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Non eravamo allergici V. Grechi
NON ERAVAMO ALLERGICI
Vittorio GRECHI Fino agli anni ‘50-’60 del secolo scorso c’erano ancora molti contadini in Italia, in prevalenza iscritti alla Coldiretti, associazione fondata da Paolo Bonomi nel 1944 e chiamata in gergo giornalistico la “bonomiana”. I bambini allora erano in grande numero e nei giorni festivi si divertivano ad aiutare la famiglia. D’inverno, quando tutti i grandi erano a raccogliere le olive, si strappava dai muri l’abbondante erba parietaria e si dava alle golose galline al di là della rete del pollaio. Fuori della rete, fin dove arrivavano col collo attraverso le larghe maglie, non c’era un filo d’erba manco a pagarlo oro! Quando a maggio si falciava il fieno a mano con la falce fienaia, detta in dialetto “lu fargione”, bisognava portare il pranzo agli uomini nel campo. Una donna portava la canestra di vimini piena di cibarie in testa, poggiata sul cercine, e i bambini a seguire, uno con un fiasco di vino e l’altro con un bottiglione d’acqua. C’era sempre un piccolo litigio tra loro perché entrambi volevano portare il vino e non l’acqua. Alla fine, dopo lunghe discussioni, l’accordo veniva raggiunto: il più grande aveva diritto di scegliere! Il piccolo allora non vedeva l’ora di avere un fratellino per fare rivalsa su di lui! Il bello veniva quando il fieno doveva essere girato con la forca di legno in modo da farlo asciugare da entrambe le parti. Ognuno aveva la propria forca di legno e i bambini ci tenevano molto alla loro che era ovviamente più piccola. Quando il fieno era diventato asciutto e crepitante sotto il sole di maggio, bisognava fare le “pagliarozze” che non erano altro che mucchi di fieno a forma di piccoli pagliai, atti ad essere trasportati fin sull’aia dove doveva ergersi il grande pagliaio. Si infilava un lungo, ma non molto spesso, tronco di salice sotto la “pagliarozza”, finché non usciva dall’altra parte, poi si passava una corda doppia sopra il fieno che veniva legata ben stretta da ambo le parti del tronco, in modo da non perdere il carico. Alla fine un’altra corda collegava il tutto al gioco sostenuto da due vacche che partivano lentamente trascinando il fieno fin sull’aia. Lì si scioglievano le corde e si ripartiva per un altro trasporto. Una volta riempita l’aia di fieno e in attesa di costruire il grande pagliaio, i bambini di ogni età ci salivano sopra per poi rotolare verso il basso riempiendosi i capelli di pagliuzze. Il profumo del fieno provocava qualche starnuto, ma nessuno ci faceva caso. Stessa cosa quando si raccoglievano le fave secche. Venivano portate sul piazzale sterrato davanti casa e abbacchiate dagli uomini usando ciascuno un abbacchiatore. L’abbacchiatore era fatto da un bastone con circa mezzo metro di corda legata sulla punta di esso e alla quale era legato un altro bastone più corto. Roteando pericolosamente in aria il bastone più corto lo si faceva poi cadere sopra il mucchio di fave secche in modo da rompere il guscio nero e liberare le fave bianche in esso contenute. Questo metodo comportava la produzione di molta polvere e quindi si respirava l’aria piena di pulviscolo che provocava qualche starnuto. Separate le fave dai gusci, venivano messe nei sacchi di juta e conservate in un solaio posto sopra la stalla. Il solaio era fatto di tavole e coperto con un basso sottotetto di tegole a vista. I pomeriggi estivi rendevano il posto infuocato, ottimo per seccare definitivamente le fave. Ma ottimo anche per i bambini che, non temendo il caldo, andavano a sdraiarsi sopra le balle di fave per giocare a carte o per leggere i fumetti di Pecos Bill o gli Albi dell’Intrepido, mentre gli uomini riposavano sdraiati sopra cappotti militari all’ombra della grande quercia. Ai bambini veniva qualche foruncolo sugli stinchi e sulla schiena, ma nessuno ci faceva caso. Se i foruncoli provocavano prurito si bagnava il dito con la saliva e ci si strofinava sopra oppure si andava alla fontana a bagnarli con l’acqua fresca.
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