Numero Sette

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Ruan e Tosi

Campeol e Tusnovics

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anno 2 numero 7 mer 9 luglio 2008 anno 1, numero 3 | venerdì 26 novembre 1982

Verso una nuova rappresentazione? Debra Werblud vs Franz Prati

Arrivo a Santa Marta alle ore 17 e dieci minuti, maledicendo questo tempo instabile che ha deciso di rilasciare ettolitri di pioggia durante il mio tragitto dai Magazzini Ligabue al cotonificio. Proprio il giorno della mia prima conferenza seguita come giornalista devo arrivare in ritardo! Entro velocemente in auditorium, a capo chino, guardando in basso e cercando di disturbare il meno possibile la conferenza che immagino appena iniziata. Mi siedo e alzo lo sguardo constatando che difficilmente avrei potuto interrompere un dibattito seguito solo da me e dal tecnico dell’aula. E non ci sono nemmeno oratori. Appena stabilito che mi trovo nel luogo giusto decido di non preoccuparmi e attendo i professori con un gran senso del dovere. Anche dopo l’arrivo dei suddetti il numero di partecipanti risulta esiguo: non credo di sbagliare di molto se dico che nell’aula ci sono a malapena trenta persone. Il Preside Giancarlo Carnevale introduce il dibattito e dà la parola a Franz Prati. Ci vengono mostrati disegni, prospetti e schizzi riferiti a vari progetti: un Dining Center alle Cinque Terre, situato in una ex-cava di marmo di Levanto, alcune idee per una chiesa nell’ambito di un concorso ad inviti (con Neostudio) indetto dalla Cei, il progetto per il ridisegno di un villaggio turistico sulla costa calabra dello Ionio, il concorso per il museo regionale dell’arte nuragica e dell’arte contemporanea del Mediterraneo (con Archea ed altri). Il tutto si conclude con una proiezione di un quadro dello stesso Prati. Delle tecniche e dei metodi con cui sono stati realizzate queste opere tuttavia non si è parlato, come anche il Preside sottolinea. Da studente del primo anno mi interrogo: «evidentemente quello che a me è sfuggito è palese per tutti i presenti; il professore si spiegherà in seguito». L’esposizione di Debra Werblud entra, invece, decisamente nel campo dell’arte, vengono proiettate immagini relative ad opere dell’autrice, di diversa ispirazione, tratte da sue mostre personali. Il Limbo è un allestimento del 2005: le foto mostrano silhouette scure di alberi dipinte su pareti bianche, pallidi disegni di donne che, riflessi sul cemento lucido della galleria dove sono

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esposti, evocando corpi femminili gettati dagli aerei e fatti annegare nell’oceano, negli anni della dittatura argentina. Poi immagini tratte da una mostra tenutasi a Venezia nel 2007: Il Ciclope, costituita da un video realizzato in stop-motion e proiettato in loop. Si susseguono disegni e fotografie di strutture in legno manipolate dall’artista a un ritmo frenetico e incessante. L’ affiancarsi repentino di queste immagini genera un senso di spaesamento, evoca una sorta di universo sospeso nel quale la propria visione si allarga per interagire con una realtà emotiva nuova. Non appena si conclude l’esposizione di Debra Werblud il mio primo impulso è di applaudire per rendere onore alla bravura visionaria di quest’artista. E così faccio, ma mentre le mie mani applaudono la mia mente (di ragazzo del primo anno) ancora una volta pensa: «cosa ha a che fare tutto questo con l’architettura? Credo, da un lato, che ciò possa dipendere dal fatto che nei miei studi non è stato ancora sufficientemente affrontato l’aspetto della disciplina legato alla rappresentazione d’architettura, tema principale della conferenza. D’altro canto, questi workshop sono dedicati a studenti del triennio e forse sarebbe, a mio avviso, utile che le conferenze fossero più didascaliche (didattiche)». Pochi cenni sulle tecniche, ma molti reciproci complimenti. Rimango perplesso, ma ecco finalmente una mano baldanzosa (di un assistente) che si leva per quello che sarà l’unico intervento da parte del pubblico: «Ci siamo!» penso «i miei dubbi saranno fugati dalle risposte date per soddisfare la curiosità di costui!» La domanda riguarda le tecniche, infatti, in sostanza, le immagini proiettate sono evocative e tecnicamente eccellenti e suppongo che tendano suggerire agli studenti impulsi ad ampliare le loro conoscenze e che, in accordo con i temi della nostra contemporaneità, possano voler dimostrare che la rappresentazione non è semplice disegno, ma può andare oltre, può essere strumento di contaminazione con le più svariate discipline. Francesco Leoni

Il torto degli assenti Lunedì 8 luglio, ore 17….17 e 30, si attende ancora l’inizio della conferenza all’auditorium del Cotonifico di Santa Marta. Tante sedie vuote, un’ennesima occasione di conoscenza da molti perduta. Non è la prima volta che accade ma è la prima volta che ne parliamo diffusamente, con rammarico. Il ritmo del workshop impone di terminare plastici, schemi, presentazioni che saranno comunque superati nel giro di poche ore. Tutto questo a scapito della teoria di incontri-confronti che, giorno dopo giorno, vedono impegnati docenti, ospiti, titolari di laboratori che, spesso, provengono da realtà lontane dall’Iuav, persone che sarà difficile ascoltare nuovamente nell’ambito di un organico progetto di conoscenza e apprendimento. Eppure prevale la consegna del momento, il rispondere puntualmente a scadenze, o (peggio) occorre dover fare fronte a esami che invadono un orizzonte temporale che tutti (docenti e studenti) preferirebbero di gran lunga libero. Non avere tempo è facile. Tre note eterogenee: anni fa Umberto Eco, alla querula osservazione che un uomo come lui il tempo (per partecipare ad un convegno, per scrivere un saggetto d’occasione, per presenziare a qualche premio minore) lo poteva trovare sempre, aveva fatto i conti con ossessiva precisione e aveva scoperto che la vita era ferocemente scandita da ritmi e occupazioni della giornata (tot minuti per gli spostamenti, tot minuti per le lezioni, tot minuti per dormire, per mangiare, per il sesso ecc.) e che no, in effetti il tempo, per assolvere a quell’impegno in più, proprio non lo aveva. Tema analogo quello di un narratore dimenticato, Michael Ende, che aveva sviluppato nel romanzo Momo (nulla a che fare con il quasi omonimo scritto di L. A. Alberti) dove grigi emissari di una sedicente Banca del tempo acquistavano porzioni della vita degli uomini promettendo di metterle al sicuro per restituirle accresciute in un secondo momento, come si fa appunto quando si seppelliscono in un caveau i beni più preziosi, quando non li si usa. Alberti stesso nel terzo dei Libri della famiglia (si possono scaricare anche da Internet, dal sito www.filosofico.net/ albertifamiglia4libri.htm) faceva dire a Giannozzo (una tra le tante maschere dell’autore) che l’uomo possiede una cosa di inestimabile valore, ma che è possibile, unica e sola tra tutte le cose dell’uomo, perderla senza rimedio: «El Tempo, Lionardo mio, el Tempo, figliuoli miei». Seguiva lo stupore degli astanti, tanto più in un’epoca il

cui il tempo non era dell’uomo, ma di Dio. In altri termini, il tempo possiamo non averlo mai, è vero. Perché c’è sempre qualcosa di più pressante da fare. Nulla è più opprimente dell’assillo del quotidiano. Non vogliamo fare la morale a chi preferisce terminare un elaborato in luogo di partecipare ad una conferenza, anche quando questa è irripetibile (per i temi trattati, per l’eterogeneità degli interlocutori, per l’atmosfera generale nella quale avviene). Per inciso: si è scritto “partecipare”, quando in realtà in tutti questi giorni non una domanda è stata posta dagli studenti, anche quando presenti. Vogliamo solo ricordare che i workshop sono un gigantesco strumento di conoscenza, e tutti i loro aspetti non hanno soluzioni di continuità. Non si tratta (solo) di concludere in fretta un progetto con un docente di prestigio per rimpolpare il curriculum e insaccare crediti. Una volta di più il disegno, la riflessione, lo scontro e l’ascolto sono parti integranti di un medesimo processo. Se si salta un passaggio molto si perde. Detto brutalmente: quando vi ricapita? Soprattutto i docenti che non hanno frequentazioni costanti con l’Iuav e che generosamente si danno (pensiamo tra gli altri agli studiosi stranieri, alle fantasmagoriche suggestioni di Carlos Campos, alle variegate esperienze illustrate con straordinari disegni da Peter Rich, alle affascinanti sperimentazioni artistiche di Debra Werblud) vanno presi al momento; “usati”, se ci si passa il termine. E se non condividete quello che dicono, insistete, metteteli alle strette, che volete che succeda? Che si risentano? Per esplicita ammissione di molti tra i protagonisti di questi workshop, chi insegna prende tantissimo da chi riveste (oggi) il ruolo di studente. Chi rinuncia a tutto questo per tagliare cartonlegno o stendere retini solidi di Autocad o, terminare un rendering (che può benissimo essere fatto anche di notte, come è noto) si perde senza rendersi conto nell’onfaloscopia progettuale, tema interessante ma non ultimativo. E nessun docente biasimerà chi si allontana due ore – in una giornata che inizia alle 9.00 e termina alle 19.00 – per divenire parte integrante di un enorme processo di indagine il cui risultato potrebbe portarvi un passo più avanti rispetto a quando avete cominciato, in una direzione che nemmeno pensavate possibile. Un po’ di sano moralismo. Massimiliano Botti

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Dinamiche per una disciplina che muta Intervista a Maria Chiara Tosi Entriamo in aula e ci avvolge una calda atmosfera: le pareti sono ricoperte di tavole e schizzi di un rosso brillante, uguali sono le tonalità dei plastici su cui i ragazzi stanno lavorando: che sia il colore preferito di Maria Chiara Tosi? Una pura esigenza pratica ci dirà poi la docente, perché tutto sarà disegnato in bianco e grigio, mentre il rosso servirà per evidenziare le infrastrutture collettive di cui principalmente si occupa il corso. Il tema del suo Workshop nasce solo dall’esperienza di urbanista o anche da quella diretta di abitante della città? Deriva da entrambe le cose: io da un po’ di tempo mi sto dedicando a quello che chiamo lo stato del welfare nella città, ovvero lo stato del benessere, cercando di capire come dentro la città si possa trovare una dimensione confortevole del vivere. D’altra parte, nonostante il titolo del laboratorio reciti “da qualche parte in Europa” e quindi indichi una generica estensione entro la quale idealmente potremmo lavorare, in particolare, abbiamo scelto di concentrare l’attenzione in una zona di Mestre che io conosco come cittadino e che, frequentando, mi trasmette una sensazione di disagio. Considerare questi luoghi come un brano di città è davvero difficile perché in essi non percepiamo un vero tessuto urbano ma ci appaiono piuttosto come un accostamento di manufatti. Qui sicuramente lo stato del welfare non è ri-

spettato ed è in questo ambito che noi vogliamo intervenire. Lei in che termini si pone nei confronti dell’odierna evoluzione urbanistica? Credo sia necessario considerare che, come in tutti i campi del sapere, questa disciplina è in costante traformazione. Progredisce negli strumenti, nella ricerca e nelle sue pratiche realizzative; inoltre è in costante rapporto con un mondo e con una società che modificano ormai sempre più rapidamente la loro fisionomia, e per questo motivo anche la risposta degli urbanisti cambia nel tentativo di seguire le dinamiche in atto. È importante, infine, notare come si differenzi l’applicazione di questa pratica nel mondo: dagli U.S.A. all’Europa, passando per la Cina e l’Africa, le condizioni sono talmente distanti che non ci è permesso individuare un unico modo di fare urbanistica, ma solo di mettere in evidenza la diversità delle questioni che ci poniamo a seconda dei luoghi. Torniamo a un argomento che ci tocca più da vicino: come hanno reagito alla prima settimana di workshop i suoi studenti? Inizialmente ero un po’ perplessa in quanto la quasi totalità degli iscritti al corso sono al primo anno; il risultato invece è eccezionale perché questi studenti più di tutti sono privi di pregiudizi e quindi molto più liberi nell’elaborazione di immagini e di ipotesi, cosa che nel tipo di lavoro che vogliamo portare

avanti qui è quasi più importante dell’aver acquisito competenze e concetti più specifici. Gli obiettivi che Lei quindi ha imposto agli studenti quali sono? Io chiedo di giungere, attraverso dei modelli, a dare una proiezione futura dello sviluppo della parte di città che abbiamo considerato; oltre a questo esercizio più concettuale, è importante che i ragazzi si approprino, mettendo a punto un secondo elaborato, dei materiali con cui la città è costruita e quindi siano in grado di prendere le misure degli spazi e vedere la forma. Ci limitiamo comunque ad una sola visione generale, su vasta scala, senza scendere nel dettaglio. Ed il rapporto con l’architettura qual è? Per me, non solo in questo workshop ma anche nei miei corsi tradizionali, il ruolo dell’architettura si limita a consentire la percezione dei dispositivi spaziali che consentono poi di far svolgere delle pratiche. Io credo, inoltre, che il legame più forte sia quello tra lo spazio e la società, ed è su questo rapporto che si fonda il lavoro dei miei studenti. Nel momento in cui riescono a capire cosa sia possibile fare in un’area determinata di cui hanno percepito le esatte misure, sarà loro compito, attraverso la considerazione di spazio e società, garantire benessere e comfort. Elena Verga

La villa suburbana come specchio della società Intervista a Xing Ruan

Cosa è l’architettura per Lei? È davvero una domanda impegnativa…l’avete chiesto a tutti? [ride] Credo sia un’idea che configura la bellezza, secondo uno schema preciso di interazione tra quelli che definisco parti e poché. In particolare, con parti intendo quei pattern distinguibili nella configurazione spaziale del progetto che, per quanto concerne ad esempio il tema delle ville, rappresentano diversi modelli

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culturali (legati alla storia, ma anche moderni o futuri) della “Bella Vita”. Non possono essere definiti propriamente “tipologie edilizie” in quanto si tratta più che altro di elementi e non di un singolo edificio. Con poché invece si identifica la forma in cui sono racchiusi i pattern. Attraverso il corretto uso di parti e poché si attua un processo di guess work, evitando così che l'architettura venga

intesa come una “collezione di farfalle”, cioè vuota e concentrata esclusivamente sulla forma, non sull’idea o sul contenuto che dovrebbe esprimere. Tra tutti gli architetti, penso che Louis I. Kahn rappresenti meglio la mia idea di architettura: le sue opere non sono affatto influenzate dal tempo in cui vive, non sono né storiciste né moderne. Come è nata l’idea di questo tema?

L’idea di presentare questo confronto tra ville palladiane e alcune tra le più rilevanti ville di Sydney è stato suggerito dall’università stessa, per sfruttare l’occasione di trattare un tema “esotico” e quindi di grande attrattiva. Credo che Palladio sia un ottimo punto di partenza per rappresentare degli ideali di vita che tuttora si manifestano, anche se in modo diverso. Durate il Rinascimento, le ville di campagna

erano il simbolo per eccellenza della “vacanza”, della “fuga” della nobiltà veneziana nelle campagne. In un certo senso costituivano la proiezione di quella che era la vita stessa del committente. Oggi gli ideali sono cambiati, l’aspirazione di tutti è diventare ricchi e famosi, ma la proiezione di questa volontà è comunque rappresentata dall’abitazione, in questo caso dalla villa caratteristica dei sobborghi di Sydney. Inoltre l’opportunità di avere nel corso Joseph Rykwert, uno dei maggiori storici dell’architettura, e una stretta collaborazione tra studenti italiani e australiani consente di avere uno “studio” davvero ben equipaggiato. Cosa si aspetta dagli studenti? Molto! Le aspettative sono alte… è un’ottima occasione per integrare diversi livelli di lettura e comprensione dell’architettura. L’obiettivo che ci siamo prefissati è rispondere ad alcuni quesiti, come ad esempio, quale sia il limite dell’architettura o come possa essere rappresentata l’idea di Good Life. Si vuole dare forma a progetti che non abbiano un preciso contesto, in modo che ciascuno abbia la propria storia

da raccontare. Qual è il ruolo dell’architettura in Australia? L’Australia è davvero un grande paese, ma la popolazione è esigua e concentrata principalmente sulla costa. Attualmente sono in corso dibattiti circa la possibilità di costruire delle città nel deserto. I maggiori centri urbani sono in realtà piccole aree chiamate C.B.D. (Central Business District) in cui si concentrano le principali attività economiche e amministrative, ma la popolazione preferisce allontanarsi da questa vita “continentale” e vivere lontano dal centro, in sobborghi, secondo una rivisitazione moderna della casa di campagna inglese in cui anche il contesto naturale gioca un ruolo fondamentale. Il fatto poi che sia del tutto sconosciuta la cultura del concorso di architettura fa sì che le scelte progettuali di carattere pubblico siano in realtà dominate da interessi economici e politici. In questo contesto la villa di Sydney è diventata in qualche modo un vero e proprio ideale di vita, o meglio, di “Bella Vita”. Letizia Ferrari Elena Stellin

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mercoledì 9 luglio 2008

Nichilismo ambientale Intervista a Giovanni Campeol

La progettazione dei trasporti in Italia è, più che una risorsa, un annoso problema. Perché viviamo in una tale situazione? La dotazione infrastrutturale in Italia è degna del terzo mondo. È paradossale come l’Italia, che è stato il primo paese al mondo nel campo delle costruzioni autostradali, tra i primi a realizzare ferrovie (la Napoli-Portici già nel 1839) abbia rinunciato a questi suoi primati compiendo un’involuzione pazzesca. Non è possibile ignorare problemi come quelli del Corridoio 5, Venezia-Trieste, che detiene il primato europeo per l’incremento del traffico o dimentica-

re che, dagli anni trenta, la rete ferroviaria non ha visto alcun miglioramento sensibile. Le cause? La paura del fare, che è la morte per un architetto, e l’enfasi ambientalista che ha portato a una percezione erronea delle cose. Io la definisco dell”impatto irreversibile”, ovvero: non progettare nulla per paura di ripercussioni indelebili sul piano ecologico. È ovvio che vi siano conseguenze sull'ambiente, ma le si possono e debbono limitare con un corretto processo valutativo ambientale, su cui dovrebbe fondare le proprie basi la qualità del progetto stesso. In Italia

assistiamo a un vero e proprio “nichilismo ambientale”: piuttosto che sbagliare non si fa nulla. In aggiunta a questo c’è la componente politica. Prendiamo l’esempio della TAV. In Francia l’esigenza di un treno ad alta velocità è stata accolta con il dovuto spirito comunitario. In Italia sappiamo tutti che tipo di problema politico è diventato. In queste condizioni è difficile che il nostro paese possa competere a livello europeo nello sviluppo. Parliamo di un altro problema molto attuale sul quale Lei è in grado di esprimere un parere autorevole: la questione dello smal-

timento dei rifiuti in Campania. Ho imparato che il fenomeno dello smaltimento è un problema puramente socio-tecnologico. La gestione dei rifiuti si divide in due parti: raccolta e smaltimento, entrambe devono avvenire in maniera sincronica. Poiché sono processi che sottostanno alla variabile “tempo”, il processo deve adattarsi in maniera dinamica al fine di ottenere un buon esito. E cosa più importante è il fattore sociale: se la popolazione non si cura della raccolta differenziata bisogna essere in grado di fare fronte anche a questa evenienza. Per essere preparati a un

processo così complesso sono necessarie molteplici strutture e impianti: discariche, eco presse, termovalorizzatori, ecc. Il problema principale della raccolta differenziata è il rifiuto organico. Mentre la plastica o il vetro possono essere raccolti, depositati in un luogo e successivamente trattati, lo stesso non si può dire dell’organico che si decompone. Il primo passo per educare l’utente è costruire cucine dove la separazione del rifiuto umido sia facile e immediata. L'idea, che in un paese normale si dà per scontata, ma che in Italia è spesso ancora un’ipotesi quasi remota, è che

la raccolta sia una risorsa per tutti, che si tratta di un processo che inizia dalle nostre case. In Campania tutto ciò semplicemente non funziona da nessun punto di vista: sono stato in paesi africani dove vi è una miglior gestione dei rifiuti che a Napoli. Passando ad argomenti più leggeri, quando non è professore cosa le piace fare? Stare con le mie due figlie e girare il mondo con loro in camper. Francesco Leoni

Do you really want to change the world, Mr/Mrs Architects? Intervista a Dustin Tusnovics

Gli studenti in aula sono numerosi e i plastici sui tavoli colpiscono per i materiali con cui sono stati realizzati: lattine di Red Bull e Coca Cola, cartoni dei tipi più diversi, e ancora fazzoletti e pezzi di carta. L’intervista si svolge in modo molto informale davanti ad un distributore di caffè e passeggiando tra i vari locali dei Magazzini 6, tra battute e scambi di opinioni.

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Ha appena bevuto un caffè e tiene ora una sigaretta in mano, qual è il suo rapporto con queste cose? La giornata è composta da 24 ore, se non basta il giorno si aggiunge la notte. Fumo e caffè diventano i migliori amici degli architetti. Il processo progettuale è in continua evoluzione e credo più in questo che nel bello dell’architettura fine a se stesso. Sono una delle piccole

formiche che vuole, nel proprio piccolo, cambiare il mondo. Com’è organizzato il suo workshop? Si divide principalmente in tre fasi, una prima fase di studio e di ricerca sull’architettura ecosostenibile, una seconda durante la quale sviluppare l’idea del progetto di casa socialmente utile e una terza ed ultima fase nella quale i ragazzi andranno ad inserire il progetto

in un contesto urbano. La questione delle minoranze? Ognuno di noi nel momento in cui si trova all'estero diventa una minoranza. Gli armeni a Venezia sono una minoranza, gli sloveni a Trieste sono una minoranza e così è in ogni paese in cui andiamo. Ovviamente l’equilibrio in cui si trovano le minoranze è precario per cui l’architetto ha il dovere di avere un ruolo utile e impegnato. È uno stato reale con il quale dobbiamo abituarci a convivere. La sostenibilità vera è quella silenziosa che non ha bisogno di parole o consumismo, community based, in cui l’architettura rispecchia il tessuto ed i problemi sociali del luogo. Per fare un esempio, i centri che abbiamo costruito in Sudafrica per l’istruzione e l’educazione dei bambini. Quali sono le responsabilità di un bravo architetto? La domanda che dovrebbe porsi è: «Do you really want to change the world, Mr./Mrs. Architects?». Questa è la possibilità che abbiamo di avvicinarci ai temi sociali. Non dobbiamo per forza uscire dal contesto europeo per trovare problemi; a Mestre vi sono siti abitati da zingari sinti così come a Roma,

Madrid e Vienna. L’architetto ha il dovere di affrontare le questioni nel senso più ampio del termine. Riesce ad individuare un momento preciso in cui è avvenuto il suo passaggio da un’architettura nell'accezione comune a un’architettura impegnata nel sociale? Nel 2004, due giorni prima dello Tsunami, quando un mio amico indonesiano mi chiamò al telefono. Avevo appena finito un corso di laurea con alcuni progetti in Sudafrica. In ogni caso è stato un percorso di vita che mi ha portato ad essere un moderno nomade. Ha un punto di riferimento nella sua vita? Non una persona unica. La più grande responsabilità sta dentro a ognuno di noi. A me piace guardarmi allo specchio ed essere fiero di aver fatto il mio lavoro abbastanza bene. La mia vita mi ha portato a viaggiare già a tre anni, passare attraverso la guerra a Beirut per poi ritornare nel ’75 in Europa. In ogni paese vi sono quelle qualità; la cucina per esempio, araba, italiana, austriaca. Credo che ogni architetto dovrebbe saper cucinare e sarebbe proprio questo il con-

corso da vincere: non tanto chi fa la casa più bella quanto chi cucina meglio. Quali sono il suo libro ed il suo film preferiti? Il libro che mi ha segnato di più è Masse e potere di Elias Canetti mentre tra i film ne sceglierei uno di Wim Wenders o Jim Jarmush…credo Wim Wenders: II cielo sopra Berlino. Come è cambiato l'Iuav dal momento della sua tesi ad oggi? Mi piace di più oggi. Noi abbiamo avuto grandi maestri ma la situazione che si è venuta a creare ora, anche con questi corsi intensivi è eccezionale. Un’evoluzione ulteriore potrebbe portare a produrre, al termine di questo tipo di esperienze, qualcosa che si possa realizzare e toccare fisicamente. Sarebbe davvero interessante. Luca Stefanet

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Joseph Rykwert è uno dei più importanti storici dell’arte e dell’architettura mondiali. Naturalizzato inglese, è nato a Varsavia il 5 aprile 1926. È professore emerito dell’Università di Pennsylvania ed è anche Paul Philippe Cret Professor of Architecture. Ha frequentato la Facoltà di architettura presso la Bartlett School e presso la Architectural Association di Londra, ha poi insegnato

presso la Hammersmith School of Arts & Crafts e presso la Hochschule für Gestaltung (Ulm) prima di essere tutor e incaricato della Biblioteca del Royal College of Art di Londra. Nel 1967 diviene professore d’arte presso la neonata Università di Essex dove rimane fino al 1981, anno in cui diviene professore associato di Belle Arti e ricercatore in architettura presso la University of Cambridge, dove

ha istituito il primo corso di storia dell’architettura. È ordinario a Philadelphia dal 1988. Ha tenuto conferenze e seminari in quasi tutte le università del mondo. Ha istituito borse di studio presso il Center for Advanced Studies in the Visual Arts di Washington e presso il Getty Center for the History of Art and the Humanities. La maggior parte dei suoi studi sono rivolti ai complessi rapporti tra città e architettura.

Xing Ruan, nato in Cina, si è laureato presso la Southeast University di Nanjing, ha ricoperto la carica di direttore del Dipartimento di progettazione architettonica presso il Politecnico di Sydney e dal 2004 è ordinario di progettazione presso la Università New South Wales di Sydney, dove insegna progettazione, storia e teoria dell’architettura. Dal 1986 al 1991 ha praticato la professione in Cina e contemporaneamente esplorato possibili sviluppi professionali e di ricerca in Australia. Attualmente è consulente della Bligh Voller Nield e dell’Atelier s-h. Ha tenuto lezioni negli Stati Uniti, in Gran Bretagna, in

Italia e nel sud-est asiatico, in Cina e in Australia. È stato curatore della mostra di lavori di studenti scelta per la esposizione dell’Union of International Architects nel 1999. Gli interessi di Xing Ruan ruotano intorno al tema delle leggi fisiche che determinano forme in architettura e all’antropologia culturale nel più ampio contesto storico e culturale del termine. Il suo lavoro si riferisce, in particolare, alle relazioni tra esseri umani e il loro habitat e alla ricerca e al confronto di significati attraverso lo studio della tipologia degli edifici. Ha pubblicato testi sull’architettura, sull’antropologia

Tra i suoi libri più importanti ricordiamo: The Golden House, 1947; The Idea of a Town, 1963; On Adam’s House in Paradise, 1972; The First Moderns, 1980; e molti altri fino alle recenti pubblicazioni recenti: The Dancing Column, 1996 e The Seduction of Place: The History and Future of Cities, 2000 e The Judicious Eye. Architecture and the Other Arts, che uscirà nel 2008. Tutti i suoi testi sono stati tradotti in molte lingue. Nel 1984 è

stato insignito del titolo di Chevalier de l’Ordre des Arts e des Lettres. È stato inoltre insignito della laurea honoris causa in architettura da molte prestigiose università, ed è membro dell’Accademia di San Luca. Nel 2000 ha vinto il premio Zevi alla Biennale di Architettura di Venezia. Da molti anni collabora con la Fbe/UNSW di Sydney.

La villa e la bella vita

culturale, sulla didattica dell’architettura, su Louis I. Kahn, sull’architettura moderna e contemporanea cinese, sull’architettura contemporanea australiana. Tra i suoi ultimi libri si ricordano: Allegorical Architecture, University of Hawai Press, 2006, e New China Architecture, Periplus/ Tuttle, 2006; Topophilia and Topophobia: Reflections on Twentieth-century Human Habitat, co-editor, Routledge, 2007. Suoi articoli e saggi compaiono nelle maggiori riviste internazionali di settore.

Una “Comune” a Sydney

Joseph Rykwert, Xing Ruan ospiti, Paola Favaro, Margalit Harry collaboratore Maria Pesavento

Premessa Sydney è spesso pensata da molti come un luogo dove condurre una vita piacevole. Come molte delle nuove città moderne, un metro importante per misurare il livello di piacevolezza dell’esistenza è la possibilità di possedere una casa unifamiliare – una villa moderna – in periferia, che garantisca una vita ricca di privacy con una certa quantità di spazio domestico e un po’ di giardino all’esterno. Ma Sydney ha anche il dono di avere uno splendido porto (harbour), delle spiagge (beach) soleggiate e un terreno boscoso (bush) che penetrano fin nel cuore della città, così come un clima temperato e l’architettura della Opera House e dell’Harbour Bridge sul bacino del porto. Certo, molte ville moderne e interessanti a Sydney, come quelle disegnate dall’architetto australiano Glenn Murcutt, sono state influenzate dall’ideale della Bella Vita: queste case rappresentano quasi una atmosfera paradisiaca nel bosco o sulla spiaggia. Ma qual è il vero significato della villa? È la vista del bosco, del porto o dell’oceano oppure la possibilità che offre di condurre una vita privata protetta? Quanti tra gli abitanti di Sydney hanno l’opportunità di costruire la loro casa sul porto o nel bosco? Dopo aver analizzato le configurazioni e il significato della villa attraverso lo studio di vari tipi di ville a Sydney e nel corso della storia, progetteremo una “comune” di ville in un parco sulle sponde del Porto di Sydney, dove è situata una residenza suburbana esistente di fine Ottocento, con vista diretta sul cuore della città e cioè sull’Opera House e sull’Harbour Bridge. Questa “comune”, che consterà di 10-12 case private e di uno spazio pubblico, sarà trattata come un parco attrezzato per una determinata attività – theme park – o, come direbbe Michel Foucault, alla stregua di un’eterotopia, intesa come sostituto della Bella Vita. Tra le ville verranno identificati degli schemi o configurazioni spaziali (parti) che rappresenteranno vari modelli culturali – storici, moderni e futuri – di Bella Vita. Potranno essere sperimentati da turisti, conferenzieri, politici o persone appartenenti ai vertici dell’economia come da gruppi della comunità che affitteranno la “comune” per un limitato periodo di tempo. Invece di trovare una comunità di ville urbane chiuse da cancelli, la “comune” sarà aperta al pubblico. La finalità dei vari parti di queste ville è quella di considerare gli edifici come appartenenti ad un luogo e anche come configurazioni o schemi invece che tipi. Questi schemi (parti) verranno messi alla prova e associati a delle attività che avranno come fine ultimo quello di creare un’illusione di Bella Vita all’interno di un luogo definito, sia in senso spaziale che temporale. Una prova moderna di tale illusione, creata dall’architettura, si

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potrebbe trovare nei parchi Disneyland o al cinema. Il progetto si servirà degli strumenti architettonici del parti come configurazione organizzativa in forma di diagrammi geometrici e del poché come disegno architettonico più completo che indicherà la relazione tra spazi chiusi e spazi aperti in forma di piante e sezioni. La villa e la Bella Vita Tutti aspirano ad una Bella Vita, ma l’ideale della Bella Vita è spesso relegato all’immaginazione, sia questa dettata da un sistema di pensiero legato alla religione o alla letteratura, da un’ideologia imposta dallo stato o si ritrovi, anche se parzialmente, nella materializzazione di questo ideale in manufatti artistici. La villa nel suo significato originario – una casa rurale ma anche un rifugio per la contemplazione e il piacere – è proprio questo tipo di manufatto artistico. Per noi contemporanei, invece, è la casa individuale o il ritiro per la villeggiatura. A Sydney per esempio, potrebbe rappresentare la ricerca dell’ideale della Bella Vita. Più che una casa per una consueta vita familiare, la villa sembra acquisire il significato di rifugio non solo per il nostro corpo ma anche per il nostro fantasticare: «È uno dei più grandi poteri di integrazione per i pensieri, memorie e sogni dell’essere umano» (Bachelard 1969). Le fantasie associate alla Bella Vita, non c’è bisogno di dirlo, riflettono cambiamenti sociali: lo scopo prevalente della vita nel tredicesimo secolo in Europa per esempio era di essere salvati, mentre per molti oggi la Bella Vita è diventare ricchi e famosi. Fino a che punto le nostre fantasie per una Bella Vita basate sul passato o cresciute nel presente si sono materializzate nella villa dall’antichità attraverso il Rinascimento e fino ai nostri giorni? E fino a che punto la configurazione della villa è stata strumentale nelle nostre fantasie per la Bella Vita e per la nostra vita odierna? Queste sono le questioni primarie da considerare in questo workshop. Nel suo libro The Good Life, Yi-Fu Tuan (1986) scrive: «La Bella Vita ci rincorre. Tutto quello che facciamo è diretto, consciamente o inconsciamente, a raggiungere la Bella Vita.». Invece dell’instancabile propaganda delle dottrine ufficiali dominate da stati totalitari nel dettare qual è la Bella Vita per tutti i cittadini, siamo adesso semplicemente travolti e persuasi dalle immagini commerciali e accattivanti dei media. Tuan, comunque, ci ricorda lo strano silenzio degli umanisti su questo punto e offrendo il suo contributo riflette su quattro modi di considerare la Bella Vita nel mondo occidentale: ambientalismo, che vede la Bella Vita come conseguenza di uno speciale tipo di scenario o di posizione fisica; attività, che

è più concentrata su quello che la gente fa piuttosto che dove sta; attitudine filosofica che è sempre alla ricerca di quello che distingue l’essere umano dall’essere animale; fantasia utopistica, che guarda alla società ideale per il raggiungimento della Bella Vita. Però, secondo Tuan, l’idea che uno scenario architettonico possa rappresentare la Bella Vita è unicamente moderno, cioè è il prodotto del diciannovesimo e del ventesimo secolo. Sì, è vero, ci sono un’infinità di pubblicazioni recenti che guardano a come migliorare gli interni di una abitazione, ma è difficile credere che gli antichi romani non costruissero la loro villa campestre per piacere e per il raggiungimento di una Bella Vita. Allo stesso tempo è difficile non credere che la casa a corte tipica cinese che, dopo millenni di ricerca, ha raggiunto quella perfezione equilibrata del “significato aureo” come risposta a una gerarchia sociale intricata, non sia anche questa rappresentazione della Bella Vita. Questo progetto, mentre riconosce le speculazioni filosofiche di Tuan, sfida tale presupposto di ambientalismo moderno. Facendo questo, mette in discussione la nozione di comfort, convenzionalmente riconosciuta come un’idea borghese dei tempi moderni, come il metro predominante di misura della casa ideale, e quindi della Bella Vita. Una domanda inevitabile che sorge è: il fatto che le ville del Palladio siano state così tanto imitate, significa che rispondono a valori universali? Le ville del Palladio in un certo senso esistono indipendentemente dalla cultura e dalla topografia in cui sono inserite. Qual è quindi la relazione tra il generale e il particolare in architettura? Se una volta le configurazioni palladiane esprimevano le fantasie per una Bella Vita, che sia la ricerca di identità in una villa moderna a Sydney il sostituto della Bella Vita nei tempi attuali? Ville a Sydney Il gruppo di studenti australiani presenteranno il 30 giugno a Venezia le immagini delle 15 ville selezionate a Sydney in forma di poster e la documentazione necessaria per analizzare, insieme agli studenti italiani, le ville attraverso diagrammi (parti) e disegni architettonici in pianta e sezione (poché). Ville del Palladio Si dovranno conoscere Villa Foscari a Malcontenta, Villa Saraceno ad Agugliaro, la Villa Poiana a Pojana Maggiore, Villa Badoer a Fratta Polesine, Villa Emo a Fanzolo di Vedelago, Villa Barbaro a Maser, Villa Godi a Lugo di Vicenza, Villa Valmarana, La Rotonda a Vicenza.

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Maria Chiara Tosi nasce a Venezia nel 1965, urbanista e docente di urbanistica all’Iuav, ha insegnato anche all’Università di Trento e di Catania-Siracusa. È stata visiting researcher presso il College of Environmental Design dell’UC Berkeley e Visiting professor presso l’Ecole d’Architecture de Paris Marne la Vallée. Ha partecipato a diverse ricerche universitarie: The transformation of the urban habitat in Europe; Itaten; Returb, I futuri della città; Dispersione europea. Attualmente si dedica allo studio della dimensione fisica delle politiche di welfare ed è responsabile scientifico di un Osservatorio sul territorio del Delta del Po.

Ha coordinato una ricerca della Metropolitana Milanese SpA sulle trasformazioni urbane a Milano. Ha lavorato alla redazione di alcuni piani regolatori per i comuni di Casarano, Brescia e Pesaro, per la provincia di Macerata e Venezia e al Piano Paesaggistico di Feltre. È stata consulente della Soprintendenza per i Beni Architettonici e per il Paesaggio del Veneto Orientale per un progetto di riqualificazione urbana e paesaggistica a Belluno. È attualmente impegnata nella redazione del Piano strutturale del Comune di Ferrara. Ha partecipato a diversi seminari e laboratori di progettazione a Venezia, Bari, Ascoli, Koortrijk, Vewelgem,

e a concorsi di progettazione a Torino, Salerno, Monza, Pescara, Sarajevo, Bolzano. Ha pubblicato saggi su libri e riviste internazionali. Tra i suoli libri: Di cosa parliamo quando parliamo di urbanistica, Meltemi, Roma 2006, e con Stefano Munarin, Tracce di città, Franco Angeli, Milano 2001. Ha curato Il progetto ambientale della città, Il Poligrafo, Padova 2003; Quaderno del Laboratorio Brescia Prg, Grafo, Brescia 1998. Ha pubblicato articoli in: A. Clementi, G. Dematteis, P. C. Palermo (a cura di), Le forme del territorio italiano, Laterza, Roma-Bari 1996; X. De Geyter (a cura di), After sprawl, Nai, Rotterdam 2002; P. Viganò (a cura di), New territories, Officina, Roma

2004. Ha pubblicato articoli su «Urbanistica, «Archivio di Studi Urbani e Regionali», «Quaderno della ricerca sulle trasformazioni dell’habitat in Europa» e «Cru – Critica della Razionalità Urbanistica».

Da qualche parte in Europa La città come infrastruttura collettiva

Maria Chiara Tosi collaboratori Cristina Renzoni, Michela Pace, Claudio Patanè Benessere, comfort, sicurezza, salubrità sono caratteri che sempre più spesso vengono richiesti alla città e che ogni ambito urbano dovrebbe garantire. Spesso però non è così. La città costruita a partire dal secondo dopoguerra, pur se ricca di servizi e attrezzature, stenta a raggiungere livelli accettabili di welfare, e ciò costituisce sempre più di frequente motivo di critica, avversione e, in definitiva, difficoltà per i cittadini che la abitano. Obiettivo di questo workshop è indagare e decifrare le ragioni della “fatica di abitare”, i motivi dell’ostilità che estesi brani di tessuto edificato manifestano nei confronti di tutti gli abitanti, esplorando progettualmente le possibili configurazioni di spazi e manufatti capaci di contribuire al benessere di una comunità/collettività, studiando in particolare la morfologia di ciò che può essere definito come “infrastruttura collettiva”. Riflessione critica ed esplorazione progettuale saranno esercitati su di una generica porzione di tessuto edificato, che potrebbe stare ovunque in Europa e che si caratterizza per non essere ancora completamente città, una zona ancora in evoluzione, praticabile quasi esclusivamente in automobile, costitutita da edifici-monadi, isolati e distanti l’uno dall’altro (lo spazio urbano, lo spazio “tra”, è di fatto costituito esclusivamente dalle strade e dai vasti parcheggi di pertinenza degli edifici commerciali). Si lavorerà su un’area di circa 300 ha pari (1,5 km per 2 km) caratterizzata dalla presenza di numerosi manufatti contenenti funzioni abbastanza varie, che nell’insieme formano però uno spazio con un livello di “urbanità” del tutto insoddisfacente. Il progetto si propone di esplorare differenti morfologie che una infrastruttura collettiva potrebbe assumere per riuscire a coinvolgere l’intero contesto edificato e dare risposta alla richiesta di maggiore welfare, di maggiore comfort, sicurezza e salubrità, trasformando per questa via una “zona funzionale” in una più abitabile città. Il progetto potrà prevedere una quota di nuova residenza, spazi per il commercio, servizi ed attrezzature, oltre che spazi aperti pavimentati e verdi. L’esplorazione progettuale dovrà concentrarsi sugli aspetti collettivi dei diversi spazi, qualsiasi funzione essi ospitino, chiarendo quali sono i dispositivi spaziali attraverso cui si intende raggiungere l’obiettivo di configurare una inedita infrastruttura collettiva. Gli studenti saranno suddivisi inizialmente in quattro gruppi e ciascun gruppo dovrà esplorare un possibile scenario-vision complessivo per l’area. Successivamente ciascun studente, o piccolo gruppo di studenti, dovrà esplorare progettualmente la configurazione spaziale che potrà assumere una specifica porzione dell’intera area.

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6 Dustin A. Tusnovics, dopo aver frequentato il politecnico di Vienna si trasferisce a Venezia laureandosi presso l’Iuav, per poi tornare a Vienna dove consegue il dottorato di ricerca con il prof. Will Alsop sul tema IOS – Integrated Office Strategy. Attualmente insegna a Vienna, Salisburgo e Trieste. Collabora con lo studio Zelco-Lazzari di Trieste, ed è autore di una serie di progetti di restauro nel centro storico di Trieste. Assistente del prof. Hans Hollein per la Biennale di Architettura di Venezia nel 1996, esercita la libera professione sia a Vienna sia a Trieste. È co-fondatore dello studio di architettura & comunicazione con Elisabetta Porro con sede a Vienna, e di uno studio di progettazione con sedi sia in Austria che in Germania. Il suo lavoro è stato insignito con il premio Office of the Year Award 2000 per il progetto Deloitte Consulting in Vienna (100% Non-Territorial). Partecipa a numerose mostre e il suo lavoro è oggetto di saggi in riviste nazionali ed estere. Recentemente è consulente e designer delle società austriache di arredamento BENE e Wiesner-Hager. Dal 2004 è direttore del corso di laurea Baugestaltung Holz (progettare e costruire con il legno) presso il politecnico di Salisburgo. Il suo impegno è principalmente rivolto verso una progettazione interdisciplinare e sostenibile, sviluppando ricerche e progetti tendenti a sviluppare e potenziare le caratteristiche del legno nella costruzione e nella progettazione. È attualmente impegnato in una ricerca che ha per obiettivo il miglioramento dei processi di progettazione sostenibile, integrati alle necessità delle comunità più povere del Sud Africa. Svolge studi e ricerche sull’architettura sostenibile con particolare attenzione ai paesi in via di sviluppo, collaborando con varie università europee e africane. Suoi saggi appaiono in numerose riviste.

Building for a better world: architettura oltre l’architettura Dustin A. Tusnovics collaboratori Maria Maccarrone, Alessia Zambon, Marlene Wagner Architettura sociale – sostenibile – materiali alternativi. Residenze per le popolazioni povere e non privilegiate. Pensare socialmente e in modo sostenibile quale approccio progettuale (culturale e urbano).Villaggi, campi rom, baraccopoli, insediamenti abusivi, favelas o qualsiasi altro nome per i cosiddetti “insediamenti alternativi”, concorrono a identificare (spesso negativamente e come luoghi disturbatori) la maggior parte delle metropoli (mega-cities) in Africa, Sud America e Asia. Una realtà molto ben illustrata in studi recenti e registrata nella Biennale di Architettura di Venezia del 2006. Oggi il 75% della popolazione mondiale vive in città. È a questa realtà che gli architetti dovranno dare risposte e trovare soluzioni. Questo è ancora più evidente se si considera la recente sfida di Roma nell’allestire un campo nomadi alle porte della città: è un indicatore della crescente domanda di abitazioni per le fasce più disagiate della popolazione, anche italiana. Attualmente la maggior parte dei governi contribuiscono solo con aiuti economici alla realizzazione di case popolari (contributi che coprono non più del 50% dei costi effettivi). Questa incongruenza porta alla realizzazione di edifici che risultano inappropriati e carenti sin dalle origini, non prendendo in considerazione, tra l’altro, le naturali tendenze di trasformazione, espansione, miglioramento e cambiamento delle situazioni finanziarie. Come può l’architettura rispondere a queste considerazioni di carattere sociale; come può rendere effettivo un approccio differente, sostenibile? Il tema del workshop è lo sviluppo di strategie di intervento per contesti urbani, di progetti per abitazioni sociali, usando risorse sostenibili, compatibili, locali. In questo senso il progetto del workshop dovrà individuare delle soluzioni che rispondano a tre fasi: una contestualizzazione appropriata, un oggetto architettonico, una sistemazione urbana compatibile. Prima fase: il contesto Prima di tutto bisognerà individuare l’area di intervento (con Google Earth e simili). Per esempio Johannesburg e la sua periferia, oppure Nairobi e la baraccopoli di Mathare Valley. Quindi si effettueranno analisi appropriate per definire strategie e tecniche di progetto (considerando che le “baracche” in cui vivono una media di 4 persone sono di appena 2 m X 4 m). Analisi e ipotesi planimetriche e spaziali, dimensioni, materiali. comparazione di situazioni presenti in questi sobborghi e prime indicazioni sul concetto di progettazione sostenibile. Il tema della sostenibilità (sociale, economica, ecologica) caratterizzerà tutta l’esperienza del laboratorio. Suggerimenti: Shoot Back (film); Construct/Deconstruct a shack (DVD di Christoph Hutin); Symbolism in SA architecture; Elemental Chile (concorso di progettazione). Obiettivi: definire l’area di intervento; definire una scenografia appropriata dell’area; sviluppare una serie di strumenti: materiali, piante, strutture, impianti passivi, sicurezza; definizione di “sostenibilità” per il nostro obiettivo; definizione della strategia

Work hard, play harder

Seconda fase: l’oggetto architettonico Progettare architettura oltre l’architettura. Non è con la casa “più bella” che possiamo cambiare la situazione devastante delle comunità più povere presenti sul nostro pianeta, ma configurazioni appropriate e regole definiranno gli obiettivi dell’architettura. Come può essere quell’oggetto architettonico (nel nostro caso un’abitazione) che usa le risorse nel modo più appropriato, che concorre a migliorare gli standard abitativi, che attiva e consente cambiamenti individuali, che utilizza energie alternative per il riscaldamento e il raffrescamento? In altri termini, come si configura una struttura che può essere considerata sostenibile? Suggerimenti: progettare con il legno; esempi di realizzazioni in legno; consapevolezza energetica; abitazioni modulari. Obiettivi: sviluppare una tipologia di abitazione modulare; combinazione dei moduli di base; attivazione degli strumenti definiti nella fase precedente: materiali, piante, strutture, impianti, sicurezza, approvvigionamento energetico, risorse, contesto, paesaggio, ecc; ri-definizione del concetto di Sostenibilità alla luce dello stato di avanzamento del progetto; re-visione della strategia complessiva del masterplan (feed back) Terza fase: una sistemazione urbana compatibile L’individuazione delle soluzioni abitative e della loro aggregabilità (prima e seconda fase) devono essere viste in una ottica (contesto) più vasta: l’attuazione/attivazione, a livello base (a livello urbano, cioè) genera un reale plusvalore che condurrà, infine, a una soluzione sostenibile, a un progetto urbano culturale, considerando gli aspetti sociali, culturali e tradizionali degli abitanti dei nostri interventi/strategie. Questa fase riconsidererà, dunque, le prime due e si utilizzeranno tutte le informazioni trovate per provare a delineare la “strategia per edifici per un mondo migliore”. Per provare a rispondere alla domanda iniziale: quale architettura sociale possibile, quali edifici sostenibili per uso di materiali, risorse energetiche alternative, possibilità combinatorie. Suggerimenti: paesaggi urbani; Cultural urban design Obiettivi: sviluppo di un layout urbano; rappresentazione grafica dell’approccio strategico condotto nelle tre fasi; plastico dell’area, del modulo abitativo base; dettagli; constestualizzazioni /fotomontaggi e rendering.

Intervista agli studenti australiani

Continuando la serie di confronti con gli studenti stranieri attualmente impegnati nei vari workshop, siamo state accolte con simpatia e calore dai ragazzi australiani. Si sono dimostrati da subito entusiasti all’idea di dialogare con noi. Quali sono le principali differenze tra la scuola di architettura australiana e quella italiana? Noi siamo autodidatti, o meglio, impariamo attraverso il self-directive learning. Al contrario in Italia ci sembra che gli studenti siano portati a seguire quasi alla lettera le indicazioni dei professori. A livello organizzativo la nostra facoltà rimane aperta 24 ore su 24, i corsi hanno pochi studenti, tra le venti e le venticinque persone, e ciò consente di essere più seguiti dai docenti. Abbiamo maggiori possibilità di accedere facilmente ai computer e alle stampanti della facoltà. Inoltre, tutti i nostri corsi sono organizzati nel medesimo edificio, non ci sono dipartimenti sparsi nella città come accade qui a Venezia. È un aspetto che ci piace molto. Cosa ne pensate di Venezia? Vi piace? [momento di entusiasmo generale] «Beautiful! Romantic Idea! Very easy to get lost! Spritz is great!». Alcuni di noi hanno già avuto la fortuna di visitare la città, ma adesso è davvero impossibile trovare il tempo per esplorarla, specialmente perché nel week-end siamo sempre occupati….ed è piena di turisti! Avete già avuto la possibilità di studiare Palladio? In realtà molto poco…alcuni di noi l’hanno studiato per conto proprio. E quindi voi che tipo di architettura studiate? Noi ci occupiamo molto di più di architettura contemporanea. Al contrario dell’Europa, l’Australia e, in particolare le grandi metro-

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di intervento (masterplan); identificazione delle necessità e degli obiettivi del progetto.

poli come Sydney e Melbourne, hanno una storia molto recente. In Italia vi è una forte identità data dalla storia, la cui presenza influenza inevitabilmente il modo di progettare. Nel nostro caso tutto è moderno e siamo ancora alla ricerca della nostra identità. Di conseguenza nei nostri progetti spesso ci viene chiesto di cercare gli aspetti che caratterizzano la città e che rispondano, ad esempio, alla domanda: “che cosa è Sydney?” Cos’è l’architettura per voi? L’architettura deve essere sensibile e umile. Vivendo in un paese come l’Australia, deve confrontarsi costantemente con l’intorno, con l’ambiente, prestando particolare attenzione ai nuovi sistemi costruttivi, specialmente in relazione al clima secco. Preferiamo sperimentare con i materiali piuttosto che con gli oggetti architettonici, dando più importanza alle texture invece che alla forma. Cosa vi aspettate da questa esperienza? Divertimento. È una vacanza e un momento di confronto con idee diverse dalle nostre. In Australia si lavora più individualmente, quindi questa è un’occasione per imparare a lavorare in gruppo, nel quale il significati del termine leadership è particolarmente importante. A ciascuno di noi è infatti stata affidata la “guida” di un gruppo di studenti italiani. Il vostro background vi ha aiutato nell’affrontare il tema proposto? Sì. Visto che siamo del quarto e quinto anno, i ragazzi italiani ci considerano più esperti di loro, ma in realtà conoscendo il luogo di progetto siamo solo più avvantaggiati. Ci aspettiamo uno continuo scambio e una grande condivisione delle idee. Letizia Ferrari Elena Stellin

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Trasmissione orizzontale del sapere Un progetto sostenibile con Ecotect

Nell’ambito del workshop del professor Casamonti i temi della sosteniblità e della progettazione ecocompatibile appaiono come presupposti inderogabili. Dopo le lezioni del professor Peron sull’utilizzo delle energie rinnovabili e quella del professor Longhi sulla necessità di un rinnovamento del processo progettuale in sintonia con le dinamiche “metaboliche” urbane, oggi viene offerta agli studenti la possibilità di prendere contatto con uno strumento informatico di controllo del progetto: Ecotect, un programma sperimentale messo a punto da Martina Iaschi e Paola Meloni. Entro in un’aula dove il lavorio viene accompagnato dalle parole di Barbara Angi – collaboratore al corso – che ci ricorda come non sia più possibile scindere la progettazione figurativa da quella strutturale ed impiantistica e come questi nuovi strumenti possano arricchire il processo ideativo di nuovi input e, in alcuni casi, possano divenire utili pre-testi per una progettazione più consapevole di un “ritrovato” ruolo social-ecologico. La formula di questa

comunicazione è inedita e mi riporta alla mente un pensiero di Umberto Eco, letto frettolosamente in questi giorni di convulso lavoro, il quale ricorda come ogni studente impari l’1% dal docente, il 19% dagli assistenti e l’ 80% dal dialogo e dal confronto diretto con i compagni di lavoro. Il relatore di oggi è Lionella Biancon, una studentessa del Corso di laurea specialistica in Architettura per la sostenibilità che, per nulla intimidita da questa nuova esperienza, ci illustra il funzionamento di Ecotect. Si tratta di un programma che consente di eseguire analisi approfondite sulle prestazioni energetiche e sull’integrazione climatica degli edifici, allo scopo di fornire suggerimenti, direzioni e indicazioni da seguire per uno sviluppo sostenibile del progetto. Non rappresenta soltanto uno strumento di verifica finale di tipo fisico tecnico del manufatto architettonico, ma è utilizzabile anche per la creazione geometrica dei modelli, per la contestualizzazione geografica e per la caratterizzazione tecnologica dell’edificio.

Ecotect ha quindi il compito di porre le premesse tecniche del progetto di un edificio e di verificarne i risultati a processo ultimato. Grazie a funzioni di simulazione si possono eseguire analisi solari, illuminotecniche, termiche, acustiche, dei costi di costruzione e dell’impatto ambientale, permettendo di passare facilmente dalla grande alla piccola scala. Come ci ricordava il professor Longhi, all’interno del processo progettuale in senso classico, un tempo ognuno aveva il proprio ruolo ed era dato dalla scala degli elaborati da produrre:1:100, 1:2000, 1:10.000, ecc. Ora, con i motori di ricerca geografici satellitari, i ruoli si confondono perché, partendo da più infinito e arrivando a meno infinito, trasformano il processo progettuale da un insieme discreto ad uno continuo. Ecotect permette, infatti, un adeguato controllo dei vari aspetti progettuali a scale differenti.

3 Intervista a Gigetta Tamaro e Francesco Semerani Family’s stairs The design of such a common object develops from a very careful analysis of form and function. A whole family shares the pleasure, and the hard work, of the creative process: a very peculiar experience which can be very suggestive and inspiring. 3 Intervista a Laura Thermes Landscape’s restoration The past seen as a friend, architecture conceived as a solution for primary needs. And landscape as a mix between nature and men. A mix that must be analized, to find out how to protect our resourceful, generous land. 4 Aldo Cibic Futurealities: a research centre A project for a campus, where researchers and scientists will be able to study, work, and live with their families. A sort of technological and ecological oasis, where thoughts, ideas and researches can grow up. 5 Intervista ai coreani Anti-communication The roots of hate between North and South Korean seem to be deeper than expected. Architecture should be an international language: we hope to have less boundaries and more opend minds within a near future. 5 Mancuso e Chun Health Care Town in Jeju-Island The workshop will focus on the island of Jeju, Korea. Both korean

and italian students will examinate the peculiarities of the site, its history and development; and then through maps, scale models and plans, they will suggest their personal project of an wellness resort. 6 Semerani + Tamaro Stairs: a point of view Scale, stairs, spiral staircase, ladder, range, backstairs, salary scale... How many meanings behind a word? How many ways to use it? And how many possibilities to develop an idea starting from the same point? 7 Laura Thermes A Virtual Venice For the city, all projects have the same importance: those which can be carried out, as well as those who are purely utopian. They are different layers of the same ground, and by penetrating the memory of the city, both change, in a way, the city itself. 7 Caterina Mendolicchio Evening thoughts What does remain after a day of hard work? Reflections of an architect-student on the hectic life of the workshop... 8 Blog For those who don’t know it yet... Since the very first day of the workshops, our blog (ruled by Massimiliano Ciammaichella and Ketty Brocca) is hosting many interesting contents: videos, pictures, interviews, and of course also our daily newspaper in pdf version. The workshops belong to you, that’s why we’d love you to participate with comments, pics and ideas.

Elena Zadra

Abstract Da questo numero inizia la pubblicazione in lingua inglese dell’abstract degli articoli apparsi nel numero precedente. Quello che segue, quindi, è relativo al numero 6. 1 Conferenza Cibic Campos The time to listen... The discovery of an emotional language to describe space. New ways of living the suburbs and enjoying nature. A dialogue between two men who live architecture in two radically different and surprisingly similar ways. 1 Akdogan e Madrazo in campo Talking about differences Different people, languages, cultures. The pleasure of meeting in a different place, and chatting about the daily work in complete relax... The workshop goes on out of the University and reaches the square where students usually meet after lectures. 2 Intervista a Chun Jinyoung Architecture’s universal language Culture, nature and technology in South Korea. The increasing importance of sustainable architecture, as well as imagination, and respect of ancient traditions. A creative dialogue between East and West. 2 Intervista a Cibic Risks and responsibilities The main problem of Italy is that nobody seems to pluck up courage and take some risk. That’s why our country is so old, and everything takes so long to be carried out. And that’s also the reason why some of our architects prefer to work in foreign countries...

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Venezia: insolito e divertente

Auditorium cotonificio

Dall’Interno

mostre un mondo di carta Isabelle de Borchgrave incontra Mariano Fortuny Museo Fortuny in campo San Beneto (vicino campo Sant’Angelo) ore 10 - 18

8 appuntamenti che contrappongono in una dialettica particolarmente vivace un architetto straniero e un architetto italiano. 8 incontri aperti al pubblico, oltre che ai 1800 studenti dei Workshop 2008, che indagano gli orientamenti dell’architettura.

Presentazione Venerdì 11 luglio ore 17 Aula M1 Cotonificio di Santa Marta Presentazione dei libri: Baukuh, 100 piante, e SP10studio, Quaderno dal 2000, entrambi De Ferrari editore, Genova 2008. Saranno presentati oltre a Franz Prati, anche Daniele Pisani, Paolo Ceccon, Matteo Ghidoni e gli autori

sconfinamenti exit - entry Ca’ Pesaro (fermata del vaporetto n.1 San Stae) ore 10 - 18 musica Elthon Jhon live in piazza San Marco ore 21.30 concerto di musica indiana Sankha Chattopahdyay e Shujaat H. Khan sabato 12 luglio alla Fondazione Giorgio Cini ore 18.30

Mercoledì 9 luglio ore 17 Verso nuove tendenze? Angelo Bucci e Alberto Cecchetto Giovedì 10 luglio ore 17 Verso nuovi paradigmi estetici? Laura Thermes e Renato Rizzi

Mercoledì 9 luglio 2008 Laboratorio08 Numero 7 Supplemento a Iuav-Giornale d’Istituto Registro stampa 1391 Tribunale di Venezia Divieti È severamente vietato fumare nelle aule, nei corridoi e in tutti gli spazi delle sedi!!!!

Direttore scientifico Marina Montuori Coordinamento di redazione Massimiliano Botti

Chi e dove?

Servizi Far

Direttore artistico Enrico Camplani Coordinamento redazionale Luca Caratozzolo Elisa Pasqual

Santa Marta

Copie e plottaggi Dove? Al piano terra delle Terese, Centro stampa Quattro Esse Come? Con apposito “foglio di credito”, usando pen drive Quando? Anche ieri e per tutti i giorni fino al 18 cm Quanto? Fino a euro 650 per workshop

Primo piano Thermes, A1 Ciacci, A2 Rykwert – Ruan, B Rizzi, C Casamonti, D Dainese, E Semerani – Tamaro, F Rich, G Campeol, I Secondo piano Cibic, L1 Tagliabue, L2 Prati, M1 Cecchetto, M2 Carrilho – Albiero, N1 Bürgi – Cunico, N2 Dias, O1 Gausa, O2

Magazzini 6 Piano terra Femia – Peluffo, 0.1-0.3 Bucci, 02.-0.4 Tusnovics, 0.5-0.7 Nicolini, 0.8-0.10 Primo piano Campos, 1.1-1.3 Tosi, 1.2-1.4 Gambardella, 1.7-1.9 Akdogan – Madrazo, 1.8 Secondo piano Borgherini – Werblud, 2.3 (aula informatica) Accossato – Trentin, 2.2 Mancuso – Chun, 2.4 Fontana, 2.5 Redazione, 1.6

Punto spray Dove? Al piano terra – esterno!! – sia del Cotonificio sia dei Magazzini 6 Perché? Perché fa male usare spray acrilici e simili in spazi interni e non sta bene imbrattare la Scuola Punto riciclo Dove? Ad ogni piano del Cotonificio e dei Magazzini 6, appositi cesti ove, razzolando, si può recuperare qualche frammento destinato a seconda vita. Alias NO “MONNEZZA”! Perché? Il Pianeta si sta stringendo e dobbiamo prendercene cura

Laboratorio interfacoltà Far/Fda Nell’ambito dei workshop estivi aa 2007-8 Far/Fda, Iuav Redazione testi e immagini studenti Far Roberta Boncompagni Dario Breggiè Mariaelena De Dominici Letizia Ferrari Francesco Leoni Caterina Mendolicchio Nicoletta Petralla Giovanni Righetto Laura Scala Luca Stefanet Elena Stellin Elena Verga Elena Zadra Redazione grafica studenti Fda Irene Bacchi Benito Condemi de Felice Elvira del Monaco Claudia De Angelis Maria Polverino Gabriele Rivoli Progetto grafico n.7 Stefania Fucci Coordinamento multimediale Massimiliano Ciammaichella Ketty Brocca Redazione web video studenti Fda Ambra Arcangeli Enrico Ausiello Enrico Rudello

Il Progetto grafico del numero precendente è stato realizzato da Jelena Arsenic

online http://laboratorio08.wordpress.com email laboratorio08@iuav.edu Coordinamento generale Esther Giani

UNA SOCIETÀ DI FONC IÈRE DES RÉG IONS

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