13 giovedì 17 luglio 2008
The Villa and the Good Life Intervista al Rettore Carlo Magnani pag. 2
La redazione pag. 4-5
Intervista a Ottavia Piccolo pag. 6
Rykwert è uno storico di fama internazionale. A Venezia il suo arrivo era molto atteso. L’aula B era in fermento, al punto da arrivare a generare qualche “piccola polemica” contro professore prima e studenti poi. La conferenza in auditorium si è svolta in un clima raccolto: il numero ristretto di partecipanti (perlopiù studenti australiani) ha fatto in modo che si respirasse un’atmosfera… intima. Joseph Rykwert parla correntemente almeno quattro lingue diverse: tedesco, polacco, italiano, inglese... I suoi interlocutori, studenti e professori, si sono espressi in un inglese impeccabile. Effettivamente di Italiani ce n’erano ben pochi. Sarà stata colpa della stanchezza degli ultimi giorni, o delle consegne imminenti dei progetti finiti, ma gli studenti Iuav hanno perso la preziosa occasione di partecipare ad una singolare lezione di architettura. L’intervento è ruotato intorno al concetto di villa. Partendo da esempi risalenti alla Roma antica di Adriano e Diocleziano, Rykwert ha proposto un percorso interpretativo riguardante l’evoluzione di quelli che sono gli elementi caratteristici fondanti della villa. Essa è intesa come uno spazio atto a coniugare luoghi di
piacere e divertimento a luoghi di lavoro (pleasure and business), come appare evidente, ad esempio, nella Villa Adriana a Tivoli, o ancora nel Palazzo di Diocleziano a Spalato, fino ad arrivare alle ville progettate da Palladio. Particolarmente interessante appare poi il concetto secondo cui una villa può essere considerata come una piccola città e, allo stesso modo, una città può essere analizzata
come una grande abitazione. Conclusa una prima parte di comunicazione frontale, il professore ha trasformato il suo intervento in un vero e proprio dialogo con gli spettatori: a sorpresa di tutti, anche dei collaboratori, ha abbandonato la cattedra dell’auditorium per prendere posto di fronte alla prima fila, si è seduto tra gli studenti e i pochi docenti presenti, dando inizio a una conversazione quasi confi-
denziale sui temi della conferenza e dintorni, incitando il pubblico a intervenire con domande e personali considerazioni. Gli interlocutori sono stati proprio tutti: dagli studenti australiani ai professori fino all’ultimo intervento del suo collega di workshop Ruan. Letizia Ferrai Nicoletta Petralla Elena Verga
Il quotidiano del Quotidiano «Laboratorio 08» Ogni giorno, in queste tre settimane, è trascorso pressappoco così. In aula 1.6 del Magazzino 6 i tavoli sono ingombri dei poveri resti del numero precedente: bozze corrette, appunti, innumerevoli bottiglie vuote (prevalentemente acqua, rigorosamente niente alcool), numeri vecchi annotati. Poco altro, perché ognuno si porta il suo laptop, e a terra matasse di cavi e ciabatte elettriche, fuori norma ai sensi della sicurezza, ma bisogna fare di necessità virtù. Il computer nero con il suo schermo king-size, destinato ad archivio-immagini, è quasi sommerso di fogli e sta in un angolo. Altri fogli appesi alle pareti: il timone del giorno prima (“timone” vuole dire la scaletta, l’organizzazione del numero suddiviso in pagine, ognuna da riempire, ognuna un piccolo deserto da popolare), numeri di telefono e indirizzi email, da qualche giorno anche una pubblicità di un kebab per asporto. Un pomeriggio un tipo, silenzioso ed efficiente, è entrato, non ci ha degnato di un’occhiata, si è diretto verso la parete di legno in fondo all’aula e ha appeso il volantino. Subito è uscito seguito dallo sguardo dei presenti, rapido come un incursore. Si arriva alla spicciolata – “sempre meglio
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che lavorare” pare sia la definizione classica che accompagna chiunque si accinga a raccontare le cose senza prendervi parte – , si distribuiscono i compiti: chi va a intervistare, chi segue la conferenza, chi copre il sopralluogo (copre, perché in pochissimo tempo si prendono tutti i vezzi del mestiere, compreso l’uso disinvolto di termini che fuori di qui ci imbarazzerebbero un po’). Serve un pezzo per il Lessico, serve un articolo di spalla, possibilmente un sapido corsivo. Aspetta che intingo la penna nel curaro. Com’era la conferenza? C’era gente? Arrivano persone: docenti di workshop molto gentili che ci mettono a parte delle loro iniziative suggerendo che sarebbe davvero interessante mandare qualcuno, magari con un fotografo; collaboratori premurosi che segnalano urgenze o rettifiche. Ci rendiamo conto che, se davvero volessimo seguire tutto dovremmo essere molti di più, e molte più pagine dovremmo riempire. Questo per dire quante energie mette in moto il workshop, quante intelligenze e quanti sforzi. Si editano i pezzi già preparati: qualche intervista a studenti dei vari laboratori che ha avuto luogo il giorno prima, qualche articolo-salvagente che
scongiuri il rischio di trovarsi a ingrandire a dismisura le immagini per ovviare a eccessi di bianco nelle pagine. La redazione grafica e la redazione multimediale arrivano con strumenti bellissimi da vedere: Mac candidi o metallizzati, tavolette grafiche, telecamere e altro. E musica. Il tutto funziona a ondate. Ci sono momenti in cui si è in tre, altri in cui i tavoli non bastano. Molti di noi hanno referenti nei laboratori da cui arrivano preziose segnalazioni. I plastici galleggianti, mica vorremmo bucare il varo dei plastici galleggianti? Ci sarebbe anche un’altra aula a disposizione, ma è stata destinata alle interviste e alla scrittura di pezzi che richiedono una concentrazione non sempre possibile in mezzo a tutto questo digitare, scegliere immagini, decidere quali font, quale corpo, quale stile. La griglia grafica è pronta. Cambia ogni numero, avrete notato. Enrico Camplani, il nostro Art Director le ha selezionate tra le migliori preparate dagli studenti del suo corso dell’anno passato. Sono le medesime del «Laboratorio 07» il che spesso ingenera confusioni tra i numeri dell’anno passato e quello attuale. Si farà di meglio l’anno prossimo, a meno di non decidere che la varietà delle te-
state sia ormai diventato un connotato significativo, un elemento di riconoscibilità (o anche no). Domande ricorrenti: ci sono i testi? Ci sono le immagini? I lavori, i disegni dei ragazzi sono necessari, e qualche foto evocativa. Si torna fuori e in diretta si cerca di procurare gli scatti mancanti. Per fortuna è tutto abbastanza a portata di mano, di macchina fotografica. Dopo un’iniziale incertezza i differenti talenti si sono segnalati e hanno trovato una peculiare via di espressione (le foto, il foreign office, le interviste in forma di racconto, i botta-e-risposta, i ritratti, le vignette, ecc.). Per le tre del pomeriggio deve essere tutto pronto e invece sono le cinque, anche le cinque e mezza. E intanto si prepara il timone del giorno dopo, e se non avete niente da fare ci sono le interviste ai ragazzi da completare, e cerchiamo di annusare l’aria che tira, e se qualche polemica monta. Prima possibile, ma sempre in ritardo sul programma, mentre sul blog vengono “postate” le ultime immagini e i filmati e si moltiplicano i link e i contributi, si stampano le prime bozze. Penna rossa, penna magenta e si spera che si tratti di cose da poco (quasi sempre si tratta di cose da poco, per-
ché le redazioni sono piuttosto scrupolose). Quello che alle volte sfugge è l’immensamente grande. Le sviste clamorose vengono evidenziate solo dalla lettura a mente riposata del giornale fresco di stampa. Vengono squarciati i cellophane, si diffonde un buon odore di inchiostro tipografico e ogni tanto un urlo di sgomento rompe il brusio della redazione: questa frase compare due volte! ma io l’avevo tagliata, che succede? perché le colonne non erano incatenate? questa foto non è quella del professore! questa intervista è ripetuta nella stessa pagina! Ce ne è sempre uno o anche due di questi svarioni, ma gli studenti (nostri redattori e impaginatori) sono carichi di entusiasmo e tutto sommato anche di senso della responsabilità. I numeri vengono chiusi dai “ragazzi della grafica” (grafic designer, li abbiamo definiti nel Lessico) che mettono a punto le ultime questioni, che ricompongono una doppia pagina perché è un filo non equilibrata, che “fanno i pacchetti”, ovvero il re-link delle immagini ai file definitivi da stampare in pdf. La prima notte − eravamo ancora in fase di rodaggio − dato il ritardo abbiamo dovuto migrare in un’aula senza sistema di allarme nel Magazzi-
no 7 al piano terra. Il caldo era infernale, la notte opaca e senza luna. Uno sciame di moscerini, ma con molti infiltrati (zanzare tigre probabilmente), ha invaso lo spazio dell’aula fino a rendere difficoltosa la lettura degli schermi dei computer. Era tutto un farsi vento, un colpirsi a caso nel tentativo di evitare le punture degli insetti ma la scena, degna di Dario Argento, è stata peggiorata dall’irruzione attraverso i portelloni spalancati di un battaglione di scarafaggi. La chiusura del numero ha così subito una radicale accelerazione. È capitato anche che i pdf da inviare alla tipografia (le splendide e sempre puntuali Grafiche veneziane) siano stati lanciati da un portatile appoggiato sulle ginocchia di Luca Caratozzolo (ormai non siamo solo ombre, ci avete localizzato, speriamo) seduto su un new jersey di cemento della banchina davanti ai magazzini Ligabue. E ogni giorno abbiamo ricominciato quasi dispiaciuti che ogni numero uscito sia un numero in meno da fare, ché, compreso il numero zero, sono quindici in tutto e domani si chiude. M. B. & M. M.
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La condivisione dei saperi Intervista al Rettore Carlo Magnani I workshop sono nati ormai sette anni fa, come è unanimemente riconosciuto, da una sua felice intuizione. Le motivazioni, la spinta propulsiva che stavano dietro alla necessità di costruire un progetto didattico così rilevante, che impegna così tante risorse, hanno ancora attualità, validità? È possibile tracciare un bilancio di questa esperienza? La questione workshop è nata dall’idea di interpretare le opportunità insite nella legge di riforma degli atenei italiani dell’epoca, il cosiddetto nuovissimo ordinamento. Ci si è posti un quesito: se tutti gli ordinamenti che si sono succeduti nell’università italiana dovessero ridursi a essere il mezzo per traghettare semplicemente quello che c’era prima all’interno di una nuova architettura istituzionale, oppure se nelle leggi di riforma fossero contenute le opportunità di riformare, appunto, gli atenei e i loro progetti di formazione. Abbiamo cercato di cogliere queste occasioni. Una delle obiezioni che venivano fatte agli atenei italiani era di avere trasformato l’università in una sorta di grande liceo. I ragazzi non si conoscevano gli uni con gli altri, spesso anche i docenti non si conoscevano gli uni con gli altri, ne derivava un’idea di provincializzazione, di avvilimento dell’idea di università come luogo di formazione superiore. I workshop si radicano all’interno di questo tipo di riflessione e colgono l’idea alla base della riforma, cioè di passare dall’insegnamento all’apprendimento; quindi il tentativo di rimettere lo studente al centro del progetto, di cercare di capirne i problemi. Che riguardavano ad esempio i rapporti con gli altri studenti e lo scambio delle conoscenze tra i vari anni di corso. Un elemento significativo ci è sembrato quello di inserire studenti di anni diversi in un unico processo formativo con caratteristiche innovative; il corpo docente, quindi, è stato composto non più solo da accademici in senso stretto ma siamo stati animati dalla volontà di aprire anche al mondo professionale, a docenti interni all’ateneo ma anche esterni (accademici o meno) e, ancora, non solo italiani. Per riassumere: un corpo docente di provenienza eterogenea, studenti mescolati tra i tre anni e liberi di optare per un corso in luogo di un altro, un periodo di formazione concentrato di tre settimane dove il centro della questione fosse la capacità di espressione da un punto di vista figurativo e formale. Cosa che nel panorama italiano sembrava rappresentare una forma di innovazione significativa. I workshop non gli abbiamo inventati noi, anche in Italia ce n’erano tanti, ma spesso erano opzionali, a pagamento, in qualche modo costituivano una forma elitaria di apprendimento. Noi sia-
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mo riusciti a proporre un’offerta didattica strutturata per tutti gli studenti, senza chiedere denaro in più. Credo che anche questo rappresenti un valore. Tutto ciò però non è un fenomeno isolato, nel senso che va visto nell’insieme dell’ordinamento del triennio dove, al primo semestre, vi erano i laboratori istituzionali, nei quali veniva evocata la compresenza di più saperi. Questo avveniva in maniera mediata, nel senso che ogni corso aveva la sua autonomia, mentre il progetto di architettura era identificato come il luogo dove i diversi saperi dovevano convergere. Nel secondo semestre i corsi erano tendenzialmente monografici, il terzo periodo formativo era quello dei workshop. Il disegno complessivo si configura come un processo di formazione in cui gli studenti nel corso di tre anni portavano a compimento almeno sei progetti di architettura, più altri laboratori tematici (come restauro, urbanistica). L’attività di progetto è stata ricollocata al centro dell’apprendimento; significativo è stato anche il fatto di formalizzare il conseguimento della laurea triennale con la costruzione di un portfolio. Un’altra delle obiezioni rivolte agli studenti era di affacciarsi al mondo della professione, italiano o internazionale, presentando solo un titolo di studio. In tutto il mondo anglosassone il titolo di studio ha un valore relativo, tutti chiedono “che cosa hai fatto? che cosa sai fare?” e domandano un abstract delle esperienze formative e lavorative. L’esercizio di costruzione di un portfolio non è una procedura burocratica, al contrario è un esercizio che può essere molto interessante e intelligente, che può servire allo studente per capire cosa ha fatto, se e in che modo le sue diverse esperienze si siano integrate. Il tutto dovrebbe servire anche ai docenti per capire che cosa loro hanno fatto, e quindi prendere coscienza di eventuali criticità. Il senso della domanda che segue non mira a ridurre i laboratori estivi a un corso di avviamento alla professione, ma i tempi di un esame di fatto non sono i tempi di un progetto. Lei, che come architetto realizza progetti e partecipa a concorsi, lo sa bene. Nei ritmi di un corso strutturato c’è anche altro, lo spazio per la didattica, la riflessione. Il tempo compresso del workshop è anche un contributo per avvicinare gli studenti a realtà diverse da quella della scuola? Sicuramente sì. Io credo che l’apprendimento, iniziando dal primo anno, sia un processo graduale di avvicinamento alle problematiche. Vi è una scalarità nella complessità, non a caso i laboratori tradizionali sono propedeutici l’uno all’altro mentre i workshop sono un’esperienza più libera. Sicuramente c’è una componente “tempo” che co-
stringe lo studente a confrontarsi subito con il progetto, il dover fare e dover concludere un’esperienza in un giorno determinato è un esercizio mentale e pratico molto importante perché il mondo della professione, dei concorsi è fatto così. Ciò non toglie che vi sia una parte dell’apprendimento più lenta, cumulativa e fatta di stratificazioni che fa parte della carriera complessiva di uno studente. Anche in questo caso, come più volte detto, il processo formativo non può essere ricondotto solo alla presenza fisica all’interno delle aule. Per questo abbiamo sostenuto l’esperienza dei tirocini, sia al triennio che al biennio, l’esperienza dei viaggi di studio, per andare a vedere le cose; viaggiare insieme permette il realizzarsi di forme di solidarietà, cementa il gruppo, sono tutti elementi che contribuiscono a generare un processo formativo articolato. Ne fanno parte anche le conferenze, le mostre, ecc. La forma del workshop può essere considerata in nuce un modo per costruire non solo professionalità ma anche capacità di ascolto e confronto e che questo possa preparare una generazione alla riflessione sui temi di architettura? Possa preparare nei fatti una nuova comunità scientifica? C’è anche questo aspetto. Una delle questioni centrali, al di là dei differenti dibattiti sulla crisi dell’architettura in Italia, è il venir meno dell’idea che si sia una comunità scientifica che cerca. Idea che dovrebbe rappresentare il cardine dell’essere dentro l’università. Oggi, rispetto ai problemi del mondo che ci circonda, essere una comunità scientifica che cerca significa ammettere la parzialità del proprio sapere soggettivo. Nel caso del progetto di architettura è assolutamente evi-
dente. Qualsiasi lavoro professionale è confronto tra saperi, basti pensare che il 35-40% del budget di un progetto complesso è dedicato alla parte impiantistica; se noi riflettiamo su temi quali il risparmio energetico risulta chiaro come il rapporto tra i diversi saperi risulti fondamentale. Sicuramente vi è un problema di ricostruzione di una comunità scientifica che sia differente da quella precedente, che sia più adeguata e capace di stare in un mondo in cui l’evoluzione delle conoscenze è molto più rapida. A questo si può obiettare che l’architettura si occupa sempre degli stessi problemi, però il modo con cui i temi ricorrenti vengono affrontati fa parte dell’evoluzione complessiva della società. Si annunciano tagli ai fondi per l’università per alcune centinaia di milioni di euro, programmati da qui a cinque anni. Anche senza voler entrare nei dettagli della questione la domanda rimane: è possibile progettare a lungo termine la formazione di una nuova comunità scientifica in queste condizioni? La risposta è teoricamente fin troppo facile. Il sistema universitario italiano è al di sotto delle risorse che aveva nel 2001 di un miliardo di euro e nei prossimi cinque anni, se il decreto finanziario passerà così com’è, si prevede la sottrazione agli atenei di un ulteriore miliardo e mezzo di euro. Probabilmente il sistema intero entrerà in una fase di collasso. E questa è la parte semplice della risposta. Il problema più consistente sta nel capire ciò che significa tutto questo, dato che l’Italia, nella graduatoria dei paesi dell’OCSE, occupa già ora uno degli ultimi posti per quanto riguarda l’investimento per la ricerca e l’istruzione superiore. Un altro elemento è la decisione dell’Unione europea di fare del nostro continente il luogo della
ricerca, immaginando che questa sia la vocazione che abbiamo nel mondo. Mettere insieme questi dati è complicato. Sembra che vi sia una scelta netta, sembra che si dica che l’Italia è solo il paese del turismo e che si rinunci a qualsiasi idea di ricerca, di formazione di classi dirigenti aggiornate. Sembra una scelta scellerata, incomprensibile. E un workshop di Carlo Magnani? Smettendo un istante i panni del rettore, e pensando a quello che si è detto e visto in questi giorni, alla molteplicità di contributi anche esterni alla disciplina architettonica... È una tentazione che ho avuto più volte, ma mi sono sempre fermato perché già quando facevo il Preside i compiti organizzativi erano talmente tanti che non avrei avuto modo di condurre bene il laboratorio. Adesso idem. Mi ostino a insegnare, perché è quello che mi piace fare, e ho sempre pensato che la parte migliore degli atenei siano gli studenti. Credo che insegnare sia un lavoro bellissimo che, per quello che riesco, faccio con grande passione. Workshop vuole dire tantissime cose che funzionano molto bene, e ovviamente alcuni problemi. Capita che architetti di grande passione e competenza nel momento in cui vengono cooptati nella forma workshop di tre settimane (e attirano su di sé l’attenzione e i desiderata degli studenti che accorrono a iscriversi ai loro corsi) improvvisamente vengano a mancare. Di fatto demandano a loro collaboratori, senza dubbio preparati, l’onere della fattiva conduzione del laboratorio. Da questo punto di vista c’è forse la necessità di chiarire le questioni, i ruoli. Il problema naturalmente non nasce oggi. Anche io da studente ho seguito corsi in cui i docenti non presenziavano a tutte le lezioni.
Credo che questo atteggiamento vada stigmatizzato: se si assume un impegno occorre portarlo a termine: occorre essere presenti, organizzarsi in base alle proprie abitudini, scadenze professionali, al numero dei collaboratori. C’è una questione di fondo: i workshop funzionano se vi è la compresenza dei docenti e degli studenti. Questo per riuscire a costruire un clima diverso. Il problema della compresenza è fondamentale; se non è così viene meno il clima, e io credo che questo sia una componente strutturale dell’innovazione. O l’accademia, l’università riesce a essere il luogo del confronto e del dibattito, aperto, franco, sereno, oppure continuerà sempre a ospitare criticità insondabili e indicibili. Detto questo penso che riguardi certamente i docenti e molto anche gli studenti, perché credo che le criticità vadano segnalate, in maniera trasparente, e che tutto ciò contribuisca alla costruzione di un’atmosfera, di uno stile, che vanno sostenuti e continuamente alimentati. Altrimenti è chiaro che prevalgono le abitudini di carattere burocratico. Va anche detto che molti dei docenti stranieri che gli anni scorsi avevano tenuto dei workhop, al di là dell’entusiasmo per aver partecipato all’iniziativa, mi dicevano «credevamo di poter venire in vacanza a Venezia e invece non riusciamo a uscire dalle sedi dell’Iuav nemmeno alla sera», ed erano sfiniti al termine delle tre settimane. Alcuni hanno partecipato con grande entusiasmo all’attività, tanto è vero che sono tornati più di una volta; a quelli che, invece, si sono resi protagonisti di casi clamorosi di assenza non sono stati rinnovati i contratti. Massimiliano Botti
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Architettura a zero cubatura Un convegno per parlare di un libro e della struttura delle tesi di laurea Ieri, 16 luglio, di mattina, nell’Aula magna dei Tolentini, con un ritardo di più di mezz’ora dovuto alla lentezza nell’afflusso del pubblico (l’orario indicato nei manifesti pare essere un’indicazione di massima), si è tenuta la presentazione del libro Architettura zero cubatura, curato da Aldo Aymonino e Gabriele Cavazzano: una selezionata rassegna delle tesi di laurea svolte nell’ambito del laboratorio tenuto tra gli altri dall’architetto romano. L’incontro rappresentava anche lo spunto per una discussione sulle modalità di svolgimento delle tesi nel passaggio tra il vecchio ordinamento delle facoltà e quello attuale. Gli interventi degli autori, del Rettore Carlo Magnani, del Preside Giancarlo Carnevale, di Alberto Cecchetto, di Francesco Garofalo hanno affrontato, con le evidenti diversità di approccio, le criticità insite nella definizione della forma-tesi (due su tutte: «Oc-
corre che le tesi siano tali, che sostengano appunto una tesi e non siano l’ultimo di una serie di esercizi progettuali, magari solo più grande e impegnativo; occorre che le tesi siano parte di una ricerca con marcati aspetti multidisciplinari»). Uno degli obiettivi dichiarati degli autori del testo, la condivisione delle ricerche e dei saperi all’interno dell’università intesa come comunità scientifica unitaria, è stato rivendicato con orgoglio da Aldo Aymonino. Alcune perplessità sono state avanzate da Francesco Garofalo, il curatore del Padiglione Italia alla prossima Biennale di Architettura di Venezia, in merito al tema attorno al quale si è svolto il lavoro pubblicato. Un’architettura non volumetrica, che ridisegna gli spazi tra gli edifici esistenti, è un efficace tema di analisi se non viene “assolutizzato”, trasformato cioè nel tema per l’architettura prossima ventura. Così come la rappresentazione esclusivamen-
te affidata ai rendering, metodo che permette a un progetto alla scala del paesaggio di “funzionare” visivamente, ma che entra in crisi nel momento in cui arriva al disegno dell’oggetto, dei manufatti spesso di dimensioni contenute e che costituiscono, sommati, la totalità del progetto. Rimane un dubbio, osservando oggetti interessanti e frutto di progetti ben guidati insinuarsi sotto tratti di viadotto o farsi largo tra interstizi urbani: che l’architettura senza cubatura (termine quest’ultimo che normalmente non viene mai accostato ad “architettura”) rappresenti una sorta di ultima occasione prima di arrendersi all’evidenza che le logiche di governo della città rimangono demandate ad altri ambiti: a strumenti urbanistici farraginosi, ad un uso speculativo dei suoli, a necessità il cui soddisfacimento è foriero di un subitaneo consenso. Massimiliano Botti
mio lavoro, poiché ritengo, senza falsa modestia, di avere una certa capacità organizzativa. È stressante, si litiga con tutti, anche con le persone a cui si è maggiormente legati, come il Preside, con il quale lavoro da dieci anni ormai. Qualche aneddoto particolare accaduto durante l’organizzazione? Assurdo. Per ricavare un po’ di fondi per questo progetto mi sono dovuta sorbire un’ora e mezza di predica su come si gestisce una facoltà. È stato estenuante. In un’altra occasione mi hanno persino contattato delle ditte per offrirmi dei contributi economici che non potevamo più accettare. Li ho già “prenotati” per il prossimo anno. E poi, per esempio, un’università
straniera che ci chiama con largo anticipo per partecipare a questi laboratori, e poi il professore si dimostra alquanto latitante! È normale comunque che alcune cose si complichino per strada. La cosa più carina che ti sia capitata? Il fatto di sentire alcuni docenti, che rispondono “ah Esther, speravo che mi chiamassi anche quest’anno!”, oppure quando chiamano il venerdì prima dell’inizio per chiederti se gli trovi una casa…come se avessi la bacchetta magica! È bello, perché anche se sei stanco o stressato poi vai in Campo S. Margherita, ti prendi uno spritz e dici “Ma si, va bene così, dai..” Elena Zadra Mariaelena De Dominici
Chi è Esther? Intervista ad Esther Giani, coordinatrice generale dei workshop In cosa consiste il tuo lavoro? Sono una cosiddetta ricercatrice a contratto, mi occupo in particolare di aree industriali dismesse. Collaboro alla didattica con il Preside Carnevale, ho un incarico per un corso di Caratteri tipologici degli edifici ed allo stesso tempo do una mano in quello in cui posso essere utile. Riesci con facilità a gestire tutto questo? Ai workshop mi sto dedicando 24 ore su 24, cinque giorni a settimana e talvolta qualche ora nei week-end. Per quanto riguarda altre attività universitarie sono corresponsabile con il Preside di alcune convenzioni che si occupano di progetti nell’area industriale veneziana. A questi lavorano anche
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studenti che possono così svolgere una esperienza sull’esistente. Si opera su un piano sia teorico che sperimentale riuscendo ad avere, nel contatto con i giovani, nuovi spunti e maggiori verifiche. Si può pertanto dire che svolgo un lavoro di ricerca che ha ricadute sia in ambito didattico sia scientifico e progettuale. Sappiamo che vieni da Roma… Posso dire di essere apolide. Sono nata a Bologna, ma i miei genitori sono pugliesi e lombardi, ho vissuto anche a Milano e per un breve periodo in Africa. Ho frequentato il liceo a Roma: una delle tappe più importanti della mia vita. Sono a Venezia per via dell’università, dove già studiavano i miei fratelli, ma sono stata anche molto
in giro, un anno e mezzo a Berlino e per un lungo periodo a Rotterdam. A quale città quindi appartieni di più? Mi sento più legata a Venezia, ma anche a Roma e Milano. Berlino è l’unica città estera in cui forse vivrei. Ogni città è un piccolo tassello della mia vita legato al mio cuore. Diciamo che in realtà il mio posto ideale è il treno. Com’è avere il tuo ruolo nel contesto dei workshop? Potete sentire il telefono che squilla ogni minuto! Ho iniziato a lavorare a questa edizione già in febbraio, contattando professori italiani e stranieri, e possibili partner: quest’anno i fondi provengono anche dal mondo delle impre-
se (stampe, plottaggi e anche lo stesso giornale sono finanziati da contributi esterni). Purtroppo ci si deve adattare alle contingenze politico-economiche del momento. Devo dire che quando i workshop sono iniziati il 30 giugno ho tirato un sospiro di sollievo, mi sono affacciata alla porta dell’auditorium e ho pensato che poteva succedere qualunque cosa, ma la macchina dei workshop, anche per quest’anno, era comunque avviata. Non mancano gli incidenti di percorso… Faccio un sacco di cose, anche che non mi competono direttamente, pensate che qualcuno è addirittura convinto che io sia un tecnico amministrativo! Non mi sento sminuita, anzi! Anche se non è il
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Ecco il momento che tutti aspettavano (o almeno lo speriamo): la presentazione di noi studenti del laboratorio che si è occupato della redazione di questo quotidiano, sotto la guida (a volte oggettivamente maniacale) di Marina Montuori e Massimiliano Botti. Avrete così modo di conoscere, senza però poterli bastonare, coloro che vi hanno seguito in queste settimane; che vi hanno stressato con interviste, domande e foto imbarazzanti. Per questo, e anche per via di un ego smisurato che ci domina, descriveremo le personalità dei nostri reporter e fotografi. Roberta Boncompagni (Rob). Terzo anno. Anche se porta spesso collane con teschi, ha un’indole dolce dolce! Non la si è vista molto la scorsa settimana infatti questa simpatica ragazzina, nonostante l’aspetto da “bambinetta” allegro e sbarazzino, si laureerà a breve! E pertanto ha dovuto sostenere gli ultimi esami che le permetteranno di realizzare il suo obiettivo. La “baby giornalista” svolge il suo lavoro con determinazione e efficienza, punzecchiando ogni tanto i “veri” giovani della redazione. Dario Breggiè (Dario ). Secondo anno. Dario dov’è? Questa è la classica domanda che si fa la redazione nei momenti di sconforto in cui il troppo lavoro ci assale o non c’è nessuno che riesca ad andare a quella conferenza o a intervistare quel professore. Nonostante siano trascorse già tre settimane di lavoro comune, gran parte della redazione si chiede come si riesca ad avere sempre qualcosa da fare nel momento in cui i giornali devono essere consegnati puntualmente alle varie aule. Il nostro fotografo ufficiale riesce a scampare il lavoro di manovalanza che tocca sempre a quelli del primo anno! Mariaelena De Dominici (Elena). Secondo anno. Una delle quattro Elene che affollano la nostra redazione. La rossa dello Iuav riesce a stupire con articoli di classe e foto di livello. Indubbiamente di poche parole, ama i gatti a tal punto da miagolare mentre scrive un articolo per la redazione. Redigere il giornale in sua compagnia diviene difficile quando si ha fame e il delirio sopraggiunge. Instancabile scrittrice notturna, può restare ore a pensare al titolo migliore per un articolo, può essere che ti fornisca pure un sottotitolo.. Letizia Ferrari (Leti). Nata in quel di Bergamo Bassa, si ritrova in questa facoltà per poter conseguire la laurea specialistica in Architettura per la Conservazione dopo essersi laureata a Milano (è iscritta al primo anno). Uno dei pilastri della redazione, riceve complimenti da chiunque, dai docenti, da noi, dalla redazione grafica! L’aria un po’ timida nasconde la belva assetata di informazioni che è in realtà. L’unica persona che, se la trovi in campo Santa Margherita, ti ordina di andare a fare delle foto. Con il suo aspetto tranquillo e raffinato non manca di ribadire la sua anzianità non avendo nessun timore degli anni che passano. Li porta bene comunque! Francesco Leoni (Leo). Il Leone del gruppo. Ragazzo del primo anno, ma con la professionalità di un veterano, che si abbandona poi alla scelleratezza di serate in Campo Santa Margherita dove, (fidatevi) non si lascia scappare occasione per festeggiare qualsiasi cosa. Ma è anche un ottimo vignettista che non si fa mancare la battuta con quel “buffo” accento modenese, e un personaggio che contesta a oltranza se un suo lavoro viene modificato! (non ci sono riferimenti a fatti o avvenimenti realmente accaduti, l’autore declina ogni responsabilità).
Caterina Mendolicchio (Kate). Terzo anno. Arrivata dalla movimentata Rimini in questa città troppo tranquilla per lei, si trova a dover conseguire la prima laurea della sua vita (forse), fra pochi esami. Quest’anno, però, ha preferito bighellonare con una machina fotografica tentando di rubare qualche scatto. L’anima (nera) di questa redazione, se qualcosa non va chiedete pure a lei, vi darà la risposta che cercate! Dopo un gran giro di parole vi dirà semplicemente che non sa! (“non possiedo mica il dono dell’obliquità!”) Nicoletta Petralla (Nicolé). Secondo anno. La riccioluta barese si diletta di fotografie strane, che forse solo lei riesce a comprendere! Scrive articoli sempre con precisione e stile fluente, fiondandosi in sopralluoghi impegnativi senza l’aiuto di nessuno. Se la cosa non si prospetta liscia come l’olio, stai sicuro che lei vorrà essere presente! La si può riassumere in una parola: factotum! Anche lei, come gran parte della redazione, la si può trovare spessissimo in campo Santa Margherita, (che ci volete fare, ci piace divertirci!) nonostante i buoni propositi ormai troppo ripetuti come «Stasera devo studiare ragazzi!». Giovanni Righetto (il Giò). Giò è l’allegro burlone della truppa, lo si sente di tanto in tanto borbottare e lamentarsi, ma alla fine porta sempre a termine i compiti assegnatigli, e anche bene; è il più “grafico” dei ragazzi Clasa in redazione, o almeno quello con le t-shirt più colorate; lo potrete riconoscere dal suo bel ciuffo ribelle e castano sempre in forma. Laura Scala (Laura).Terzo anno. Bruna femme fatale in incognito, Laura si muove per l’Iuav con il passo leggero di una gazzella. D’accordo, è una ragazza molto silenziosa! Ma basta sfogliare qualche pagina del nostro giornale per accorgersi di come sia stata sempre nel posto giusto al momento giusto. Altro membro della squadra alla fine della laurea triennale, anche lei h a dovuto dividersi tra «Workshop 08» ed ultimi esami da sostenere. Un fatto è innegabile: il suo contributo in redazione non è mai mancato! Luca Stefanet (Luca). La truppa del primo anno si conclude con lui. Con il suo modo di fare goliardico riesce a intervistare un numero inimmaginabile di studenti (soprattutto studentesse). Ha solo un piccolo problema: non riesce a stare fermo! Gira per l’aula controllando tutto e tutti e sbeffeggiando i componenti della redazione. La rapidità con cui svolge il suo lavoro è impressionante, sarà forse perché deve scappare ogni volta dalla sua nuova ragazza? Elena Stellin (Australian Girl). Secondo anno. La nostra corrispondente estera! Riesce a intervistare docenti e studenti di ogni etnia possibile, subendo persino qualche presa in giro ogni tanto. Con il suo fare da prima donna riesce però a farsi voler bene nonostante ami punzecchiare tutti. Diligente nel suo lavoro è un altro punto fermo del gruppo su cui si riesce a fare sempre affidamento. È la nostra ragazza immagine e potrebbe diventare anche la vostra. Basta chiamare al...pensavate che vi dessi il suo numero, eh?! Elena Verga (L’Altleta). Secondo anno. Grande camminatrice, è l a giornalista “dell’ultimo momento”. Se c’è un’intervista improvvisa, delle foto da fare al professore di turno, o la cartuccia della stampante da comprare all’altro capo di Venezia, niente panico: lei corre e arriva in un attimo. Sarà che si tratta di una velocista! Pochi carburanti essenziali (cocacola e tramezzini) e una ferma determinazione. Solo, non parlatele di fumo, o di alcool. Non siamo certi di quali potrebbero essere le sue reazioni! Elena Zadra (La Gemella). Secondo anno. Gemella di Chiara Zadra, che frequenta Ca’ Foscari ma spesso ci ha dato una mano qui al giornale: nessuno ha ancora ben capito quale delle due sia lei. Si somigliano a tal punto che potrebbero fare l’una gli esami dell’altra, e i docenti non se ne accorgerebbero. Artista, pittrice, disegnatrice e fumettista, Elena si cimenta con successo anche in interviste e relazioni di conferenze. Le macedonie che sua mamma compra sono davvero buone.
ci si sia un po' “allargati”, ma l'aria frizzante del mondo del giornalismo ha contagiato chi per tre settimane ha scritto, fotografato, curato la grafica, costruito il blog. Siate comprensivi ora che vedete, fermate sulla carta, le nostre facce. M. M. & E. C.
Marina Montuori ha svolto attività didattica e di ricerca prima all’Università di Napoli e successivamente all’Iuav di Venezia. È attualmente professore straordinario di Composizione architettonica presso la Facoltà di Ingegneria dell’Università di Brescia. Sviluppa da tempo ricerche teoriche ed applicate sui problemi legati alla trasmissione della conoscenza nel campo dell’architettura. L’attività progettuale è documentata in due monografie: G. Carnevale, M. Montuori, Dieci progetti illustrati, Roma 1997; G. Carnevale, M. Montuori, Occasioni di architettura, Roma 2000.
Enrico Camplani con Gianluigi Pescolderung dà vita allo studio Tapiro (1979) la cui attività si è rivolta al campo della progettazione grafica nei suoi diversi aspetti: dall’immagine di corporate identity ai sistemi segnaletici, dall’exhibition design alla grafica editoriale al manifesto. Insegnano entrambi all’Iuav nella Facoltà di Design e Arti e nella Facoltà di Architettura. La monografia pubblicata da Electa Tapiro graphic design raccoglie il loro lavoro. Manifesti dello studio fanno parte delle collezioni permanenti dell’Heritage Museum di Hong Kong e dellla Bibliothèque Nationale de France.
Tutti noi: docenti
In questi giorni abbiamo parlato, con grande passione e con tutta la attenzione che abbiamo potuto profondere, dei ventinove workshop progettuali che hanno animato le sedi dell'Iuav. Ci perdonerete se nel penultimo numero dedichiamo un po' di spazio a noi. In realtà può sorgere il dubbio che
Tutti noi: giornalisti Scusate il ritardo
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Nella fattispecie la redazione di «Laboratorio08» si configura come una stanza in cui studenti e docenti si impegnano a fornire un motivo di incontro per i partecipanti dei workshop... Dei 30 WS il nostro è l’unico che mette insieme studenti di formazione e aspirazioni (quasi sempre e speriamo) diverse, ovvero studenti della fAR e della fDA. Ci auguriamo che il quotidiano dei workshop, una sperimentazione partita l’anno scorso, possa proseguire nel suo compito di trait d’union tra i diversi laboratori. Dopo l’estenuante lavoro di recupero dei contenuti, articoli, foto e quant’altro... redatti dai futuri dottori in architettura, arrivano i grafici, anzi no, i graphic designer, coloro che hanno il compito di chiudere il giornale, coloro che sono gli ultimi ad andar via: rimangono ben oltre le 19 (con i responsabili della redazione) quando oramai non c’è più nessuno, a fare il lavoro per cui sono stati selezionati, altrimenti il giornale il giorno dopo non c’è! Quella della redazione è l’unica aula che chiude più tardi, proprio per dare loro il tempo di spedire il fantomatico file pdf in tipografia; sempre gli stessi “che arrivano tranquilli nel frettoloso mondo della redazione”. Forse non andranno in giro sotto il sole cocente per conferenze e rinfreschi a recuperare materiale, ma lavorano davanti al computer e fanno sì che l’indomani tutti abbiano qualcosa da leggere. Sono coloro che hanno scelto l’architettura della pagina, e non degli edifici... questione di proporzioni. E chi sono questi poveri tapiri? I loro nomi sono nel colophon sotto la voce redazione grafica, quasi sempre in corsivo, o italic, o c.vo. Li ripetiamo qui, annotando tra parentesi tonde il nome con cui veramente li conosciamo. Irene (a.k.a. la prof. o per bacco) Bacchi Benito (a.k.a. conte Addolorata) Condemi de Felice Elvira (a.k.a. Sconsolata) del Monaco Claudia (a.k.a. l’animatrice) De Angelis Maria (a.k.a. sto in ritardo) Polverino Gabriele (a.k.a. Gennarino) Rivoli Ma i sei grafici sarebbero persi senza la direzione dei due coordinatori redazionali, Luca Caratozzolo ed Elisa Pasqual. Il papà e la mamma di questa prole scalmanata. Loro li incoraggiano, consigliano e a volte rimproverano. Scandiscono i ritmi della giornata e quando la crisi è in agguato arriva lui, l’AD, Enrico Camplani, che con indiscussa puntualità, varca la porta della redazione tutti i giorni alla solita ora, pronto a far svanire eventuali problemi con la sua pompetta magica.
Quotidiano: è un giornale periodico con frequenza di pubblicazione giornaliera.
Tutti noi: grafici
Coordinamento multimediale Massimiliano Ciammaichella Ketty Brocca
Direttore artistico Enrico Camplani Coordinamento redazionale Luca Caratozzolo Elisa Pasqual
Direttore scientifico Marina Montuori Coordinamento di redazione Massimiliano Botti
Redazione «Laboratorio 08»
Redazione web video studenti fda Siamo i responsabili della sezione multimediale del workshop30, ci cimentiamo in: interviste video, gestione del blog che sappiamo essere molto frequentato ma privo di commenti. Se non avete ancora capito chi siamo ci potete trovare nella quarta di copertina del numero 6, mancano all’appello Ketty Brocca e Enrico Rudello, troppo inibiti dalla fotocamera digitale per essere ritratti. Siamo quelli che gironzolano per i corridoi con il cavalletto in mano, che entrano furtivi nelle aule per richiedere interviste e fotografare la vita degli studenti esauriti dal troppo lavoro, quelli che fanno numero alle conferenze sui “Nuovi ...”, gli stessi che raccolgono inediti materiali e li riversano su supporti digitali, che mettono in imbarazzo, che provocano, ma sempre con rispetto. Siamo quelli che arrivano presto la mattina per montare le interviste, pubblicare l’uscita del giornale, che corrono alle conferenze poco frequentate per estrapolarne i contenuti ed informare gli assenti. Ci coordina Massimiliano Ciammaichella e Ketty Brocca, che vorremmo ringraziare per averci guidato in questa faticosa ma produttiva esperienza. Eccoci: - Ambra(nata) Arcangeli: nata a Bordighera (IM) nel 1982, dolce e simpatica dal temperamento artistico molto spiccato si diverte a dipingere i corpi degli studenti con arabeschi tracciati sulla pelle, attualmente sta svolgendo una tesi di laurea specialistica al clasVEM, con il fantastico relatore Massimiliano Ciammaichella che la rimprovera per i continui ritardi… -Enrico (u scuggnizz) Ausiello: nasce a torre del Greco (NA) nel 1983, alto poco più di un metro pensava di praticare la pallacanestro a livelli agonistici, più tardi la passione per il Cartoon e le spiccate doti di Graphic Designer, unite alla storia d’amore con Elvira Del Monaco, lo hanno fatto crescere, …, di 40 cm, anche lui è studente clasVEM. -Enrico (ossia) Rudello: nasce a Piove di Sacco (PD) nel 1981, con un ironia da scout è convinto che ogni donna gli cadrà ai piedi, ma a cadere è sempre lui. Voleva fare l’architetto, dio ce ne guardi! Ha deciso di ripiegare nelle Arti visive, studia al clasAV e sta per laurearsi con Massimiliano Ciammaichella con una tesi sull’ Interaction design.
Tutti noi: blogger
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giovedì 17 luglio
Per un pragmatica immaginazione Per il cinema e per la televisione non esiste quasi più il ruolo del costumista. Ora è semplicemente un assemblatore di abiti sponsorizzati. Mi ricordo un film ambientato a Venezia intitolato La Cosa Buffa (tratto da un romanzo di Giuseppe Berto) in cui il bravissimo costumista aveva fatto per me e per tutti gli altri attori dei costumi inventati specificatamente per noi che interpretavamo quei determinati personaggi. Invece adesso molto spesso è una lotta perché, anche se io faccio poco cinema e poca televisione, l’attore, con regista e costumista, devono andare a cercare fra gli abiti forniti dagli sponsor quelli che si avvicinano di più all’idea che lui ha del personaggio. Non c’è qualcuno che ha come compito quello di decidere queste cose cercando di capire davvero chi sono il personaggio e l’attore che lo interpreta. Questo vuol dire fare i costumi, non è solo una questione di mettere bene insieme i colori (è anche questo, certo): è lavorare con lo scenografo, con il regista, con l’attore e raccontare il personaggio. In effetti, come considerare l’architettura senza pensare alle persone che la abitano? Come considerare un teatro come una scatola all’interno della quale inserire solo una scenografia e dei costumi... ...senza pensare a “chi ci sta dentro” e soprattutto a cosa si vuole dire? Vedo che i discorsi sono sempre uguali, che questo vale anche per l’architettura. Se io penso all’architettura come fruitrice, alle volte mi capita di dire
«Bello questo edificio! Mi piace, mi si confà dal punto di vista estetico, perché le linee, i vuoti e i pieni... eccetera. Ma assolve al compito per cui è stato fatto? E’ funzionale?» Mi capita molto spesso di frequentare dei luoghi, dei teatri, che spessissimo sono stati pensati da persone che non sanno cosa succede su di un palcoscenico. Potrei raccontare storie “meravigliose” di palcoscenici rivestiti di parquet, su cui poi ti dicono che non puoi piantare i chiodi altrimenti si rovina, o di palcoscenici a cui manca la porta di raccordo con la platea. C’è un teatro, tra l’altro molto bello, che è stato ristrutturato da un architetto il quale ha poi confessato di non essere mai stato a vedere una rappresentazione. Costui ha disegnato il palcoscenico come si immaginava dovesse essere: tutto a stucchi rosa e celeste, con le maschere classiche della commedia e della tragedia. Poi gli è stato detto che quelle cose non si vedranno durante le rappresentazioni, perché è raro che il palcoscenico si usi vuoto (e se lo si usa vuoto lo si vuole tale, non come fosse una finta scenografia). Ecco, quindi ne potrei raccontare tante. Mi capita di vedere dei begli oggetti architettonici che poi però non sono funzionali. Sono stata in un albergo megagalattico pieno di mobili di alto design, il problema è che si trovava in una città del sud Italia dove c’è un caldo inimmaginabile: le finestre, enormi, non avevano nessun tipo di schermatura, se non una quasi inutile tenda interna. Si moriva dal caldo, quindi l’aria condizionata era accesa tutto il giorno. In più l’arredamento e le pareti della hall erano neri,
ragion per cui bisognava tenere costantemente le luci accese per vedere qualcosa o per leggere il giornale. Tutto questo per dire che anche noi che non ci intendiamo di architettura siamo fruitori di questi oggetti e spesso capiamo che sono addirittura contro l’uso che se ne deve fare. Ho buone speranze, perché qui vedo tanti bellissimi giovani che lavorano in maniera molto concreta. Spero che capiscano subito a che cosa serve l’architettura: una casa serve per abitarci, un teatro per farci spettacolo, un ospedale per curare i malati. L’involucro ovviamente è importante, ma la sostanza, ciò che ci sta dentro, è fondamentale. È vero che la forma è anche sostanza, però... Quindi ritiene interessante quello che si sta facendo in questo workshop? Moltissimo. Sono venuta anche gli anni scorsi e ho visto delle cose interessantissime, senza avere purtroppo il tempo di studiarle e capirle. Mi capita di vedere gruppi che lavorano in un luogo che io conosco, e allora mi piace potermi rendere conto concretamente delle caratteristiche del loro intervento. Intanto mi piace che ci siano milleseicento giovani che lavorano, considerando che ci lamentiamo sempre del fatto che i ragazzi non vogliono fare niente. Finalmente vedo delle persone che lavorano, posso rincuorarmi del fatto che esistano ancora e che magari il resto è solo cattiva pubblicità. È come se le persone fossero incasellate per generazioni. Ma in realtà ci sono lavativi in ogni categoria d’età! Qui vedo professori, architetti importanti,
Intervista a Ottavia Piccolo
gente che ha voglia di mettersi in gioco, di non limitarsi a far vedere quanto è brava e quante cose belle ha fatto finora, ma che si mette a disposizione dei giovani, anche “rubando” da loro (come è giusto che sia). Forse mi sembra che la città non se ne occupi abbastanza... una cosa come questa dovrebbe essere un fiore all’occhiello per Venezia. È un meccanismo virtuoso che non solo mostra come funzioni l’università, ma fa anche vedere che ci sono persone che hanno voglia di sperimentare e vedere a quali risultati si può arrivare. Una domanda sulla sua professione… parlando di ambienti stimolanti: lei ha deciso di fare più teatro che cinema. È perché è più stimolante come ambiente? I casi della vita fanno sì che uno diriga i suoi interessi da una parte piuttosto che da un’altra. Le proposte che mi sono arrivate dal cinema e dalla televisione erano poco gratificanti. Lavoro da molti anni, mi sono costruita una mia credibilità ed una mia forza (anche contrattuale) e in teatro posso decidere io che cosa fare, mentre in cinema o tv devo aspettare che mi propongano qualcosa che mi piace, e non mi piace quasi niente. In questa nostra società dell’immagine se non compari in televisione non esisti. La gente spesso crede che io non lavori più. Ogni tanto devo per forza fare un po’ di televisione. Vado ospite, vado a farmi vedere e a dire che sto lavorando in teatro! Redazione Multimediale
Prove per una messa in scena de L’Anello del Nibelungo Nella sede delle Terese della Facoltà di Design e Arti è avvenuto un piccolo miracolo la sera del 2 luglio. Gli dei hanno smesso di cantare e tramite la voce degli attori hanno resa pubblica la loro storia. Un esito sudato dopo tre mesi, per un laboratorio di regia articolato e complesso diretto da Walter Le Moli, al quale hanno preso parte diversi docenti e ospiti illustri (fondamentale il contributo di Goddfried Wagner) che hanno approfondito le componenti dell’invenzione wagneriana, per condurre sei studenti a mettere in scena alcuni estratti del Ring in prosa. Inizialmente il lavoro si è svolto su due piani: quello dello studio dei libretti e quello dell’analisi musicale, con lezioni tenute da Massimo Viazzo, musicista e musicologo esperto di Wagner. In seguito ogni studente ha scelto un frammento del libretto e lo ha riscritto per metterlo in scena. Così il 2 luglio un pubblico numeroso ha potuto godere di Wagner in prosa. Lo spettacolo inizia nel chiostro delle Terese dove Il sogno da
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Hagen diventa incubo (ultimo atto da Il Crepuscolo degli Dei a cura di Mirko Michelon) e prosegue nell’aula Colonne attrezzata dalla Fondazione Teatrodue di Parma. Nello spazio, allestito dai ragazzi con la suUpervisione di Tiziano Santi e Claudio Coloretti, Brunnhilde trascina Siegfried morto (ultimo atto da Il Crepuscolo degli Dei a cura di Mirko Michelon), Siegfrid diventa un giovane balordo che torna da Mime per far risaldare la spada (atto I, scena I da Siegfried a cura di Simone Montella), infine le Ondine provocano un Nibelungo innamorato che successivamente ruberà l’Oro (atto I, scena I da L’oro del Reno a cura di Giorgio Ronchi). Dopo un breve intervallo dei lunghi suoni di sveglia invitano il pubblico a rientrare. Wotan, il dio più potente, riprende l’Oro da Alberich in un’atmosfera quasi beckettiana (atto I, scena IV da L’oro del Reno a cura di Mattia Pagura) e Sigmund ritrova, in una scena di forte tensione, la sorella Sieglinde sposa di Hunding (atto I; atto II da La Valchiria a cura di Barbara Dalla Torre). Nel finale
Brunnhilde si ribella a Wotan per risparmiare Siegmund, ma il destino deve essere compiuto, il potere vince su tutto, anche sull’amore (atto II, scena IV; scena V da La Valchiria a cura di Gigi Scaglione). In scena: musiche ed effetti lontani da Wagner sottolineano la parola come richiede uno spettacolo di prosa coerente e compiuto; gli effetti e i suoni sono stati coordinati da Adriano Castaldini, collaboratore alla didattica del laboratorio. Va sottolineato, inoltre, che tutti gli attori si sono prestati gratuitamente a questa esperienza, dando la possibilità agli studenti di fare un salto di qualità, fondamentale per chi studia in un corso di laurea specialistica in Teatro. Anche per loro questa esperienza è stata importante e la scommessa di fare un lavoro sulla messa in scena del Ring in prosa sembra avere delle ottime possibilità di riuscita. Vanno ricordati poi Francesco Acquaroli, Alessandro Averone, Federica Bognetti, Paola De Crescenzo, Michele De Marchi, Franca Penone, Antonio Tintis, Marco Toloni, Nanni Tormen e
soprattutto Karina Arutyunyan, assistente nel lavoro di Walter Le Moli e docente al ClaVES, che nell’ultima settimana ha affiancato i ragazzi in questo gravoso lavoro. Un ringraziamento va a Luca Fontana, prezioso docente al ClaVES e al ClasT, per la sua disponibilità e per i suoi contributi. Barbara Delle Vedove
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giovedì 17 luglio
Gli angeli del Workshop
Trendsetter
Cookie monster
Intervista a Lara Pilotto Tutti noi percorriamo il corridoio di Santa Marta fino alla fine per un ovvio motivo: le macchinette del caffè! Eppure non tutti sanno che il cotonificio non finisce lì, se ci si spinge più in là troviamo dei luoghi tranquilli e freschi dove nessuno studente assembla il suo plastico o “dialoga” con il suo computer. Ed è in una di queste aule pacifiche che andiamo a incontrare Lara Pilotto, studentessa all’ultimo anno di specialistica, una “quasi-architetto” insomma! È qui durante il workshop per lavorare ma il suo ruolo non è uno solo: nel corso di queste settimane si è prestata a diversi compiti, dalle questioni burocratiche all’accoglienza dei docenti nei primi giorni, fino alla distribuzione del materiale ai corsi che ne hanno fatto richiesta. Insomma, a seconda dell’occorrenza è stata chiamata a svolgere diversi incarichi, ma sempre fina-
lizzati al buon funzionamento del workshop 08, affiancata dalle due colleghe Angelisa e Valentina, che ora non sono presenti solo perché ormai quasi tutti i materiali sono stati assegnati e quindi stanno già preparando il nuovo lavoro che avrà inizio domani: il ritiro delle tesi. Lara ci racconta allora come sono state le sue ultime giornate: i professori sono passati a turno a prendere carichi di canson e tutto il necessario per la costruzione dei plastici, certi addirittura ritornando più volte per accompagnare studenti bisognosi dell’ultimo foglio di cartonlegno e prodighi di convenevoli e ringraziamenti, altri un po’ meno informali che forse in quel momento l’hanno considerata come un tecnico informato al dettaglio sulle materie prime e sul loro utilizzo! Ciò che comunque a suo parere ha accomunato tutti è stato l’entusiasmo nel poter finalmente prendere il materiale
necessario agli studenti: come un cercatore d’oro che scorge uno scintillio tra le pietre, l’architetto si entusiasma e gioisce di fronte a pile altissime di fogli di cartone, dritte e ordinate, perché in quel momento è consapevole che ben presto diverranno gli straordinari plastici che danno forma alle idee e solidità alle immagini della mente. Ma mi chiedo: dov’è la fregatura?? Mi risulta ovvio quando compaiono dalla porta due studenti degli IND, l’unico corso che manca all’appello del ritiro materiale, che appena entrati agguantano il loro malloppo rimanendo letteralmente schiacciati dal peso di quel fardello! «Ci dareste una mano?» ci chiedono forse con un po’ di ironia, e poi si avviano barcollanti verso il Magazzino 6, un piccolo passo alla volta. Elena Verga Nicoletta Petralla
È il pupazzo blu e peloso che mangiava tantissimi biscotti, protagonista con altri della serie televisiva Sesame Street. Cookie monster è anche una delle chiavette (pen-drive) che permettono a questo giornale di uscire, in un vorticoso scambio di dati, testi, foto, cavalli di Troia, virus. Chiavette che si perdono e si ritrovano, chiavette che hanno nomi (“a pennazza”...), che tendono a dimensioni-limite – ce n’è una ridotta a puro chip+porta usb, poco più grande di una SIM card da telefonino – e nascondono cavità digitali vertiginose (2GB, 4GB e più). Ritorna in mente la cosmicomica di Italo Calvino intitolata La memoria del mondo: un promettente giovane ricercatore ottiene un incarico di rilievo, all’interno di un’organizzazione il cui scopo è la sistematica raccolta del sapere umano di ogni tempo, grazie alla tesi Tutto il British Museum in una noce. Calvino scriveva nel 1975, ci siamo quasi arrivati. Detto questo: in testa al cotonificio, fronte canale della Giudecca, c’è l’Archivio progetti. È un posto bellissimo e le persone che ci lavorano sono gentili e disponibili. Trovate disegni (originali, veri, ingombranti, arrotolati, infatti quando li consultate vi danno dei pesi per tener fermi i margini del foglio sul tavolo), modelli (di cartone, di legno, di metallo...), fotografie e altro. Se avete un po’ di tempo vale la pena andarci. Cookie monster l’irsuto è più piccolo di una stilo AAA e, un po’ alla volta, potrebbe fagocitarlo tutto l’Archivio progetti dell’Iuav, e restituirlo a schermo, ma davvero non sarebbe la stessa cosa. [M.B.]
Glossario R
edazione! Un’altra voce al 30° laboratorio che sul proprio blog non ha ricevuto lo spazio. Redazione Lab30 si identifica nella carta non solo del giornale, ma anche in quella degli schizzi dei ragazzi, dei tovaglioli dei panini, dei taccuini degli intervistatori, delle bozze di pagina che Max e Marina correggono in Magenta, dei timoni dei giornali, degli elenchi di studenti e nei fazzoletti che asciugano il sudore alla fronte di chi il giornale oltre che a riempirlo, lo distribuisce. Onnipresenti i neo-giornalisti si infilano nei laboratori come il prezzemolo tra i denti. Sfacciati, curiosi, attenti e scrupolosi i redazionisti seguono e spiano… Attenti a non mettervi le dita nel naso, potreste essere pubblicati! pritz L’anima di Venezia, l’emblema della festa in campo, l’alcolico che ha rubato il cuore (e notevoli porzioni di fegato) a tutti noi studenti. Con l’Aperol, il Campari, il Select, il Cynar o anche semplicemente bianco: un rituale popolare che unisce tutto l’ambiente universitario vene-
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ziano. Se anche la ricetta è ormai vox populi e tutto il mondo cerchi di copiarlo, non ce n’è un altro uguale in tutt’Italia come quello di Venezia e che sia ugualmente accessibile per le tasche (sempre languenti) di noi studenti. Appena uscito dal Workshop, stanchi e affranti a causa della non appagata voglia di vacanza tutto lo Iuav è in campo Santa Margherita a rilassarsi in compagnia dell’aperitivo arancione. ramezzino Tonno e olive, tonno e cipolline, tonno e uova, cotto e funghi, porchetta e peperoni, pomodoro e mozzarella, polpa di granchio o gamberetti, il trammezzino resta sempre il più sublime metodo per soddisfare il languore dello studente e non solo. Con ogni ingrediente, il morbido trancio di pancarrè ci stupisce ogni volta, solo un ingrediente è costante…La maionese. Tremenda e onnipresente, non c’è tramezzino che si rispetti la cui farcitura non sia resa omogenea dalla pallida salsa, che aggiunge corpo non solo allo spuntino, ma anche ai vestiti! Impossibile scam-
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pare alla patacca sul colletto, la cravatta, il pantalone e qualunque altra area ben evidente del vestiario. E una delle condanne del girone dei golosi, ma che mondo sarebbe senza salsetta? ltima settimana Università finita. Ma non è triste? No, no che non è triste. L’amore per l’architettura, si sa, unisce tutti, ma a volte (solo in casi estremi, eh!) capita che quello per la vacanza prenda il sopravvento. Chiudete le finestre e abbassate la voce, meglio non diffondere la notizia così presto: fra pochi giorni anche noi dell’Iuav saremo persone libere! Avanti, ci siamo quasi. Fate un bel respiro e stringete i denti: mare e montagna stanno arrivando. Neuroni superstiti, andiamo in vacanza! enezia, vaporetto, vino? ...mmm... magari vino a Venezia sul vaporetto! Certo, quale luogo migliore per una goliardica e alcolica consumazione! Un mezzo indicato a qualsiasi tipo di situazione: il lento e ripetuto ondeggiare, così difficile da sopportare i primi tempi, all’occorrenza si può
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trasformare nel dondolio di una grande culla per architetti stanchi di ritorno alle proprie case. L’unico intoppo è rappresentato dai turisti: quando sono troppi la barca si trasforma in una gabbia senza uscita. Nascono così le prime tendenze omicide. orkshop L’evento Iuav che ci invidiano in tutte le altre università di architettura quante esperienze ci dà, ma scendiamo nel dettaglio ad analizzare una loro componente minore, i WC. Torniamo ai cari magazzini Ligabue. Ottima struttura riutilizzata per affrontare il sovraffollamento del cotonificio presenta tutti i servizi. L’aria condizionata c’è, le macchinette per snack e bibite ci sono, prese e wireless per i pc ci sono, la scala antincendio c’è, l’ascensore per invalidi c’è, i servizi igienici ci sono… insomma. Infatti piuttosto minacciosi si presentano di fronte al bisognoso utente il quale, entrando in questo spazio eccessivamente funzionalista sperando di poter soddisfare i bisogni più impellenti, si ritrova ora in preda alla stitichezza ritro-
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vandosi un cuneo davanti agli occhi e con uno sfondo arancione che dovrebbe rendere il tutto più accogliente… ma chi è d’accordo? enofobia... Una volta si diceva «Mamma Li Turchi!» ora si dice «Save us from the Kangaroos!» L’immagine dello straniero biondo dell’emisfero australe si avvicina e ci inquieta sempre di più, omertà in aula, professori scomparsi… E i coreani? Dove sono i coreani? Non si vedono più! E poi i clandestini di Lampedusa e i fantasmi di Torcello, i cadaveri francesi di Benedetta… X-FILES! ouTube Tradotto TU TUBO. Come fare a meno oggi del tubo catodico virtuale? Tutto si può tutubbare: video, film, telefilm, videoclip musicali, ricette, la suocera il fratello, il gatto. Avete paura di perdervi qualcosa? Nessun problema, ci pensa YouTube. Tutti diventano star su YouTube, perfino la nostra redazione… ragazzi andate sul blog! Ok, ormai il WS è finito, ma vi ricordiamo di guardare e poi si, di ricordare con nostalgia durante l’estate in panciolle su una sdraio,
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di quando stavate nelle aule dalla mattina alla sera, mentre il sole fuori splendeva, le ragazze passavano in bikini, piovevano uomini e i soldi crescevano sugli alberi... Ve li siete persi? Usate YouTube. anzare Compagne indispensabili delle nostre estati, questi precisi, bastardi e pungenti insettucci, si divertono a riempire le gambe, le braccia, la pancia, le facce (tutte quelle che può aver una persona), di luminosi pois che variano dal fuxia al rosso pompeiano a seconda di carnagioni. E le notti…ah! Che meraviglia quelle nottate passate ad applaudire al buio cercando afferrare le schifosette che comunque lasciano il segno, nessun insetto forse ha la capacità di spappolarsi e disintegrarsi come una zanzara ebbra di sangue. Inzzzomma niente da fare, autan, vape, off, oramai le nostre zanzare se le bevono all’aperitivo, ma fino a quando il polso ha i riflessi pronti, l’odiozo inzetto non l’avrà vinta!
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giovedì 17 luglio 15/17.7
Dall’Interno
15/17.7
Chiusura sedi
mostra sulle mostre
18/7
in aula “Gino Valle” primo piano del Cotonificio di Santa Marta mostra sulle mostre
ore 12 apertura mostra collettiva inizio esami (verbali in portineria) ore 16 Jury in aula “G.V.” a porte chiuse ore 18 premiazione in giardino
Venerdì
Mercoledì 17 luglio 2008 Laboratorio08
Workshop 08_IND Arman Akdogan e Felix Madrazo + Workshop 08_Dustin A. Tusnovics Giovedì 17 luglio ore 20.30 Campo Angelo Raffaele Building for a better world architetture beyond architecture
Mercoledì 16 chiusura sedi ore 22 Giovedì 17 chiusura sedi ore 24
entro le ore 20 si dovranno portare gli eventuali plastici da esporre, direttamente in aula.
Numero 13 Supplemento a Iuav-Giornale d’Istituto Registro stampa 1391 Tribunale di Venezia Direttore scientifico Marina Montuori Coordinamento di redazione Massimiliano Botti Direttore artistico Enrico Camplani Coordinamento redazionale Luca Caratozzolo Elisa Pasqual Laboratorio interfacoltà Far/Fda Nell’ambito dei workshop estivi aa 2007-8 Far/Fda_Iuav Redazione testi e immagini studenti Far Roberta Boncompagni Dario Breggiè
Servizi Far
Mariaelena De Dominici Letizia Ferrari
Give those men a Iuav party! venerdì 18 luglio ore 21.30 I’ve seen the future, and it’s party-shaped! Manca poco alla fine di queste tre settimane intensive e come gli anni passati (tra alti e bassi e feste più o meno home-made come gli spritz dell’ultimo giorno in facoltà) si lancia l’avviso dell’immancabile FESTÒN finale! Quest’anno saremo tutti a Lido, al ”Pachuca-Ultima Spiaggia”: vietati i discorsi di architettura, via libera invece a bagni notturni, magliette bagnate e mega cocktail con piccoli ombrellini sopra: il pre-vacanza e il preRedentore che tutti ci meritiamo! La notte sarà animata e colorata da scenografie sonore e atmosfere visive di artisti tutti (rigorosamente & orgogliosamente) Iuav tra i quali Toondra e Tyga, Bella Vecchio, Buttanga e Jimbo che accompagneranno la festa fino alle 4 del mattino: studenti di tutti i WS08 unitevi!!! Per il trasporto sarà inoltre disponibile una navetta gratuita da piazzale S. Maria Elisabetta (giusto fuori dall’imbarcadero del Lido); la festa è aperta a tutti e l’ingresso gratuito. E ricordate: “things happens after a party!” o, per dirla all’italiana, “comunque vada, sarà un successo”.
Copie e plottaggi Dove? Al piano terra delle Terese, Centro stampa Quattro Esse Come? Con apposito “foglio di credito”, usando pen-drive Quando? Anche ieri e per tutti i giorni fino al 18 c.m. Quanto? Fino a euro 650 per workshop
Chi e dove? Santa Marta Piano terra Thermes, A1 Ciacci, A2 Rykwert – Ruan, B Rizzi, C Casamonti, D Dainese, E Semerani – Tamaro, F Rich, G Campeol, I
Francesco Leoni Caterina Mendolicchio Nicoletta Petralla Giovanni Righetto Laura Scala Luca Stefanet Elena Stellin Elena Verga Elena Zadra Redazione grafica
Punto spray Dove? Al piano terra – esterno!!! – sia del Cotonificio sia dei Magazzini 6 Perché? Perché fa male usare spray acrilici e simili in spazi interni e non sta bene imbrattare la scuola
Primo piano Cibic, L1 Tagliabue, L2 Prati, M1 Cecchetto, M2 Carrilho – Albiero, N1 Bürgi – Cunico, N2 Dias, O1 Gausa, O2
studenti Fda Irene Bacchi Benito Condemi de Felice Elvira del Monaco Claudia De Angelis Maria Polverino Gabriele Rivoli Progetto grafico n.12 Ludovica Taddeo
Punto riciclo Dove? Ad ogni piano del Cotonificio e dei Magazzini 6, in appositi cesti ove, razzolando, si può recuperare qualche frammento destinato a seconda vita. Alias NO “MONNEZZA”! Perché? Il Pianeta si sta stringendo e dobbiamo prendercene cura.
Magazzini 6 Piano terra Femia – Peluffo, 0.1-0.3 Bucci, 02.-0.4 Tusnovics, 0.5-0.7 Nicolini, 0.8-0.10
tipi Slimbach disegnato da Robert Slimbach (1987); Coordinamento multimediale Massimiliano Ciammaichella Ketty Brocca Redazione web video studenti Fda Ambra Arcangeli Enrico Ausiello Enrico Rudello online
Primo piano Campos, 1.1-1.3 Tosi, 1.2-1.4 Gambardella, 1.7-1.9 Akdogan – Madrazo, 1.8
http://laboratorio08.wordpress.com email laboratorio08@iuav.edu Coordinamento generale Esther Giani
Secondo piano Borgherini – Werblud, 2.3 (aula informatica) Accossato – Trentin, 2.2 Mancuso – Chun, 2.4 Fontana, 2.5 Redazione, 1.6
UNA SOCIETÀ DI FONC IÈRE DES RÉG IONS
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