Numero Cinque

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Sopralluogo Nicolini

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Interviste pagine 2-3

lunedì 7 luglio 2008 anno secondo Numero 5

Sopralluogo Prati

Test

Verso nuovi usi?

L’accademico e il maestro zen

Incontro Peter Rich vs Renato Nicolini

Due maestri. Il primo accademico temuto, di grande influenza e profonda cultura, il secondo neofita, e zen. Le lezioni del primo, da sempre affollate, all’arrivo del secondo si svuotano, giorno dopo giorno. Gli studenti riempiono ora la classe del maestro zen. L’accademico prima si adombra, poi si impermalisce. Vuole incontrare il collega per capire cosa stia accadendo. I due uomini si trovano nella umile dimora del maestro zen. L’accademico seccamente chiede al collega quali argomenti usi per attirare così l’attenzione e suscitare la devozione dei giovani. Per tutta risposta il maestro zen prepara il tè (questo atteggiamento irritante è peraltro tipico dei maestri zen). Su di un vassoio di legno, due tazze. Piena per l’accademico, vuota per sé. Dal bollitore inizia a versare. Riempie la sua tazza, versa nella tazza

Parafrasando il Preside Giancarlo Carnevale, il confronto tra Peter Rich e Renato Nicolini si è svolto in un’atmosfera raccolta, più da seminario che da conferenza. Un clima tranquillo, rilassato, che ha permesso ai partecipanti di argomentare in modo quasi informale. Il tema proposto offre la possibilità di mettere in relazione due realtà diverse, quella sudafricana da un lato, quella romana dall’altro, per definire le modalità di gestione e d’uso di nuovi spazi urbani. Attualmente sembra esserci infatti una labilità di fondo nel modo di strutturare lo spazio in architettura, più preoccupato dell’oggetto autoreferenziale (quasi fosse un oggetto di design) piuttosto che della definizione funzionale degli spazi. Si tratta di indifferenza o di un’amnesia provvisoria? In questo contesto si contrappongono le esperienze di Peter Rich, appassionato studioso di civiltà e legato al low tech, e quella di Renato Nicolini, finalizzata al recupero degli spazi interstiziali degli ambienti urbani. Come già avevamo appreso durante la lezione di apertura del suo laboratorio, l’architetto di Johannesburg spiega come il Sudafrica sia attualmente alla ricerca di una propria identità, a livello sociale così come architettonico. Attraverso i suoi suggestivi disegni mostra un concetto di sostenibilità sconosciuto per la nostra cultura. La sua è una realtà urbana in cui la domanda di architettura è reale, basata su bisogni veri delle comunità insediate. Fondamentale per rispondere a tali necessità è lo studio approfondito di come la gente si appropria dello spazio, poiché anche nei comportamenti più semplici è racchiusa la chiave per comprendere una civiltà, le sue esigenze di natura architettonica. Sul tema degli spazi pubblici si esprime ampiamente Renato Nicolini, affascinato dall’estrema ef-

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del collega. Il tè tracima e insozza vassoio, pavimento e pantaloni sportivi dell’accademico. Che monta in collera. Il maestro zen con un sorriso ineffabile spiega: «Vedi? Queste tazze sono le nostre menti: vuota la mia, e disponibile a imparare; piena la tua che non accoglie nulla più di quanto già non contenga. Questo insegno ai miei studenti: a tenere vuota la propria mente». L’accademico solleva il vassoio e lo usa per sfondare il cranio del maestro zen. Domanda: dopo la prima settimana di workshop chi avete incontrato? un accademico. un maestro zen. Segnate nell’apposito quadratino e lasciate in giro la risposta. Qualcuno ne farà una statistica. Massimiliano Botti [red.]

ficacia dei disegni e dei progetti di Rich che, nonostante l’apparente ingenuità del segno, danno conto di un’attitudine straordinaria a dominare efficacemente tanto la composizione quanto la realizzazione senza ricorrere a espedienti sofisticati. L’essenzialità, la capacità di sintesi espressa da questi grafici offrono una significativa dimostrazione della possibilità di pensare all’architettura senza architetto come alternativa, praticabile attraverso il recupero di immagini ancestrali. Per tornare a progettare, quindi, è necessario abbandonare le sovrastrutture ideologiche tese a mascherare un’identità architettonica debole. Nicolini, peraltro, si dichiara un estimatore del ready-made, ammettendo di «aver sempre cercato di essere un architetto alla Marcel Duchamp» (sì, quello dell’orinatoio!), non riuscendo però, suo malgrado, a raggiungere sempre questo obiettivo. Ne è un esempio un suo progetto giovanile per il monumento a Vittorio Emanuele II, in cui l’essenzialità prefigurata all’inizio si trasforma in qualcosa di immenso e di oppressivo a causa dell’eccesso di significati affidati al segno architettonico, «un’utopia irrealizzabile»: il linguaggio dell’architettura non permette di esprimere tutto. Il Movimento Moderno faceva derivare la forma dalla funzione, oggi al contrario la funzione è “scollata” dalla forma, la funzionale sembra addirittura scomparsa, ma nonostante tutto l’architettura resta e comunica ugualmente qualcosa di forte. Talvolta l’esasperazione di questa separazione porta al vuoto. Lo scollamento mostra delle potenzialità, ma siamo in grado di usarle? Gli edifici di Rich sono sempre definiti “multiuso”, i suoi spazi sono progettati evitando rigide separazioni di funzioni urbane come accadeva nel passato. In questa ottica va rivista e

altamente rivalutata l’invenzione dell’Estate romana, attraverso la quale Nicolini propose un nuovo uso della città per mettere in moto un innovativo sistema di coesione tra zone diverse di Roma. Ciascun luogo diventò così di tutti, senza distinzioni tra spazi “borghesi” e aree di periferia. Il primo passo in questo percorso di rivisitazione d’uso degli spazi è stato reinterpretare l’approccio verso alcuni dei siti archeologici più rilevanti di Roma, in primis la Basilica di Massenzio. Lo scopo era quello di coniugare la presenza storica dei monumenti alla dinamicità della vita moderna, in modo da farli percepire entrambi allo stesso modo. Rimanere ancorati, infatti, ad un’idea di continuità tra la Roma di oggi e la Roma di Giulio Cesare porterebbe a commettere un errore “identitario”. Viviamo in una società conflittuale, ma non sappiamo più perché. L’unico modo per rendere questo conflitto costruttivo e non distruttivo è non avere una visione rigida, ma gioiosa dell’architettura, ragionare in maniera «disinibita ma rigorosa, dolce seppur conflittuale», con l’intento di liberarci dal formalismo, ma non dalla passione. Mariaelena De Dominici Letizia Ferrari

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E Rizzi disse: «Sapere è potere»

Lei ha sottolineato nel suo programma una delle caratteristiche di Venezia, città da tempo chiusa nei confronti della modernità. Può chiarire il significato di questa osservazione? Penso che l’università abbia un ruolo molto importante, soprattutto relativamente alle questioni che hanno a che fare col problema della forma, perché l’architettura se non ha a che fare con la forma non so davvero con che cosa abbia a che fare. Venezia è una città che ha deciso di mantenere la sua forma, rifiutando di lasciarla dissolvere nel tempo, perché la modernità è la dissoluzione della forma, che Venezia invece ha mantenuto in maniera quasi perfetta, quasi miracolosa; basti pensare che la sua periferia Venezia l’ha espressa sulla terraferma. Il problema invece è capire di quale modernità ha bisogno o desidera Venezia. Lei quindi crede che ci siano molte alternative di modernità? La modernità, sotto un certo punto di vista, non vuol dire solo essere attuali ma essere vivi! Credo che chiunque, sia le persone, sia le cose, vogliano essere vivi. Credo che invece Venezia, già dalla fine del Cinquecento, abbia deciso

di rinunciare alla modernità perché non voleva sparire. Ha scelto l’agonia perché voleva sopravvivere, in attesa di quella modernità confacente al suo stato, al suo ruolo. Venezia secondo me rifiuta la modernità tecnologica; quella funzionale, quella pratica di valori secolari, perché invece vuole, anzi esige, una modernità di tipo sacrale! La città deve ritornare alle sue origini che sono non solo divine e mitiche, come sostiene Tafuri ma che sono anche trascendenti e theologiche. Addirittura teologiche? Si deve fare molta attenzione alle parole! Il termine non ha nulla a che vedere con la religione ma con l’estetica… La theologia, scritta con l’H naturalmente, è il luogo originario dello sguardo, deriva da theoi che sono i guardanti, gli dei, che guardano dall’insolito verso il solito. L’insolito è quella condizione in cui le cose non sono ancora separate ma tutte ormai definite, mentre il nostro mondo è quello del “solito” dove tutte le cose sono fatte e distinte, anche se si deve riconoscere che le cose tra di loro sono tutte in relazione, per-

ché nel momento in cui appaiono, si mettono in relazione. Oggi sul problema estetico c’è la più grande confusione del mondo! E questo perché? Perché è il sapere più difficile! Oggi sono in auge soprattutto nelle facoltà di architettura la tecnica, la scienza, la statica, l’estimo e i professori che le insegnano hanno più autorità rispetto agli altri. Questi hanno alle spalle scienza e tecnica come autorità, ma un architetto può avere solo questo dietro di sé? Basti considerare la parola: ARCHI-TETTURA è una parola composta, ARKÉTEKNÉ, dove la prima parte indica i “principi primi” e la seconda la “tecnica”, che appunto è guidata dai principi primi, cioè tutti quei saperi che derivano dalla filosofia classica, ormai estromessi perché è molto più semplice insegnare solo la tecnica. “Architettura” ha perso tutto il primo pezzo (l’ARCHI), senza il quale la si dovrebbe infine chiamare… EDILIZIA. L’università dovrebbe essere il luogo di cura dei nomi, e ora l’unica garanzia che resta di “Architettura” è appunto il nome. E riguardo alle parole e alla tecnica, cosa può dire riguardo alla “sostenibilità”?

Intervista a Renato Rizzi

Tanti ormai usano quella parola, ma ne evitano il senso. Questo accade perché nessuno sa ricondurla alle sue origini, perché queste non sono nei principi primi ma appartengono alla tecnica, anzi alla normativa tecnica, punto. Si può dire che siamo in un ambito di nichilismo tecnico-scientifico, dove l’obiettivo non è più il valore, la bellezza, ma il potenziamento della tecnica al fine di dominare e usare le cose, isolandole pezzo per pezzo, infatti la tecnica procede per specializzazioni e approfondimenti, senza però poter poi risalire all’origine, perché appunto non c’è relazione, ma tutto è isolato fin dall’inizio. Gli architetti invece devono prendere coscienza del fatto che hanno una potenza tra le mani ancora più grande della bomba atomica! L’apparire delle cose, che comporta il cogliere le relazioni tra di esse, deve far capire che qualunque cosa un architetto progetti, bella o brutta che sia, una volta che appare entrerà in relazione con il contesto e gli elementi che avrà attorno. Ci si può addirittura riferire al concetto di KOSMOS, che è quello che sta alla base dell’estetica, che tratta

le cose nel tutto, e che invece alla base della tecnica c'è il KAOS, perché il fine è “isolare” dal magma informe della materia formante. Ma quanto vale oggi un’individualità mantenuta isolata? Non vale un pistacchio! L’individualità vale tantissimo quando è rapportata a tutto il resto, questo insegna architettura… Lei vorrebbe che gli studenti le capissero queste cose? Sì ma ci vogliono tanto studio, tanti libri e, cari signori, sapete quante ore e ore ci vogliono per questi? E quanti progetti non si fanno?[ride] Basterebbe leggere Tafuri, almeno per quanto riguarda Venezia, nella cui cultura si dovrebbe entrare con la mente e con il cuore… La storia di Venezia è caratteristica e fondamentale per la città, la quale si considera divina, protetta da una cappa metafisica, ma è comunque una città reale con tutti i problemi tecnici, pratici, lo sporco, la puzza, ma se non c’è la conoscenza di fondo la soluzione non si può trovare. Il sapere è un potere straordinario! Roberta Boncompagni

Tanti dettagli non fanno un progetto La politica dell’insieme Intervista a Renato Nicolini

L’inizio non è dei più tranquillizzanti: ammassati al volo in un'utilitaria arroventata dal sole appena messa in moto, il professore si gira verso di noi e con gli occhi che brillano esclama: «Cominciamo subito». Loro vengono dall’aeroporto San Nicolò, noi siamo appena sbarcati al Lido da un vaporetto che pare un boat-people. L’area progetto è veramente estesa e abbraccia tutta la lunga lingua di terra del Lido, dall’aeroporto a Malamocco; vi è poi un’area più ristretta, una sorta di isola nell’isola, attraverso la quale l’intervento si dipana, fatta di direttrici sentimentali e visive che ha per elementi nodali i padiglioni in disuso dell’ospedale, da un lato, l’hotel Excelsior e il Casinò, dall’altro, passando per il Blue Moon, una struttura per il tempo libero con cupole e pilastri fuori piombo, che fa da sfondo al Gran Viale prolungandosi fino alla spiaggia, una delle ultime opere di Giancarlo De Carlo. Professore, ci sveli le suggestioni che animeranno il tema progettuale… Oggi si tratta essenzialmente di fare un sopralluogo, di ricomporre i pezzi, il progetto parte da qui. Il Lido ha avuto negli ultimi decenni uno sviluppo edilizio poco

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oculato, lo vedete dal satellite; ha un tessuto urbano molto fitto e questa non è una buona cosa. Sono presenti segni molto forti della cultura della villeggiatura tra Otto e Novecento, quando ancora Venezia possedeva un legame privilegiato con l’Impero austroungarico [sorride compiaciuto] e del successivo gemellaggio culturale con Parigi: hotel, impianti sportivi, tiro a segno, ospedale, aeroporto. Immaginate questo scenario dove si tenevano gare di velocità in aria e sull’acqua, questo luogo di sport e di cultura! Pensate anche alle suggestioni visive di Hugo Pratt, lui viveva a Malamocco e questa zona la conosceva bene… Scendiamo all’ospedale e ritroviamo parte degli studenti: ora l’intervista diventa lezione. È questo il fulcro del progetto? Cosa succederà in quest’area, ha già qualcosa in mente? Sì, l’idea è ancora in nuce, in fase di analisi, ma questa zona potrebbe rivelarsi una cerniera forte tra l’aeroporto e il casinò. La valorizzazione partirà da una situazione di vuoto in cui gli studenti allestiranno padiglioni supplementari per la Mostra del Cinema che possano però ospitare anche altri eventi del calendario lidense, uno scenario in cui cinema, arte, sport

e vita da spiaggia si fondano e trovino nuovi modi di relazionarsi e coesistere. Penso ad esempio a grandi schermi al plasma che proiettino i film accanto alle cabine, dove sia possibile cambiarsi e scendere in spiaggia in un continuum fluido e senza strappi con la natura mediterranea (perché è importante considerare anche il rapporto di Venezia con l’Oriente!). In fondo mi sento molto concettuale, e il progetto stesso sarà orientato secondo questa visione delle cose; quello che vorrei fare alla fine è qualcosa che possa essere ricondotto al concetto della “memoria involontaria” di Marcel Proust, oggetti che richiamano situazioni, emozioni, altri oggetti senza un nesso immediatamente logico, un ipertesto concettuale che si avvalga del linguaggio architettonico e leghi con un lungo filo rosso il Lido in tutta la sua estensione. In alcuni punti si potrà intervenire in maniera decisa, in altri invece dovrà essere attuato un sottile lavoro di agopuntura topografica, ma l’importante è che l’idea di città emerga e sia riconoscibile, rinnovata e capace magari di “insegnare” ai cittadini un nuovo modo di vivere l’ambiente che li circonda. Quanto ha influito l’esperienza come

assessore alla cultura nel suo modo di fare e pensare l’architettura? [ride] Direi che come progettista sono un po’ atipico da questo punto di vista, ho imparato ad usare il materiale “città”, ho portato un po’ di architettura nel fare politica … anzi, sono riuscito a fare più cose quando ero assessore e “dentro” alle normative che ora!! [ride di nuovo] Il problema è che tutto è vincolato, mentre ogni tanto demolire non è una cosa così abominevole da fare, forse soggettiva, ma non impensabile. La mole di informazioni sotto la quale Renato Nicolini ci ha gentilmente ma inesorabilmente sepolto è grande, ma il suo modo di fare affascina tutti e non annoia, anzi. Usciamo dall’incontro soddisfatti e con una chicca per gli studenti: tra un ghiacciolo e una spremuta all’ombra dei pini il professore ci ha confidato, alla sua prima esperienza di workshop Iuav, di esser rimasto piacevolmente sorpreso e contento del livello degli studenti. Avanti così, ché le (buone) premesse ci sono. Caterina Mendolicchio

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Venezia e Genova: un dittico Al terzo giorno di laboratorio è l’aula M1 la più affollata; contiamo oltre ottanta studenti raggruppati e chini sui plastici a discutere sulle caratteristiche dei tessuti urbanistici di Genova e Venezia. Alle pareti carte veline colorate, piante e studi del territorio. I ragazzi, che frequentano sono in gran parte il secondo e terzo anno. In perfetta sintonia con gli sforzi degli studenti, il professor Prati ci aiuta a capire come in tutta questa “universitaria confusione” si ritrovi un metodo di lavoro e una grande chiarezza di idee. Qual è il percorso che gli studenti svolgeranno durante il suo workshop? Continueremo con un metodo simile a quello dello scorso anno in cui aveva preso forma lo studio della composizione urbana di un’isola di Venezia, dove l’acqua rappresentava un vincolo contestuale che si riscattava sul piano formale. Io prediligo un workshop dall’assetto metodologico rispetto ad una tessitura e ad una composizione urbanistica piuttosto che un progetto più strettamente formalizzato. Lo stesso riscontro mi è stato dato da un terzo degli studenti che per il secondo anno mi hanno seguito in questo laboratorio. Per l’edizione 2008 cercheremo di eseguire il ritratto dittico di due città differenti: Venezia e Genova. Gli studenti, divisi in otto gruppi, procederanno analizzando, ognuno rispetto al proprio tema, la composizione del tessuto urbano a grande scala delle città cercando successivamente, attraverso repentini cambi di configurazione del tessuto, di fondere i diversi scenari trovando gli elementi comuni che caratterizzano le due antiche Repubbliche marinare fino a formare un’unica vasta composizione. L’ultima parte del laboratorio ha ancora qualche

Intervista a Franz Prati

possibilità di variazione e, si pensa, possa essere costituita dalla ricomposizione lungo una linea di tutti gli esiti progettuali dei vari gruppi cercando di trovare un denominatore comune. Come gli studenti rispondono ad un laboratorio in cui protagonista è Genova, città a loro sicuramente meno nota di Venezia? Certo il livello di conoscenza è differente, ma le informazioni che abbiamo cercato di fornire su Genova sono molte; abbiamo numerose foto d’autore e documentazioni che permettono agli studenti di capire il luogo. Nonostante il tessuto urbano molto simile, Genova permette di lavorare con sulla scala urbana in maniera più semplice che a Venezia. C’è qualcosa che la preoccupa in questo workshop? Il caldo! Probabilmente il numero degli studenti è eccessivo, avrei preferito cinque gruppi piuttosto che otto da dieci studenti. Ho forzato un po’ i temi del laboratorio per riuscire ad ospitare un numero così grande di ragazzi. C’è un progetto al quale è più legato? Il progetto per il ghetto di Genova e un progetto per un diving center unito ad una piccola struttura di accoglienza che stiamo pensando in un ambiente suggestivo alle Cinque Terre e che andrà a ridisegnare con pochi tratti una ex cava di marmo rosso di Levanto. Quale libro ci consiglierebbe? Riguardo all’architettura consiglio un libro del poeta russo J. Brodskij intitolato Fondamenta degli Incurabili e un racconto che invece suggerisco è La Cattedrale di un altro poeta, questa volta americano, Raymond Carver, padre della letteratura minimalista statunitense dalla quale sono estremamente attratto. Luca Stefanet

L’organizzazione di un cadavre exquis Intervista a Benedetta Tagliabue

Dal suo programma abbiamo visto che il tema è relativo al rapporto tra immaginazione e realtà; questo significa che l’immaginazione va resa reale o che l’architettura deve far immaginare? In un progetto di architettura pensare in termini di immagini è fondamentale perché offre la possibilità di investigare e far diventare il momento della ricerca ancora più critico rispetto a quello dell’approccio alla realtà. Tramite l'immaginazione si arriva a cogliere possibilità non immediatamente percepibili. Io credo inoltre sia importante portare i temi del reale nel mondo della scuola, sia per influire su di essa con frammenti di realtà sia per modificare la realtà stessa grazie alle opportunità che l’immaginazione − e quindi la ricerca− offrono. In che modo il rapporto tra realtà e immaginazione può entrare a far parte del progetto di spazi teatrali? Questo è un tema che affronteremo nel corso del laboratorio perché noi abbiamo ricevuto un incarico reale (la scenografia per il nuovo balletto di Merce Cunningham), in cui abbiamo la possibilità di usare l’immaginazione come meglio crediamo, con gradi di libertà così ampi che la cosa ci spaventa. Gli studenti lavoreranno ad uno schema in cui i limiti saranno dati di volta in volta, e in cui dovranno riuscire a mette-

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re insieme mondo immaginario e mondo reale. Lei ha avuto diverse esperienze all’estero, che differenze nota tra l’università di architettura in Italia e fuori? Un problema di questa università è l’immensa quantità di persone, le lotte, le code per iscriversi ai corsi. Molto tempo si perde per motivi organizzativi e ciò è tipico di Venezia. Non è la dimensione di un atelier che al contrario permette un confronto ravvicinato. Bisogna superare questo problema: nel mondo dell’architettura come in quello artigianale si impara grazie ad una relazione ravvicinata; anche negli studi professionali si devono sempre formare gruppi più piccoli in cui c’è una maggiore comunicazione altrimenti la cosa non funziona. All’estero spesso le scuole hanno un numero ridotto di studenti e la relazione docente/ studente è uno a venti, uno a dieci. È complicato lavorare in gruppo, ci sono difficoltà di comunicazione, non è sempre ovvia la divisione dei ruoli, ma d'altra parte è molto difficile fare architettura da soli. L’arte di arrangiarsi è spesso il risultato di una scuola caratterizzata da grandi numeri. Gli studenti che escono dall'università di Venezia hanno questa capacità. Come avete organizzato il corso?

La prima settimana sarà dedicata all’approfondimento del tema: ogni studente dovrà sperimentare il proprio coinvolgimento personale e quindi decidere in quale punto della città inserire il proprio progetto; la seconda sarà caratterizzata dal lavoro specifico per la creazione di uno spazio teatrale nel luogo scelto; la terza dall’unione di tutte le proposte individuali in una grande collettiva, che sarà una sorta di cadavre exquis, uno di quei personaggi realizzati con frammenti eterogenei e composti da tante mani diverse. Il tutto ricorda un po’ l'opera dei surrealisti: Dalì per la relazione con il mondo dell’immaginario o John Cage, il compositore per le cui musiche saranno realizzate le scenografie. È il tema della chance, della casualità, dell’ottenere un risultato sapendo che il caso non è mai soltanto un caso ma anche il risultato della necessità del momento. Poi il tempo, grazie agli ingredienti che tu hai predisposto, ti porta a quel risultato. Cunningham ad esempio fa ballare i suoi ballerini giorno per giorno, e così si sviluppa il balletto finale. Anche noi organizzeremo il nostro balletto di tre settimane, giorno per giorno. Roberta Boncompagni Laura Scala

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Per un’operante storia del Lido immaginato Renato Nicolini collaboratori Angelo Cannizzaro, Mattia Darò, Antonino Minniti, Carlo Prati, Gennaro Lopez Il corso affronterà il tema del Lido di Venezia, partendo dalla constatazione dello stretto legame esistente tra lo stato/l’immagine della Città di Venezia e quello/a del suo Lido. Il primo sintomo di crisi è il Lido descritto da Thomas Mann (e da Luchino Visconti) in Morte a Venezia. L’ultimo tentativo di intervenire sul Lido per rilanciare Venezia, in fondo, è ancora l’istituzione della Mostra d’Arte Cinematografica di Venezia, “decima musa” e segno di modernità della Biennale d’Arte di Venezia. I progetti – e la scala dei progetti – saranno individuati nell’”area vasta” del Lido, tra Chioggia e Bocca di Pellestrina, San Nicoletto e Malamocco: anche attraverso sopralluoghi e pratiche della derive urbana. Una traccia ugualmente preziosa è quella dell’immaginario. La Venezia di Corto Maltese disegnata da Hugo Pratt (la memoria di Pratt è ancora viva a Venezia, ad esempio nella trattoria che amava frequentare a Malamocco). Ma anche la Venezia di Casanova. O l’”isola dei morti” di

Bocklin (il fatto che il suo riferimento sia piuttosto Ischia suggerisce la possibilità di un’ibridazione dell’immaginario veneziano e di quello mediterraneo). Venezia è ovviamente legata all’orientalismo, alla concezione paesaggistica della città. Un’altra ibridazione suggerita (deserto d’acqua – deserto di mare) è con la città oasi di Nefta, costruita nel deserto del sud tunisino ai tempi del limes romano. Analogia rafforzata dal confronto tra il tessuto urbano di Venezia (vedi gli studi di Saverio Muratori) ed il tessuto urbano della città islamica. In che modo la città di Venezia, i suoi valori così particolari, individuali, entrano in relazione (pensiamo alla città analoga di Aldo Rossi) con la città globale? La scala dei progetti potrà interessare tanto il progetto urbano del Lido – nel suo insieme o per parti – tanto episodi particolari: i forti napoleonici da recuperare, i bunker tedeschi costruiti nella seconda guerra mondiale ed altri individuati nei sopralluoghi e nelle pratiche di derive.

Johnny Cassata e l’allegra demolizione Sopralluogo al Lido di Venezia di R. Nicolini Il Lido di Venezia è noto come luogo di villeggiatura e divertimento ma per l’occasione si trasforma in zona di studio e lavoro per gli studenti del workshop. Arrivati al punto di incontro scopriamo che il professor Nicolini, molto gentilmente, ci avrebbe accompagnato al primo sito di progetto in macchina. Da una breve introduzione al tema del laboratorio si capisce subito l’inesauribile capacità dialettica del docente ed i suoi orizzonti culturali di grande respiro. Ci uniamo al gruppo di studenti all’interno dell’ospedale del Lido e il professor Nicolini comincia a fantasticare su come poter utilizzare e modificare il contesto arrivando a prospettare una gioiosa demolizione di parte del complesso. Il clima è rilassato; gli studenti seguono come ipnotizzati le parole e le suggestioni del docente il quale, divertito, comincia a raccontare aneddoti della sua pa-

rentesi studentesca, svoltasi a suo parere «una vita fa». Uno su tutti? Chiedete al professore che vi parli di Johnny Cassata. Sentendo gli umori dei ragazzi emerge tutto il fascino e l’entusiasmo che Nicolini trasmette anche durante le sessioni di lavoro in aula: niente laptop aperti mentre il docente parla, ma un religioso silenzio che cala durante le lezioni. Giovanni Righetto

Renato Nicolini (Roma 1942), architetto, è professore ordinario di Composizione architettonica presso l’Università Mediterranea di Reggio Calabria dal 1989. Si è laureato a Roma con Ludovico Quaroni nel 1969. Con il libro L’Architettura di Roma capitale (1971), di cui è autore assieme a Gianni Accasto e Vanna Fraticelli, ha imposto un nuovo modo di guardare alla tradizione dell’architettura italiana. Il suo campo progettuale va oltre l’architettura in senso stretto. Ha espresso le sue idee con il cinema (Utopia, utopia, 1969, sceneggiatore e protagonista, regia di Azio Cascavilla; A proposito sito di Roma, di cui è soggettista, sceneggiatore, protagonista per la regia di Egidio Eronico, 1984); da amministratore, come assessore alla cultura delle giunte Argan, Petroselli e Vetere, dal 1976 al 1985, ha inventato nel 1979 l’Estate romana, (successivamente oggetto di studi in Francia, negli Stati Uniti, dove è stato invitato ad organizzare e tenere a Los Angeles nel 1987 un symposium su Los

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Angeles after dark, dream or reality, e per la quale è stato nominato da Jack Lang Officier de l’Ordre des Arts et des Lettres nel 1985); col teatro, conducendo da cinque anni, con Marilù Prati, il Laboratorio Teatrale dell’Università Mediterranea di Reggio Calabria; con i libri (L’effimero teatrale, con Franco Purini, Estate romana, Napoli Angelica Babele). È architetto di una bella casa popolare ad Aprilia, costruita nel 1978, di sessanta appartamenti i cui abitanti non si sono ancora lamentati, con G. Accasto, F. Pierluisi e P.L. Eroli. Suoi progetti sono stati pubblicati dalla rivista «Controspazio», di cui è stato caporedattore dal 1974 al 1976 e di cui attualmente è direttore. Fa parte del Consiglio dei Docenti della Scuola di Alta Formazione in Architettura ed Archeologia della Città Classica dell’Università Mediterranea di Reggio Calabria. È componente del gruppo che ha vinto nel 2006 il primo premio al concorso per la riqualificazione di Largo Augusto Imperatore (capogruppo Francesco Cellini).

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Ritratti di città: Genova-Venezia Franz Prati collaboratori Paolo Carpi, Riccardo Miselli, Valter Scelzi La regola del ghetto e il limite dell’acqua. Genova e Venezia, due realtà urbane raramente oggetto di uno sguardo condiviso, si rispecchiano e si misurano, all’interno del workshop, seguendo le tracce di un dispositivo didattico dove l’analisi delle analogie e delle dissonanze tra i diversi contesti si traducono in una scrittura compositiva tesa alla configurazione di un dittico di architetture dedicate. Tessuti compatti e trame traforate, tracciati insinuanti e tagli di luce improvvisi, opacità e trasparenze identificano, tra le altre, alcune delle parole chiave di un ipotetico vocabolario comune mentre sulla partitura svariante delle due città si addensano le figure compatte dei ghetti e l’acqua delimita o dissolve la configurazione morfologica dei due tessuti. Chiaramente incastonata nella città inclusiva, la città preclusa, trascrive il carattere del luogo secondo una versione alterata della sua peculiarità che si comprime e si addensa tra i limiti di una campitura escludente. Questo dop-

pio registro della misura urbana determina un intrigante scarto dimensionale che rende evanescente il limite tra tessuto urbano e organismo architettonico. La didattica è organizzata secondo tre momenti complementari e distinti, riferiti alle tre settimane di durata del workshop. Gli studenti si organizzeranno in gruppi omogenei con particolare riferimento ai tutor coinvolti. Ogni gruppo opererà contestualmente sui due contesti urbani. I temi delle tre fasi saranno i seguenti: I confini e le inquadrature. La definizione dei frammenti. L’edificio/tessuto . La misura dei modelli insediativi. Le architetture dedicate. Le forme e le figure del dittico.

Il Ghetto in pieno sole Sopralluogo all’area di progetto di F. Prati È un sopralluogo singolare quello organizzato dal professor Prati al Ghetto di Venezia. L’aria che si respira tra i ragazzi in questa torrida giornata di sole è di stanchezza. Non si nota la vivacità che regna invece solitamente in aula. Il clima afoso rende difficile, già alle 10.30, orario in cui è stato fissato il ritrovo, qualsiasi relazione tra gli studenti che si contendono le zone d’ombra sul perimetro del campo. Ombre assenti sono sicuramente quelle di cinquanta degli ottanta studenti iscritti e del titolare del corso. Alcuni degli assistenti, arrivati sul posto, passano rapidamente il testimone a una giovane guida che ci accompagna, dopo una visita al museo (aperto dal 1955 e che nel 1986 è stato rinnovato), attraverso le cinque sinagoghe di Venezia. Cerchiamo di capire, rivolgendoci agli studenti, come mai la docenza abbia scelto di visitare il Ghetto ebraico a Venezia quando il tema sviluppato nel corso è incentrato sulle relazioni e sulle

Franz Prati, professore ordinario di Progettazione Architettonica alla Facoltà di Architettura di Genova e Direttore del Dipartimento di Progettazione e Costruzione dell’Architettura (DIPARC). Ha insegnato nelle Facoltà di Venezia, Roma, Bari e Reggio Calabria. La sua produzione nell’ambito del progetto e del disegno di architettura è documentata su numerose riviste italiane ed estere. Nel 2001 espone sue opere e progetti nella mostra Art of Architect all’High Museum di Atlanta (USA). Parte dei suoi disegni e progetti sono stati acquisiti dal DAM di Francoforte. Ha partecipato e vinto numerosi concorsi nazionali ed internazionali di architettura, trai quali si ricordano, tra i più recenti: 2000, Concorso europeo per la nuova sede dell’ASI (con. Studio Archea); 2006, Museo Mediterraneo di arte nuragica e dell’arte moderna a Cagliari (con Studio Archea); 2007, Concorso Progetti Pilota; 2006, Progettazione del nuovo complesso parrocchiale a Reggio Emilia (con Neostudio). Studi recenti sulla città

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analogie tra Venezia e Genova. Uno studente ci spiega che il laboratorio inizia da una riflessione relativa al Ghetto di Venezia per trovare un punto di incontro con la città ligure, che ospita un’importante comunità ebraica. Analogamente a ciò che accade nelle sedi dell’Iuav, lo sbalzo climatico tra il caldo torrido dei campi e i locali del museo ebraico e delle sinagoghe provoca non poche vittime: nasi e gole degli studenti risuonano a stormo nel silenzio dei luoghi sacri. Si parla della storia, della funzione sacra e religiosa degli ambienti visitati, dei motivi caratterizzanti le scelte stilistiche e della tipologia delle sinagoghe. I luoghi sono suggestivi nonostante le dimensioni contenute, la luce soffusa dei lampadari e dei candelabri a sette bracci viene riflessa dalle vernici dorate dei tabernacoli di legno d’acacia. Riposti con cura notiamo i copricapo che i ragazzi indossano all’interno dei luoghi di culto. Passiamo di edificio in edificio e visitia-

mo le Scholae Cantorum, italiana, levantina, spagnola e tedesca, sinagoghe del sedicesimo secolo con caratteristiche simili per tipologia, stili e geometrie ma differenti per i particolari che le caratterizzano. La pianta della sinagoga tedesca si discosta dalle altre per la forma trapezoidale e lungo i lati paralleli sono posti, uno di fronte all’altra, aron e bimà; quest’ultima, a differenza di quanto accade nelle altre sinagoghe veneziane, è posta allo stesso livello del pubblico. I banchi per i fedeli sono situati lungo due lati della sala e sono sovrastati, in ognuno dei templi, da un matroneo ellittico la cui forma ritroviamo analoga solo all’interno della Schola spagnola. Un approccio sorprendente, ricco di suggestioni. Sarà interessante capire l’uso che ne potranno fare gli studenti durante il percorso del progetto. Luca Stefanet

storica di Genova hanno condotto alla redazione di specifici progetti per l’Ampliamento della Facoltà di Architettura, per il nuovo Museo Archeologico della collina di Castello a Genova e per lo Spazio museale di Via delle Fontane al Ghetto a Genova (con M. Casamonti, G. Peluffo e M. Giberti), raccolti nel volume La città solida (a cura di M.Giberti), Alinea, Firenze 2006. La sua attività di progettista e di studioso è ampliamente documentata nei volumi monografici: Segrete armonie di città, a cura di Francesco Moschini, Edizioni Kappa, Roma 1986; Eclettiche astrazioni del moderno (a cura di Alessandro Valenti), Libria, Melfi 1996; Franz Prati e Luciana Rattazzi, Monografie di Architettura, a cura di Laura Andreini, Federico Motta Editore, Milano 2001; Franz Prati, conversazioni sull’architettura e l’atto del disegno (a cura di Cesare Piva), Libria, Melfi 2005. Attualmente vive e lavora a Genova insieme a Luciana Rattazzi.

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Renato Rizzi, si laurea a Venezia nel 1977. Dopo aver collaborato per circa un decennio con Peter Eisenman, ritorna in Italia per dedicarsi all’insegnamento, alla progettazione ed alla teoria. Nel frattempo realizza il progetto vincitore del concorso per l’area sportiva di Trento. Nel 1992 gli viene assegnato il premio nazionale In/Arch e nel 2003 riceve la menzione d’onore per la Medaglia d’Oro dell’Architettura Italiana. Nel 2003, vince il terzo premio al concorso per la progettazione del Grand Egyptian Museum al Cairo. Attualmente è impegnato nella realizzazione del concorso vincitore per il Teatro Elisabettiano a Danzica. Didattica, ricerca e professione sono strettamente integrate, il suo impegno teorico, infatti, è indirizzato a riaprire il sapere tecnico-scientifico al sapere ontologico-metafisico come indispensabile e inattuale orizzonte, per la nostra contemporaneità, di Architettura. La pubblicazione più recente è La Pedemontana Veneta: Il divino del paesaggio, per un’economia della forma, Marsilio 2007.

La forma: defensor urbis Il bacino marciano e la stazione della sub-lagunare Renato Rizzi collaboratori Andrea Rossetto, Ernst Struwig Per Venezia il rapporto conservazione-innovazione è sempre stato tema vitale per la forma: per la sua stessa essenza. Sacre origini e innovazione tecnica, tempo mitico-escatologico e tempo mondano, formano il nodoepistemico della dialettica politica, religiosa, architettonica, mercantile, sociale, per la “città vergine”. Ma da quando la Dominante decide, fin dall’inizio del XVII sec., di rinunciare alla “modernizzazione” tecnica, decide anche l’inizio del proprio inesorabile declino. L’innovazione scientista nega di fatto ogni formaepistemica. Per questa ragione Venezia vede nell’avanzare inesorabile della modernità la sicura minaccia, il non-confacente, l’improprio alla sua costituzione (fedeltà alle origini). Non è forse questa orgogliosa volontà di rinuncia l’unica chance alla sopravvivenza? A distanza di quattro secoli, invece, la (nostra) cultura contemporanea ne proclama paradossalmente la modernità ignorandone l’agonia. Ma di quale modernità si tratta, allora? Ovviamente il termine deve contenere un’ambiguità di fondo, rendendo confuse e opache idee realmente oppositive. Infatti, la modernità sacrale-originaria è di natura teologico-metafisicoepistemica; mentre la modernità scientifico-temporale è di natura tecnico-pratico-nichilista. Due modalità di pensiero radicalmente diverse, per presupposti e obbiettivi.

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Con il risultato che la (nostra) cultura contemporanea non vede più l’attualità di Venezia nella sua unità aristotelica: forma+corpo. Ne vede solo l’in-forme delle parti: l’apparire degli elementi disgiunti, fluttuanti. Così la forma (avendo già perso la propria sostanza sacrale) si eleva a effige per celebrarne il culto, mentre il corpo si riduce a simulacra, per dissacrarne la liturgia. Venezia, città stoica, rifiuta allora della modernità non la sua radicalità ma la sua parzialità. Non accetta una modernità temporale, provvisoria, ma aspira ad una modernità a-temporale, in consonanza con le sue origini mitico-sacrali. Il conflitto conservazione-innovazione riemerge dunque nello scontro (pesantemente squilibrato) tra i due paradigmi del pensiero occidentale: epistemico-teologico; tecnico-scientifico. All’interno di questo duplice orizzonte si colloca il progetto della sub-lagunare, il nuovo sistema territoriale di accessibilità a Venezia. In particolare il tema del workshop affronterà lo studio della stazione di uscita prevista nell’ambito del bacino marciano. Per la problematicità e “santità” del luogo si ripartirà dalla dialettica theorica e progettuale di Alvise Cornaro e Cristoforo Sabbadino e dal conflitto tra continuità-discontinuità per le Nuove Procuratie (Sansovino-Scamozzi). Sullo sfondo, la battaglia teologica tra Venezia

e Roma, tra il doge Leonardo Donà e il papato (avendo però in primo piano la battaglia tra nichilismo e metafisica) Il linguaggio e la forma della nuova stazione (la parte e l’intero dell’imago urbis) dovrà dunque affrontare il nodo tra: la temporalità della tecnica con l’intemporale della Prudentia. L’organizzazione del lavoro verrà decisa in rapporto al numero effettivo degli studenti iscritti. Bibliografia essenziale. M. Tafuri, Venezia e il Rinascimento, Einaudi, Torino 1985. M. Tafuri, La dignità dell’attimo, IUAV, Venezia 1994. R. Rizzi, Il Daimon di Architettura: theoria-eresia, Pitagora, Bologna 2006. G. Fabbri, Forme del movimento, Officina edizioni, Roma 2008.

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Benedetta Tagliabue è principale e unica associata dello studio EMBT. Nel 1991, Benedetta Tagliabue ed Enric Miralles cominciarono a lavorare insieme e presto divennero partners. Nel 1998 fondarono Miralles Tagliabue EMBT con sede a Barcellona. Il loro lavoro include alcuni edifici e spazi pubblici molto rappresentativi a Barcellona così come in altre città europee. EMBT attualmente sta lavorando sia per lo Stato ed enti pubblici, sia con

corporazioni e clienti privati. L’architettura di EMBT ha ricevuto numerosi premi internazionali: il Premio Nacional de Catalunya, il RIBA Best Building Award, il Premio FAD de Architettura, il Rietveld Prize, il BDA Architecture Preis. Lo studio ha partecipato ad esposizioni in tutto il mondo; in particolare: alla Biennale di Venezia (2002, 2004, 2006), alla Biennale di San Paolo (2003), all’AEDES Gallery di Berlino, Germania (2005), al Museo d’Arte Moderna di New York (2006),

al MOCA di Los Angeles (2006). Esposizioni monografiche riguardanti il lavoro di EMBT si sono tenute al Castel dell’Ovo a Napoli (2007), al CIVA di Bruxelles, all’Arc-en-Rêve di Bordeaux (2006), ecc. Tra gli ultimi lavori completati si ricordano: nel 2007 la Sede centrale del Gas Naturale, l’Edificio per uffici a Barcellona, la Biblioteca pubblica a Palafolls (Spagna), i pannelli acustici per il rinnovamento della Gran Via a Barcellona, le Case popolari a Figueres (Spagna), l’Hafencity ad

Fare caso al caso Intervista ad Elena Rocchi, collaboratrice di Benedetta Tagliabue Si gioca con realtà e immaginazione a Venezia, “città teatrale” per eccellenza. C’è un obiettivo specifico del corso? No, nessun obiettivo specifico, ma regole base con cui progettare. È importante che il progetto si svolga a Venezia, perché ci troviamo a Venezia. Se fossimo ad Istanbul progetteremmo ad Istanbul. Nel nostro lavoro è fondamentale confrontarsi con la realtà ed imparare ad usare l’immaginazione. Regole base: quali? Non lo sappiamo ancora, si vedrà giorno per giorno; la Chance guiderà il progetto, anche se non può considerarsi una regola vera propria: vogliamo introdurre nel pensiero architettonico la casualità. Nello studio EMBT ho scoperto che tutto ciò che accade nella vita, come ti vesti, che tempo fa... entrano a far parte del progetto. Ad esempio, il testo Come quotare un croissant (Enric Miralles, How to Lay Out a Croissant, «El Croquis: Omnibus Enric Miralles 19832000») è nato osservando i croissant che ogni giorno una ragazza portava in studio per la colazione: i croissant hanno tutti una forma definita, ma nessuno è uguale ad

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un altro. “Usare la casualità come regola”: sembra un paradosso. Si, ma l’architettura ha varie fasi e quella che noi prendiamo in considerazione è la più bella, è l’introduzione al progetto, che può essere anche la parte più drammatica. La Chance è un modo per iniziare a progettare. Come si fa a “regolare il caso”? Si tratta di un esercizio pedagogico: è importante che lo studente impari ad immaginare, la realtà si conosce. La scuola deve essere una sorta di palestra per allenare il pensiero e l’immaginazione. Sappiamo come controllare la realtà, ma c’è questo momento, all’inizio del progetto, in cui ognuno ha il suo processo di beginning. Tutte le cose che sembrano casuali entrano allora a far parte del progetto. Mi ricordo di un concorso di qualche anno fa, per un campus di laboratorio: era davvero difficile e Benedetta ad un certo punto disse: «Io non so che fare con questo plastico. Gli sparerei a questo campus»: ne è uscito un modello tutto pieno di buchi, ma è uno dei progetti più riusciti. Questa grande capacità di

usare il caso non è da tutti, molti cadono nella banalità, ma si può imparare. Quindi da un’emozione può nascere un progetto. L’architettura è riunire sempre tante linee invisibili ed io, quando vedo i ballerini danzare, sto lì, metto assieme il disegno fatto da questi ballerini e poi mi appaiono delle griglie incredibili... forse la deformazione della realtà è causata dalla passione che ho nei confronti del disegno, danza e architettura sono un binomio che gioca sulle linee invisibili. Non c’è nessuna invenzione: le cose stanno tutte li, bisogna solo vederle in modo speciale. Cunningham, nell’ultima sua rappresentazione, usa delle linee... e io credo rappresenti la poetica del disegno. È tutto uno stesso mondo invisibile che appartiene al mondo dell’immaginario e lega anche l’architettura. È un modo di vedere che non conoscevo; c’è chi nasce con questo modo di vedere: se lo hai, fai caso al caso e vedi ciò che nessun altro vede.

Amburgo, lo spazio pubblico Marco Polo Platz e la Magellanen Terrassen in Germania. Nel 2006 l’Arcelor, padiglione per esposizioni a Esch-sur-Alzette (Lussemburgo) e l’Edificio del rettorato dell’Università di Vigo (Spagna). Attualmente sono in fase di realizzazione una nuova stazione della metropolitana di Napoli, un Centro commerciale a Leeds (Gran Bretagna), la riabilitazione di un edificio industriale a Barcellona, un nuovo complesso di appartamenti

in una zona industriale dismessa a Barcellona, il Padiglione spagnolo per l’Expo di Shanghai 2010, il Parking-Spazio pubblico Ricard Viñes a Lleida (Spagna), la scenografia per la compagnia di danza di Merce Cunningham, una Scuola a Katmandu in Nepal. Il sito web dello studio EMBT è: http:\\www.mirallestagliabue.com

Iuav-Embt: studi per un progetto Benedetta Tagliabue collaboratore Elena Rocchi Questo workshop, come nostra abitudine durante i lavori con gli studenti, ci vedrà lavorare in parallelo ad un progetto reale che si sta investigando attualmente nello studio EMBT. Questo farà si che gli studenti si avvicinino alla realtà e che la realtà si avvicini all’immaginazione.

Roberta Boncompagni Laura Scala

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auditorium cotonificio

8 appuntamenti che contrappongono in una dialettica particolarmente vivace un architetto straniero e un architetto italiano. 8 incontri aperti al pubblico, oltre che ai 1800 studenti dei Workshop 2008, che indagano gli orientamenti dell’architettura.

Lunedì 7 Luglio ore 17 Verso una nuova rappresentazione? Debra Werblud e Franz Prati Martedì 8 Luglio ore 17 Verso un nuovo moderno? Dustin A. Tusnovics e Arman Akdogan & Felix Madrazo (IND) Mercoledì 9 luglio ore 17 Verso nuove tendenze? Angelo Bucci e Alberto Cecchetto Giovedì 10 luglio ore 17 Verso nuovi paradigmi estetici? Laura Thermes e Renato Rizzi

Chi e dove?

Servizio di copia, stampa e plottaggio In cosa consiste il servizio? Il servizio offre fotocopiatura in A4 e A3, stampa e plottaggio in bianco e nero e a colori, di file in vari formati tra i quali Pdf, Dwg, Dxf e altri. Gli aventi titolo al servizio devono recarsi presso il Centro Stampa Quattroesse di Francesco Montellato, sito al piano terra della sede delle Terese, con il materiale da fotocopiare e/o i file da stampare e plottare su Cd, Dvd o pen drive Usb, dopo aver eseguito una scansione antivirus degli stessi. Presso il Centro Stampa si troverà l’assistenza necessaria: il gestore, di volta in volta, valuterà se sia possibile eseguire i servizi richiesti al momento o, diversamente, ne indicherà l’ora del ritiro. Ci sono limiti ai servizi che si possono richiedere? Sì. Per ogni workshop è fissato il limite di 650 (seicentocinquanta) Euro quale controvalore dei servizi richiesti alle tariffe praticate da Quattroesse. Superato questo limite, Quattroesse non è autorizzata ad erogare ulteriori servizi se non a pagamento diretto. Sono vietati: fotocopiatura di dispense, stampa di tesi e tesine ecc!! Chi può accedere al servizio e quali sono le procedure? Possono accedere al servizio i docenti titolari dei corsi intensivi, assistenti e tutor, oltre agli studenti purché espressamente autorizzati dal docente, assistente o tutor. Ogni corso dispone di un “foglio di credito”, conservato dal docente titolare, e in copia da Quattroesse, sul quale vengono annotati i servizi erogati e il loro controvalore in Euro. Chi chiede di accedere al servizio deve obbligatoriamente portare la copia del “foglio di credito” conservata dal docente, richiedere a Quattroesse l’annotazione e controfirmarla in modo leggibile. Il mancato rispetto di questa procedura comporta la sospensione immediata del servizio.

Supplemento a Iuav-Giornale d’Istituto Registro stampa 1391 Tribunale di Venezia Direttore scientifico Marina Montuori Coordinamento di redazione Massimiliano Botti Direttore artistico Enrico Camplani Coordinamento redazionale Luca Caratozzolo Elisa Pasqual Laboratorio interfacoltà Far/Fda Nell’ambito dei workshop estivi aa 2007-8 Far/Fda_Iuav Redazione testi e immagini studenti Far Roberta Boncompagni Dario Breggiè Mariaelena De Dominici Letizia Ferrari Francesco Leoni Caterina Mendolicchio Nicoletta Petralla Giovanni Righetto Laura Scala Luca Stefanet Elena Stellin Elena Verga Elena Zadra

Santa Marta Primo piano Thermes, A1 Ciacci, A2 Rykwert – Ruan, B Rizzi, C Casamonti, D Dainese, E Semerani – Tamaro, F Rich, G Campeol, I Secondo piano Cibic, L1 Tagliabue, L2 Prati, M1 Cecchetto, M2 Carrilho – Albiero, N1 Bürgi – Cunico, N2 Dias, O1 Gausa, O2

Redazione grafica studenti Fda Irene Bacchi Benito Condemi de Felice Elvira del Monaco Claudia De Angelis Maria Polverino Gabriele Rivoli

Magazzini 6

Progetto grafico n.4 Federica Cavallin

Piano terra Femia – Peluffo, 0.1-0.3 Bucci, 02.-0.4 Tusnovics, 0.5-0.7 Nicolini, 0.8-0.10

Coordinamento multimediale Massimiliano Ciammaichella Ketty Brocca Redazione web video studenti Fda Ambra Arcangeli Enrico Ausiello Enrico Rudello

Primo piano Campos, 1.1-1.3 Tosi, 1.2-1.4 Gambardella, 1.7-1.9 Akdogan – Madrazo, 1.8

online http://laboratorio08.wordpress.com email laboratorio08@iuav.edu

Secondo piano Borgherini – Werblud, 2.3 (aula informatica) Accossato – Trentin, 2.2 Mancuso – Chun, 2.4 Fontana, 2.5 Redazione, 1.6

Lunedì 7 luglio 2008 Laboratorio08 Numero 5

Coordinamento generale Esther Giani

Separati alla nascita A sinistra un falsofontana (in realtà si tratta di Fabrizio Ciappina, collaboratore all’workshop della professoressa Thermes. Però anche voi, benedetti figliuoli, anche lo stesso nome avete!) pubblicato a pagina del numero 4; a destra il vero, riconoscibilissimo Fabrizio Fontana, docente di uno dei workshop 08. Chi ha colto le dieci piccole differenze merita il plauso incondizionato delle redazioni riunite in sessione plenaria. Ai Fabrizi le scuse e la promessa di aumentare le diottrie delle lenti da vista.

UNA SOCIETÀ DI FONC IÈRE DES RÉG IONS

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