Numero 1 2 3 marzo 2015
Donna non si nasce. Auguri alle donne, tutte meravigliose.
Mensile a diffusione gratuita di attualitĂ e cultura
La crusca fa bene Anche nei posti più lontani, nei paesi più remoti, è facile trovare qualcosa che ci ricordi casa. In qualsiasi posto delle Americhe o dell’Australia, in quasi tutta l’Africa e certamente in Europa, ma perfino nell’Asia più esotica, seppur forse con maggior fatica. Perché anche nel centro di Pechino o nel paesino sperduto sotto le Alpi Giapponesi si trova qualcosa da leggere: anche dove imperano gli ideogrammi e gli alfabeti più ostici, qualche scritta nel nostro familiare alfabeto occidentale si riesce a trovarla sempre. Certo, è più probabile che siano frasi scritte in inglese, o magari spagnolo, piuttosto che in italiano. Ma l’inglese, al pari dello spagnolo, del francese, del tedesco e di chissà quante altre lingue, è scritto con i nostri caratteri, quelli stessi che state decifrando proprio adesso nello scorrere questa pagina. Caratteri che sono ormai talmente familiari che non stupisce affatto trovarli su un menù a Timbuctu o su un’indicazione stradale del Bhutan; anzi, probabilmente stupisce più quel semplice esercizio di memoria che dovrebbe farci ricordare che, anche se abitano ormai tutto il mondo, quei segni sono nati proprio qui da noi. Alfabeto latino, si chiama: ed è verosimilmente una delle più grandi eredità che il centro Italia abbia lasciato al mondo. È qualcosa di cui è lecito essere orgogliosi, più di molte altre cose che solitamente si associano al concetto di orgoglio: guerre di conquista, battaglie vittoriose, perfino trionfi sportivi, tutti cantati con fierezza; ma sono davvero effimeri, rispetto all’incredibile marchio impresso dai caratteri latini. Si potrà certo contestare che le lettere dell’alfabeto latino sono così universalmente diffuse proprio perché erano quelle usate da eserciti vittoriosi, ma resta il fatto incontrovertibile che hanno avuto successo, si sono mostrate all’altezza della situazione, e sono ormai davvero patrimonio -patrimonio culturaledi tutta l’umanità. La comunicazione è il veicolo principale della fratellanza, e si comunica attraverso la lingua: per questo il linguaggio è così importante. E se certo non è opportuno mettere in classifica di importanza i vari
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idiomi, è del tutto lecito essere affezionati al proprio. L’italiano è oggettivamente una lingua bella, articolata, musicale, dolce. È anche precisa e logica, forse più di altri linguaggi attualmente più usati nel mondo; inoltre è il maggior patrimonio comune della nazione italiana: non c’è davvero nulla di male ad esserne orgogliosi, a desiderare dl proteggerla. Ed è forse proprio per un certo senso di protezione che l’Accademia della Crusca ha recentemente esortato tutti a “dirlo in Italiano”; perché l’utilizzo di termini stranieri è un po’ abusato. “Dillo in Italiano”, dice la Crusca: dillo in italiano, almeno se non c’è davvero bisogno di usare un’altra lingua, suggeriamo noi. Il linguaggio è materia fluida, mobile, che adora mescolarsi con i confratelli: i mescolamenti spesso sono inevitabili, talvolta anche utili. Molti termini inglesi comunemente usati oggi in Italia di fatto non sostituiscono, ma affiancano le italiche parole corrispondenti: “hardware” è cosa diversa da “ferramenta”, “bit” ha una connotazione più esplicita di “pezzettino”, e certamente “sport” non può più nemmeno lontanamente parificarsi al “diporto”. Ma molto spesso il termine straniero è solo un vezzo, una moda, un tentativo di mostrarsi più di quel che si è: e in casi come questi non si può non dare ragione all’Accademia della Crusca. E se si può sorridere dell’amico che, aiutato dalla wedding planner arrabbiatissima con il catering manager, cerca disperatamente la giusta location per il matrimonio, è un po’ meno divertente sentire giornali, istituzioni e autorità titolare sui Jobs Act o addirittura sul Ministero del Welfare. Semplicemente perché di quest’uso non ce ne è davvero ragione, non migliora il significante, non aumenta la comprensione. È solo un modo pretestuoso, e sbagliato, per mostrarsi internazionali. In realtà, per essere davvero internazionali, occorrerebbe non solo acquisire parole dagli stranieri, ma anche donarle a loro: ed è ben triste leggere che, secondo uno studio, l’ultima parola pienamente italiana che sia diventata di dominio davvero internazionale, adottata in blocco dalle altre lingue, sia “fascismo”. L’italiano è bello, è il latino fattosi popolare. Ed è curioso, forse persino un po’ magico, ricordare che il primo testo riconosciuto come “italiano” sia l’antico placito cassinese che recita “Sao ko kelle terre, per kelle fini que ki contene…”: non tanto perché si tratta di una testimonianza giurata, quasi a ribadire l’eterna passione dell’Italia nei confronti del diritto, quanto perché il primo verbo è “sao”, e il primo sostantivo è “terre”. Come a dire che la lingua italiana nasce celebrando la “conoscenza” e il “territorio”: un vero e proprio invito, vecchio più di mille anni, a conoscere la nostra Italia, e quindi ad amarla. Piero Fabbri
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La crusca fa bene
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CONFARTIGIANATO IMPRESE TERNI
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Non si uccidono così anche i cavalli?
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L’evidenza latente. Terni città dell’alternativa
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Il cibo non si butta
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STUDIO DI RADIOLOGIA BRACONI
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I diamanti del presidente: un piatto indigesto
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ARABA FENICE
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L’ e s o d o i s t r i a n o c o i n v o l s e a n c h e l o s p o r t
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OTTICA MARI
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E io pagooooo!
- P Fabbri
- G Raspetti - C Mattei
- A Melasecche
- F Patrizi
- S Lupi
- M Petrocchi
Lu circuìto de l’acciaju
- P Casali
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C I D AT
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LANDI COSTRUZIONI
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L A B O R AT O R I S A L VAT I
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A Z I E N D A O S P E D A L I E R A S A N TA M A R I A D I T E R N I
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I conservanti ERO
- L Falci Bianconi
- MV Petrioli
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N U O VA G A L E N O
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Il conservatorismo islamico
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L I F T I N G FA C C I A L E
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Uno di meno
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FA R M A C I A B E T T I
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I moralisti del cibo
- PL Seri
- L Campili
- F Lelli
- V Policreti
Prodotti solamente naturali?
- G Giorgetti
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S A N VA L E N T I N O S P O R T I N G C L U B
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La potatura
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C M T - C O O P E R AT I VA M O B I L I T À T R A S P O R T I
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F O N D A Z I O N E C A S S A D I R I S PA R M I O
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ASSOCIAZIONE UN VOLO PER ANNA
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PIERLUIGI SERI
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G L O B A L S E RV I C E
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SUPERCONTI
LA
- V Grechi
- R Bellucci
PA G I N A
Mensile di attualità e cultura
Registrazione n. 9 del 12 novembre 2002, Tribunale di Terni Redazione: Terni, Vico Catina 13 --- Tipolitografia: Federici - Terni
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Non si uccidono così anche i cavalli? Frastornati da cimbali, scabelli e sistri, restiamo, ancora oggi, intrappolati nei vortici di una smodata danza lupercalica, festa di espiazione e augurio di fecondità nell’antica Roma (dal 13 al 15 del mensis februarius). Nessuna penetrazione da strisce di pelle di capro però, come narra Ovidio nei Fasti, e nessuna germogliazione, nelle februa della Terni del duemila. Rimane l’espiazione, questa sì. Come avviene infatti ormai da decenni, l’amministratore pubblico sembra privato di spazi e modi per l’adeguamento ai tempi attuali, per l’inventiva, vincolato com’è da un sentiero già rozzamente tracciato. Noi cittadini siamo allora costretti ad assistere ad una logora esposizione di robe stantie e di natura qualsivoglia, stipate come in un bigoncio. Sfiduciati da anni, rischiamo tutti di accasciarci al seguito di questa tiritera, come nel film di Pollack. Gli stucchevoli contenuti, fruibili, si badi, in qualsiasi mese dell’anno e in qualsiasi luogo del mondo, diventano, con un reiterato quanto disinvolto oplà, Eventi, addirittura Eventi Valentiniani! Canzonette? diventano Le canzoni di San Valentino; torneo di bocce? è subito Il torneo di SV; cioccolata?... La cioccolata di SV. Mancano (ma si correrà ai ripari) La gara di ruzzolone di SV, La gara di burraco di SV, Il torneo di rubamazzetta di SV e una irrinunciabile parata di carrette e motorette, di San Valentino, ça va sans dire. Movimenti di denaro che fanno bene alla economia ternana. A mio modo di vedere (ma non sono esperto di quattrini, non li ho mai avuti, né in tasca né in testa) fanno invece del male. Non solo perché un euro che passa dal tuo portafogli a quello del dirimpettaio (con una ragguardevole fetta a favore di baraccari che niente hanno a che vedere con il nostro territorio e con le nostre tradizioni) è un risultato di ordine infimo (si stenda poi un velo pietoso sul copia e ridicolmente incolla di eventi perugini), ma perché, nel pensare così non si considera il degrado cui è assoggettata la città e l’immagine che ne deriva, che la fa riconoscere ancora, rimanendo fermi alla lupercalia, come borgata arretrata e caprareccia, sorta di suburbe per burini. E questi sì che sono soldi, tanti, tantissimi, buttati via! Perdipiù (e qui la colpa è eclatante), si paralizzano individuazione e progettazione di veri eventi, consoni al prestigio della città di Alterocca e di Pazzaglia e, soprattutto, alla sacralità di Valentino, suo Santo Patrono. Euro entranti con la Maratona di SV: c’è euforia, dicono, tra gli albergatori. Possibile però, che nessuno si accorga che questa maratona è anch’essa una forzatura, un appiccicaticcio e che una vera Maratona di San Valentino deve percorrere altri tragitti, avere altri tempi, altre modalità, altro... tutto? Chi volesse trarre lumi rispetto al progetto globale (in cui ogni manifestazione, sacra o profana, risulta di necessità strettamente e direttamente legata al Santo e al nostro territorio), elaborato da me e da alcuni collaboratori, deve solo venirci a trovare in Via De Filis, presso la redazione de La Pagina e avrà piena soddisfazione. Stramazzati danzerini, ronzini e birrocchi, rimane il sordo suono di una città degradata che, senza apparenti colpe dirette, sta per andare indirettamente in malora. Sono molti gli amministratori convinti di fare tanto (e io credo fermamente che siano tutti in buona fede), tutto quello cioè di cui necessita oggi una città europea. Alcuni però sono costretti ad accapigliarsi solo per quattro affarucci di dozzina, mentre altri pensano che occorra sorvegliare e mantenere l’esistente (strategia vincente per una vita politica da gregario). Sono privati, costoro, del benché minimo sentore dell’urgenza di prospettive nuove, intelligenti, colte, dignitose. Danzeremo ancora imperterriti, fino a restare esanimi, queste ballate usurate dal cattivo gusto e dall’ignoranza? Possibile che i giovani, colti ed intelligenti, entrati da poco nella macchina pubblica, confortati dai poderosi bagagli culturali dei bravi amministratori già da tempo insediati, non riescano a trovare qualcosa di adeguato ai tempi e alle stagioni, per onorare San Valentino, ma anche per esaltare, finalmente, le tantissime altre risorse sacrali, culturali e turistiche che il nostro territorio custodisce e che occorre conoscere perfettamente (altrimenti si tradisce il mandato), se si vuol essere amministratori di una città e non di un pagos sperduto, nel bosco e nella idiozia sociale e culturale. Suvvia, giovani, spero che ce la farete a non farci uccidere come si uccidono i cavalli! G. Raspetti
L’ ev evii d en z a l a t e n t e . Te r n i c i t t à d e l l ’ a l t e r n a t i v a È una città in bilico,Terni. In bilico tra presente e passato, tra futuro e catene. L’Interamna Nahars, la terra tra i due fiumi, il bersaglio delle due guerre sopravvissuto grazie all’acciaio dei suoi cittadini, il capoluogo del cuore verde dell’Umbria e dell’acciaio dell’Italia intera, la città della dicotomia tra industria e tradizione, industria e ambiente, industria e cittadini. Una città che in questo settore fatto di fabbriche e metallo ha trovato la sua forza, spesso la sua unione, quasi sempre il suo principale riconoscimento. Ma, oggi più che in altri tempi, in altri momenti, è chiaro che, a Terni, oltre all’acciaio, al ferro e al fuoco c’è di più. È chiaro che acciaio ferro e fuoco non sono sufficienti. Ed è probabilmente il momento di trascinare la provincia fuori dal compartimento stagno entro il quale si è voluta chiudere, dando spazio alle altre vere eccellenze, quelle che, pur essendo sotto gli occhi di tutti, non sono mai state guardate sul serio. Date per scontate, forse. Ma presenti in modo quasi prepotente, preponderante, soffocate a volte dall’indifferenza. È la Terni del verde, del medioevo, delle cascate, dei fiumi e dei laghi, delle tradizioni placidamente vive ma latenti, delle rovine romane inglobate in parcheggi o piazze sconosciute, dello spirito che non riesce a trovare una via per salire in superficie. Un argomento banale, magari, ma urgente proprio in virtù della banalità di cui è investito. Non c’è ternano che della propria città non ami ciò che le sta intorno, che non riconosca la bellezza delle passeggiate in mezzo al verde che sanno di familiare, che resista al fascino a volte misterioso di paesi come Labro od Orvieto, con le loro abitazioni antiche ed il sapore medievale, che non s’inorgoglisca nel passare accanto alla cascata più alta d’Europa, o nel ricordare le prove di forza di fronte alle quali il nucleo cittadino non si è mai arreso. Eppure, l’assioma vigente a Terni, che la caratterizza e la qualifica, è solamente quello dell’acciaio, e delle armi. Risulta essere difficile in modo allarmante, tra gli abitanti di altre regioni, di altre province, riscontrare una conoscenza esauriente di questa città, che cade innegabilmente nell’oblio dell’ignoranza e della superficialità. Eppure, ha molto da offrire. Molto più di città i cui nomi risuonano altisonanti tra i cittadini italiani, o spiccano allettanti tra le pagine delle riviste dei tour operators. Questo è innegabile. Così come è analogamente evidente che non sia in difetto di nulla: la sua storia è secolare, e racconta di legioni romane, scorribande di guerra, sentimenti, usi e costumi medievali, vicende mitiche e leggendarie, origini illustri, ma anche coraggio, bombe, resistenza, forza; solamente girando per le vie del centro della città è possibile imbattersi in rovine di porte romane, anfiteatri, iscrizioni, perfino acquedotti, così come in testimonianze di una guerra che piega ma non riesce a spezzare i cittadini ed il centro urbano in sé, mentre, volendosi proiettare al di fuori dei confini imposti dall’urbanizzazione, gli orizzonti del verde, della campagna, della vita semplice risultano sconfinati. I presupposti per un’incredibile politica di turismo non mancano, dunque. Un turismo che si fondi sull’intreccio tra la storia ed il verde in cui questa è stata vissuta, che intessa in un unico quadro le storie, gli aneddoti, il sapore della tradizione vera, priva di contaminazioni e annichilimenti. Un turismo che, magari, si fondi sulla riscoperta degli antichi valori, di un’antica regione, che non necessita di copertine patinate né di mistificazioni, ma che ha semplicemente bisogno di rivelarsi nella sua autentica natura. Con le sue risorse,Terni potrebbe essere il gioiello del centro Italia. Una culla verde in cui coesistano l’autentico spirito antico e la forza industriale, in cui vari percorsi portino visitatori meravigliati, sulle tracce, magari, del più ampio progetto Umbria Underground che, come affermato nell’articolo del 12 dicembre 2014 comparso sul blog orvietosi.it, vuole riportare alla luce le tracce degli innumerevoli popoli passati per l’Umbria scendendo sottoterra, alla scoperta di luoghi inaspettati, gioielli sconosciuti in un territorio ormai banalizzato, sorprendenti bellezze celate dai monti della conca. Le direzioni da prendere, in tal senso, sono infinite, ed è inevitabile riconoscere quanto tale soluzione sia la più immediata, in quanto è impossibile non riconoscere in Terni la città delle grandi opportunità mai sfruttate, in attesa solamente di essere colte, basandosi su quella che è un’opinione tanto diffusa da essere ormai quasi generale. Da città d’acciaio, senza perdere tale accezione, Terni potrebbe trasformarsi, o meglio, ridefinirsi, nella città verde, che valorizza e
nobilita le sue aree ambientali, che realizza parchi a tema e percorsi nella natura, o che si impegna nel curare e ripristinare il proprio ambiente, ponendosi come esempio, tentando magari con forza di risanare i suoi punti deboli, tra i quali il primato viene assunto, come denunciato da reportage basati su dati ISTAT del 2012 e del 2014 e riportati da molteplici fonti online, dall’inquinamento da polveri sottili, responsabile della rovina delle stesse risorse ambientali nonché di quella della salute dei cittadini. O, magari, nella città del cammino nei luoghi della religione, in cui offrire una visione diversa di un santo celebrato in tutto il mondo, il cui culto è purtroppo sconfinato in un’ignorante mercificazione, o anche solo un itinerario tra luoghi di grande interesse come il santuario dello Speco Francescano, o nella città in cui rileggere con chiarezza i passi di una storia da cui è stata toccata, con esiti a volte positivi, altre innegabilmente drammatici, in molte delle sue tappe fondamentali, sulla base delle innumerevoli testimonianze rinvenute, di siti archeologici come Carsulae o anche solo dei manufatti preistorici rinvenuti nelle ultime due decadi, in quanto, come sostenuto da Antonella Tiranti, dirigente del Turismo della regione, “il turismo culturale è già uno dei temi forti dell’Umbria”, o nella città della enogastronomia, quella delle vie dell’olio e del vino, dei prodotti “come erano fatti una volta”. In fin dei conti semplicemente in una città che sappia reinventarsi, rimanendo fedele a se stessa, senza inventare ex novo alcunché, in quanto non sarebbe necessario, bensì limitandosi a cogliere la materia a disposizione e facendone un capolavoro. Tuttavia, così come è impossibile negare l’evidenza di tali opportunità, lo è affermare che non siano mai stati fatti dei tentativi a queste inerenti. Esistono già, infatti, proposte turistiche inerenti a itinerari di tipo religioso e storico, come riportato nell’omonima sezione del sito “Il vento tra gli ulivi”, così come sono innumerevoli gli appuntamenti enogastronomici, le giornate dedicate ai frantoi o quelli dedicati alla cucina tipica. Eppure non sembra essere sufficiente, ed il motivo alla base di tale condizione va ricondotto alla mancanza di una spinta propulsiva che è necessaria incondizionatamente affinché una provincia già canonizzata per certi suoi aspetti possa trovare il modo di estrarli dal grigiore della mediocrità per presentarli al mondo per ciò che realmente sono: delle vere e proprie eccellenze. Manca la propaganda spicciola, la novità, il pensiero originale, il rinnovamento nella tradizione. Tuttavia è proprio in tale direzione che andrebbe indirizzato il tentativo, che andrebbe fatta la scommessa, la stessa in cui, nei giorni del 21 e 22 novembre, si sono mossi gli Stati Generali del Turismo, con la convocazione dei quali, volendo esprimere il concetto con le parole di Daniela Tedeschi, assessore al turismo, riportate dall’aggiornamento del 18 novembre 2014 dal sito Umbria24, l’obiettivo posto è quello di “gettare le basi per la costruzione di un nuovo sistema di produzione turistica, per arrivare alla realizzazione di un nuovo modello di offerta integrata, innovata e sostenibile”. Ed è proprio ad una realtà turistica del genere che si dovrebbe tendere. Quella di una regione fedele a se stessa ma fuori dagli schemi, diversa, che si sappia ottimizzare. Che sappia imporre, ad esempio, con forza l’idea della bellezza della Cascata delle Marmore, troppo spesso surclassata da bacini idrici incapaci di reggere il confronto ma meglio pubblicizzati, rivestiti di aspettative. È l’approccio che necessita di un cambiamento, poiché la soluzione è a portata di mano. La chiave di volta, nella realtà ternana, non va cercata; è sotto gli occhi di tutti ogni qualvolta si svolti lungo la strada di Colle dell’Oro, o si trascorra una giornata sui lidi del lago di Piediluco, o si percorra via Cavour, con la sua porta Sant’Angelo, o si passeggi lungo i Giardini Pubblici, o si spenda una serata a Narni in occasione della Giostra. Occorre solo essere in grado di ottimizzare. Rinnovare. Far respirare Terni, ridarle la sua dignità, investirla degli onori che merita. L’eccellenza di Terni è Terni stessa, ed è in tale direzione che occorre muoversi per creare delle alternative valide, fondate su presupposti solidi, su possibilità concrete. Salvare Terni è possibile, lo è nobilitarla, lo è tributarle quanto merita. È sufficiente fermarsi a guardare, aprire gli occhi a possibilità mai sfruttate, occasioni mai colte. È sufficiente cambiare prospettiva. Claudia Mattei Liceo Classico, II B
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Il cibo non si butta! Si chiama Last Minute Market (LMM) e si tratta di una iniziativa (e di una conseguente app) nata dall’intuizione di un gruppo di ricercatori della Facoltà di Agraria della Università di Bologna. Si tratta di un vero e proprio last minute di quartiere. Un’idea divenuta da tempo una start-up operativa in tutta Italia. E se si pensa che proprio in Italia ogni anno vengono buttati via prodotti alimentari ancora perfettamente consumabili per un ammontare pari a 1,5 milioni di tonnellate, anche senza monetizzare tale spreco, ci si rende subito conto della dimensione del problema. Secondo l’Associazione per la Difesa e l’Orientamento dei Consumatori (ADoc), ogni nucleo familiare in Italia getta via 584 euro di prodotti alimentari e c’è chi fa di peggio, negli Stati Uniti si arriva a gettare il 25% dei prodotti ancora consumabili. Basti pensare a quanti prodotti si accumulano nei magazzini dei supermercati alla fine di ogni giornata. Se capita di fare la spesa nel tardo pomeriggio ci si rende conto di quanto pieni siano ancora gli scaffali della panetteria, dei latticini, della carne, del pesce, delle verdure, etc. Prodotti che non possono essere tenuti sui banconi a lungo, anche perché orami siamo abituati e standard estetici e di gusto che presuppongono che il pane, la carne, etc. siano freschi per non parlare delle date di scadenza che fungono da vera e propria tagliola per i commercianti di alimentari, ma con l’obiettivo di tutelare la salute pubblica. Dove va a finire tutto quello scarto? Normalmente diventa una massa informe dentro camion diretti verso le discariche, nella migliore delle ipotesi in forma differenziata. Quale è il fine ultimo dell’iniziativa? Il meccanismo virtuoso studiato dal Last Minute Market mette in collegamento l’attività commerciale che vuole donare il prodotto con le Associazioni no profit che lo possono ricevere per fornire pasti a persone in condizioni di disagio economico o sociale.
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I primi ci guadagnano perché non devono sobbarcarsi i costi di trasporto e smaltimento, i secondi perché non devono acquistare la materia prima ma assicurando comunque alimenti validi e buoni. É una soluzione win win in cui entrambi gli attori in campo vincono. Ma c’è anche il LastMinuteSottoCasa.it (LMSC), sviluppato da due ricercatori ospitati all’interno dell’incubatore del Politecnico di Torino, che affronta il problema da un’altra angolatura, ovvero guarda più allo spreco che deriva dai piccoli esercizi commerciali. Come funziona? Si tratta di un portale che propone una nuova formula di live-marketing di prossimità. Consente ai negozi con prodotti alimentari in eccedenza, in scadenza, di informare tempestivamente e con semplicità i cittadini che si trovano nelle vicinanze dell’opportunità di acquistare prodotti alimentari a prezzi scontati. I clienti indicano, in fase di registrazione, sul loro smartphone, a che distanza da casa (e/o dall’ufficio e/o dalla scuola dei figli, etc.) vogliono ricevere le proposte, in tempo reale e da quali tipologie di negozio, ricevendo così solo le offerte sotto-casa e per le categorie di prodotto realmente desiderate. Il progetto Last Minute Sotto Casa è tanto semplice quanto efficace. Le offerte migliori arriveranno via email sullo smartphone proprio all’uscita dall’ufficio. I clienti vengono avvertiti che a due passi da casa il latte costa la metà. Ma solo dalle 17,30 in poi. E siccome il progetto nasce per approfittare davvero dell’ultimo minuto, principalmente in relazione alla deperibilità di molti alimenti con LMSC vincono tutti: vince il negoziante, che porta a casa un incasso, vince il cliente, che acquista a prezzi molto convenienti e …vinciamo tutti perché Il cibo non si butta! Questo lo slogan quanto mai azzeccato dell’iniziativa. Controllare sempre con attenzione le scadenze! alessia.melasecche@libero.it
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I diamanti del presidente: un piatto indigesto Sul piatto c’era un bel pezzo di carne al sangue accompagnato da patate e fagioli. Non proprio il pasto ideale da consumare nell’Africa equatoriale con le temperature che la sera scendono a malapena sotto i 40 gradi. E poi il sangue aveva impregnato le patate, un errore che uno chef francese non avrebbe mai fatto, ma tutto sommato si poteva chiudere un occhio, accanto al piatto il padrone di casa aveva fatto trovare dei diamanti, un piccolo cadeau per il quale l’ospite francese, che si trovava lì per una battuta di caccia all’elefante, si sarebbe inguaiato anni dopo. Un banchetto così importante stava a celebrare un’intesa tra un paese che da poco aveva raggiunto l’indipendenza e un cacciatore che, sotto il panama bianco, celava i panni di Ministro delle Finanze francese. Il regnante otteneva armi e sostegno per sottomettere le tribù non ancora assoggettate, così da poter proclamare il risorto Impero Centrafricano, mentre la Francia otteneva il permesso tacito di scavare in qualche miniera di diamanti. Si vociferava che il presidente praticasse il cannibalismo e che le sue guardie del corpo venissero impiegate per trasfusioni di sangue. All’epoca non si parlava ancora di esportare la democrazia, che a quelle latitudini non attecchisce facilmente, né di far sventolare all’ombra dei baobab il trittico liberté-egualitéfraternité che la Francia aveva conquistato con qualche testa tagliata; anche qui le teste ruzzolavano e il sangue macchiava il cammino della giovane nazione, ma insomma, pensò il cacciatore, la Repubblica Centrafricana ora che è indipendente
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deve proseguire da sola per la propria strada, in fondo siamo qui solo per stringere amicizie e sparare a qualche pachiderma. La pala del ventilatore girava lenta dal soffitto e spostava a malapena l’aria afosa e irrespirabile nella sala. Pelli maculate ricoprivano le pareti e davano all’ambiente circostante una sensazione di mondo primordiale, dove il potere è veramente potere di vita e di morte. Un servitore entrò con un vassoio ricolmo di carne e si fece aiutare da due uomini per deporlo sulla tavola imbandita, il cacciatore non aveva appetito, ma non poteva esimersi dal mandar giù qualche boccone. Lunga vita a Bokassa e a tutti i capi della giovane Africa indipendente con cui si può ragionevolmente prendere accordi - intonò con un brindisi il cacciatore bianco, che per un breve momento tornò ad essere il ministro monsieur Valéry Giscard D’Estaing. Sì, aveva agito per dovere patriottico, aveva fatto quello che doveva fare, la Francia avrebbe ringraziato senz’altro. Per quanto riguarda invece quelle pietruzze intagliate messe lì vicino al piatto, quando il giornale Le canard ênchainé denuncerà l’affaire dei diamanti, l’ospite, diventato nel frattempo quinto Président de la République Française, spiegherà che si trattava solo di un omaggio della casa e che sarebbe stato scortese rifiutarlo. L’episodio macchierà la sua carriera. Nella sua biografia parlerà di vittorie politiche, di guerra e di caccia grossa, ma un quesito resterà chiuso nel cassetto più recondito della sua memoria: chissà che sapore ha la carne umana? Se solo potesse saperlo, scioglierebbe il dubbio che ha accompagnato per quarant’anni quel banchetto. Francesco Patrizi
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L’ e s o d o i s t r i a n o coinvolse anche lo sport L’esodo dimenticato GiulianoDalmata, noto come Istriano, riguardò la diaspora forzata dei cittadini di etnia italiana, alla fine della seconda guerra mondiale. Uomini, donne e bambini che vivevano a Zara, a Fiume e nell’Istria furono costretti ad emigrare in massa dalle loro case e dai loro territori, occupati militarmente dal Maresciallo Tito ed annessi alla Jugoslavia. Famiglie divise, senza più una patria, senza un lavoro, si imbarcarono sulle navi della speranza abbandonando ogni certezza, cercando fortuna in Italia ed oltreoceano. Le comunità italiane furono strappate a forza dai loro affetti e cancellate quasi integralmente. Di questa tragedia la storiografia si è occupata fino ad ora raramente ed in modo lacunoso. Il fenomeno, al quale sono storicamente legati gli eccidi delle foibe, fu particolarmente rilevante in Istria, dove si svuotarono interi villaggi e città, coinvolgendo anche numerosi cittadini croati e sloveni. L’esilio riguardò i territori ceduti dall’Italia con il trattato di Parigi ed alcune aree litoranee della Dalmazia. Dal 2005 ogni 10 Febbraio viene celebrato il Giorno del Ricordo commemorando i morti ed i profughi italiani. In questo giorno, nel 1947, il trattato di Parigi assegnò l’Istria, Fiume e Zara alla Jugoslavia. Sulle dimensioni dell’esodo vi è discordanza, visto l’utilizzo politico delle stime compiuto sia in Italia che nella ex Iugoslavia. Si oscilla così da ipotesi di 200.000 unità -comprendendo solo i profughi censiti in Italia, trascurando coloro che emigrarono senza procedere ad alcuna forma di
registrazione- fino a 350.000, difficilmente compatibili però con la consistenza della popolazione italiana d’anteguerra nei territori interessati all’esodo. Stime più equilibrate, risalenti alla fine degli anni cinquanta, fissano le dimensioni presunte dell’esodo attorno alle 250.000 persone. Tra i profughi vi furono anche importanti campioni sportivi: Orlando Sirola (Fiume) tennista. Con Nicola Pietrangeli ha formato la coppia d’oro del tennis italiano, vincendo al Roland Garros nel 1959 e raggiungendo la finale di Wimbledon nel 1956. Detengono il record mondiale di presenze (42) e di vittorie (34) in coppa Davis. Vinsero il titolo italiano dal 1955 al 1960 e dal 1962 al 1966. Sirola da singolarista agli open di Francia, ha raggiunto la semifinale nel 1960 e gli ottavi nel 1958. Al torneo di Wimbledon raggiunse gli ottavi nel 1959 e nel 1962. Con Lea Pericoli, ha raggiunto i quarti a Wimbledon, nel 1955. Nino Benvenuti (Isola d’Istria) pugile, campione olimpionico e mondiale. Vinse l’oro olimpico nel 1960, campione mondiale dei Pesi superwelter tra il 1965 e il 1966, campione mondiale dei Pesi medi tra il 1967 e il 1970. É stato tra gli atleti più amati dal pubblico italiano. Ha vinto il prestigioso premio di Fighter of the year nel 1968. La International Boxing Hall of Fame e la World Boxing Hall of Fame lo hanno riconosciuto fra i più grandi pugili di ogni tempo. Nel 1957 Benvenuti vince l’oro agli europei di Praga, successo bissato due anni dopo a Lucerna. Abdon Pamich (Fiume) marciatore, campione olimpionico nei 50 km nel 1964 ed europeo, nonché 40 volte campione italiano su varie distanze. Abdon Pamich è stato uno degli atleti italiani più medagliati nella specialità dei 50 km di marcia ai Giochi olimpici: vinse la medaglia di bronzo alle Olimpiadi di Roma nel 1960 e la medaglia d’oro alle Olimpiadi di Tokyo nel 1964. È stato il portabandiera del tricolore italiano durante la cerimonia d’apertura delle Olimpiadi di Monaco di Baviera del 1972. Agostino Straulino (Lussinpiccolo) velista, campione olimpionico di classe star nel 1952, campione mondiale ed ammiraglio italiano. È una figura leggendaria della vela italiana. Ha ottenuto una medaglia d’oro alla Olimpiade di Helsinki ed una medaglia d’argento alla Olimpiade di Melbourne nel 1956. Nicolò Rode (Lussino) velista, campione olimpionico di classe star nel 1952 e campione mondiale. Vincitore di due medaglie nella classe star della vela ai Giochi olimpici, in entrambi i casi in coppia con Agostino Straulino. Ezio Loik (Fiume) calciatore. Mezzala destra di gran movimento. Nato nell’allora Reggenza italiana del Carnaro, l’odierna Croazia (dal 1924 al 1947 parte dell’Italia), esordì diciassettenne con la divisa della Fiumana. Con il Grande Torino, negli anni quaranta, conquistò cinque scudetti ed una coppa nazionale, prima di perire nella tragedia di Superga. Con 70 gol realizzati si trova all’11º posto della classifica dei marcatori del club granata. Mario Andretti (Montona-Istria) pilota automobilistico. Emigrò bambino, stabilendosi dapprima in un campo profughi a Lucca. Nel 1955 ottenne il visto per gli Stati Uniti, acquisendo nel 1964 la cittadinanza americana. Nel 1978 con la Lotus vince il Campionato del mondo della Formula1. Abbandonata la Formula1, ha continuato a correre nel campionato americano, vincendo il titolo nel 1984. È presente nell’Automotive Hall of Fame. In carriera ha corso 897 gare vincendone 111 e Dott. Stefano Lupi segnando 109 pole. Delegato Coni di Terni
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E io pagooooo! Quante volte, negli ultimi tempi, avrete avuto a che fare con una sgradita sorpresa che vi attendeva nella cassetta delle posta nascosta tra la pubblicità? Quante volte il vostro sguardo si sarà posato incredulo su quelle cifre tanto elevate? Stiamo ovviamente parlando della bolletta delle utenze domestiche. Che si tratti di luce, acqua, gas, telefono, non è raro imbattersi in fatture che contengono importi maggiori, talvolta addirittura esorbitanti, rispetto ai consumi usuali ed effettivi. Può trattarsi di errore di fatturazione, di doppia fatturazione, di sostituzione del contatore, di contratti non sottoscritti. Prima di mettere mano al portafogli, è bene ricordare che non tutti gli importi richiesti hanno una legittima fondatezza, non essendo sempre corrispondenti al reale utilizzo delle utenze. Al di là dello spavento iniziale e della seguente immancabile esplosione di rabbia, la prima cosa da fare è armarsi di pazienza e contattare il numero verde del gestore. Se la soluzione non arriva da questa via, per così dire breve, è assolutamente necessario contestare la fattura mediante l’invio di una raccomandata con ricevuta di ritorno indirizzato all’Ufficio reclami, solitamente indicato nelle bollette o facilmente reperibile nei siti Internet la cui consultazione si rivela sempre utile anche per conoscere la Carta dei servizi, ove sono indicati i diritti e obblighi discendenti dal rapporto contrattuale. Se poi si è costretti ad andare oltre, perché l’importo l’impone e la vicenda non si è risolta in sede stragiudiziale conforta il fatto che numerose sentenze di merito hanno stabilito che in caso di contestazione della bolletta, non è al consumatore che spetta l’obbligo di dimostrare il corretto funzionamento dell’impianto, bensì al gestore. Non è cosa di poco conto da un punto di vista processuale. “Qualora il consumatore contesti gli importi riportati in bolletta (Giudice di Pace di Potenza, Sent. 579/1 2014) è la società erogatrice del servizio che deve dimostrare la correttezza dei conteggi effettuati. I consumi dell’utente, infatti, devono essere rilevati correttamente e non possono essere mai presunti. Ciò vale anche quando il cliente, pur contestando la bolletta, non chiede che venga effettuata una verifica sul contatore”. Detta in altre parole, a fronte delle contestazioni formulate dall’utente i consumi presunti indicati dal gestore non hanno alcun valore. E ciò per l’evidente ragione che il consumatore, non può essere penalizzato in sede di distribuzione dell’onere della prova, dovendo la contestazione a lui rivolta basarsi su dati correttamente ed effettivamente rilevati. Già la Cassazione, in un passato ormai lontano aveva stabilito che: “l’utente conserva il relativo diritto di contestazione e il gestore è tenuto a dimostrare il corretto funzionamento del contatore centrale e la corrispondenza tra il dato fornito e quello trascritto nella bolletta” (Cass. 10313/2004). È quindi opportuno, per il consumatore, informarsi circa le concrete possibilità offertegli dall’ordinamento in difesa dei suoi diritti, in modo da poter prontamente contrastare l’operato degli enti erogatori. In estrema sintesi, chiudete l’acqua, spegnete la Avv. Marta Petrocchi luce, controllate il contatore, ma se occorre difendetevi con decisione! legalepetrocchi@tiscali.it
L u ci c i rc u ì t u d e l ’ a c cia c ia ju La prima vorda su ‘stu circuìtu ce stéa Libberati ggiuvinottu… mi’ madre m’éa ‘llora parturitu e mm’aricordo ch’era ‘l ’48. Su qquella guzzi e ppo’ su ‘lla ggilera… je déa su ‘ste strade ggiù a mmanetta e vvòjo aricorda’ pe’ cchi non c’era tra ‘n puzzu de campioni stéa ‘n vetta. Vidissi se cche cclasse e qquanti allori… e ggiustu da ‘st’acciaju ha ‘ncuminciatu ma doppo tante ggioje… li dolori… perché lu stessu propiu l’ha fermatu. Da lu ’76 che l’Amatori… pe’ ffa’ ‘rpenza’ a qquillu ch’ha scordatu
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facenno curre a ppiedi e nno’ a mmotori… lu stessu ggiru t’ha riorganizzatu. E ttutti l’anni quanno li presenti… da lu pudista fintu a qquillu veru da quilli più vveloci a qquilli lenti… ce vòrdono lu sguardu e lu penzieru su qquella curva ‘n do’ l’urdimu alloru Terni cià missu llì pe’ ‘llu campione... je pare che je da ‘n bo’ de ristoru facenno aritiraje lu fiatone ...e ccome ‘ncantu quilli curridori anche se stracchi... filici e spenzierati se scòrdono li crambi la fiacca e li dolori s’arsentono più Libberi o mmèjo… Libberati. paolo.casali48@alice.it
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AZIENDA OSPEDALIERA
S. C. Clinica delle
Prof.ssa
D aniela Fr a nc isc i
Responsabile S. C. delle Malattie Infettive A z ie n d a O s p e d a lie r a “S. Mar ia” di Te r ni
La Clinica di Malattie Infettive è presente nell’ospedale di Terni dal 1985 come struttura complessa a direzione universitaria. Diretta dal prof. R.F. Frongillo fino al 31 ottobre 2014, la direzione della Clinica è poi stata assunta dalla prof.ssa Daniela Francisci, proveniente dalla Clinica di Malattie Infettive di Perugia. Il compito principale della Clinica di Malattie infettive è quello di diagnosticare e curare le varie forme di patologia infettiva autoctona e di importazione in una struttura idonea ad accogliere ogni tipo di patologia ad eziologia microbica. La Clinica di Malattie Infettive di Terni, insieme a quella di Perugia, sono le uniche strutture specialistiche infettivo logiche nella regione Umbria preposte all’isolamento di pazienti con patologie infettive potenzialmente trasmissibili; infatti, tutte le camere di degenza sono dotate di una zona filtro e di un sistema a pressione negativa o positiva per garantire da un lato l’isolamento di pazienti con patologie trasmissibili (es. Tubercolosi), dall’altro per proteggere pazienti severamente immunodepressi e/o neutropenici. Queste caratteristiche sono state recentemente rafforzate non soltanto in termini strutturali, ma anche attraverso l’aggiornamento del personale, al fine di rispondere ad eventuali necessità di alto isolamento legate a particolari esigenze (es. epidemia di Ebola in Africa occidentale, nuove malattie infettive emergenti...). Le misure di isolamento, quindi, devono essere intese in un senso ampio di protezione nei confronti di pazienti immunodepressi e neutropenici e di contenimento per pazienti con patologie trasmissibili e con infezioni da germi multiresistenti alla terapia antibiotica, onde evitare la loro diffusione in ambito ospedaliero. La clinica, concepita per ricoverare 24 pazienti, è situata in una palazzina, separata dal corpo centrale dell’ospedale, che ospita il reparto di degenza, il Day-hospital, gli ambulatori e gli studi medici.
Ricovero ordinario I pazienti ricoverati nel 2014 sono stati 273. L’84% di nazionalità italiana, il 13% proveniente dal Lazio e il 7% dalla provincia di Perugia. I primi dati del 2015 mostrano un incremento dei pazienti provenienti dal Lazio e dalla provincia di Perugia. Le patologie prevalentemente osservate sono state infezioni dell’apparato respiratorio, polmoniti e broncopolmoniti, sepsi, endocarditi, complicanze infettive di interventi chirurgici, meningiti ed encefaliti, epatiti virali acute e croniche, malattia HIV/AIDS, tubercolosi, osteomieliti, spondilodisciti, infezioni della cute e del tessuto sottocutaneo. Particolare rilevanza hanno assunto negli ultimi anni le infezioni causate da germi ospedalieri multiresistenti alla terapia antibiotica. La gestione di questi pazienti richiede l’adozione di specifici comportamenti assistenziali atti a ridurre il più possibile la circolazione e la diffusione delle resistenze sia in fase di ricovero che successivamente. In questa ottica è stato aperto nella clinica un ambulatorio dedicato alla gestione delle infezioni cutanee difficili e complicate. Inoltre, dal momento che la patologia infettiva è presente in tutti i reparti ospedalieri, una importante attività della Clinica di Malattie Infettive è quella di fornire un numero rilevante di consulenze specialistiche nei confronti dei pazienti ricoverati negli altri reparti dell’Azienda (più di 50 solo nel mese di gennaio 2015). L’implementazione di percorsi diagnostico-terapeutici condivisi per la gestione di gravi infezioni batteriche e fungine è finalizzata ad ottimizzare l’uso della terapia antibiotica, favorendo l’impiego di terapie mirate, limitando i trattamenti empirici ad ampio spettro, riducendo il rischio di sviluppo di germi resistenti e abbreviando i tempi di ricovero. In questa ottica è particolarmente importante una gestione multidisciplinare dei casi complessi in cui l’infettivologo affianca e condivide il percorso diagnostico-terapeutico con i colleghi di altre discipline. In quest’ottica il Comitato Infezioni Ospedaliere ha attivato una sorveglianza informatizzata della circolazione di ceppi microbici resistenti correlata al consumo di antibiotici nei diversi reparti ed è stato elaborato un programma di “stewardship
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microbiologia” per migliorare l’appropriatezza prescrittiva dell’Azienda.
Il laboratorio interno di Microbiologia clinica Il laboratorio fornisce un supporto indispensabile alla diagnosi, al trattamento e alla prevenzione sia delle infezioni sostenute da patogeni primari in soggetti normoreattivi sia delle infezioni sostenute da patogeni opportunisti in soggetti con difese compromesse. Nel 2014 sono stati eseguiti oltre 500 esami in campioni biologici per la ricerca di microbi, miceti, parassiti ed elminti. Nell’ambito della sorveglianza delle emergenze biologiche ad alta trasmissibilità l’attività del laboratorio permette di identificare in tempo reale la presenza di Bacilli Alcool Acido Resistenti nell’espettorato per l’infezione tubercolare e la presenza di Neisseria patogena nel Liquido Cefalorachidiano per le infezioni meningee.
Day-Hospital e Day-Service Nel 2014 sono stati seguiti 149 pazienti con 2.156 accessi complessivi in regime di day hospital terapeutico. Pazienti che necessitano di approccio multidisciplinare e terapie parenterali: antimicrobiche, trasfusioni, chemioterapie, idratazione e nutrizione. L’apertura del Day Hospital anche nelle ore pomeridiane e serali consente di somministrare terapie anche con schemi posologici complessi. In base alle indicazioni nazionali e regionali, dal 01/01/2014 le attività di day-hospital diagnostico sono migrate in regime di day-service con prestazioni di assistenza ambulatoriale specialistica che hanno riguardato 1.387 pazienti con 2.824 accessi complessivi. In regime ambulatoriale vengono seguite patologie come l’infezione da HIV, epatiti virali croniche, infezioni subacute e croniche ossee o di dispositivi protesici, malattie da importazione e correlate a viaggi e migrazioni, febbri di natura da determinare (FUO), linfoadenopatie. Sempre in ambulatorio trovano spazio i controlli post-ricovero. In questi anni si è osservato un progressivo incremento dei pazienti con infezione da HIV. Infatti il virus continua a
S A N TA M A R I A D I T E R N I
Malattie Infettive molti reparti di isolamento furono chiusi. In anni più recenti però, in parte per effetto del diffondersi dell’epidemia HIV, in parte per l’incremento dei fenomeni migratori di soggetti provenienti da Paesi ad alta endemia e in parte per il progressivo invecchiamento della popolazione, la malattia è ricomparsa con frequenza crescente. Tenendo presenti esigenze di controllo e sanità pubblica, è stato attivato dal 2014 un programma di screening rivolto a soggetti residenti nel nostro territorio provenienti prevalentemente dall’Africa sub-sahariana e da altre regioni del terzo mondo, con rischio elevato di malattie trasmissibili (progetto Asilo categorie vulnerabili). Nel primo anno di attività sono stati esaminati 68 pazienti. La ripresa della diffusione dell’infezione da HIV e delle infezioni da virus epatitici (HCV e HBV) che attualmente riconoscono come principale via di trasmissione i rapporti sessuali pone l’esigenza di attivare un Ambulatorio dedicato alle malattie sessualmente trasmissibili con finalità di prevenzione attraverso una diagnosi ed eventuali terapie specifiche più precoci.
Attività didattica La Clinica è sede di insegnamento per gli studenti del corso di laurea magistrale in Medicina e Chirurgia e Corso di laurea breve in Scienze infermieristiche. Accoglie tirocinanti, laureandi e specializzandi, garantendo assistenza nella formazione professionale e nella preparazione delle tesi di laurea e specializzazione. La recente devastante epidemia di Ebola nell’Africa occidentale ha contribuito a riportare alta l’attenzione sul pericolo che in un mondo globalizzato, dove le grandi distanze possono essere colmate in poche ore di volo, patogeni esotici e temibili arrivino a minacciarci. Per contrastare la minaccia del virus Ebola sono stati stesi protocolli operativi a livello internazionale, calati poi a livello nazionale e regionale. Il personale medico e infermieristico è stato adeguatamente formato ed informato sulle procedure da seguire per contrastare questa emergenza. Anche se in alcuni Paesi africani l’epidemia continua, i sistemi di sorveglianza internazionali hanno funzionato ed il pericolo per noi sembra più lontano. É però di fondamentale importanza non abbassare la guardia e continuare a considerare la necessità di far funzionare al pieno delle loro possibilità reparti attrezzati per fronteggiare eventuali emergenze.
Équipe circolare, sempre nuove infezioni vengono diagnosticate (18 nel corso del 2014) e i pazienti già infetti, grazie alle potenti terapie antiretrovirali di combinazione, sopravvivono più a lungo e con minore incidenza di patologie HIV-relate. L’infezione da HIV si è quindi trasformata in una patologia cronica, curabile ma non guaribile, per la quale i pazienti devono assumere la terapia per tutto il resto della vita. Il monitoraggio dei pazienti, il controllo viro-immunologico, la sorveglianza degli effetti collaterali delle terapie e delle co-morbosità associate, la dispensazione diretta dei farmaci antiretrovirali sono dei compiti centrali dell’ambulatorio infettivologico. Nel 2014 i pazienti complessivamente seguiti sono stati 206, di cui 194 in terapia, con 1.790 accessi ed un importo di farmaci distribuiti di 1.300.000 euro.
Personale medico strutturato Prof.ssa Daniela Francisci – Responsabile S. C. Clinica delle Malattie Infettive Michele Palumbo, Franca Battistelli, Stefano Cappanera, Cinzia Di Giuli, Alessandro Lavagna, Lucia Assunta Martella, Carlo Vernelli Medico specializzando Beatrice Tiri Coordinatore personale infermieristico Maurizio Banconi Personale infermieristico reparto Marisa Baglioni, Eleonora Colangelo, Daniela Giubilei, Maria Menghini, Simonetta Michelangeli, Carla Monticelli, Maria Pontremoli, Anna Proietti, Vincenzo Rispoli, Serenella Rota, Tiziana Silvestri, Stefania Tonato Personale infermieristico Day Hospital – Day Service: Donatella Anna Anemona, Leonella Bernardini, Rossella Rosati Personale Ausiliario Nello Luzzi, Roberto Magnalardi Baffetti, Flavio Quadrini Tecnico Laboratorio Patrizia Rotili
Attività di sorveglianza
Fotoservizio di Alberto Mirimao
La Clinica di Malattie Infettive cura, in collaborazione con altre strutture aziendali, la sorveglianza del rischio biologico in tutti i dipendenti esposti, in incidenti lavorativi, ad agenti virali a trasmissione parenterale (HIV, HBV e HCV), e dal 2011 la sorveglianza dell’infezione tubercolare latente nei confronti del personale sanitario, del personale delle ditte che lavorano all’interno dell’Azienda ospedaliera, dei tirocinanti, dei volontari e degli studenti universitari. Alla fine del 2014 sono stati effettuati 1885 accessi con determinazione della reattività cutanea alla tubercolina e quantificazione dell’interferongamma nei soggetti cuti-positivi monitorando i trend nelle singole strutture e gli eventuali cluster di cuticonversione, la presenza delle infezioni tubercolari nei vari gradi di trasmissibilità nei pazienti ricoverati in tutti i reparti, la completezza dell’iter diagnostico strumentale e di laboratorio. La tubercolosi è considerata una malattia infettiva riemergente. Infatti, a metà del secolo scorso, grazie alle migliorate condizioni socio-economiche della popolazione nei Paesi occidentali, si pensò che tale patologia fosse stata debellata. Molte strutture deputate alla cura dei pazienti con TBC come i sanatori e
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I conservanti Questi additivi vengono aggiunti agli alimenti per evitare le alterazioni causate dall'opera dei microrganismi. Presentano una problematica complessa perché molti di essi, alla luce degli studi attuali, sono sospetti di possibile tossicità. Vengono impiegati prevalentemente nei prodotti da forno, nella pasticceria, nei formaggi, nella salumeria, nelle bevande analcoliche e nella vinificazione. Tra essi possiamo ricordare: - Acido benzoico e i suoi sali e derivati. Vengono utilizzati diffusamente nella produzione di bibite analcoliche e altri alimenti e possono provocare reazioni allergiche. - Anidride solforosa e i suoi sali e i suoi derivati. Si impiegano nella produzione del vino, nella preparazione della birra, dei succhi di frutta, delle bevande analcoliche, delle marmellate ecc. Il limite di rischio pari a 0,35 mg/Kg di peso corporeo può essere facilmente superato determinando un'influenza negativa nell'assorbimento della vitamina B1, irritazioni gastriche e allergie. Un eccesso di anidride solforosa nel vino è responsabile del famoso "cerchio alla testa". Numerosi sono gli studi sui prodotti d'interazione dell'anidride solforosa o dei suoi sali con i nutrienti, studi che mettono in luce fenomeni di tossicità negli animali da esperimento.
ERO
Lorena Falci Bianconi
Mitico e mitologico: mito logico: personaggi e storie
Siamo a Sesto, città sull’Ellesponto: Leandro attraversa a nuoto tutte le notti lo stretto di mare che separa Abido, la sua città, dalla bella Ero, sacerdotessa di Afrodite, che vive, appunto, a Sesto. Ella lo attende alla finestra, su una torre, con una lanterna che lo guida nel buio. L’amore è piu forte, più della morte! grida il Leandro all’amata. Se non che una notte, durante una tempesta, il vento spegne la lucerna: il giovane, persosi fra le onde, annega. Il mare dei miti greci non lascia che niente sia perso: al mattino, Ero trova il cadavere del suo amato sulla spiaggia e, disperata, si getta dalla torre. Leandro: chi non è colpito da questa bella nuotata? Forse si trova più interessante questo giovanotto disposto a sfidare il mare piuttosto che la sua amata, che ci sembra tanto più insignificante... Questa è stata almeno la mia prima impressione nel sentir parlare di questo mito. Tuttavia, studiandola, mi si è sempre più delineata come un sorta di Giulietta greca. Avete presente quelle ragazzine innamorate di certi racconti di qualche secolo fa, che raccontano i propri sentimenti con una certa ingenuità, forse ancora un po’ da bambine, che le fa sembrare, agli occhi del lettore moderno, magari un po’ distratto, delle sciocche da poco. Pensandoci, tuttavia, questa purezza sembra così luminosa... Ecco, certamente tutti siamo colpiti dal personaggio intrigante, misterioso, magari una seduttrice,
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- Nisina e Pimaricina sono antibiotici utilizzati nella conservazione di formaggi e alimenti vari. La Piramicina, al contrario della Nisina, non è presente in alimenti naturali e si usa esclusivamente per l'impiego in superficie dei formaggi a crosta non commestibile. Possono alterare la flora microbica intestinale e la Piramicina, responsabile di vomito, nausea e diarrea, non si deve assolutamente trovare nella parte edibile del formaggio. - Nitrito di Sodio e di Potassio, Nitrato di Sodio e di Potassio; vengono aggiunti agli insaccati sia freschi che stagionati che cotti, ai prosciutti sia stagionati che cotti, alle mortadelle, alle carni in scatola. Sono usati poichè impediscono lo sviluppo del Clostridium botulinum e mantengono vivo il colore della carne. Soprattutto i nitriti possono reagire con le ammine dello stomaco e produrre nitrosammine che sono dei potenti cancerogeni. Sembra che l'aggiunta di acido ascorbico (vitamina C) negli alimenti che contengono nitriti e nitrati, impedisca la produzione di nitrosammine. Difenile; viene usato come antimuffa per gli agrumi e le banane limitatamente alla loro superficie.
o una donna forte, non certamente da signorine inesperte e sdolcinate; eppure, a volte, quanto può affascinare un semplice sentimento di amore? Da innamorate sono le azioni, i pensieri, lo stesso suicidio non raro in questo tipo di storie... la passione stessa muove le nostre “eroine timide”, ma essa è pura, solo frutto di amore, tale da non considerare le colpe, il peccato, il dovere, insomma tutto ciò che potrebbe ostacolare gli slanci. La mitologia greca trabocca di esempi di giovani di questo tipo, ma la cultura moderna le considera probabilmente poco: meglio magari un’Amazzone, donna guerriera, una Antigone (credo che chiunque la conosca la pensi subito come un simbolo del sacrificio per i fini più nobili, e non come l’innamorata di Emone), insomma qualcuna che sia più vicina alla contemporaneità per consapevolezza, coraggio, forza. Ma non mi sembra assolutamente che il sentimento sia per chiuque, uomo o donna che sia, una vergogna. Rileggiamo questi miti per quello che sono, storie d’amore davanti alle quali noi tutti possiamo commuoverci. E basta. La storia d’amore di Ero e Leandro è mito del sacrificio per l’altro, mito dell’amore che dura oltre la morte, mito delle disgrazie che distruggono l’uomo, ma non i sentimenti. Per questo è eterno nei secoli. Maria Vittoria Petrioli
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Il fondamentalismo islamico Prima le immagini drammatiche della spietata uccisione del gruppo di redazione della rivista Charlie Hebdo e di Parigi sotto attacco. Manco se ne era ancora spenta l’eco, ecco apparire sul web i video raccapriccianti delle esecuzioni del giornalista giapponese Kenji Goto scannato come un agnello e del pilota giordano Muath al Kasaesbeh arso vivo in una gabbia come un animale e non credo purtroppo che sia finita qui. Le barbarie sono fatte apposta per provocare rabbia, odio ed indignazione…e funziona! Di fronte a tanta atrocità, ho provato un’emozione simile a quella che provai l’11 settembre.Tutti puntano l’indice contro il fondamentalismo islamico che ha trovato nell’ IS, dopo Al Qaeda, la sua espressione più estrema. Sono immagini che credevamo confinate in un passato ormai remoto oppure fatte rivivere in qualche colossal storico di cartapesta, invece sono vive e reali in piena epoca di globalizzazione dove elettronica, internet, web dettano legge. Allora mi sono chiesto: Perché ci odiano? Non è la prima volta che mi sono posto questa domanda. Tentai di dare una risposta nel 1998 in occasione della presentazione in un circolo letterario della nostra città del libro Il regime della verità di E. Pace, ampio excursus sul fenomeno del fondamentalismo che, sebbene trovi nell’Islam la sua espressione più eclatante, interessa, con le dovute differenze, anche altre religioni monoteistiche come Cristianesimo, Ebraismo… Ricordo ancora le facce sbalordite di alcuni dei presenti all’incontro quando nel mio intervento affermai che punto primo il legame tra modernità e secolarizzazione non era così solido come sembrava negli anni settanta, punto secondo che il fondamentalismo in quanto tale, evidenziando il legame tra la certezza della verità e la necessità di imporla, ricorre alla violenza sacra riducendo la religione a pratica politica, esercizio sterile e pericoloso. Ovviamente in quegli anni la situazione politica internazionale era molto diversa. Il regime che preoccupava l’Occidente era quello dell’ayatollah Komeni, dell’IS non c’era traccia, quindi le facce attonite del pubblico che mi guardava come un marziano avevano una spiegazione. Eppure alcune avvisaglie di quanto sarebbe accaduto dopo già si intravedevano: il graduale prevalere dell’Islamismo radicale, chiese e sinagoghe incendiate, massacri di minoranze religiose, regimi dispotici filo-occidentali che annaspavano di fronte alle masse fomentate dal radicalismo religioso ecc. Tutti episodi dati come isolate notizie di cronaca, ma non visti nella giusta ottica, mentre invece erano la spia che ombre inquietanti si andavano addensando sul quadro politico internazionale. L’attacco alle Torri gemelle ha risvegliato l’attenzione di tutti. Il terrorismo islamico non riguarda un ristretto gruppo di nichilisti, ma c’è una più ampia cultura che è stata ed è complice del terrorismo, o comunque ad esso non si è opposta con la dovuta fermezza. Alcune cose in questi anni sono migliorate, ma non abbastanza. Esistono nazioni islamiche come l’Indonesia, grande più di Siria, Egitto, Libia, Emirati messi insieme, ma lì il fondamentalismo non ha avuto molto successo; anche l’India vicina al quartier generale di Al Zawiri in Pakistan, pur avendo una consistente minoranza islamica, la jihad non è finora riuscita a coinvolgerla. Nei paesi arabi le cose invece stanno diversamente.
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Fino a qualche tempo fa si pensava che la ragione per cui il mondo arabo produce il fanatismo era la situazione politica stagnante. L’Europa dell’Est, alcuni paesi dell’America Latina, dell’Asia e perfino dell’Africa hanno avuto elezioni libere, i paesi arabi sono restati refrattari a tutto questo. Il mondo arabo è stato lasciato in mano ai rais (tradotto comunemente col termine presidente) veri e propri dittatori che l’unico aspetto della vita che non potevano eliminare era la religione, quindi l’islam è diventato il linguaggio delle opposizioni politiche. Quando le dittature occidentalizzate sono fallite politicamente, economicamente, socialmente, i fondamentalisti hanno detto al popolo “l’islam è la soluzione”. Il mondo arabo è stato lasciato in mano a dispotici dittatori da una parte e a gruppi di opposizione profondamente illiberali dall’altra. O Mubarak o Al Qaeda. Più duri erano i regimi, più violente le opposizioni. Questa dinamica non si è rotta, nonostante la caduta di Saddam Hussein in Iraq e la Primavera araba. Quando scoppiò la Primavera araba che si diffuse a macchia d’olio dal Marocco alla Siria l’Occidente fece un respiro di sollievo: finalmente il vento della democrazia, del cambiamento, della modernità soffiava in paesi immobili da secoli. Regimi dispotici come quello di Mubarak e di Gheddafi vennero spazzati via con la violenza, con il beneplacito dell’Occidente, ma si trattava solo di una vana illusione. Infatti non si è pensato alla fragilità di quegli stati dove non esiste nessuna società civile e nemmeno una nazione e che, una volta crollati i regimi tirannici, essi sarebbero sprofondati nel caos e la popolazione non si sarebbe più riconosciuta nelle rispettive identità nazionali, ma con altre più antiche: sciiti, sunniti, curdi... altro che stagnazione politica! Quando la Primavera araba sconvolgeva il Medioriente e l’Occidente ottimisticamente plaudiva ad essa, Al Qaeda non faceva sentire la propria voce. Sconfitta definitivamente? Sparita? Sostenevano gli ottimisti. Manco per idea! Stava alla finestra a guardare, ben consapevole, a differenza degli ideologi occidentali, che i vuoti di potere che si fossero creati li avrebbe colmati con i suoi Jihadisti, cosa che puntualmente si è verificata. Ora l’Egitto è sotto una dittatura militare più dispotica di quella di Mubarak, la Libia dopo la violenta deposizione di Gheddafi è sprofondata in una sanguinosa lotta tribale e a Derna è stato proclamato un califfato su modello dell’IS, dai suoi porti sono ripresi i folli viaggi della falsa speranza che spesso contrabbandano in Europa insieme a tanti disperati terroristi pronti ad azioni estreme, della Siria è inutile parlare perché cronaca di tutti i giorni con l’IS che ne occupa parte del territorio. Buona parte del Medioriente è destabilizzata con conseguenze imprevedibili e scenari inquietanti. In un simile contesto che spazio può avere il cosiddetto Islam moderato? Spesso ci viene ripetuto da parte di persone illuminate che la jihad non è il vero volto dell’islam, che esiste un islam moderato. Bene! Allora dico a quest’ultimo che ora è il momento di farsi avanti, di manifestare e protestare pubblicamente senza paura, di denunciare soprusi e violenze altrimenti saranno sempre gli illiberali jihadisti a fare la voce grossa. Il silenzio, anche se sofferto, diviene una forma di complicità indiretta. La storia recente ci insegna che molte dittature sono andate al potere non solo per l’audace spregiudicatezza di pochi, ma anche e soprattutto per il silenzio dei più. Pierluigi Seri
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UNO DI MENO Il compiacimento espresso sul web da alcune guardie penitenziarie per il suicidio di un ergastolano ha suscitato le reazioni dei cosiddetti “moderati per forza”. Si tratta di una specifica categoria comprendente tutti coloro il cui successo materiale dipende dal gradimento mediatico di chi li ascolta o li legge. I l ruolo ricoperto impone loro di apparire buonisti, di rispettare i valori etici tradizionali, di osannare il dono della vita, di riconoscere la sacralità della morte. Costoro sono condannati ad elargire a piene mani una pietà pelosa, condita di compassione bigotta; sono i cinici rappresentanti delle coscienze collettive, pronti a giurare che non hanno esultato per l’impiccagione di Saddam Hussein, che non hanno fatto festa per la fine di Bin Laden, o che non hanno brindato per l’eliminazione di Gheddafi. Personalmente, sapere che non devo più contribuire ad alimentare un pericoloso delinquente, perché questi ha deciso di togliersi la vita, se non mi rallegra, certamente non mi incupisce. Né mi sconvolge l’umana reazione dei secondini; non mi sento sconcertato dai blog, non mi indigno per la franchezza degli operatori carcerari. I media e quelli che li gestiscono hanno ribaltato il problema. Non sono gli agenti a scandalizzare, semmai uno Stato come il nostro, che vorrebbe, a parole, il recupero sociale del reo, ma che in realtà lo brutalizza con sistemi detentivi inumani, lasciando che le reazioni siano gestite da personale malpagato;
uno Stato che dispone di un codice penale ricco di risorse e meccanismi utili a ridurre i tempi di espiazione, per cui, un ergastolano che dimostri buona condotta, può ritrovarsi fuori dopo pochi anni. E, a proposito di ipocrisia, l’escamotage della buona condotta ne è una riprova: se con essa si intende che un detenuto tenga in galera un comportamento retto, morale, civile, etico, inappuntabile, rispettoso dell’istituzione che lo ospita probabilmente la pena che sconta è immeritata o eccessiva; ma considerato che i benefici di legge sono applicabili anche a chi ha avuto due, tre o più ergastoli, il concetto stride come un treno in frenata sui binari. È ora di smetterla con questa ipocrisia da bacchettoni. Alzi la mano chi, in cuor suo, non ha gioito della decisione del suicida. Gli operatori carcerari che hanno espresso approvazione per quel gesto sono forse condannabili perché hanno una divisa o perché rappresentano un’istituzione? E lo Stato che ha fatto, e che fa, per la dignità di chi vive nelle galere, da controllato o da controllore? Dovrebbero meritarsi il licenziamento, o rischiano di incorrere nel reato di istigazione al suicidio, come qualche scalmanato ha ipotizzato?! È facile distribuire giudizi da fariseo standosene seduti in poltrona con i piedi caldi e la pancia piena, ignorando che tante vittime innocenti, ogni giorno, ogni ora, ogni minuto sono privati, nel mondo, del diritto alla vita per guerre o per denutrizione. Franco Lelli Ma questi disgraziati non fanno audience.
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I mo ra l i st i d e l cib o No, no, non lasciamoci fuorviare dalle apparenze: la minore rigidità della morale sessuale non implica affatto, oggi, una minore diffusione dei moralismi. Solo che prima il bersaglio erano i comportamenti sessuali liberi o trasgressivi, che erano duramente sanzionati da tutti coloro che non erano capaci di compierne di altrettali a casa propria. Invece adesso il nuovo bersaglio della morale è il comportamento alimentare. Anche qui la crociata dei nuovi moralisti s’occupa d’un campo, quello dell’istinto, esattamente simmetrico e omogeneo a quello sessuale: l’uno riguarda l’istinto al servizio della sopravvivenza della specie, l’altro quello della sopravvivenza individuale. Due istinti innati, primari, fondamentali, che in quanto tali affondano -ambedue- le radici nella parte più arcaica e inconscia del cervello. I nuovi moralisti quindi predicano urbi et orbi che mangiar pesce è meglio che mangiar carne, soprattutto carne rossa, proprio come quelli antichi predicavano che il masturbarsi rendeva ciechi o peggio. Se si vuol perseguire la santità devono evitare i peccati della carne, un tempo in senso metaforico, oggi letterale e praticare le virtù del vegetarianesimo. Ma chi vuol percorrere ancor meglio le vie del Signore potrà farsi addirittura vegano, un essere certamente superiore, ancor più vegetariano del vegetariano, che a questo punto viene visto come un povero catecumeno qualsiasi, ancora lontano dalla Perfezione e dalla Santità. Si obietterà che chiunque ha il diritto di mangiare cosa e come gli pare. Esattissimo, ma provate un po’ a farvi vedere da uno di questi moralisti invasati a mangiare un semplice panino al prosciutto o una misera bistecchina: lo vedrete prima sbiancare, poi arrossire puntandovi contro un dito tremante di virtuosa indignazione: Ma davvero mangi questa roba?! Ma ti rendi conto di cosa stai facendo?
Tempo fa un amico, persona intelligente e colta, ma ciò nonostante moralista, venuto a trovarmi nella mia casa di campagna e vedendo aggirarsi qualche pollastro, strabuzzò gli occhi e mi chiese: Non li mangerai mica, vero? Lo assicurai che tenevo i polli come insostituibili animali da compagnia, in quanto di intelligenza superiore e di maggior soddisfazione che cani e gatti. E che altro dovevo dire? Naturalmente, dato che la semplice scelta alimentare non giustificherebbe tutto il disprezzo che il vegano desidera provare, viene, come una bandiera, sventolato il fatto che perché tu possa mangiarti la tua bistecca, il tuo abbacchio, il tuo coscio di pollo, è stato necessario uccidere dei poveri animali innocenti: un’inammissibile crudeltà. Ora, questa sensibilità verso gli animali da risparmiare, fa acqua da tutte le parti, dato che i neotalebani alimentari, se rispettano i polli quanto gl’indiani rispettavano le vacche, dovrebbero coerentemente, com’è stato osservato, rispettare tutte le forme di vita, ivi comprese quelle -sacre e inviolabili quanto la persona del Re nello Statuto albertinodi pulci, zecche, zanzare e tafani e non solo quelle degli animali commestibili. É il caso quindi di dir chiaro e tondo che queste manie alimentari fanno parte del grande campo dei disturbi dell’alimentazione su base psicogena, quali anoressia, bulimia, vomiting et similia, con la differenza che chi ha un disturbo alimentare classico sa di essere malato e si può curare, mentre l’ortoessico (si chiama così) pensa di percorrere le vie della Vera Fede e della Santità alimentare e tutto vorrebbe meno che essere diverso da com’è. Allo stesso modo in passato chi aveva problemi sessuali non si limitava alla propria inibita astinenza, più o meno confortata d’onanismo, ma si scagliava contro quelli che erano in grado di gioire del sesso senza i tremendi problemi o i sensi di colpa che aveva lui. L’invidia è un’emozione diffusa, subdola e invariabilmente ammantata di falsa morale: appunto, il moralismo. Vincenzo Policreti
Prodotti solamente naturali? Io sono, proprio in quanto medico, decisamente contraria all’eccesso di farmaci, specie antibiotici e cortisonici e di prodotti chimici in genere, quando non vi sia reale necessità, perché anche l’abuso dei farmaci è a sua volta malattia e può avere effetti collaterali talvolta più gravi dei disturbi che con esso si vorrebbero curare. Curo, il più possibile, con rimedi naturali e pratico, anche per questo, l’Omeopatia. Ma resto egualmente impressionata dalla piega preoccupante che sta prendendo l’ideologia per la quale è assolutamente necessario usare sempre prodotti iperbiologici, ultranaturali, e depurativi purissimi. Ciò che m’impressiona non è la convinzione, in se stessa, che l’uso di prodotti in senso lato naturali sia da preferirsi a prodotti artificiali e chimici, si tratti di cibo o di farmaci, dato che io stessa sono, in linea di massima, di tale idea; ciò che mi spaventa è la maniacale convinzione, sempre più diffusa, che qualunque prodotto naturale sia comunque buono, che qualunque prodotto industriale sia comunque da evitarsi a qualsiasi costo in quanto tossico, distruttivo, catastrofico. Come se la cicuta non fosse naturale e fosse meno tossica dell’aspirina. Il fanatismo, anche quando propugna idee condivisibili, è sempre e comunque da evitare per il motivo così bene e sinteticamente espresso dal noto proverbio ogni eccesso è difetto, concetto che già i Romani esprimevano con il loro summum ius summa iniuria, che dice praticamente la stessa cosa. Tanto per farmi capire: recentemente due coniugi hanno intrapreso
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un percorso di depurazione che, consistendo nel non contaminarsi con niente, consentiva solo l’ingestione di acqua. Dopo quindici giorni ovviamente lui è morto e lei è stata salvata per il rotto della cuffia. Davanti a un diffondersi, capillare e massiccio, di una moda, anche senza considerare eccessi come quello narrato, comunque così perniciosa, viene spontaneo, alla persona di studio, chiedersi da dove derivi il fenomeno. Non è tuttavia questa la funzione del medico il quale, qualunque siano le cause sociologiche di una tendenza, come questa, sbagliata non in se stessa ma per l’uso che se ne fa, è chiamato comunque a riportare, per quanto nelle sue possibilità, con i piedi in terra le persone che filano per la tangente, seguendo teorie cervellotiche e pratiche antiscientifiche o controproducenti. Il cercare un’alimentazione sana, con prodotti il più possibile naturali, evitando pratiche mediche non necessarie, confidando nella sostanziale forza risanatrice della natura, sono tutte cose che il buon medico approva e riconosce per valide. L’esorcizzare ogni prodotto moderno, il rifiutare qualunque tipo di cura medica quando necessaria, la ricerca ossessiva (quanto vana) di estrema purezza in un mondo che ormai tale purezza purtroppo non consente più, sono segni di una nevrosi che forse andrebbe, questa sì, curata come tale. Utilizzando magari, perché no, prodotti naturali. Giovanna Giorgetti ggiovanna@tiscalinet.it
Dagli occhi delle donne derivo la mia dottrina: essi brillano ancora del vero fuoco di Prometeo, sono i libri, le arti, le accademie, che mostrano, contengono e nutrono il mondo. W. Shakespeare, Love’s Labours Lost Lucrezia Cardinali diploma ballerina classica professionista presso NDCA (National Dance Council of America), Boston
Madre di tutte le arti, la danza vive nel tempo e nello spazio. Passi ordinati, gesti perfetti, movimenti ritmati, posture geometriche e intrecci di corpi raccontano la storia dell’uomo, descrivendone i sentimenti e le sensazioni più profonde. Così, se nella preistoria la danza era un’attività rituale, durante il medioevo si assiste ad un decadimento delle forme del ballo, a causa di una mentalità che rifiuta la carne e denigra il corpo, finché nel XIV secolo non si accompagneranno alle “canzoni duecentesche” delle corti italo-francesi. Il ballo si trasforma in balletto: una manifestazione artistica autonoma, strutturata secondo canoni estetici ben precisi. Un universo gentile che più di ogni altro è solitamente legato al concetto di femminile, poiché nella danza si creerebbero le presunte condizioni per un’emancipazione, seppur astratta, della donna. Nel balletto la ballerina diviene protagonista indiscussa della scena e il suo ruolo sovrasta quello dell’uomo, cui solitamente compete la parte del sollevatore. La sua bellezza si eleva oltre lo spazio terreno, tende verso l’alto e tramuta la donna in un essere etereo. Grazia, eleganza e portamento sono le doti richieste. Donna-oggetto, idolo e simbolo per l’uomo, immagine di attrazione e potere. Una danza che nella sua esaltazione del fascino femminile forse non è né troppo distante dalla simbologia del balletto occidentale, dalla pizzica pugliese o dalla taranta siciliana dove le danzatrici vestono solitamente i panni della tentatrice. Tuttavia non si può dire che la danza sia “roba da donne”, né trasfigurazione del concetto femminile. Soltanto restituendo alla danza il valore che merita, quest’arte diventerebbe non solo un modo ideale di vita sociale, ma anche una forma di espressione completa e motivo di appagamento interiore.
Francesca Madonna giocatrice di serie A calcio a 5 femminile e allenatrice
A causa dei reclami fatti a proposito del calcio femminile, il Consiglio si sente costretto ad esprimere il suo parere, ritenendo il calcio inadatto alle donne e per questo motivo non deve esserne incoraggiata la pratica. Il Consiglio richiede, quindi, alle squadre appartenenti all’Associazione di non far disputare tali incontri sui loro campi di gioco. Così decretava la Football Association inglese nel 1921. Lo scandalo era dato da una squadra femminile, le cosiddette Dick Kerr Ladies (Le Signore della Kerr), la prima vera squadra di calcio tutta al femminile che la storia riconosca. Il periodo è quello della Prima Guerra Mondiale, momento in cui alle donne vengono aperti nuovi orizzonti lavorativi, soprattutto nelle fabbriche, in sostituzione degli uomini, richiamati al fronte. É in questo contesto storico che, nel 1917, le operaie di una fabbrica di munizioni di Preston (la Dick Kerr, appunto), cominciano a giocare a calcio durante la pausa del pranzo, dando vita ad un fenomeno calcistico che incuriosisce anche il mondo maschile, così tanto (troppo forse), da far preoccupare la Football Association fino a vietarne la pratica. Tutto ciò accadeva poco meno di cento anni fa. Il divieto imposto dall’Associazione inglese sembra essere lontano dall’immaginario odierno, ma è veramente così? Si sa cosa voglia dire, oggi, giocare a calcio per una donna? É possibile comprenderlo solo facendo dei paragoni con il mondo maschile. Così, mentre tutti sanno quanto possa guadagnare un giocatore di serie A (o anche di una serie minore), non tutti sanno che le donne, al contrario e fatti salvi alcuni rari casi, non percepiscono stipendio, ma solo un rimborso spese. Tutto ciò perché gli organi competenti sono restii a inquadrare la categoria femminile tra i professionisti. Le conseguenze sono evidenti: le donne oltre a giocare sono costrette a lavorare, nonostante l’impegno fisico e mentale sia uguale (a volte anche maggiore) a quello dei loro colleghi uomini. Malgrado tutte le difficoltà, però, il fenomeno del calcio femminile è in continua espansione, e lo dimostra il sempre crescente numero di scuole calcio femminili in tutta Italia. La speranza è che la passione che coinvolge e alimenta la crescita del calcio femminile sia sempre più dilagante, in modo da convincere gli Organi competenti a far sì che una uguaglianza con il mondo maschile non rimanga solo un’utopia. Forse, basterebbe cominciare col cancellare l’aggettivo con il quale il calcio è maggiormente riconosciuto: maschio.
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La potatura La potatura di oggi Nei vigneti e nei frutteti grandi, fatti su misura per essere coltivati con mezzi meccanici, la potatura avviene con forbici pneumatiche. I potatori sono seduti su sedie girevoli poste sopra il rimorchio di un trattore che avanza non troppo lentamente lungo il filare. Il lavoro si svolge con una certa rapidità, senza tener troppo conto delle condizioni del tempo: si pota con la nebbia e quindi anche quando le piante sono bagnate, tanto poi verranno fatti trattamenti antifungini e anticrittogamici per quante volte sarà necessario. Non so se vi è mai capitato di vedere un trattore guidato da un uomo con una specie di scafandro spaziale e dietro al mezzo una nube di liquido polverizzato, un aerosol che avvolge delicatamente sia il filare di destra che quello di sinistra. L’odore sgradevole di tale nube si avverte anche a qualche chilometro di distanza. Per garantire la frutta a tutti, a prezzi accessibili, sembra che non si possa fare diversamente. Chi ha qualche albero da frutta e qualche vite per uso familiare, può permettersi il lusso di operare come si faceva una volta, ma senza sostanze chimiche il raccolto spesso è limitato a qualche canestro di fichi e poco più.
La potatura di una volta I vecchi dicono che il primo potatore è stato l’asino. Si racconta infatti che l’uomo notò che le piante che erano state mangiucchiate dal quadrupede, l’anno dopo producevano frutti più belli e abbondanti. Allora ci si organizzava così: nei primi dodici giorni dell’anno nuovo si osservava il tempo e si scriveva sul calendario di Barbanera. Ad esempio, se il sei gennaio risultava una giornata serena, voleva dire che il mese di giugno, il sesto, sarebbe stato prevalentemente bel tempo. Questa operazione veniva detta dei Capi-mese e serviva per avere un indizio sull’andamento climatico futuro da integrare con le previsioni dell’astronomo. Fatto ciò si poteva iniziare la potatura. Le giornate dovevano essere tiepide e asciutte. Nessuno si sarebbe mai sognato di potare le piante ancora bagnate dopo una pioggia o dopo una passata di fitta nebbia. Per iniziare si partiva con le piante da giardino come l’ortensia, il melangolo (arancia amara) e la rosa: se poi veniva una gelata che rovinava tali piante, nessuno avrebbe sofferto la fame per questo. Poi si passava al mandorlo perché un noto proverbio diceva: la mandorletta sciocca fiorisce di gennaio mentre fiocca. Quindi andava potato prima che fiorisse. Si passava poi agli altri alberi da frutto, viti comprese, mentre l’olivo poteva essere potato fino a tutto il mese di aprile. Le piante sempre verdi come il limone vanno potate in qualsiasi periodo ma l’olivo, che fiorisce a maggio, è logico che sia potato prima della fioritura. La regola base della potatura era osservare e immedesimarsi con l’albero come essere vivente. Per crescere e fruttificare ogni pianta ha bisogno di mangiare, bere, di essere illuminata dal sole e di avere il clima adatto. Qualcuno ha pure interpretato il muto linguaggio dell’albero: fammi povero e ti farò ricco. Intendendo dire che una buona sfoltita ai rami é in grado di garantire fiori e frutti più belli e abbondanti. E allora via a potare con fatica ma anche con divertimento creativo per dare la forma voluta a un albero: alla fine ci si sentiva quasi scultori! E mentre il lavoro procedeva al tiepido sole primaverile, c’era tanto tempo per ascoltare i suoni della natura che si risvegliava e anche per pensare e per riflettere. Intanto il pettirosso curioso si avvicinava svolazzando, per controllare quello che aveva scelto come suo territorio e per vedere se poteva localizzare qualche insetto -scacciato dal suo nascondiglio dal potatore- senza fare fatica. Bastava allora allontanarsi di qualche metro ed ecco il piccolo pennuto piombare come una saetta sopra una foglia e catturare un succulento bocconcino. Finito di potare bisognava raccogliere frasche e tralci e farci delle fascine, che servivano sia per accendere il camino che il forno. Successivamente bisognava consolidare o sostituire qualche palo di castagno del vigneto, tirare di nuovo i fili che si erano allentati e infine legare col salice le viti e piegare ad archetto i tralci fruttiferi. A questo punto la potatura poteva dirsi terminata. Vittorio Grechi
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DISCIPLINA PER LA PRESENTAZIONE DI RICHIESTE DI CONTRIBUTI PER L’ANNO 2015
La Fondazione Cassa di Risparmio di Terni e Narni, persona giuridica privata senza fini di lucro e dotata di piena autonomia statutaria e gestionale, persegue esclusivamente scopi di utilità sociale e di promozione dello sviluppo economico (Statuto, artt. 1 e 2) indirizzando i suoi interventi in alcuni settori previsti dalla normativa vigente. Per il 2015 il Comitato di indirizzo della Fondazione ha individuato nel Documento Programmatico Previsionale annuale i settori rilevanti e quelli ammessi verso i quali orientare l’attività istituzionale. La Fondazione svolge la sua attività istituzionale nei comuni previsti dal vigente Statuto (www. fondazionecarit.it) attraverso: a) la realizzazione di progetti propri; b) l’erogazione di contributi indirizzati a progetti predisposti da terzi nei settori indicati nel richiamato DPP dalla Fondazione e destinati a produrre risultati socialmente rilevanti in un arco temporale determinato. Ciò posto, la Fondazione Cassa di Risparmio di Terni e Narni emana il presente avviso per raccogliere e regolamentare richieste di contributi per le iniziative di cui alla precedente lettera b), da realizzare nell’ambito dei settori di seguito specificati: Settori previsti nel DPP 2015: 1. Ricerca scientifica e tecnologica 2. Arte, attività e beni culturali 3. Salute pubblica, medicina preventiva e riabilitativa 4. Educazione, istruzione e formazione, incluso l’acquisto di prodotti editoriali per la scuola 5. Volontariato, filantropia e beneficenza 6. Sviluppo locale. 1)
Chi può presentare la richiesta per ottenere un contributo dalla Fondazione. La Fondazione esamina le richieste pervenute esclusivamente da: a) soggetti pubblici o privati senza scopo di lucro, dotati di personalità giuridica, nonché imprese strumentali, costituite ai sensi dell’art. l, comma 1, lett. h) del D.Lgs. 17 maggio 1999, n. 153; b) cooperative sociali di cui alla Legge 8 novembre 1991 n. 381; c) imprese sociali di cui al D.Lgs. 24 marzo 2006 n. 155; d) cooperative che operano nel settore dello spettacolo, dell’informazione e del tempo libero; e) altri soggetti di carattere privato senza scopo di lucro, privi di personalità giuridica, che perseguono scopi di utilità sociale nel territorio di competenza della Fondazione, per iniziative o progetti riconducibili ad uno dei settori di intervento. 2)
Chi non può presentare la richiesta per ottenere un contributo dalla Fondazione. Sono escluse dagli interventi della Fondazione le richieste: - di natura commerciale, lucrativa e che producano una distribuzione di profitti; - provenienti da imprese di qualsiasi natura con esclusione delle imprese strumentali e dei soggetti di cui alle lettere b), c) e d) del precedente punto 1; - provenienti da partiti e movimenti politici, da organizzazioni sindacali o di patronato e di categoria; - provenienti da persone fisiche, con l’eccezione delle erogazioni sotto forma di premi, borse di studio o di ricerca; - provenienti da soggetti che non si riconoscano nei valori della Fondazione o che comunque perseguano finalità incompatibili con quelle dalla stessa perseguiti. TERMINI DI PRESENTAZIONE DELLE RICHIESTE Le richieste di contributo potranno essere presentate nel seguente periodo: dal 1° gennaio 2015 al 31 marzo 2015.
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Le richieste di contributo che perverranno dal 1° gennaio 2015 al 31 marzo 2015 saranno esaminate entro il 30 giugno 2015. Le richieste dovranno essere indirizzate, a mezzo lettera raccomandata A.R., alla Fondazione Cassa di Risparmio di Terni e Narni, Corso C. Tacito, 49 - 05100 Terni, o raccomandata a mano che potrà essere consegnata presso gli uffici della Fondazione, rigorosamente in busta chiusa, dal lunedì al venerdì dalle ore 11,30 alle ore 13,00. Il richiedente dovrà presentare la documentazione richiesta dalla Fondazione. Per la presentazione delle richieste, la modulistica è disponibile e scaricabile dal sito internet della Fondazione www.fondazionecarit.it. Tutti i dati forniti saranno trattati nel rispetto delle previsioni del D.Lgs. 196/2003 per le sole finalità legali ed amministrative della Fondazione. SONO ESCLUSE LE RICHIESTE relative a progetti proposti da organizzazioni di volontariato che possono beneficiare di erogazioni da parte del CE.S.VOL.; relative a erogazioni generiche e/o a copertura di disavanzi economici e/o finanziari pregressi. ESAME DELLE RICHIESTE La Fondazione potrà discrezionalmente: 1. accogliere integralmente o parzialmente la richiesta di contributo; 2. definire le modalità e la cadenza di erogazione del contributo concesso; 3. riservarsi il diritto di accesso nei luoghi ove si realizza il progetto o si svolge l’attività e la facoltà di controllare in loco lo stato di avanzamento dei lavori. OBBLIGO DELLA RENDICONTAZIONE L’erogazione delle risorse deliberate per l’intervento è effettuata sulla base della presentazione di quanto di seguito indicato: originale, o copia conforme all’originale, dei giustificativi delle spese sostenute per la realizzazione dei progetti. Le stesse dovranno essere elencate in apposita distinta. I pagamenti eseguiti dal beneficiario delle erogazioni ai fornitori o prestatori di servizi potranno essere considerati validamente nel rendiconto soltanto se comprovati da documentazione fiscalmente regolare ed effettuati con bonifici bancari o con strumenti di sicura tracciabilità; relazione finale contenente informazioni esaurienti in merito alla realizzazione del progetto ed allo specifico utilizzo del contributo della Fondazione Cassa di Risparmio di Terni e Narni; rassegna stampa relativa al progetto; documentazione fotografica relativa al progetto. REVOCA DELLE EROGAZIONI La Fondazione potrà revocare l’assegnazione qualora: a) siano accertati i motivi che inducano a ritenere non possibile la realizzazione o la continuazione del progetto o del sostegno; b) sia accertato, all’esito della verifica della rendicontazione, l’uso non corretto dei fondi erogati; in questo caso la Fondazione potrà in qualsiasi momento disporre l’interruzione della contribuzione e richiedere la restituzione delle somme già eventualmente versate; c) il soggetto beneficiario non abbia dato seguito ai contenuti del progetto proposto ovvero alle eventuali indicazioni della Fondazione per la sua realizzazione; d) il soggetto beneficiario non abbia concertato con la Fondazione le attività di comunicazione relative al progetto; e) sia accertata l’esistenza di ulteriori contributi di altri Enti non precedentemente dichiarati. IL PRESIDENTE (Mario Fornaci)
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Insegnante, educatore, artista, ciclista, nonno a tempo pieno. 30
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