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PAPIGNO maggiordomo della Valnerina A. Marinensi

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Ottica MARI

Ottica MARI

Storie minute e costumi genuini di un tempo che fu PAPIGNO

il maggiordomo della Valnerina

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Adriano MARINENSI Sono nato a Papigno, il paese mio che sta sulla collina. Dice: Questa è la classica notizia del chi se ne … infischia. Sarà pur vero, però io lì venni alla luce e non posso scrivere diversamente. Invece, vista la sua posizione di primo borgo lungo il fiume Nera, mi sono altrove permesso di assegnare a Papigno il titolo di “Maggiordomo della Valnerina” e custode della Cascata delle Marmore, il mirabile salto d’acqua poche decine di metri più avanti. Dietro il “Castello di Papigno” si legge una storia antica. Curiosità: nel XIII secolo, faceva parte dei possedimenti degli Arroni, feudatari del luogo. Si indebitarono con il Comune di Terni e dovettero cedere il Castello per 2.825 libbre di moneta lucchese. Nel sopramonte sta la “Rocchetta”, i ruderi di uno dei presidi militari fatti costruire dal Cardinale-condottiero Egidio Albornoz nel XIV secolo. In basso, si trova la poderosa Centrale di Galleto, produttrice di energia elettrica pulita che illumina parte d’Italia. Il paese di pietra e la sua natura attorno affascinarono numerosi pittori plenaristi (en plein air). Ecco, proprio a Galleto di Papigno sono nato. Tra il Nera e l’ex stabilimento del carburo di calcio e della calciocianamide, un insediamento industriale ch’era di rilievo. Il concime chimico in polvere (in dialetto, la cianamite) si sperdeva pure nell’aria ed ha fatto neri i tetti del paese, diventato una sorta di Calimero, il pulcino nero. Ed ha afflitto la coltura simbolo delle pesche (in dialetto, li perzichi), frutta di alta qualità. Il carburo di calcio, in tempo di conflitto mondiale, una applicazione lo rese prezioso. L’energia elettrica andava e veniva. Più andava che veniva. Allora, c’era largo uso della “luce sostitutiva”: candele, lumi ad olio e molta acetilene. La forniva un minuscolo gazometro (la scindilena) funzionante come una caffettiera alla rovescia: il carburo sotto e l’acqua sopra che gocciolava, trasformando il solido in gas illuminante. Nelle campagne, dove l’elettricità non era ancora arrivata, si faceva il baratto: un chilo di carburo, rimediato nella discarica, per un paio di polli oppure una discreta quantità di farina, di salsicce e altri “derivati” dal maiale. Erano tempi di magra, ma anche, su al borgo, di amor proprio paesano: la comare che si mostrava a pelar pollo per dare ad intendere che non mangiava sempre fagioli e pancotto. Proibito severamente ai lavoratori l’asporto dalla fabbrica del carburo di calcio, pure in esigue quantità. Accadde un giorno, nel corso di uno dei bombardamenti di Terni, che alcune bombe colpissero il sito di

stoccaggio; lo spostamento d’aria fece volare le coperture ed una elevata quantità di carburo rimase alle intemperie. In caso di pioggia, si poteva innescare il processo di acetilene con rischio di esplosione. Fu allora che la direzione aziendale dette l’ordine alle maestranze di portar via più prodotto possibile, con grande gioia per i papignesi. Dunque, nacquetti, direbbe Totò, in casa con l’ostetrica di paese (la levatrice). L’abitazione aveva un vasto orto attorno, irrigato dal Canale Cervino, alimentatore della rete idrica nella piana ternana. Tra i predatori dell’orto, un ortottero sotterraneo, la grillotalpa (la singozzara), vorace divoratrice di radici. Avevamo il pollaio, non di rado, visitato dalle donnole (li strozzapurgini), per la disperazione di chi allevava con cura. A debita distanza, là in fondo al seminato, il porcile (lu stallittu de lu porcu). Una dimora isolata, tre camere nel piano di sopra, ampia cucina con camino al pianterreno e accanto al camino, arredo fondamentale, la madia (la mattora). Attaccata ad una parete, la grossa tavola piena di chiodi per appendere pentole, tegami, padelle, mestoli (li sgummeri). Una stanza era adibita al lavoro dell’avo mio, artigiano del legno. A far da comodo, il tavolo di cemento per le cene estive sotto la pergola e, per noi bambini, l’altalena (la piriciangola). Il servizio meteorologico funzionava con i calli dei piedi. Oppure -siccome sopra uno dei colli attorno alla conca, avevano innalzata una grande Croce- “quanno la Croce porta lu cappellu (è avvolta dalle nuvole), lu ternano scappa (esce di casa) co’ l’ombrellu”. Negli anni della fanciullezza, ho vissuto pure in casa di una zia materna, al centro di Papigno. Dimora di lusso a quel tempo, arredata di ampia sala da pranzo con adiacente studio e biblioteca, servizio igienico con vasca da bagno e riscaldatore elettrico dell’acqua ad immersione. In cucina, la “ghiacciaia”, l’antenata del frigorifero. Il ghiaccio lo forniva il locale fabbricatore di birra (detto birrone). Il vestiario, nero prevalente, era nel rispetto della tradizione: le gonne per le donne, gli uomini con i pantaloni (li carzuni). Alle elementari (oltre non v’era) maschi e femmine separati. In soffitta, da mio nonno, a Galleto, crescevano e si moltiplicavano i piccioni che, giunti allo stadio di commestibili, il predetto falegname -incallito cacciatore com’era- impallinava, anziché tirar loro il collo. Spesso se ne andava nel bosco, fucile ad armacollo, lui diceva in vernacolo, “a jocchià a le merle”. Uova, polli, galline, papere, tacchini (li billi), qualche tordo, frutta e verdura, tutto dal produttore al consumatore, a chilometri zero e agricoltura rigorosamente biologica. Ubertose erano le piante di albicocche (le bricocole) e di fichi fioroni (le ficore bruciotte). E il mais in dorate pannocchie (li mazzocchji), che servivano per la polenta mangiata sopra la tavola per fare la pasta (la spianatora). Nessun motore nelle adiacenze: il silenzio, ancora naturale virtù. Per salire in paese, soltanto una pedonale, non troppo assestata e in parte arcigna. Terni stava una manciata di chilometri verso la conca e ci si andava col tram (lu tranve) che percorreva una dozzina di chilometri, tra la città e Ferentillo, servendo i numerosi centri lungo il Nera. Mezzo di trasporto principe a giovamento dei lavoratori dell’Acciaieria e della Fabbrica d’Armi, quando la classe operaia non era ancora andata in paradiso (con l’automobile). Lo usammo pure noi studenti quotidianamente per raggiungere Arrone, dove era stata riaperta la prima scuola media nell’immediato dopoguerra. A testimonianza della tranvia è rimasta la stazioncina oltre il ponte di Papigno (quello immortalato da Camille Corot): la strada ferrata l’hanno smantellata per far posto alle ruote di gomma. Ci fosse stata ancora, avrebbe potuto funzionare da attrazione turistica, così come altrove analoghi “trasporti caratteristici” fanno innamorare i forestieri. Si tratta di uno dei retaggi di vita vissuta che Terni ha perduto sotto la spinta della modernizzazione, in taluni casi, distruttrice quasi quanto le incursioni americane che mezza città rasero al suolo con i “bombardamenti a tappeto”. Veri atti di terrorismo, diretti a colpire le popolazioni civili. Di quegli attacchi aerei senza quartiere, rimase vittima il cimitero di Papigno. Una apocalisse ch’io vidi fanciullo, inorridendo. E quel che vidi, non ve lo posso raccontare. Dico soltanto che fu un’infamia. Si scopron le tombe, si levano i morti …

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