è necessario seguire un percorso formativo uguale per tutti i “portatori del sorriso” che permette di avere una formazione di base pressoché identica. Dopo aver effettuato il corso, dove si apprendono le fondamenta dell'arte circense e le procedure igieniche ospedaliere, si continua la crescita, tramite un percorso svolto all'interno di ogni sede territoriale, guidati da trainer autorizzati a tale incarico. È facile, dunque, capire quale sia uno dei valori fondamentali di VIP, la formazione, insieme ad altri aspetti altrettanto importanti come, tanto per citarne alcuni: lo spirito clown, il vivere positivo, l'esempio ed il volontariato. L'Associazione di Terni effettua la clown terapia, nei reparti di Pediatria e Geriatria dell'Ospedale “Santa Maria” di Terni, presso il centro “Baobab” e nella residenza protetta “Villa Canali”; la nostra missione è quella di regalare un sorriso, un pensiero positivo o solamente ascoltare chi sta attraversando un momento difficile, di dolore e delle volte si ritrova a dovere affrontare questa grande battaglia da solo. I nostri servizi sono continuativi ed assicurati; infatti, abbiamo garantito la presenza anche in periodi notoriamente difficili, come quelli estivi. L'Associazione non si limita a portare la clown terapia in questi ambienti, ma partecipa spesso ad eventi importanti, come la corsa “Dragonissima” che si è svolta a Terni il 1° Novembre, organizzata dall'Avis ed altre associazioni ternane, oppure “MicroMondi” l'evento organizzato dalla Biblioteca Comunale di Terni, che voleva, almeno per due giorni, restituire l'intera città ai bambini. Inoltre, ci sono all'attivo diversi progetti svolti nelle scuole primarie e presto ne partirà uno nuovo insieme alla scuola “De Amicis” di Terni. Infine, una delle collaborazioni più importanti è quella con l'ADMO (Associazione Donatori di Midollo Osseo), che la nostra Associazione affianca nella giornata di sensibilizzazione nazionale chiamata “Ehi, tu hai midollo?” che questo anno si è svolta il 27 Settembre, e per cui VIP Terni si è spostata a Paganica (AQ) per sostenere i progetti di ADMO Abruzzo. Uno dei cardini principali di VIP Italia è il volontariato; infatti tutte le persone che decidono di dedicare tempo ed energie a questa causa lo fanno a titolo gratuito e volontario, inoltre non vengono percepiti o richiesti fondi, l'unica giornata autorizzata alla raccolta fondi per VIP è la GNR -Giornata del Naso Rosso- che si svolge generalmente a metà maggio, in tutte le piazze dove è presente la nostra associazione. In questa giornata tutti i clown scendono in strada tra acrobazie, spettacoli, magie, palloncini e trucca bimbi per raccogliere fondi da destinare a diverse attività, tanto per citarne una, finanziare le missioni internazionali. VIP Italia, infatti, è organizzatrice di missioni clown all'estero in tutti i continenti, svolge o ha svolto missioni in Paesi del continente Europeo (Romania, Ucraina), in Paesi Africani (Camerun, Costa d'Avorio, Kenya, Sierra Leone...), in Sud America (Argentina, Uruguay) ed in India. Proprio da queste collaborazioni, sono nate le prime due sedi VIP straniere, Vip Santa Fe in Argentina ed il gruppo degli Auanagana in Costa d'Avorio, portate avanti da ragazzi del posto, contagiati dai valori del Vivere Positivo e dalla voglia di testimoniare che cambiare si può. È in corso di valutazione l'avvio di un nuovo corso per aspiranti clown di corsia. Se siete interessati e volete avere maggiori informazioni è possibile contattare Clown VIP Terni alla casella info@clownvipterni.it o comunicazioni@clownvipterni.it
oppure potete cercarci su Facebook. ClownVip Terni
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La tranquillità di animo e la crisi Come si fa a parlare di tranquillità di animo in un momento di crisi come quella che ormai ci attanaglia da sei anni? Bella domanda! La risposta sembra ovvia quasi scontata: impossibile! Io però non sarei così drastico. Troppo semplice, anzi semplicistico! Viviamo in una realtà politico-sociale assai complessa che esige una risposta non univoca bensì articolata. Queste sono chiacchiere! Come faccio a starmene tranquillo quando vedo esercizi commerciali chiudere, aziende che tirano avanti annaspando, altre che minacciano licenziamenti in massa, giovani a spasso senza una prospettiva per il futuro!... obietterà un lettore irritato e di motivi per esserlo ne ha in abbondanza. Il quadro politico sociale del Bel Paese non è molto eclatante: mafia capitale, scandali, abusi, clamorose evasioni fiscali, una classe politica che non sembra, se non a parole, voler rinunciare ai propri privilegi. A complicare le cose ci si mettono anche i canali televisivi pubblici e privati che con trasmissioni come Otto e mezzo, Agorà, Arena, Servizio Pubblico, Ballarò ecc…che puntano giustamente l’indice contro disfunzioni e malcostume. A questo punto le poche e già traballanti certezze dei tanti sig. Rossi che fanno lo slalom tra tasse e balzelli vari per arrivare a fine mese, crollano. In una simile situazione psicologica mi chiedo come fa il sig. Rossi a stare tranquillo, a far riposare per un attimo la sua mente affollata di pensieri, conti, scadenze? Non esiste, come già detto, una risposta precisa. La ricerca della tranquillità di animo è qualcosa di individuale che ognuno di noi deve conquistarsi giorno dopo giorno, ora per ora, cercando di ritagliare per sé uno spazio riservato, un’autentica oasi di pace in mezzo al turbine dell’esistenza. In questa ricerca, ripeto personale ed individuale, può essere di aiuto un libro scritto duemila anni fa dal filosofo Lucio Anneo Seneca intitolato La tranquillità dell’animo, titolo originale De tranquillitate animi. D’accordo, un libro non può contenere la soluzione dei problemi, ma è indubbio che da esso si possono trarre utili spunti, interessanti suggerimenti. Personalmente ho trovato questo scritto molto attuale. Seneca, scrittore, poeta, filosofo, tragediografo vissuto all’epoca del famigerato Nerone, quello che, secondo Tacito, cantava mentre Roma bruciava e che usava i Cristiani come torce umane per illuminare le vie buie della città. Egli non fu un predicatore astratto o uno semplice teorico, anzi, in conformità ai princìpi dello Stoicismo di cui era seguace, non disdegnò l’impegno politico accettando l’incarico di ministro del giovane imperatore negli anni 57-62 dC. Fu il cosiddetto quinquennio felice, durante il quale egli tentò di plasmare il carattere del giovane secondo i suoi insegnamenti, ma che terminò con il ritiro a vita privata prima e il suicidio forzato dopo. Nerone che aveva un’indole ribelle, amante degli eccessi fino alla teatralità più esasperata e macabra, non poteva certo piegarsi alla lucidità razionale della filosofia stoica ed era prevedibile che la collaborazione tra i due non sarebbe durata a lungo. Durante questo periodo egli si dedicò anima e corpo agli affari di stato, senza avere un attimo di pace, contravvenendo per ragion di stato perfino alla sua stessa dottrina. Forse fu proprio allora che ebbe l’imput di scrivere delle meditazioni sulla tranquillità di animo che tanto gli mancava e che cortigiani ipocriti, senatori invidiosi, il carattere ribelle del principe e il perfido Tigellino continuamente insidiavano. Roma poi era divenuta una megalopoli multietnica e multilinguistica, dove il latino, lingua ufficiale, era in pratica stato scalzato dal greco e da una miriade di altre lingue. Una città caotica e colorata in cui il lusso più sfrenato conviveva con la miseria più nera. Una città piena di monumenti dorati e di squallidi quartieri ricettacolo di sporcizia e malaffare, in cui specie di notte era pericolosissimo avventurarsi. Insomma un’immagine ante litteram delle nostre città frutto della globalizzazione. In questa situazione scrisse il De tranquillitate animi dedicato ad un suo amico chiamato, ironia della sorte, Sereno il quale, come si
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capisce fin dalle prime battute, lo era di nome ma non di fatto. É proprio quest’ultimo che pone a Seneca una lunga domanda. Egli dice di vivere in uno stato ambiguo che non è di guerra né di pace, di non essere libero dalle sue paure ma di non esserne completamente schiavo, insomma non sono malato, ma non sto neppure bene! Sereno vive nella contraddizione: conduce una vita modesta, ma nello stesso tempo lo attrae la ricchezza, la vita mondana, l’arrivismo dell’Urbe in cui la corruzione, la brama di arricchire in fretta, il desiderio di una brillante carriera o politica o forense stavano dilagando. Anche qui una tragica anticipazione della situazione odierna. Sembra che la storia non ci abbia insegnato nulla! Dice testualmente: Ma appena una bella lettura mi titilla l’animo e piena com’è di nobilissimi esempi mi sprona ad imitarli, ecco mi viene voglia di lanciarmi nel foro. Subito dopo rivolge all’amico una preghiera: se conosci qualche rimedio capace di fermare questo mio continuo ondeggiare di animo, ti sarò debitore della mia serenità. La supplica di Sereno riflette la situazione psicologica di Seneca durante il suo governo quando era combattuto tra le lusinghe del potere e la coerenza con i princìpi della dottrina stoica di cui era seguace. Del resto la parte attribuita all’amico è sempre Seneca a scriverla che sdoppia se stesso per farsi l’esame di coscienza e mettersi di fronte alle proprie responsabilità. Roma era una città corrotta e corruttrice, una magna meretrix, come dice S. Giovanni nell’Apocalisse. Resistere alle sue lusinghe era molto difficile. Il filosofo risponde all’amico che un rimedio consiste nella fiducia in se stessi, la convinzione di essere sulla strada giusta. Quando si è disgustati dalla vita pubblica ci si rifugia nel privato, ma uno spirito nato per l’impegno sociale, irrequieto per natura, non sopporta la solitudine. Da qui la malinconia, la depressione, l’inquietudine interiore dalle quali non si sfugge nemmeno intraprendendo lunghi viaggi. Esse ti seguono e ti perseguitano come muti fantasmi. Contro una simile noia il rimedio è la fiducia nelle proprie capacità senza paura di sconfitte. Un animo nobile può anche realizzarsi nella vita privata, ma che il ritiro non sia tale da impedirci di giovare al prossimo singolarmente o collettivamente, col pensiero o con la parola, anche se la situazione politica o il regime non lo permettono. Qui Seneca ricorda l’esempio di Socrate che riuscì a mantenersi libero mentre ad Atene imperversavano i trenta tiranni e dice: gli sono preclusi i doveri di cittadino? Eserciti quelli di uomo…Per quanto vasto possa essere il campo che ti viene tolto, te ne resterà sempre uno più grande…se ti tappano la bocca non demordere: hai sempre l’arma del silenzio. Un bravo cittadino non è mai inutile, può giovare agli altri solo con un gesto, uno sguardo. Seneca parla poi delle ricchezze che sono la fonte delle tribolazioni umane. Si fa tutto per il denaro, per accumulare; il denaro diventa un idolo come ha detto papa Francesco, ma esso non dà la tranquillità. Ottimo spunto per le vicissitudini recenti di Mafia capitale in cui loschi personaggi tipo Carminati, Bussi... hanno impicciato, imbrogliato, realizzato illeciti profitti…ma a che pro? Credo che nemmeno loro sappiano rispondere. Invece Seneca una risposta la dà: procura minor dolore non avere ricchezze che il potervi poi rinunciare…il non acquistare è più facile che il perdere e chi non è stato mai baciato dalla fortuna è più fortunato di uno a cui la buona sorte, dopo averlo toccato, ha voltato le spalle. E continua, alcuni sono legati alla carriera, altri al denaro ecc… La vita è tutta una schiavitù. Bisogna accettare la propria condizione, lamentarsene il meno possibile e approfittare di tutti i vantaggi che offre. Spazi ristretti, se ben progettati, possono essere utilizzati in molti modi. Conclude: bisogna spremersi la testa di fronte alle difficoltà, far lavorare la ragione, così le amarezze possono essere addolcite, le ristrettezze allargarsi.. Questo in sintesi il messaggio di Seneca, vissuto duemila anni fa, ma drammaticamente attuale. L. Anneo Seneca, un classico che non finisce mai di dire quello ha da dire. Pierluigi Seri
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La patria degli eufemismi Ormai ho rinunciato perfino a starci attento! Qualche giorno fa, mentre parlavo con un signore del Camerun che avevo appena conosciuto, mi è scappato di pronunciare, poco opportunamente, la parola negro. La conversazione, d'altra parte, aveva ormai acquisito un tono di cordialità, per cui, sorridendo, ho spiegato che, da bambini, ci avevano insegnato a chiamarli così. D'altra parte, non essendocene in giro, all'epoca, e conoscendoli solo in fotografia, non c'era nessun intento razzistico nel definirli così. Ora, mentre è perfettamente chiaro che, per gli americani che nero lo traducono con black e negro con nigger (termine connotato di un senso di disprezzo in quanto porta con sé una sgradevole etimologia legata alla schiavitù), va perfettamente bene stare attenti a quale dei due usano, non mi pare proprio che in italiano una consonante in più o una in meno possano fare allo stesso modo tutta questa differenza. Il signore del Camerun ha sorriso anche lui ed ha convenuto che, non solo non trovava niente di offensivo in quel termine, ma piuttosto lo indisponeva sentir parlare di persone di colore, quasi ci si vergognasse a dire chiaramente di quale colore si stesse parlando. Quando Marco era piccolo, un giorno che andavamo a passeggio, nel vedere un cane vittima di un'indescrivibilmente catastrofica “contaminazione genetica”, mi chiese di che razza fosse. Io gli risposi “Ma no Marco, di nessuna razza: quello è un bastardo”. E lui, tutto dispiaciuto, mi disse: “Papà, ma perché lo tratti così, che cosa ti ha fatto di male?”. Già, non avevo calcolato che, per parlare “politically correct”, i cani non di razza, ormai, vengono definiti meticci, termine che, un tempo, era in uso per identificare esseri umani nati da unioni di coloni europei con donne amerindie, o viceversa, e che oggi, vergognandoci di utilizzarlo per i suddetti esseri umani, non troviamo tuttavia disdicevole utilizzarlo per i cani! Quand'ero piccolo io, se capitava di incontrare una persona con
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palesi problemi nel camminare, alla domanda sul perché camminasse così male, poteva accadere di sentirsi rispondere: “Perché è un povero storpio”. Il termine, proprio perché detto ad un bambino, cui si riteneva di dover insegnare l'educazione ed il rispetto per le persone più deboli, era ovviamente del tutto privo di disprezzo ed improntato, semmai, a pietà umana. Nel tempo parve opportuno attenuarne la crudezza, utilizzando la definizione di derivazione inglese “handicappato” (i termini inglesi, non si sa perché, sono sempre più eleganti). Passò ancora del tempo e la parola handicappato andò ad affiancarsi a quel genere di termini che potevano essere usati per deridere chi non dimostrava particolare dimestichezza con l'attività che stava svolgendo. Fu così che venne in auge il termine disabile. Non poteva finire lì: ricordo ancora di quando, nel corso di un noiosissimo incontro avvenuto in Regione (uno dei tanti di snervante inutilità cui ho avuto la ventura di prender parte in vita mia), sentii il rappresentante di un qualche comitato rampognare i presenti che avevano parlato di disabilità, spiegando che i disabili non erano affatto disabili e non andavano offesi utilizzando simili termini impropri ed offensivi: la definizione esatta da usare era “diversamente abili”. Devo riconoscere che non ho proseguito l'inciso col signore del Camerun dell'altro giorno proponendo di utilizzare per loro la definizione di “diversamente bianchi”, ma credo che si possa comunque trarre una morale utile da queste mie riflessioni. Il mio Professore di Neurologia era solito ricordarci che, in Italia, quelli che non ci sentono e non ci vedono li chiamavamo “non udenti” e “non vedenti”, mentre in Inghilterra li chiamavano sordi e ciechi, però li protesizzavano opportunamente per consentir loro di orientarsi al meglio e di poter interagire “alla pari” con l'ambiente in cui vivevano, mentre i nostri non udenti e non vedenti rimanevano, in realtà, sordi e ciechi. Che sia venuto il momento di una bella rivoluzione culturale nostrana che ci consenta di badare di più alla sostanza delle cose e meno alle balordaggini di chi cerca solo d'imbambolarci con le chiacchiere?! Stefano Moroni Cittadino di Terni
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L’ i n v i t o Franco Lelli
Quando il messo presidenziale bussò alla porta della villa, fu la moglie del giudice Sanchez ad aprirgli. Ricevette così l’invito all’annuale festa che Donna Costanza organizzava per commemorare l’indipendenza della nazione. La signora Elvira Sanchez lo dava per scontato, ma vederselo consegnare materialmente era una conferma che nulla aveva turbato i buoni rapporti fra il capo dello Stato e suo marito nel corso dell’anno. L’equilibrio delle relazioni fra la consorte del presidente e i notabili della capitale aveva un solo carattere stabile: la precarietà. Non era necessario confermare la partecipazione, perché non intervenire significava l’autoesclusione definitiva per il futuro. L’idea di mettere a rischio il privilegio non sfiorava minimamente la signora Elvira, ben felice di farsi vedere nell’entourage presidenziale. Dette la mancia al messo che, in ogni caso, non si sarebbe mosso da lì senza un compenso, e tornò dentro chiudendo la porta. L’invito, consegnato con un anticipo di soli due giorni dalla cerimonia, era, prima che una mancanza di riguardo, una sottile e studiata violenza psicologica che la primadonna si compiaceva di praticare, in virtù di una pretesa sudditanza che, tuttavia, non tangeva la moglie del giudice. Si era preparata da mesi alla festa; aveva comprato una mise deliziosa nell’ultimo viaggio in Europa con suo marito, decisa a sfoggiarla, sicura di suscitare molte invidie. Suo marito aveva ben altre preoccupazioni per la testa: riunioni interminabili in seno alla commissione per la riforma del codice penale e, da pochi giorni, la lotta a gruppi di delinquenti abituali che, scimmiottando il Ku Klux Klan, compivano raid assassini contro i bianchi della capitale, ben nascosti da alti cappelli a cono e croci in mano. Già una decina le vittime in quattro mesi di attività. Il corpulento giudice Sanchez, al contrario della sua consorte, avrebbe rinunciato volentieri all’invito, sia perché non amava apparire, sia perché l’obbligo del frac gli comportava un odioso, inevitabile bagno di sudore. Nonostante si fosse nella stagione delle piogge, aveva fatto lavare la sua Plymouth nera e aveva comandato, con l’occasione, una revisione meccanica dell’imponente berlina. Tutto sembrava pronto per il galà, ma quella stessa mattina Donna Elvira si svegliò con la febbre malarica. Non riuscì neppure a fare colazione. Vomitava qualsiasi cosa mangiasse o bevesse. Il medico, subito chiamato per scongiurare il forfait, la rimpinzò di capsule di Artemedine, un ritrovato cinese che riduce gli effetti più insopportabili della malattia come, per l’appunto, vomito, diarrea, o quell’aspetto paonazzo che, da una parte, avrebbe fatto pendant con il rosso dell’abito, ma sollevato sospetti sulle capacità della signora a sopportare l’alcol. Suo marito dovette, dunque, rassegnarsi alla partenza. Anzi, l’anticipò di un’oretta a causa del diluvio che si stava abbattendo a nord dell’isola di Bioko. L’auto attraversò la città con estrema prudenza a causa delle enormi pozzanghere, le cui profondità non potevano essere vagliate, arricchendo di una buona dose di avventura lo spostamento, altrimenti banale. Nonostante l’attenzione del giudice, l’auto rischiò di impantanarsi nel superamento dell’ultima buca, prima dell’uscita dal centro abitato: il vano motore quasi affondò nell’acqua e solo grazie alla potenza dell’auto, il guidatore riuscì a recuperare il piano stradale. I trenta chilometri che li dividevano dalla meta furono affrontati con la consueta carica di coraggio e fiducia nel destino con cui deve familiarizzare chiunque si sposti in Africa. - Come ti senti? - chiese l’uomo. - Resisto, ma non so se riuscirò a stare in piedi tutta la serata. L’importante è farsi vedere. Poi cercheremo una scusa per anticipare il rientro progettò donna Elvira. Il giudice guidava scartando le buche coperte di pioggia, nell’intento di non incorrere in altre sorprese. La notte era scesa e l’unico faro funzionante, dopo che l’altro era andato in avaria a seguito dell’immersione, illuminava a fatica il fango rosso della sede stradale. - Che tempaccio -disse la donna- neppure il tergicristallo riesce a spazzar via queste cataratte. Come fai a orientarti? Io non vedo niente. - Vedo io, non preoccuparti. Non è l’acqua a dare problemi, ma questo borbottio del carburatore. Camminiamo a strappi… non vorrei che… l’interruppe il marito. - Ci mancherebbe anche questo - commentò la donna, mentre la vecchia Plymouth emise una serie di terrificanti singhiozzi. - Di questo passo, arriveremo a festa finita -riprese il marito- meglio deviare per Basakato, accorceremo una decina di chilometri; la strada è
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più stretta e meno frequentata, recupereremo, così, una buona mezz’ora. L’auto sembrò aver assorbito gli effetti della pioggia torrenziale; anche il secondo faro tornò a funzionare, illuminando una scena apocalittica. Un torrente s’era aperto il suo letto nella mezzeria della strada sterrata, mentre ai lati ne scorrevano, violenti, altri due. La Plymouth si muoveva con le ruote a cavallo di quello centrale, ma la visibilità era ridotta quasi a zero, lasciando al caso il rischio di uscire definitivamente dalla sede stradale. Tuoni fragorosi sembravano sprigionarsi dalle viscere della terra, tanto scuotevano l’auto, preceduti da schiocchi di fulmini che squarciavano il cielo quasi senza interruzione. Sarebbero stati sufficienti a consentire la vista anche in assenza dei fari, se mai i tergicristalli fossero riusciti a rimuovere il velo permanente d’acqua che scendeva come una cascata sul parabrezza. - Fermiamoci - propose il giudice. - Non voglio rinunciare alla serata. É l’unico diversivo che offre quest’accidenti di paese e capita una volta l’anno. E poi, non ho intenzione di entrare nella lista degli esclusi da Donna Costanza - reagì la signora Sanchez. - Forse non hai capito che rischiamo di essere esclusi dalla lista dei viventi se proseguiamo. É come camminare ad occhi chiusi sul bordo di un dirupo - precisò il marito. -Va bene, aspettiamo - cedette, rassegnata. Trascorsero vari minuti, forse mezz’ora, durante i quali i mugugni della signora s’alternarono ai lamenti della natura: crepitii di lampi, scuotimenti di tuoni, fragori di acqua sul tetto dell’auto. Quando la violenza della pioggia sembrò diminuire -ma fu solo la donna ad avvertirlocominciarono le sollecitazioni della signora a riprendere il viaggio. Il giudice, alla fine si decise ma, per quanto fece, il motore non ne volle sapere di rimettersi in moto. Si rese conto che sarebbe stato inutile insistere per non esaurire la batteria ma, molto prima di quanto potesse supporre, lo spunto elettrico si azzerò. Il solo pensiero di dover trascorrere la notte chiusa nell’auto e di non potersi presentare alla corte della primadonna sconvolse la signora Sanchez che si esibì, com’era nelle sue abitudini, in una litania di giorni maledetti che partivano da quello del primo incontro con suo marito all’università di Salamanca, proseguivano con quello in cui lei decise di sposarlo, continuavano con l’idea pazza di suo marito di fare il giudice e si concludevano con quello della decisione di venire a svolgere la professione in Africa. Condì la giaculatoria con espressioni di circostanza, del tipo: “mamma me lo aveva detto…”, oppure “a Madrid, da ragazza, facevo la regina…”. Il giudice conosceva bene l’intero iter dello sfogo e sapeva anche come poterlo fermare: - Scendiamo e andiamo a piedi fino al villaggio vicino. Abbiamo un ombrello in grado di ripararci tutti e due…- troncò corto l’uomo. -Tu sei pazzo. Ma ti rendi conto che fine ingloriosa farebbe la mia toilette? É come se uscissi da un bagno in piscina. E le mie scarpe? E i miei tacchi da 10? Avrei difficoltà a tirar fuori dal fango anche le caviglie… - Ok, ricevuto. Vado io a piedi fino a Baresò. Manca poco più di un chilometro da qui. Troverò il modo di avvertire il presidente del nostro ritardo. Tu stenditi sul sedile posteriore e non aprire a nessuno. Quando tornerò batterò tre colpi sul tetto dell’auto. Saprai così che sono io. Mettiti addosso questa coperta e non temere, farò presto. Una volta sceso, la signora Sanchez serrò le portiere, si tolse le scarpe e si spostò, senza troppa fatica, nel vano posteriore. S’allungò sul sedile che l’ospitava per tutta la sua statura, ben attenta a non gualcire la meravigliosa rosa di taffetà dalle tenui nuance che guarniva l’abito in vita. Trascorsero alcuni minuti nel silenzio rotto dai tuoni e dalle scudisciate dei fulmini, ai quali si abituò presto. La pioggia, che s’abbatteva sull’auto con la violenza delle rapide di un torrente, diventò una compagnia sopportabile, anzi piacevole. La coperta, che si era tirata su fino a coprire la fronte, le dava una strana sensazione di protezione, rafforzata dall’appannamento dei vetri. La mente le corse a come si difendeva dai rumori della notte, quando da bimba si tirava la coperta fin sulla testa. Era come chiudersi in una cassaforte, inviolabile e sicura. Fuori era l’inferno. L’incosciente rilassamento e la febbre fecero il resto: la donna s’addormentò e solo le sirene di due auto della polizia la riportarono alla realtà. Quando aprì gli occhi, provò un confuso stupore nel vedere la luce del giorno. Non pioveva più e un chiarore rassicurante inondava l’interno della vettura. Si sollevò dalla posizione supina, si girò un poco e con un dito s’aprì un varco nel velo di condensa del cristallo posteriore. Otto agenti erano scesi dalle auto e si avvicinavano alla Plymouth. La signora ebbe un sussulto, scossa dallo stupore per l’assenza di suo marito. Aprì la portiera e scese. A lato della vettura, tre agenti l’aiutarono nel movimento. - Salga sulla nostra auto e non si volti assolutamente! Non capì subito, ma ubbidì senza chiedere spiegazioni. Sedutasi, si sistemò con cura la rosa, quindi allungò lo sguardo sulla Plymouth: suo marito giaceva come un cristo sull’ampio cofano dell’auto, il volto tumefatto appoggiato al parabrezza, le braccia aperte, una croce appoggiata sul dorso e in testa un cappello bianco a cono: la firma degli assassini.
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Un matrimonio di guerra Il 20 gennaio del 1944 era un giovedì. Nonostante la guerra, i bombardamenti, le azioni partigiane e le rappresaglie tedesche, un uomo e una donna avevano deciso di sposarsi. L’uomo ci pensava da molto tempo, tanto che aveva tagliato e fatto stagionare un enorme ciliegio che, data l’età, non produceva più frutti. Stabilita la data delle nozze aveva portato il grande tronco da un falegname locale, che ne aveva ricavato un letto, due comodini, un comò e un vis-à-vis a una sola anta ma con un grande specchio. Quando un raggio di sole penetrava dalle finestre nella fredda camera da letto, i mobili di ciliegio dal colore rossastro si accendevano e brillavano come fossero vivi. Con le poche lire messe da parte in anni di sacrifici aveva comprato anche un bel lavabo con i piani di marmo, completo di tutti gli accessori: specchio, porta asciugamani, brocca di metallo smaltato e un capiente bacile per le abluzioni mattutine. I due si erano conosciuti alla Fabbrica d’Armi dell’Esercito, dove entrambi erano entrati appena scoppiata la seconda guerra mondiale. La promessa sposa abitava a Campomicciolo e il promesso sposo in una piccola frazione di un comune della Valnerina. La frazione era abitata da poche famiglie di contadini che, per raggiungere il paese con un carro o una biga, dovevano percorrere alcuni chilometri di strada bianca, detta la strada romana, così era chiamata da tutti, in quel tempo, la strada principale carrozzabile. Andando invece a piedi, o in sella a un quadrupede, si poteva optare per una scorciatoia che, attraversando oliveti e boschi, scendeva poi a valle verso il fiume Nera, facendo guadagnare molto tempo. Campomicciolo invece si era sviluppato in modo tumultuoso a causa dei tanti immigrati che cercavano casa o un terreno per costruirla, visto che il lavoro a Terni non mancava per cui, da una zona prevalentemente agricola, con poche abitazioni, erano nati diversi piccoli agglomerati urbani, ogni casa col suo indispensabile orto, visto che l’acqua per irrigare abbondava. Tutta la zona era parrocchia di Papigno e i nuovi abitanti devoti avevano fatto presente la necessità di una chiesa più vicina, anche se il camminare in quell’epoca, era uno sport obbligato e praticato da tutti. Quel 20 di gennaio era sereno e le cronache riferiscono che il bel tempo durava da parecchi giorni, con le brinate al mattino e il sole fino a sera. La terra era secca, arida e i contadini ripetevano tutti i giorni lo stesso proverbio: Dio ci salvi dalla polvere di gennaio e dal fango di agosto. La sposa trentaquattrenne si era vestita con la sobria eleganza consentita dalla guerra, dal lavoro delle amiche sarte e dalla necessità di poter usare lo stesso abbigliamento per altre occasioni. Appena pronta uscì di casa accolta festosamente da tutto il vicinato, salì su una biga tirata da una cavalla tutta infiocchettata con nastri rossi da cerimonia (e contro il malocchio) e, con il padre e la madre accanto e il pesante baule pieno di biancheria nel retro, partirono alla volta della chiesa di Papigno. Gli altri parenti stretti seguivano a piedi, tranne il fratello minore della sposa che, seduto al posto di guida con le briglie e il frustino in mano, si sentiva molto importante. Lo sposo, sobriamente vestito anche lui per le ragioni già chiarite, aspettava in chiesa insieme a un gruppetto di congiunti. Finita la cerimonia gli sposi salirono sulla biga e scesero verso la Valnerina seguiti dal codazzo dei parenti appiedati. Ad attenderli c’era una motrice del tram appositamente noleggiata, come regalo di nozze, da un altro fratello della sposa e guidata dallo stesso che era anche conducente delle tramvie. Saliti tutti in carrozza partirono per raggiungere il paese dello sposo. Una volta arrivati e parcheggiata la vettura in un binario morto, gli sposi salirono su un’altra biga tirata da un’asina e i convitati si arrangiarono salendo su vari carri tirati da buoi, per raggiungere la lontana frazione dove li aspettava un bel pranzo contadino. A pranzo finito, dopo gli abbracci, i saluti e le lacrime della sposa, quelli di Campomicciolo rifecero con i carri il percorso inverso, risalirono sul tram, scesero a Papigno e se ne tornarono poi a piedi alle loro case. Si seppe poi che nel pomeriggio dello stesso giorno, truppe tedesche in rastrellamento sul monte Torre Maggiore avevano ucciso il partigiano ternano Germinal Cimarelli. Vittorio Grechi
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“Versi di un provinciale” raduna tutti gli aspetti della contraddittorietà di un essere incompleto, a tratti coraggioso e sicuro delle proprie scelte, a momenti vile e pavidissmo, ma perennemente in cerca di un luogo e un senso ultimi in cui inserirsi, senza troppa vergogna di sé. La poesia si dimostra strumento efficacissimo e catartico per uno che ha sempre fatto altro nella propria vita -un attore che viene dal teatroma che dall’immagine che si traduce in parola ha sempre attinto per fare bene il proprio mestiere... Chi non ha mai visto recitare Riccardo, non può, mentre legge i versi di un provinciale, vederlo brandire le parole stesse con atti teatrali, quasi fossero immagini. Chi invece lo ha visto recitare, traendone sommo piacere, lo immagina proclamare le sue poesie, con piglio fortemente teatrale. E così, Riccardo, genera un nuovo genere letterario: la poesia teatrale. Particolarmente incisiva la poesia Ulisse che mette in scena un suo insegnante. GR
ULISSE Girovagando per le calli strette, Immagini di aprire una bottega Adatta per le menti più perfette, Mistura di chi apprende e di chi spiega. Peccato la tua indole grandiosa, Invano vada a infrangersi con quella, Eternamente greve e pidocchiosa, Rimasta cara a pane e mortadella. “O sindaci, assessori o gente astuta! Rinuncio alla contesa e getto le ali Al folle volo di una gara perduta.” Sognavi una città per gli ideali Proposti con ardore ai tuoi studenti. E invece quella cricca di maiali T’ha chiuso il cavallone sopra ai denti. “Travolgami l’Oceano a tutta forza! Il fuoco del mio cuore non si smorza!”
Ogni vita racconta la vita, gli infiniti volti di essa, gli angoli più nascosti, gli anfratti che racchiudono il sogno, i cunicoli perversi che nascondono, ma non ingoiano. Ogni vita ti dona il senso della vita se, prima che agli altri, tu la ricordi a te stesso. Per farlo, però, occorre tuffarsi nel buio, brancolare nel tunnel alla ricerca della lucina giù in fondo, scavare nei pensieri, galleggiare nei ricordi, dare forma all’informe. Ho scelto di non dimenticarmi scrivendo e... sono emersi eventi che hanno cambiato un percorso di vita, incontri che hanno generato conoscenze, momenti che hanno sovvertito l’ordine delle cose perché le cose possono avere un altro ordine.
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Essendo nato in una città notoriamente martoriata, come poche altre in Italia, dai bombardamenti bellici, in virtù della sua forte vocazione industriale, ospitando il più importante centro siderurgico d’Italia e il secondo in Europa, ho da sempre riconosciuto le cicatrici di quell’antico conflitto nei ricordi dei vecchi e nell’architettura del territorio. Così la questione del bombardamento strategico, determinante in quel conf1itto e così attuale per la risoluzione delle guerre di oggi, mi ha evocato da sempre riflessioni e suggestioni. Anni fa, durante un’esperienza operativa di lavoro vissuta in Arkansas, ho avuto modo di collaborare con strutture militari dell’aviazione statunitense e di fare la conoscenza diretta di piloti in servizio e di altri ormai novantenni che vissero in prima persona l’esperienza del bombardamento come aviatori delle fortezze volanti, durante la seconda guerra mondiale. Quell’inaspettata esperienza diede la stura a un’appassionata ricerca condotta su più fronti e continuata con passione sul mio territorio che fu teatro di quei tristi avvenimenti. Le testimonianze si sono così accavallate in lingue diverse, tutte serbavano dentro un profondo dolore. Lo spettacolo teatrale che ne nacque fu gioco forza bilingue e portato avanti assieme all’attore e poeta statunitense Edmund Zimmerman che in questo romanzo dà il nome al protagonista americano.
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MASSIMO ZAVOLI è docente presso il Liceo Artistico di Terni, dopo aver insegnato all’Istituto d’Arte di Orvieto e all’Accademia di Belle Arti di Viterbo. Senza trascurare le sue attività di pittore e scultore, si è da tempo rivelato incisore acquafortista di alto pregio. Durante la sua formazione artistica ha incontrato quattro Maestri: Vittorio Cecchi, Aurelio De Felice, Luciano Capetti e Roberto Bellucci. Quest’ultimo ancora oggi rappresenta il riferimento autorevole per il perfezionamento della tecnica calcografica: la “Nobile Arte” che Zavoli segue tuttora con passione assoluta e successo, utilizzando il torchio autentico di Aurelio De Felice, avuto in dono dagli eredi De Felice. Tra i suoi vari eventi artistici si menziona il recente riconoscimento del Premio Internazionale Spoleto Festival Art 2014. Alcune sue incisioni sono state depositate presso l’Archivio di Stato di Temi. Ad Maiora Massimo. Marco Francescangeli
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