Holding 02

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Società holding, residenza fiscale e attività di direzione e coordinamento

SOMMARIO 2.1

La residenza fiscale delle holding

2.2

La presunzione di esterovestizione delle holding nel TUIR

2.3

La residenza fiscale delle holding ai fini convenzionali

2.4

Applicabilità delle disposizioni convenzionali alle holding

2.5

Aspetti civilistici dell’attività di direzione e coordinamento

2.6

Implicazioni fiscali dell’attività di direzione e coordinamento

2


10 2.1

IL REGIME FISCALE DELLE SOCIETÀ HOLDING

La residenza fiscale delle holding Individuare la residenza di una persona giuridica è fondamentale per capire qual è il criterio da utilizzare per tassarla, in quanto, in linea di principio, un soggetto residente in Italia è tassato sui redditi ovunque prodotti (worldwide principle) mentre invece un soggetto non residente è tassato esclusivamente sui redditi prodotti in Italia1. L’art. 73, comma 3, del D.P.R. n. 917/1986 (di seguito TUIR) dispone che ai fini delle imposte dirette, si considerano residenti le società e gli enti che per la maggior parte del periodo d’imposta (183 giorni) hanno nel territorio dello Stato: ● la sede legale o ● la sede dell’amministrazione o ● l’oggetto principale Il legislatore tributario italiano ha quindi individuato tre criteri di collegamento per determinare lo status di residenza di una società, criteri che è bene sottolineare essere alternativi tra di loro, in quanto la società (o ente) è considerata residente allorquando una sola delle condizioni appena illustrate risulta soddisfatta. La sede legale, pur essendo agevolmente individuabile, rappresenta un dato meramente formale, (essendo individuabile all’interno dell’atto costitutivo o dello statuto), in quanto è pacifico che l’attività possa essere concretamente svolta in luoghi diversi da quelli specificamente indicati. L’oggetto esclusivo o principale del soggetto residente, ai sensi del comma 4 dell’art. 73, si intende l’attività essenziale per realizzare direttamente gli scopi primari indicata dalla legge, dall’atto costitutivo o dallo statuto2.

1 L’art. 73 del TUIR al comma 3 disciplina la residenza fiscale delle società. Sul concetto di residenza, cfr. in dottrina, senza pretesa di esaustività, G. Maisto, Brevi riflessioni sul concetto di residenza fiscale di società ed enti nel diritto interno e convenzionale, in Dir. Prat. Trib., I, 1988, pp. 1358 e ss; C. Garbarino, La tassazione del reddito transnazionale, Padova, 1990, pp. 186 ss., G. Marino, La residenza nel diritto tributario, Padova 1999, p. 8 ss.; dello stesso Autore, La residenza, in AA.VV. Diritto tributario internazionale, coordinato da V. Uckmar, Padova 2005, p. 359 ss.; R. Schiavolin, I soggetti passivi, in AA.VV., L’imposta sul reddito delle persone giuridiche. Imposta locale sui redditi, in Giurisprudenza sistematica di diritto tributario, a cura di F. Tesauro, Torino 1996, p. 99 ss.; G. Melis, La residenza fiscale delle società nell’IRES, in Corr. Trib., 2008, pp. 3495 e ss; dello stesso Autore, La residenza fiscale delle società nell’IRES: giurisprudenza e normativa convenzionale, in Corr. Trib. 2008, pp. 3648 ss., G. Fransoni, Concetto di residenza: prevalenza degli aspetti sostanziali, Nota a Comm. Prov. Verona, sez. IX, 28 aprile 2005, n. 24, in Bollettino tributario d’informazioni, 2006, XXI, pp. 1743 ss. 2 Cfr., in dottrina, P. Valente, Residenza ed esterovestizione. Profili probatori e schemi multi-test, in Il fisco, 2008, pp. 3975 ss. e L. Tosi e R. Baggio, Lineamenti di diritto tributario internazionale, Padova, 2007, pp. 33 ss., i quali definiscono l’oggetto principale come la sede in cui sono concen-


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Il concetto di sede dell’amministrazione3 non è invece definito né dalla normativa tributaria né da quella civilistica; secondo la giurisprudenza essa rappresenta il luogo in cui è svolta l’attività di direzione amministrativa e di gestione imprenditoriale. Anche la dottrina si è posizionata sulla stessa linea interpretativa, in quanto fa coincidere la sede dell’amministrazione con il luogo dal quale promanano gli impulsi volitivi dell’impresa. Assume quindi fondamentale importanza individuare il luogo in cui si forma la volontà dell’organo chiamato ad assumere le decisioni strategiche/gestionali, e non quindi, quello in cui vengono svolte le attività di routine (che altro non sono che la conseguenza di decisioni già prese a monte). Orbene, questo tipo di approccio interpretativo è entrato inesorabilmente in crisi con l’avvento dei nuovi sistemi di telecomunicazione, i quali hanno polverizzato il concetto di luogo in senso fisico così come comunemente riconosciuto. In realtà il problema, dal punto di vista delle società holding, è molto più ampio in quanto la peculiarità delle stesse, per definizione, è la detenzione di partecipazioni in altre società, caratteristica questa, che almeno in alcuni casi (vedi il mero possesso statico di cespiti patrimoniali per le holding pure), non consente di identificare in capo alla società holding lo svolgimento di un effettiva attività d’impresa. Si tratta di un elemento non trascurabile dato che i criteri di collegamento per individuare la residenza fiscale, tanto nel diritto interno quanto in ambito internazionale, presuppongono che il soggetto/ente svolga invece un effettiva attività industriale il ché mal si concilia con l’attività propria delle holding. Questo è il risultato della scelta di fondo fatta a suo tempo dal legislatore, il quale ha deciso di considerare sempre come redditi d’impresa quelli ottenuti mediante l’utilizzo di uno dei tipi societari messi a disposizione dall’ordinamento, dando così rilevanza non tanto al tipo di reddito prodotto quanto allo strumento utilizzato per produrlo.(a supporto di ciò è utile ricordare come in passato era particolarmente diffusa la prassi di costituire una società holding sottoforma di società semplice, un tipo societario che per definizione non può svolgere un attività commerciale).

trati principali interessi economici ed è svolta l’attività della società. 3 Come chiarito dalla Corte di Cassazione nella sentenza del 16 giugno 1984, n. 3604, la sede dell’amministrazione indica « il luogo ove hanno concreto svolgimento le attività amministrative e di direzione dell’ente e si convocano le assemblee, e cioè il luogo deputato, o stabilmente utilizzato, per l’accentramento – nei rapporti interni e con i terzi – degli organi e degli uffici societari in vista del compimento degli affari e della propulsione dell’attività dell’ente». La dottrina – cfr. G. Melis (La residenza fiscale delle società nell’IRES, cit. 2008, p. 3496) – in modo condivisibile, al fine di individuare la sede dell’amministrazione delle società, pone in guardia dal pericolo di attribuire rilevanza solamente al luogo in cui si svolgono solo formalmente le riunioni del Consiglio di amministrazione.


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A parere di che scrive tuttavia, il grado di complessità della problematica suesposta varia in base alla tipologia di holding che si intende considerare, talché, nel caso di holding «dinamiche», a differenza di quelle «statiche», non può negarsi che l’attività di direzione e coordinamento delle partecipate, per quanto potenzialmente impalpabile, configuri una vera a propri attività d’impresa. Le holding dinamiche si caratterizzano però per un diverso profilo problematico, sempre connesso alla sede dell’amministrazione. Sussiste infatti il rischio, per le società controllate, che implementando le linee guida strategiche elaborate dalla holding capogruppo, le stesse vengano considerate come mere esecutrici e che quindi la sede dell’amministrazione (nell’accezione sopra intesa) delle stesse, venga a coincidere con quella della controllante e quindi nello Stato di residenza della stessa. La questione discriminante diventa quindi l’individuazione del grado di autonomia riconosciuto agli organi amministrativi delle singole società controllate, in quanto il potere di direzione e controllo che per diritto spetta alla capogruppo, potrebbe e dovrebbe essere valutato a fronte della possibilità concessa agli amministratori di modificare gli impulsi volitivi ricevuti. L’argomento può sembrare poco concreto, ma cercando di semplificare il più possibile il concetto di cui sopra, potremmo dire che la holding capogruppo dovrebbe fissare gli obiettivi, lasciando autonomia alle singole controllate sul come raggiungerli. In tal senso risultano a nostro avviso fondamentali le disposizioni contenute all’interno degli Statuti, soprattutto da un punto di vista probatorio. Considerazioni particolari devono essere sviluppate in merito all’individuazione della residenza delle società holding pure, ossia quelle il cui oggetto sociale consiste esclusivamente nella detenzione e nella gestione di partecipazioni in altre società4. Tali soggetti, in altri termini, non svolgendo attività volte alla produzione, nonché allo scambio, di beni o servizi, non hanno bisogno di strutture logistiche e materiali di particolare rilevanza. Pertanto, come confermato anche dal recente orientamento comunitario5, dal momento che le società holding pure non richiedono una presenza fisica significativa sul territorio, in termini

4 Per un esame dei profili tributari delle holding di partecipazioni, cfr., in dottrina, L. Perrone, Problemi vecchi e nuovi in materia di imposizione sul reddito delle società e degli enti non residenti, in Rass. Trib., 2001, pp. 1230 ss.; G. Marino, La residenza delle persone giuridiche nel diritto tributario italiano e convenzionale, in Dir. Prat. Trib., 1995, Parte I, pp. 1463 ss.; G. Zizzo, Reddito delle persone giuridiche, in Riv. Dir. Trib., 1994, Parte I, pp. 650 ss.; C. Garbarino, La tassazione del reddito transnazionale, Padova, 1990, pp. 185 e 186; G. Maisto, Brevi riflessioni sul concetto di residenza fiscale di società ed enti nel diritto interno e convenzionale, in Dir. Prat. Trib., 1989, Parte I, pp. 1358 ss. 5 Si veda, sul punto, la comunicazione della Commissione Europea del 10 dicembre 2007, COM (2007) 785.


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di personale, locali e attrezzature, la residenza fiscale delle stesse, tanto ai fini convenzionali quanto ai sensi della legislazione tributaria italiana, non risulta di agevole determinazione. A tal proposito, ai fini dell’individuazione della residenza di una società holding di partecipazioni, non può certamente considerarsi adeguato il ricorso al criterio dell’oggetto sociale, in quanto, proprio in ragione dell’attività caratteristica svolta dalla holding, non è rinvenibile un radicamento materiale della stessa con un determinato territorio. A tal fine, infatti, come evidenziato in maniera condivisibile anche da Assonime6, non bisogna confondere l’oggetto principale dell’attività di impresa del soggetto controllante (nel nostro caso, l’attività di detenzione e gestione delle partecipazioni in altre società), con quello delle società operative partecipate, nonché con la collocazione dei beni da queste posseduti, che non assumono alcuna rilevanza ai fini in parola. La società holding svolge una propria attività economica autonoma e diversa da quella delle partecipate, consistente nell’esercizio della direzione e coordinamento delle partecipate, nonché, in certi casi, in attività ausiliarie (quali, quella di finanziamento, di gestione della tesoreria, ecc.) a favore delle partecipate stesse. La residenza della società holding pura dovrà, conseguentemente, essere ricercata facendo ricorso al criterio della sede dell’amministrazione, così come previsto dal comma 3 dell’art. 73 del TUIR. Nel caso in cui la verifica sulla residenza riguardi una società holding pura, tale aspetto risulta particolarmente importante in quanto, si tratta di stabilire se la società holding abbia autonomia gestionale circa l’attività delle società controllate, ovvero se questa si limiti a formalizzare le decisioni assunte a monte da altri soggetti, cioè i soci della holding. Come noto, la normativa interna non fornisce una definizione puntuale di «sede dell’amministrazione»; la stessa è, tuttavia, rinvenibile nella prassi dell’amministrazione finanziaria e in alcune pronunce giurisprudenziali, che, in estrema sintesi, identificano la sede dell’amministrazione nel luogo in cui è stabilita, organizzata e diretta effettivamente l’attività d’impresa, ossia il luogo da cui promanano gli impulsi volitivi dell’attività sociale7. Anche in seguito all’introduzione della norma sull’estero-vestizione societaria, l’Amministrazione finanziaria8 ha confermato tale orientamento individuando la

6 Cfr. Circolare Assonime 31 ottobre 2007, n. 67, rubricata «IRES – Soggetti residenti – La presunzione di residenza in Italia per le società o enti esteri cc.dd. “esterovestiti”». 7 Cfr. sentenze della Corte di Cassazione 9 giugno 1988, n. 3910, e 19 gennaio 1991, n. 505. 8 Cfr. circolare dell’Agenzia delle Entrate 4 agosto 2006, n. 28/E, rubricata «Accertamento – Violazioni e sanzioni – Imposte sui redditi – Riscossione – Nuove disposizioni di carattere fiscale contenute nel D.L. 4 luglio 2006, n. 223, convertito, con modificazioni, dalla L. 4 agosto 2006, n. 248». Cfr., sul punto, anche la circ. 21 febbraio 2003, n. 12/E, rubricata «Disposizioni in materia di sanatorie fiscali – L. 27 dicembre 2002, n. 289 (legge Finanziaria per il 2003) e successive modifiche apportate con il D.L. 24 dicembre 2002, n. 282».


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sede dell’amministrazione nel «luogo in cui la società svolge la sua prevalente attività direttiva e amministrativa per l’esercizio dell’impresa, cioè il centro effettivo dei suoi interessi, dove la società vive ed opera, dove si trattano gli affari e dove i diversi fattori dell’impresa vengono organizzati e coordinati per l’esplicazione ed il raggiungimento dei fini sociali». Tale assunto risulta applicabile, come in precedenza accennato, soltanto nel caso in cui la società la cui residenza debba essere verificata, sia in grado di svolgere in via autonoma l’attività direttiva e, più in generale, l’attività d’impresa sua propria, senza cioè limitarsi ad attuare decisioni assunte in altra sede e/o da altri soggetti. Da ciò consegue che la residenza fiscale della holding di partecipazioni tende a coincidere con il luogo in cui i soggetti, che di fatto detengono la funzione direttiva di più alto grado, assumono in concreto tutte quelle decisioni relative all’attività della holding stessa. In sostanza, l’individuazione della residenza di una società holding pura (rectius: la sede dell’amministrazione della società) non può essere determinata unicamente sulla base della residenza di una società che esercita sulla holding un rapporto di controllo ai sensi dell’art. 2359 del Codice civile; questo, infatti, riguarda essenzialmente il coordinamento delle rispettive attività e finalità9. In altri termini, come di recente chiarito dalla giurisprudenza10, «si tratta di un fenomeno che la normativa codicistica ben conosce, al punto che l’art. 2359 cod. civ. elabora la nozione delle società controllate, fra l’altro ricomprendendovi cui vi siano società che sono sotto «influenza dominante» di altre società in virtù di particolari vincoli contrattuali ed elabora anche la nozione di società collegate quando una società “esercita un’influenza notevole” sull’altra». Tale circostanza, infatti, a nulla rileva con l’individuazione della sede amministrativa dell’una e dell’altra società. La sede di una società holding, in definitiva, non può essere individuata avendo esclusivo riguardo alla naturale e fisiologica influenza che un socio di maggioranza

9 Sul punto, Assonime nella citata circolare n. 67/2007, ha affermato che «il dato rilevante è che l’attività di direzione e coordinamento esercitata dalla holding posta al vertice di un gruppo societario, come già osservato in altra sede (v. ns. circolare n. 23 del 9 maggio 2003), è tipicamente una attività di direzione strategica del tutto distinta dall’attività sostanziale di gestione dell’impresa “a valle”, della quale rimangono titolari le società controllate. La società capogruppo, infatti, non si ingerisce in quanto tale nell’attività di gestione delle società facenti parte del gruppo giungendo ad esercitare in proprio la loro attività di impresa, bensì si limita ad esercitare un’attività di coordinamento e direzione che è ontologicamente diversa da quella delle controllate. Dunque, non è possibile, di per sé, affermare in modo attendibile che l’oggetto sociale e/o la sede della amministrazione si collochino in Italia per effetto del controllo». 10 Cfr. sentenza della CTR Toscana del 18 gennaio 2008, n. 61, rubricata «Sede amministrativa della società estera – Holding – Detenzione partecipazioni in società residente all’estero – Sede amministrativa in Italia nei locali della società italiana – Obblighi imposti dalla normativa tributaria interna alle persone giuridiche residenti – Assoggettamento – Esclusione».


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è in grado di esercitare su di essa, in quanto ciò rappresenta un mero indizio e non elemento decisivo (al pari della residenza degli amministratori della società holding) ai fini dell’eventuale attrazione in Italia della società holding di diritto estero. Tale orientamento propone l’unica nozione di sede dell’amministrazione compatibile con il diritto comunitario11. Infatti, in caso contrario, se si utilizzasse quale unico criterio di attrazione della residenza di una società holding in Italia, la residenza dei soggetti che esercitano il controllo societario sulla stessa (soci ovvero amministratori), si determinerebbe una violazione del principio comunitario rappresentato dalla libertà di stabilimento, in quanto si imporrebbe alle holding estere (di una società italiana), condizioni più stringenti rispetto a quelle previste per la costituzione in Italia di una holding da parte di soggetti esteri. Queste considerazioni assumono particolare rilievo nell’ordinamento italiano, atteso che con il decreto legge del 4 luglio 2006, n. 223 è stata introdotta una presunzione legale di residenza (fiscale) in Italia di società formalmente costituite all’estero ma amministrate, controllate e gestite da soggetti italiani (per la maggiori dettagli si rinvia al paragrafo successivo). 2.2

La presunzione di esterovestizione delle holding nel TUIR Il decreto legge 4 luglio 2006, n. 223 (decreto Bersani) all’art. 35, comma 13, ha introdotto nel nostro ordinamento una presunzione legale relativa in base alla quale si presume esistente in Italia la sede dell’amministrazione di società, ovvero enti, formalmente costituite all’estero, ma nella sostanza amministrate, controllate e gestite da soggetti italiani12. In particolare, sono stati introdotti nell’art. 73 del TUIR il comma 5-bis e il comma 5-ter. Il comma 5-bis dispone che, salvo prova contraria, si considera esistente nel

11 Cfr., in dottrina, in senso conforme, E. Iascone, La residenza fiscale delle società: il caso delle holding di partecipazioni, in Riv. Dir. Trib., 2008, Parte V, p. 173 ss. 12 Cfr., in dottrina, A. Ballancin, Note in tema di esterovestizione societaria tra i criteri costitutivi della nozione di residenza fiscale e l’interposizione elusiva di persona, in Riv. Dir. Trib, 2008, I, pp. 975 ss.; E. M. Bagarotto, La residenza delle società nelle imposte dirette alla luce della presunzione di «esterovestizione», in Riv. Dir. Trib, 2008, I, pp. 1155 ss.; E. Iascone, La residenza fiscale delle società: il caso delle holding di partecipazioni, in Riv. Dir. Trib, 2008, V, p. 173 ss.; M. Antonini, Un’ulteriore presunzione in tema di residenza fiscale di società ed enti: l’amministrazione finanziaria ancora una volta sollevata (parzialmente) dall’onere probatorio, in Riv. Dir. Trib, 2009, V, p. 49 ss.; D. Stevanato, La presunzione di residenza delle società esterovestite: prime riflessioni critiche, in Corr. Trib., 2006, pp. 2952 ss.; R. Rizzardi – R. Lugano – E.M. Simonelli, La residenza fiscale delle società tra esterovestizioni e nuove presunzioni attrattive, in Riv. Dott. Comm., 2006, pp. 1107 ss.; G. Marino - R. Lupi, Quale valore sistematico per le nuove disposizioni sulla residenza in Italia delle «holding estere»?, in Dialoghi dir. trib., 2006, pp. 1013 ss.


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territorio dello Stato la sede dell’amministrazione di società ed enti che detengono partecipazioni di controllo, ai sensi dell’art. 2359, comma 1, del Codice civile, nei soggetti di cui alle lett. a) e b) del comma 1 se, in alternativa: a. sono controllati, anche indirettamente, ai sensi dell’art. 2359, comma 1, del Codice civile, da soggetti residenti nel territorio dello Stato; b. sono amministrati da un Consiglio di amministrazione, o altro organo equivalente di gestione, composto in prevalenza di consiglieri residenti nel territorio dello Stato13. Tale normativa – che si applica – per la generalità dei soggetti – a decorrere dal periodo di imposta 2006 – a giudizio della nostra Amministrazione finanziaria (cfr. circ. n. 28/2006) persegue (probabilmente in maniera eccessivamente sproporzionata) l’obiettivo di migliorare l’efficacia dell’azione di contrasto nei confronti delle pratiche elusive, facilitando il compito dei verificatori nell’accertamento degli elementi di fatto per la determinazione della sede dell’amministrazione effettiva delle società, valorizzando gli aspetti certi, concreti e sostanziali della fattispecie, in luogo di quelli formali, in conformità al c.d. principio della substance over form (prevalenza della sostanza sulla forma) utilizzato in campo internazionale. L’Amministrazione finanziaria ha commentato la disposizione in argomento oltre che nella circ. n. 28/2006 anche nella circ. n. 11/2007 e nella ris. n. 312/2007; l’Assonime ha fornito importanti chiarimenti nella circ. n. 67/2007. Lo schema societario tipico contemplato dalla norma è riportato nelle tavole 2.1 e 2.2:

13 A nostro avviso, ancorché siano comprensibili le finalità antielusive che hanno spinto il legislatore all’introduzione della normativa, il semplice fatto della presenza nel Consiglio di amministrazione della società estera della maggioranza di amministratori residenti in Italia non dovrebbe essere elemento sufficiente a far presumere esistente nel nostro Paese la sede dell’amministrazione del soggetto estero; è pur vero che sussiste la possibilità della prova contraria, ma è altresì vero che in questo modo posto si lega la residenza di soggetto giuridico a elementi che potrebbero essere anche non «economici» quali ad esempio il centro dei legami affettivi e familiari degli amministratori della società estera.


2. SOCIETÀ HOLDING, RESIDENZA FISCALE E ATTIVITÀ DI DIREZIONE E COORDINAMENTO

Tavola 2.1

BETA Società con sede in uno Stato UE

ALFA S.p.a. Controllo diretto o indiretto (controllo passivo)

Controllo diretto (controllo attivo)

BETA Società con sede in uno Stato UE

Tavola 2.2

ALFA Società con sede in uno Stato UE

Controllo

BETA Società con sede in altro Stato UE Maggioranza amministratori residenti in Italia

Controllo diretto

GAMMA S.p.a.

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In tali due fattispecie presuntive (che operano alternativamente), a giudizio del nostro Legislatore, sussiste un attendibile, nonché stabile, collegamento territoriale della struttura estera con il nostro Paese. 2.2.1

Alcune osservazioni sul requisito del controllo Nella tavola 2.1 si ritiene esistente in Italia la sede dell’amministrazione di Beta quando quest’ultima detenga il controllo diretto di Gamma S.p.a. (società italiana) e sia a sua volta controllata anche indirettamente da Alfa S.p.a. (società italiana); il controllo di Beta su Gamma S.p.a. – c.d. controllo attivo – può essere solo diretto e deve essere esercitato ai sensi del comma 1 dell’art. 2359 del Codice civile il quale, come noto, prevede tre fattispecie di controllo: 1. controllo di diritto che si configura quando la società dispone, direttamente o indirettamente, della maggioranza dei voti esercitabili nell’assemblea ordinaria della società controllata; 2. controllo di fatto esistente quando la società dispone dei voti sufficienti per esercitare un’influenza dominante nell’assemblea ordinaria della società controllata; 3. controllo in base a vincoli contrattuali che si ha quando una società esercita un’influenza dominante su di un’altra in base a vincoli contrattuali, ossia in base a contratti o clausole statutarie. Tuttavia, poiché il comma 5-bis dell’art. 73 del TUIR fa esplicito riferimento alla detenzione, da parte della società o ente estero, di partecipazioni di controllo, va ritenuto che il controllo in esame deve essere esercitato solo tramite la detenzione di un possesso partecipativo nel soggetto italiano; ne consegue, quindi, che la nozione di controllo c.d. attivo rilevante è solamente quella di cui ai numeri 1) e 2) del comma 1 dell’art. 2359 del Codice Civile e, pertanto, rilevano esclusivamente le fattispecie di controllo di diritto e di faitto. Il controllo di Alfa S.p.a. su Beta – c.d. controllo passivo – deve essere esercitato, anche indirettamente, ai sensi del comma 1 dell’art. 2359 del Codice civile e, quindi, secondo le tre fattispecie di controllo in precedenza menzionate; tuttavia, a differenza di quanto osservato in relazione al c.d. controllo attivo, poiché nella norma non viene operato nessun riferimento alla detenzione di partecipazioni – e, quindi, al possesso partecipativo – tale controllo oltre che di diritto, ovvero di fatto, può essere esercitato sul soggetto estero anche in base a vincoli contrattuali. Ne consegue, quindi, che il concetto di controllo passivo, proprio perché comprendente anche l’ipotesi di controllo esercitato in base a particolari vincoli contrattuali, risulta essere più ampio di quello di controllo attivo. Per espressa previsione normativa, il controllo passivo della società non residente da parte del soggetto residente, esercitato secondo le caratteristiche in precedenza commentate, sia diretto che indiretto. Inoltre, come chiarito nella circolare ministeriale n. 28/2006 (par. 8), la presunzione


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di cui alla lett. a) del comma 5-bis dell’art. 73 del TUIR opera anche nelle ipotesi in cui tra i soggetti residenti controllanti e controllati si interpongano più sub-holding estere. La presunzione di residenza in Italia della società estera che direttamente controlla una società italiana, renderà operativa, infatti, la presunzione anche per la società estera inserita nell’anello immediatamente superiore nella catena societaria; quest’ultima si troverà, infatti, a controllare direttamente la sub-holding estera, considerata residente in Italia Nell’esempio proposto alla tavola 2.3, la presunzione di residenza in Italia di Delta renderà operativa la presunzione anche per Beta, inserita nell’anello immediatamente superiore della catena societaria; ovviamente, se Delta supera la presunzione di estero vestizione, Beta, non controllando direttamente Gamma S.p.a., non potrà essere considerata fiscalmente residente nel nostro Paese14. Tavola 2.3

ALFA S.p.a.

BETA Società con sede in altro Stato UE

Controllo diretto / indiretto

DELTA Società con sede in altro Stato UE

Tavola 2.3

GAMMA S.p.a.

Patto parasociale e art. 2359 del Codice civile

14 Secondo l’Assonime (Circolare n. 67/2007) «tale interpretazione muove dall’assunto che, una volta riqualificata in via presuntiva la residenza della sub-holding estera che direttamente controlla la società residente (…) lo stesso meccanismo presuntivo possa essere attivato anche nei confronti della holding estera inserita nell’anello immediatamente superiore della catena societaria, visto che questo si ritroverà, per effetto della presunzione, a controllare direttamente la sub-holding divenuta, in virtù della presunzione, residente in Italia. In pratica, il meccanismo presuntivo sarebbe reiterabile verso l’alto, risalendo la sequenza dei rapporti di controllo tra sub-holding estere». La stessa Assonime, tuttavia evidenzia che pur trattandosi «di un’interpretazione che gode di un indubbio supporto di tipo logico-esegetico (…) sembra fondarsi su un meccanismo presuntivo che trova la propria fonte in un’altra presunzione, determinando un effetto amplificativo dell’ambito di applicazione della norma rispetto al suo testo letterale».


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Si ritiene che, anche qualora si disponga della maggioranza assoluta dei diritti di voto, l’esistenza di un patto parasociale15, (quali, per esempio, i sindacati di voto16 edi blocco) che di fatto impedisce – e non semplicemente limita – ad una società di esercitare un’influenza dominante nell’assemblea ordinaria di un’altra società non dovrebbe far ritenere operante la presunzione di esterovestizione di quest’ultima società17. Pur non essendo questa le sede per sviluppare approfondite osservazioni sul tema dei patti parasociali, osserviamo che per effetto della stipulazione di questi, i soci aderenti si impegnano ad esercitare il proprio diritto di voto in assemblea in un determinato modo, in relazione a determinati oggetti sociali; tali accordi atipici18 producono effetti obbligatori solamente tra i soci aderenti e non nei confronti della società, degli altri soci non aderenti al patto e neppure nei confronti dei terzi. I soci che aderiscono al patto19 pur vedendosi limitata di

15 Cfr., in dottrina, per tutti F. Galgano - P. Zanelli - G. Sbisà, Società per azioni, Libro quinto: Lavoro art. 2325-2341-ter, in Commentario del Codice Civile Scialoja-Branca a cura di F. Galgano, pp. 198 ss.; F. Bonelli, P.G. Jaeger (a cura di), Sindacati di voto e sindacati di blocco, Milano 1993; G. Santoni, Dei patti parasociali, in La riforma delle società a cura di M. Santoro e V. Sandulli. 16 Il sindacato di voto è una fattispecie dei patti parasociali, attraverso i quali i soci dispongono, in modo separato, dei diritti a loro derivanti dallo status di socio; in particolare, si è fatto esplicito riferimento ai sindacati di voto nell’art. 23 del Testo Unico delle leggi in materia bancaria e creditizia (D.lgs. n. 385/1993), nell’art. 26, secondo comma, del D.lgs. n. 127/1991, in tema di redazione del Bilancio Consolidato, nell’art. 10, comma 2, della L. n. 20/1991 in tema di società assicurative e nell’art. 93 del D.lgs. n. 58/1998 in tema di società quotate. 17 Tra l’altro, si tenga presente che negli accertamenti compiuti in tema di esterovestizione societaria i verificatori sempre più tendono a valorizzare gli aspetti certi, concreti e sostanziali della fattispecie, in luogo di quelli formali, in conformità al principio della substance over form. 18 Sul punto, riteniamo particolarmente interessanti, da un punto di vista di diritto e di fatto, le conclusioni cui è giunta la Corte di Cassazione nella sentenza 23 novembre 2001 n. 14865 nella quale i giudici di legittimità hanno chiarito che «i patti parasociali (e, in particolare, i c.d. sindacati di voto) sono, nella loro composita tipologia (che non consente, pertanto, la riconduzione ad uno schema tipico unitario), accordi atipici, volti a disciplinare, in via meramente obbligatoria tra i soci contraenti il modo in cui dovrà atteggiarsi sui vari oggetti (…) il loro diritto di voto in assemblea. Il vincolo che discende da tali patti opera, pertanto, su un terreno esterno a quello dell’organizzazione sociale (dal che, appunto, il loro carattere “parasociale” è, conseguentemente, l’esclusione della relativa invalidità ipso facto) sicché non è legittimamente predicabile al riguardo, né la circostanza che al socio stipulante sia impedito di determinarsi autonomamente all’esercizio del voto in assemblea, né, quella che il patto stesso ponga in discussione il corretto funzionamento dell’organo assembleare (…) poiché al socio non è alcun modo impedito di optare per il non rispetto del patto di sindacato ogni qualvolta l’interesse ad un certo esito della votazione assembleare prevalga sul rischio di dover rispondere all’inadempimento del patto». 19 Conformemente agli orientamenti giurisprudenziali pratici e teorici, la proposizione iniziale dell’art. 2341-bis c.c. conferma che i patti parasociali possono essere conclusi anche oralmente, con la conseguenza che la loro esistenza può essere dedotta anche dal comportamento concludente dei soci. Cfr. il decreto 28 febbraio 2003 della Corte di Appello di Milano, in Giur. It., 2003, pp.


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fatto la loro libertà, con riferimento ad esempio all’esercizio del diritto di voto nell’assemblea della società partecipata, intendono tutelare un loro particolare interesse. Da un punto di vista pratico, potranno aversi patti parasociali relativi agli utili, al finanziamento della società partecipata, ovvero relativi alla nomina degli amministratori; va, comunque, osservato che non tutti i patti che nella prassi vengono stipulati sono interessati dalla relativa disciplina prevista dal Codice civile. Infatti, l’art. 2341-bis c.c. si riferisce esclusivamente ai patti che al fine di stabilizzare gli assetti proprietari o il governo della società: a. hanno per oggetto l’esercizio del diritto di voto nelle società per azioni o nelle società che le controllano – sindacati di voto; b. pongono limiti al trasferimento delle relative azioni o delle partecipazioni in società che le controllano – sindacati di blocco; c. hanno per oggetto o per effetto l’esercizio anche congiunto di un’influenza dominante su tali società. Autorevolissima dottrina20 ha ritenuto che l’elencazione contenuta nell’art. 2341-bis non ha tanto lo scopo di tipizzare la classificazione dei patti parasociali, per consentire di valutare se una singola convenzione sia riconducibile all’una, o all’altra categoria, quanto quella di rendere più agevole l’identificazione di quelli presi in considerazione e questi vengono individuati in relazione allo scopo cui sono diretti che deve essere quello di «stabilizzare gli assetti proprietari o il governo della società». La norma quindi si propone di delimitare l’insieme dei patti presi in considerazione, che sono tutti disciplinati nello stesso identico modo, e dunque di consentire l’individuazione di quelli che sono esclusi dall’ambito di applicazione della relativa disciplina. Deve essere altresì ricordato che i patti parasociali hanno una durata limitata nel tempo, con la conseguenza che se stipulati a tempo indeterminato non potranno avere una durata superiore a 5 anni, rinnovabile alla scadenza. Con particolare riferimento alla presunzione di «esterovestizione» delle società, a nostro avviso, nell’esempio riportato alla tavola 2.1, l’esistenza di un patto parasociale che impedisce – e non semplicemente limita – ad Alfa S.p.a. di determinare in modo unilaterale l’indirizzo operativo di BETA in autonomia rispetto ad altri eventuali soci di minoranza di Beta dovrebbe rendere inoperante la presunzione in esame; in questo caso, infatti, il pacchetto azionario posseduto da Alfa S.p.a. in Beta pur essendo rappresentativo di un rapporto di controllo civilistico di diritto, ovvero di fatto, non è in grado di orientare l’assemblea

1875 ss. con nota di P. Fiorio, nonché dello stesso Autore, Dei patti parasociali, in il nuovo Diritto societario diretto da G. Cottino, G. Bonfante, O. Cagnasso, P. Montalenti, pp. 145 ss. 20 Cfr. F. Galgano, P. Zanelli, G. Sbisà, op. cit., p. 208.


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ordinaria di Beta21. Analoghe conclusioni dovrebbero valere anche con riferimento al c.d. «controllo attivo», detenuto da Beta su Gamma S.p.a. A tal fine, riteniamo utile richiamare la Comunicazione Consob DAC/98076144 del 28 settembre 1998 relativa al consolidamento della partecipazione nella Banca Popolare di Spoleto da parte della Spoleto Crediti e Servizi; in tale fattispecie, la Spoleto Crediti e Servizi benché possedesse la maggioranza assoluta dei diritti di voto non era stata ritenuta controllante della banca popolare, in quanto erano stati stipulati dei patti parasociali che impedivano – e non semplicemente limitavano – alla Spoleto Crediti e Servizi di esercitare un’influenza dominante sia nelle assemblee che nel consiglio di amministrazione della Banca popolare. Nello stesso senso, la Comunicazione Consob DEM/3074183 del 13 novembre 2003 avente ad oggetto la qualificazione dei rapporti partecipativi che intercorrevano tra Pirelli S.p.a. e Olimpia S.p.a., nonché tra quest’ultima e Olivetti S.p.a., con riguardo al periodo cha ha preceduto la fusione per incorporazione di Holy S.p.a. in Olimpia e la fusione per incorporazione di Telecom Italia in Olivetti. In tale Comunicazione è stato ritenuto che la situazione di controllo di diritto di cui all’art. 2359 c.c. dipende dalla capacità del pacchetto azionario posseduto di orientare la volontà dell’assemblea ordinaria della partecipata. Ricordiamo, pur non condividendone le conclusioni, che l’Amministrazione finanziaria nella recente ris. n. 245/2009, interpretando il requisito del controllo rilevante nell’ambito della disciplina del Consolidato Fiscale Nazionale, ha ritenuto che il requisito del controllo di diritto di cui al numero 1, comma 1, dell’art. 2359 c.c (richiamato dall’art. 117 del TUIR) deve essere verificato a prescindere dalla reale influenza decisionale all’interno del gruppo da parte di una società e senza tenere conto di quanto disposto da determinate clausole statutarie che, nello specifico, potrebbero assegnare il controllo di fatto ad un socio di minoranza. In altri termini, l’eventuale impossibilità, di fatto, del soggetto controllante di diritto di esercitare il potere di determinare in modo unilaterale e autonomo le scelte gestionali della società consolidata e di imporre definitivamente e autonomamente la propria volontà nell’organo assembleare di quest’ultima, non costituisce causa ostativa all’attivazione del regime del consolidato nazionale, qualora, come nel caso di specie, detto soggetto detenga una partecipazione cui corrisponde la maggioranza dei diritti di voto esercitabili nell’assemblea ordinaria della società partecipata.

21 Cfr., sul concetto di controllo congiunto, anche le comunicazioni Consob DEM/DCL/8033950 dell’11 aprile 2008 e DEM/DCL/8033952 dell’11 aprile 2008, emanate dalla Consob con riferimento alla presentazione di liste per collegio sindacale da parte di soci di minoranza e, quindi, volte a tutelare interessi (quali quelli dei soci di minoranza) forse non coincidenti con quelli di cui in argomento.


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Il caso particolare delle società fiduciarie Un caso particolare potrebbe essere quello in cui il controllo è detenuto ad esempio dal soggetto controllante italiano nella società estera per il tramite di una società fiduciaria. Preliminarmente occorre osservare che lo strumento giuridico utilizzato in prevalenza dalle società fiduciarie di cui alla legge 23 novembre 1939, n. 1966, per amministrare beni per conto di terzi è quello del mandato fiduciario22 senza rappresentanza limitato alla mera amministrazione di beni per conto del soggetto fiduciario; in questa ipotesi mentre la proprietà sostanziale dei beni (titoli e partecipazioni) rimane in capo al soggetto fiduciante la società fiduciaria per effetto del pactum fiduciae acquisisce la legittimazione a disporre degli stessi nei limiti di questo. In altri termini, nel mandato fiduciario utilizzato dalle società fiduciarie secondo lo schema riconducibile prevalente alla c.d. fiducia germanistica si verifica una dissociazione tra proprietà e intestazione dei beni, a differenza di quanto avviene invece nell’ambito del negozio fiduciario c.d. romanistico23, nel quale non si verifica una separazione tra proprietà sostanziale dei beni e intestazione degli stessi24. Più in particolare, mentre in passato la giurisprudenza, ad esempio nelle sentenza della Corte di Cassazione 29 novembre 1983, n. 7152, e della Corte di Appello di Milano 3 luglio 1992, riconduceva il negozio fiduciario al c.d. schema della fiducia romanistica – ritenendo il soggetto fiduciario il reale titolare delle quote, ovvero delle azioni da lui amministrate – a seguito dell’entrata in vigore della legge 2 gennaio 1991, n. 1 (relativa alla normativa sulle società di intermediazione mobiliare)25 si sono avute delle

22 Con particolare riferimento al negozio fiduciario in genere cfr. in dottrina S. Pugliatti, Fiducia e rappresentanza indiretta, in Dir. civ. - Metodo, teoria, pratica, Milano, 1951, pp. 201 ss., nonché dello stessi Autore, Precisazioni in tema di vendita a scopo di garanzia, op. cit., pp. 334 ss.; P. Trimarchi, Negozio fiduciario, in Enc. Dir., XXVIII, Milano, 1978, pp. 32 ss. 23 Nei rapporti di fiducia di tipo romanistico si parla di interposizione reale di persone, con la conseguenza che con l’intestazione fiduciaria il soggetto interposto acquista la titolarità effettiva di un bene ma sulla base di un rapporto obbligatorio interno con il soggetto interponente deve non solo attenersi al comportamento convenuto con il soggetto fiduciante ma anche a retrocedere i beni a quest’ultimo nel caso in cui si verifichi una situazione che determina il venir meno del pactum fiduciae. Su tale ultimo aspetto, cfr. le sentenze della Corte di Cassazione 27 novembre 1999, n. 13261, 23 giugno 1998, n. 6246, 14 ottobre 1995, n. 10768, 29 novembre 1993, n. 7152 e 16 novembre 2001, n. 14375. 24 Per un’analisi approfondita di tale tematica, cfr. in dottrina G. Corasaniti, Profili impositivi dell’intestazione fiduciaria, in Dir. Prat. Trib., n. 4/2009, pp. 727 ss., nonché lo Studio n. 86/2003/T del Consiglio Nazionale del Notariato. 25 Si confronti sul tema anche la Comunicazione Consob del 18 aprile 2008, n. DIN/8036154 (diffusamente commentata da G. Corasaniti, op. cit., in particolare nella nota 15, p. 733) la quale ha ammesso, al ricorrere di particolari condizioni, la possibilità per le SIM di essere intestatarie per


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significative aperture verso un’impostazione di stampo più germanistico alla materia, tant’è che la giurisprudenza ha costantemente affermato che gli effettivi proprietari dei beni affidati alla società fiduciaria sono gli stessi soggetti fiducianti e che l’intestazione fiduciaria pur non potendo essere considerata fittizia, in quanto effettivamente voluta, ha carattere formale (si confronti per tutte la sentenza della Corte di Cassazione 14 ottobre 1997, n. 10031)26. Tale principio ha trovato in particolare il suo ingresso nel nostro ordinamento con l’art. 17 della legge n. 1/1991 citata il quale ha di fatto esteso alle società fiduciarie27 l’applicazione dell’art. 8 della medesima legge il quale dispone che: a. il patrimonio conferito in gestione dai singoli clienti costituisce patrimonio separato, a tutti gli effetti, da quello della società o di altri clienti; b. sul patrimonio conferito in gestione non sono ammesse azioni dei creditori della società o nell’interesse degli stessi; c. le azioni dei creditori dei singoli clienti sono ammesse nei limiti del patrimonio di loro proprietà. Venendo ai profili qui di interesse, ci preme osservare che nella sopra descritta accezione germanistica dell’intestazione fiduciaria il titolare effettivo delle partecipazioni non è il soggetto fiduciario ma il soggetto fiduciante con la conseguenza che è in capo a quest’ultimo che va accertata l’eventuale sussistenza dei presupposti richiesti dalla norma al fine di rendere operante la presunzione di esterovestizione. Detto in altri termini, l’intestazione fiduciaria di partecipazioni – con riferimento sia al c.d. controllo attivo che al c.d. controllo passivo – risolvendosi in un’interposizione meramente formale (inquadrabile, appunto, nell’ambito del mandato senza rappresentanza) non è tale da rendere inoperante la presunzione in esame. Tale conclusione ci sembra avvalorata dalla circostanza che nell’ambito della fiducia germanistica la società fiduciaria deve dichiarare le generalità28 degli effettivi proprietari dei titoli azionari intestati a nome proprio;

conto dei propri fiducianti di contratti di gestione individuali e, quindi, di conferire a queste ultime incarichi di gestione patrimoniale. 26 Tale sentenza è stata commentata in Giur. Comm., 1998, 25.3, 299, II, con nota di F. Di Maio. 27 Tale applicazione estensiva non è condivisa da una parte della dottrina (cfr. U. Morello, Fiducia e negozio fiduciario: dalla riservatezza» alla «trasparenza», in I Trust in Italia oggi, Milano,1996). 28 Come noto, le società fiduciarie sono obbligate a compilare il quadro SK della dichiarazione del sostituto d’imposta – Modello 770 (in particolare riga SK8 e SK9). Tale sezione deve essere compilata dalle società fiduciarie per indicare i propri fiducianti che abbiano optato per la trasparenza fiscale ai sensi degli artt. 115 e 116 dei TUIR. Cfr. anche ris. 7 dicembre 2006 n. 136, nella quale è stato chiarito che nel caso di quote di soci accomandanti formalmente intestate ad una società fiduciaria gli effettivi titolari di tali partecipazioni restano i fiducianti i quali dovranno essere considerati gli effettivi possessori del reddito prodotto dalla società di persone partecipata e tassato per


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inoltre, come si è avuto modo di osservare, le partecipazioni detenute, ovvero acquistate, fiduciariamente sono riferibili direttamente al patrimonio del soggetto fiduciante il quale ne rimane l’effettivo proprietario. Detta qualificazione del rapporto fiduciario è stata altresì confermata dalla giurisprudenza di legittimità e di merito29; in particolare, la Corte di Cassazione nella sentenza 23 settembre 1977, n. 9335, dopo aver incidentalmente chiarito che nel caso in cui il fiduciario sia rappresentato da una società fiduciaria che esercita in via istituzionale l’attività di amministrazione di beni per conto di terzi deve applicarsi al mandato fiduciario lo schema della fiducia di tipo germanistico, ha ritenuto che «la società fiduciaria per definizione amministra beni non propri, cioè non riveste, anche nei confronti dei terzi, la qualità di proprietaria dei beni amministrati. Nello specifico settore dei titoli azionari, poi, l’art. 1, ultimo comma, del R.D. 29 marzo 1942, n. 239, (...) esclude chiaramente che, nel caso di intestazione fiduciaria di titoli azionari, la società fiduciaria possa essere considerata proprietaria dei titoli stessi30». In una successiva elaborazione giurisprudenziale della fiducia germanistica fatta propria dalla Corte di Cassazione nella sentenza n. 10031/1997 citata, si è posto ulteriormente l’accento sulla separazione tra titolarità formale del diritto e legittimazione al suo esercizio31 e, in particolare, sulla duplice circostanza che la proprietà della società fiduciaria ha carattere formale, in quanto il fiduciante malgrado l’intestazione fiduciaria conserva la proprietà effettiva dei beni ed è in grado di disporne senza la necessità di alcun formale ritrasferimento di detto bene da parte della società fiduciaria e che la società fiduciaria è legittimata quindi all’esercizio di un diritto altrui. Si osservi altresì che come ritenuto da autorevole dottrina32 con la quale ci

trasparenza pro-quota in capo alle stesse. 29 Cfr. sentenza del Tribunale di Lecce del 18 marzo 2008, n. 831 nella quale a conferma della riconducibilità del mandato di amministrazione fiduciaria allo schema della fiducia germanistica è stato chiarito che la rinuncia al mandato fiduciario da parte della società fiduciaria fa venir meno la scissione tra titolarità effettiva e titolarità formale. 30 Cfr. in senso conforme anche le sentenze della Corte di Cassazione del 21 maggio 1999 n. 4943 e del 23 settembre 1997 n. 9355. 31 Secondo l’interpretazione data dal Consiglio nazionale del Notariato cfr. Studio n. 86/2003/T cit., questa particolare impostazione deriva da una peculiarità dell’ordinamento tedesco «il § 185 del BGB [Bürgerliches Gesetzbuch. Codice civile tedesco] che, introducendo una eccezione, anche all’interno di tale ordinamento, al principio che in linea generale esclude limitazioni al potere di disposizione di diritti reali (…) è stato interpretato nel senso di ritenere ammissibile una piena scissione tra titolarità ed esercizio del diritto». Si ricorda che il il § 185 del BGB dispone che «Eine Verfüng, die ein Nichtberechtigter über einen Gesenstand triff, ist wirksam, wenn sie mit Einwilligung des Berechtigen erfolgt» («Un atto dispositivo compiuto da chi non è titolare è efficace se avviene con il previo consenso da parte del non titolare»). 32 Cfr. G. Corasaniti op. cit., p. 737


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sentiamo di concordare «sempre a conferma dell’assenza, nel caso di intestazione fiduciaria dei beni, di un qualsiasi effetto di “separazione patrimoniale” dalla sfera giuridica del fiduciante dei beni fiduciati, è sufficiente tenere presente che, da un lato, se i creditori del fiduciante riescono a dimostrare che lui è il titolare effettivo di un determinato bene (oggetto di intestazione fiduciaria), seppur intestato formalmente ad una società fiduciaria, quel bene può essere oggetto di esecuzione da parte dei creditori dall’altro lato, i creditori della società fiduciaria non possono aggredire i beni a quest’ultima intestati (fiduciariamente) per conto altrui; di converso, è consentito al soggetto fiduciante (effettivo titolare) rivendicare tali beni presso terzi avente causa della società fiduciaria, a meno che questa non abbia ricevuto mandato all’alienazione degli stessi». I beni oggetto di intestazione fiduciaria non si confondono mai con il patrimonio della società fiduciaria33 «ma ciò non in virtù di una segregazione, bensì in forza del dato di fatto (e giuridico) che tali beni non divengono di proprietà della società fiduciaria, la quale ne è solamente intestataria formale, al fine, appunto, di svolgere l’attività di amministrazione sulla base delle direttive impartite dal fiduciante attraverso il mandato fiduciario34». Posto che la fiducia germanistica è alla base della legislazione delle società fiduciarie, da un punto di vista fiscale dalla prevalenza della titolarità effettiva dei beni in capo al fiduciante rispetto a quella apparente della società fiduciaria35 rende

33 Sul particolare e delicato tema del fallimento delle società fiduciarie, cfr., in dottrina P.G. Jaeger, La separazione del patrimonio fiduciario nel fallimento, Milano, 1968; F. Di Maio, Amministrazione fiduciaria dei beni: quale fiducia?, in Società, 1995, p. 329; Id. La società fiduciaria ed il contratto fiduciario nella giurisprudenza e nella prassi degli organi di controllo, Milano, 1995, pp. 33 ss., G.B. Portale, A. Dolmetta, Deposito regolare di cose fungibili e fallimento del depositario, in Banca, borsa, tit. cred., 1994, I, p. 842; C.E. Mayr, Fallimento della SIM e restituzione dei patrimoni di proprietà dei clienti, in Banca, borsa tit. di cred., 1995, I, p. 73; Id, L’ambito di applicazione dell’art. 103 della legge fallimentare, in Banca, borsa tit. di cred., 1992, II, p. 478 ss. 34 In questi termini si esprime anche F. Galgano, La fiducia, in Trattato dir. civ. e comm. diretto da A. Cicu, F. Messineo, vol. III, I, Milano, 1988, pp. 485 ss. 35 Alcuni Autori (cfr. F. Marchetti, F. Rasi, «Fiducia romanistica» e «fiducia germanistica» nella recente prassi dell’Agenzia delle Entrate, in Fiscalitax, 2008, pp. 795 ss.) ritengono che nel caso di intestazione fiduciaria avente ad oggetto beni immobili, data la particolare natura di questi, nonché le regole di circolazione degli stessi, non si configura la separazione tra proprietà formale e sostanziale riferibile esclusivamente alla intestazione fiduciaria delle azioni e dei titoli. Sul punto, G. Corasaniti, op. cit., p. 738 ritiene che in questi casi, stante l’impossibilità di ricorrere alla c.d. fiducia germanistica il modello di riferimento deve essere quello della fiducia romanistica; ne conseguirebbe la combinazione di due effetti distinti, il primo traslativo ad effetto reale valevole nei confronti dei terzi e il secondo ad effetto obbligatorio relativo al rapporto tra il soggetto fiduciante e la società fiduciaria. Stante le particolari regole che disciplinano la circolazione dei beni immobili e le relative forme di pubblicità, riteniamo tale impostazione condivisibile, nonché corretta da un punto di vista di diritto, anche se da un punto di vista pratico (come, tra l’altro, osservato dallo


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quest’ultima fiscalmente trasparente nei rapporti che intercorrono tra il soggetto fiduciante e l’amministrazione finanziaria. Tale principio è stato costantemente affermato oltre che dai giudici di legittimità (si veda ad esempio la sentenza della Corte di Cassazione 10 dicembre 1984, n. 6478, nonché la sentenza del 21 maggio 1999, n. 4943) anche dalla nostra amministrazione finanziaria nelle note risoluzioni ministeriali 13 marzo 2006. n. 37/E, e 7 dicembre 2006, n. 136. In particolare, in tale ultima risoluzione è stato chiarito che la prevalenza della titolarità effettiva nei confronti di quella apparente rende la società fiduciaria fiscalmente trasparente; pertanto, l’immediata riferibilità dei diritti alla sfera giuridica dei soci fiducianti e non della fiduciaria identifica i soci effettivi quali soggetti cui deve essere imputato il reddito distribuito dalla società partecipata. A conferma di tale impostazione, nella risoluzione n. 136/2006 viene altresì osservato che il legislatore fiscale in più occasioni ha emanato norme che sembrano basarsi sulla c.d. impostazione germanistica dell’intestazione fiduciaria, dal momento che fanno riferimento ai fiducianti quali effettivi possessori dei redditi derivanti dai beni intestati formalmente al soggetto fiduciario. Ad esempio, viene citato l’art. 9 della legge 29 dicembre 1962, n. 1745 (relativa alla Istituzione di una ritenuta d’acconto o di imposta sugli utili distribuiti dalle società e modificazioni della disciplina della nominatività obbligatoria dei titoli azionari) il quale dispone che le società fiduciarie devono comunicare i nome degli effetti proprietari delle azioni ad esse intestate e appartenenti a terzi sulle quali hanno riscosso utili. Particolarmente interessanti sembrano essere le conclusioni cui giunge l’Amministrazione finanziaria nella risoluzione n. 37/2006 volte ad applicare alle società fiduciarie particolari regimi di esenzione, come quello previsto dall’art. 27-bis del D.P.R. n. 600/1973. In particolare, è stato osservato che la presenza di una società fiduciaria e, quindi, di partecipazioni intestate a questa, non può precludere l’applicazione di tale regime di esenzione (rectius: di esclusione), al ricorrere ovviamente delle condizioni richieste dalla normativa. Verifica del requisito del controllo Il comma 5-ter dell’art. 73 del TUIR dispone che ai fini della verifica della sussistenza del controllo di cui al comma 5-bis rileva la situazione esistente alla data della chiusura dell’esercizio, ovvero del periodo di gestione, del soggetto estero controllato. Tale verifica si basa, quindi, su di un elemento estremamente puntuale – dovendosi fare riferimento alla sussistenza del controllo alla chiusura del periodo d’imposta del soggetto estero partecipato – e, in quanto tale, soffre di una notevole rigidità che, tra l’altro, non è dato riscontrare con riferimento

stesso Autore), i casi di intestazione fiduciaria di beni immobili costituiscono al momento una ipotesi piuttosto rara.


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alla seconda fattispecie presuntiva prevista dalla norma (lett. b del comma 5-bis dell’art. 73 del TUIR) fondata sulla residenza degli amministratori del soggetto estero nella quale è stato chiarito che questi devono essere residenti nel nostro Paese per la maggior parte del periodo d’imposta36. L’aver collegato la verifica del requisito del controllo a un dato puntuale, qual è la data di chiusura dell’esercizio o del periodo di gestione del soggetto estero controllato, non equivale a dire, infatti, né che il controllo nel soggetto estero e di quest’ultimo nel soggetto italiano avviene per la maggior parte del periodo d’imposta (requisito questo che, a nostro avviso, dovrebbe ricorrere per rendere operante la presunzione di esterovestizione), ne ché il collegamento del soggetto estero con il territorio dello Stato è particolarmente evidente e continuativo. Va comunque osservato che,l’Agenzia delle Entrate, nel commentare il requisito del controllo con riferimento alla prima fattispecie presuntiva nella circ. n. 28/2006, ha precisato che «nel suo complesso la previsione normativa vale a circoscrivere l’inversione dell’onere della prova alle ipotesi in cui il collegamento con il territorio dello Stato è particolarmente evidente e continuativo». 2.2.2

Il regime della prova contraria Come osservato in precedenza, la normativa in commento prevede l’inversione, a carico del contribuente, dell’onere della prova37, con la conseguenza che la sede dell’amministrazione della società estera, al ricorrere delle condizioni in precedenza commentate, si considera esistente nel territorio dello Stato fatta salva la possibilità per il contribuente di fornire prova contraria. In altre parole, l’Amministrazione finanziaria deve provare la sussistenza dei presupposti delle due fattispecie presuntive, ma grava sulla società estera destinataria della presunzione di esterovestizione l’onere di fornire la prova dell’effettiva localizzazione all’estero della sede dell’amministrazione.

36 Si veda la circ. n. 11/2007 (Telefisco 2007) ha chiarito che «la società, inoltre, sarà considerata fiscalmente residente in Italia qualora, per la maggior parte del periodo d’imposta, risulti prevalentemente amministrata da consiglieri residenti nel territorio dello Stato». 37 Cfr., in dottrina, senza pretesa di esaustività, F. Batistoni Ferrara, Processo tributario (riflessioni sulla prova), in Dir. Prat. Trib., Parte I, 1983, p. 1620; G. Tinelli, Prova (dir. trib.)», in Enciclopedia Giuridica, XXV, Roma, 1991, p. 5; A. Berliri, Processo tributario amministrativo, Reggio Emilia, 1940, vol. II, p. 67; G.A. Micheli, Onere della prova, Padova, 1966; V. Montesano, Le prove atipiche nelle presunzioni e negli argomenti del giudice civile, in RDP, 1980; S. Patti, Disposizioni generali, COM. S.B., Padova, 1987; G.Verde, voce Prova (diritto processuale civile), EdD, 1988; S. Patti, voce Prova (diritto processuale civile), E.G.I., 1991; M. Taruffo, Onere della Prova, D. CIV., 1995, 65; G. Verde, La prova nel processo civile, in RPD, 1998, 1; AA.VV., La prova nel processo civile, a cura del Consiglio Superiore della Magistratura, Roma, 1999; F.Lazzaro, Le prove extravaganti, Milano, 2001.


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Innanzitutto, va osservato che detta prova contraria non potrà essere fornita in sede di interpello, ma solamente in sede di accertamento; infatti, l’Amministrazione Finanziaria nella ris. del 5 novembre 2007, n. 312, dopo aver chiarito che la verifica della sede effettiva dell’amministrazione di una società «investe complessi profili di fatto del reale rapporto di una società con un determinato territorio non valutabili in sede di interpello c.d. ordinario o interpretativo», ha ritenuto che la dimostrazione della prova contraria volta al superamento della presunzione di cui al comma 5-bis dell’art. 73 del TUIR potrà essere fornita solamente in sede di accertamento e non mediante interpello disapplicativo38. Il contribuente per vincere la presunzione, dovrà dimostrare, con argomenti adeguati e convincenti, che la sede dell’amministrazione della società (nell’esempio della tavola 2.1, la sede di Beta) non è in Italia, bensì all’estero; in altri termini, dovrà essere dimostrato che esistono elementi di fatto, situazioni, ovvero atti, idonei a dimostrare un concreto radicamento della società nello Stato estero. Più precisamente, il contribuente dovrà dimostrare l’effettiva sostanza e non artificiosità all’estero della società, attraverso, ad esempio, i seguenti elementi di prova: ● i CdA di Beta sono regolarmente tenuti all’estero; ● negli stessi CdA vengono assunte decisioni di carattere strategico relative al gruppo; ● la maggioranza dei componenti del CdA di Beta risiede all’estero; ● Beta svolge attività di servizi a favore delle consociate, nonché un ruolo di azionista attivo presso le stesse; ● Beta possiede un’adeguata struttura di equity; ● i country manager, ovvero il CFO locale di Beta, abbiano effettivi poteri di spesa. In altri termini, Beta deve dimostrare di avere una propria specializzazione in senso economico e strategico. Al riguardo, va detto che la Guardia di Finanza, nella circ. 29 dicembre 2008, n. 1, ha ritenuto che alcuni degli elementi di prova che il contribuente dovrà fornire al fine di dimostrare che la sede dell’amministrazione

38 Nella Risoluzione citata, l’Agenzia delle Entrate ha ritenuto non ammissibile la presentazione di una istanza di interpello «ordinario» presentata da una holding statica (la cui attività, quindi era limitata alla mera gestione di partecipazioni) con sede legale e amministrativa ad Amsterdam, volta a chiarire – in base al comma 5-bis dell’art. 73 del TUIR e all’art. 4, par. 3, della Convenzione contro le doppie imposizioni stipulata tra l’Italia ei Paesi Bassi – dove doveva ritenersi fiscalmente residente tale società. Ne consegue, quindi, che la prova contraria volta al superamento della presunzione di residenza in Italia della società estera posta dal comma 5-bis potrà essere fornita solamente in sede di accertamento e non mediante l’interpello disapplicativo previsto dal comma 8 dell’art. 37-bis del D.P.R. n. 600/1973.


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della società è all’estero sono anche i seguenti: ● il potere effettivo di gestione dei conti correnti bancari della società estera, nonché delle sue disponibilità finanziarie, deve essere esercitato da amministratori ovvero soci esteri; ● la provvista finanziaria del soggetto estero non deve provenire dal soggetto italiano; ● i contratti devono essere stipulati all’estero; ● il potere decisionale concernente gli aspetti fondamentali della gestione della società estera non deve essere affidato ad amministratori, ovvero soci, residenti in Italia. Tali elementi di prova sono per cosi dire «racchiusi» (o meglio contenuti) nella dimostrazione che Beta non rappresenti una costruzione di puro artificio, ma sia effettiva (nel senso che all’interno del gruppo svolga una propria funzione economia e strategica) e reale, ossia sia dotata di una struttura organizzativa39. In altri termini, al fine di superare la presunzione, Beta non deve essere una società fittizia che non esercita alcuna attività economica nello Stato estero di insediamento, ma deve avere sostanza economica, a nulla rilevando la circostanza che nello Stato estero la tassazione sia inferiore a quella dello Stato della società madre. Al riguardo, va anche osservato che la Corte di Giustizia nel par. 37 della sentenza «Cadbury Schweppes»40 ha chiarito che la costituzione di una società allo scopo di fruire di una legislazione più vantaggiosa o, più specificamente, dei vantaggi fiscali legalmente offerti dalle norme in vigore in uno Stato membro diverso da quello in cui risiede non costituisce abuso della libertà di stabilimento41. Riteniamo tale affermazione senz’altro condivisibile, anche alla luce di precedenti sentenze della stessa Corte di Giustizia42. Del resto,

39 L’insediamento reale all’estero presuppone che la società estera disponga nel proprio Stato di insediamento di una struttura organizzativa (ad esempio, esistenza di locali, presenza di personale) adeguata idonea allo svolgimento della propria attività. 40 Con tale caso giurisprudenziale, la Corte di Giustizia UE è stata invitata ad esaminare la compatibilità delle CFC rules (nella specie, quelle inglesi, contenute negli artt. 747-756 e negli Allegati 24-26 della legge inglese del 1988 sull’imposta sul reddito delle società) con il diritto comunitario e, in particolare, con le libertà di stabilimento e di circolazione di capitali. Per un commento a tale sentenza, sia consentito il rinvio a P. Gariboldi, I. La Candia, V. Marraffa, Sulla compatibilità della normativa CFC con le Convenzioni Internazionali e il Diritto Comunitario, in Dir. Prat. Trib., n. 3/2007, p. 960 ss. 41 Come disposto dall’art. 43 del Trattato CE «le restrizioni alla libertà di stabilimento dei cittadini di uno Stato membro nel territorio di un altro Stato membro vengono vietate. Tale divieto si estende altresì alle restrizioni relative all’apertura di agenzie, succursali, o filiali, da parte dei cittadini di uno Stato membro stabiliti sul territorio di uno Stato membro». 42 Cfr.ad esempio, la sentenza della Corte di Giustizia del … marzo 1999, causa C-212/97, «Centros LTD.» nella quale al par. 27 è stato chiarito che il fatto che un cittadino di uno Stato membro che desideri creare una società scelga di costituirla nello Stato membro le cui norme di diritto societario gli sembrino meno severe e crei succursali in altri Stati membri non può costituire di per


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la stessa Commissione delle Comunità Europee nella comunicazione 10 dicembre 2007, COM (2007) 785, ha ritenuto che «Nella sentenza della causa Cadbury la Corte di giustizia ha sostenuto che l’insediamento di una società è da considerare effettivo quando, sulla base di elementi oggettivi e verificabili da parte di terzi, in particolare a livello della sua presenza fisica in termini di locali, di personale e di attrezzature, corrisponde a una realtà economica, ossia una società reale che svolge attività economiche effettive e non una società “fantasma” o “schermo” »43. L’eventuale attività di direzione e coordinamento che Beta esercita su Gamma, ovvero l’attività di indirizzo gestionale esercitata dalla prima sulla seconda (attività che costituisce la prerogativa tipica del controllo societario disciplinato dall’art. 2359 c.c.) non dovrebbe essere confusa con l’attività rilevante ai fini dell’individuazione della sede dell’amministrazione nel nostro Paese di Beta; più precisamente, non si può configurare la collocazione della sede amministrativa di Beta presso Gamma S.p.a. (società controllata italiana) soltanto perché tra le due società vi è uno stretto collegamento che riguarda essenzialmente il coordinamento delle rispettive attività e finalità nell’ambito del medesimo gruppo imprenditoriale (sul punto si rinvia ai paragrafi successivi). Come osservato in maniera condivisibile da Assonime nella circ. n. 67/200744, una società holding estera controllata o amministrata da soggetti residenti, titolare anche di partecipazioni di controllo in società estere, dovrebbe avere la possibilità di opporre, quale prova contraria, la circostanza che la parte prevalente del possesso partecipativo attiene a società estere o ad altri investimenti all’estero, e che, quindi, la partecipazione di controllo nella società italiana costituisce una parte solo residuale del suo patrimonio. In questo caso, infatti, a giudizio dell’Associazione sarebbe ingiustificato e contrario al principio comunitario di

sé un abuso del diritto di stabilimento. Inoltre, nel par. 96 della sentenza della Corte di Giustizia 30 settembre 2003, causa C-167/2001, «Inspire Art LTD.», è stato precisato che la circostanza che una società sia stata creata in uno Stato membro unicamente per fruire di una legislazione più vantaggiosa non costituisce un abuso, e ciò anche qualora la società in questione svolga l’essenziale, se non il complesso, delle sue attività economiche nello Stato di stabilimento Si veda anche la sentenza della Corte di Giustizia UE 23 aprile 2008 (The Test Claimants) nella quale è stato chiarito che la costituzione di società partecipate residenti all’interno degli Stati membri debba corrispondere ad un insediamento reale che abbia per oggetto l’espletamento di attività economiche effettive (ovvero di una reale motivazione commerciale) nello stato membro di stabilimento. 43 Cfr., in dottrina, R. Lupi, Illegittimità delle regole CFC se rivolte a Paesi comunitari: punti fermi e sollecitazioni sulla sentenza Schweppes, in Dialoghi di Diritto Tributario n. 12/2006, pp. 1589 ss.; l’Autore dall’esame della sentenza «Cadbury Schweppes» trae la condivisibile conclusione che le misure di contrasto debbano essere limitate alle ipotesi in cui la struttura è meramente di facciata, ovvero sia fittizia, mentre le attività effettive meritano la protezione del Trattato CE qualunque sia il loro grado di collegamento al territorio. 44 Cfr. circolare Assonime del 31 ottobre 2007, n. 67, rubricata «IRES – Soggetti residenti – La presunzione di residenza in Italia per le società o enti esteri cc.dd. “esterovestiti”».


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IL REGIME FISCALE DELLE SOCIETÀ HOLDING

proporzionalità pretendere che il contribuente sia tenuto a dimostrare la propria estraneità con il territorio dello Stato sotto altri profili, quando il rapporto partecipativo con l’Italia risulta obiettivamente marginale e non qualificante45. 2.2.3

Analisi di alcuni casi giurisprudenziali Sentenza della Commissione tributaria regionale della Toscana 18 gennaio 2008, n. 61 La particolare fattispecie analizzata dai giudici toscani che è risultata favorevole al contribuente può essere schematizzata come riportato alla tavola 2.4 Tavola 2.4

BETA Capogruppo Italia

Sub-holding olandese che detiene i pacchetti di controllo di numerose società operative estere

ALFA Olanda

La Commissione tributaria regionale della Toscana è stata chiamata a pronunciarsi sul caso di una società estera (olandese) – controllata da una società italiana – che deteneva numerose partecipazioni in soggetti esteri, tra cui una società italiana; nel 2004 il Nucleo provinciale di Polizia tributaria della Guardia di Finanza aveva proceduto alla redazione di un processo verbale di constatazione

45 Cfr. su tale aspetto, anche il Seminario IFA/OCSE tenuto a Vienna del 2004 in cui sono state analizzate le tematiche relative al controllo e alla sede di direzione effettiva delle società.


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nei confronti della società olandese (con sede ad Amsterdam), contestando la circostanza che tale società aveva in realtà la sede amministrativa presso la direzione generale della società controllata italiana. Tale assunto fatto proprio anche dai giudici di primo grado muoveva, tra l’altro, dalla constatazione che: ● nella sede della società controllante italiana venivano impartite le istruzioni per il compimento di tutti gli atti di gestione ordinaria e straordinaria compresi i più minuti, come l’acquisto di attrezzature per l’ufficio; ● il solo lavoratore dipendente in Olanda di Alfa non effettuava alcuna attività senza il preventivo assenso dall’Italia e uno dei suoi compiti era quello di inviare in Italia gli atti societari per farli sottoscrivere, per essere poi rispediti in Olanda; ● presenza maggioritaria (4 su 5) di persone fisiche residenti in Italia nell’organo direttivo-amministrativa di Alfa; ● ridotta rilevanza delle funzioni dell’amministratore residente in Olanda, tra l’altro appartenente alla sede olandese di uno studio legale internazionale. Era stato ritenuto, quindi, che la società controllante italiana esercitava poteri di gestione su Alfa talmente penetranti che quest’ultima era chiaramente soggetta alla società italiana, senza alcuna autonomia. In particolare, i movimenti finanziari di Alfa (ad esempio, l’erogazione di finanziamenti, la distribuzione di dividendi, nonché il compimento di operazioni finanziarie intercompany) erano integralmente gestiti in Italia, al punto di ridurre « [Alfa] ad una sorta di prestanome, un fermacarte che deve apporre il proprio sigillo ad operazioni già irreversibilmente concluse altrove». La Commissione regionale della Toscana, in merito all’esistenza della sede di direzione della società olandese in Alfa nel nostro Paese, ha preso le distanze dalle conclusioni raggiunte dai giudici di primo grado sostenendo, in particolare, che gli elementi presi in considerazione al fine di assoggettare la società olandese Alfa alla legge tributaria italiana non consentivano di accertare la residenza in Italia di tale società. In particolare, è stato chiarito che l’esistenza di un penetrante controllo di una società nei confronti di un’altra e perciò l’assoggettamento della società controllata costituisce fenomeno diverso dallo svolgimenti di attività di gestione amministrativa della società controllata. In altri termini, non si può configurare la collocazione della sede amministrativa di una società presso di un’altra solamente perché tra le due società vi è uno stretto collegamento che riguarda il coordinamento delle rispettive attività e finalità. Inoltre, è stato ritenuto che la prova documentale fornita dall’Ufficio circa l’esistenza della sede amministrativa in Italia di Alfa era estremamente ridotta e costituita solamente da sporadici documenti dai quali non è possibile dedurre la continuità di una gestione amministrativa di Alfa nel nostro Paese. Ne è conseguito, quindi, che


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il riferimento alla sede dell’attività amministrativa, per poter essere ritenuto rilevante ai fini dell’attrazione in Italia della sede dell’amministrazione del soggetto estero, deve essere caratterizzato da continuità, ossia deve derivare non da un singolo atto di gestione (quale può essere, ad esempio, l’erogazione di un finanziamento), ma da una pluralità di atti non occasionali46. Sentenza della Commissione Tributaria Provinciale di Belluno del 14 gennaio 2008 n. 173 Il caso di specie, sfavorevole al contribuente, riguardava un socio (una S.r.l. italiana) residente in Italia che deteneva il 100% in una sub-holding tedesca GMBH localizzata in Germania che, a sua volta, per il tramite della società lussemburghese Lux Sa deteneva una partecipazione di controllo di una società per azioni italiana, nonché una partecipazione di controllo in un’altra società (v. tavola 2.5). Secondo la ricostruzione operata dai giudici di merito, la società tedesca GMBH era stata costituita esclusivamente per perseguire obiettivi di natura fiscale e, pertanto, doveva considerarsi di puro artificio; infatti, in realtà, era amministrata in Italia, dovendosi individuare nel nostro Paese la sede di direzione effettiva (c.d. place of effective management). Tale società non disponeva in Germania di un’idonea struttura organizzativa, era totalmente non operativa (e, in quanto tale, non soddisfava il c.d. business-activity test), non aveva alcuna autonomia finanziaria e patrimoniale ed era completamente subordinata alla direzione del socio italiano, nonché dell’amministratore residente in Italia. Inoltre, la società Lux SA era stata costituita da GMBH al solo fine fiscale di rivalutare in esenzione d’imposta (adeguando il valore contabile della partecipazione a quello reale) le partecipazioni detenute in S.p.a. Italia e di beneficiare, all’atto della cessione delle stesse partecipazioni, del regime di participation exemption, tra l’altro all’epoca dei fatti non ancora introdotto nel nostro ordinamento. Nel caso di specie, quindi, è stato ritenuto che la società tedesca GMBH fosse esterovestita in quanto riceveva e supinamente implementava le direttive dalla casa madre italiana, senza alcun apporto integrativo di tali direttive, nonché era utilizzata come mero contenitore, preordinata all’unico scopo di trarre vantaggio dal regime di esenzione dei dividendi e delle plusvalenze previsti dall’ordinamento tedesco. A differenza del precedente caso giurisprudenziale analizzato, i giudici di Belluno, pur nella consapevolezza che il fenomeno dell’interposizione fittizia del

46 Tale conclusione è stata criticata in dottrina da D. Stevanato in Prova dell’esterovestizione e luogo di effettuazione delle notifiche, in Giur. Trib., n. 5/2008, pp. 438 ss.


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Tavola 2.5

SRL Italia

100%

GMBH Germania

LUX SA Lussemburgo

> 51%

> 51% GMBH Germania

GMBH Germania

soggetto terzo47 è ben diverso da quello della esterovestizione societaria, hanno ritenuto che questa viene effettuata il più delle volte mediante la costituzione all’estero, segnatamente nei Paesi che offrono migliori condizioni di convenienza

47 In materia di esterovestizione societaria, si confronti, con riferimento all’interposizione fittizia di un soggetto, anche la sentenza della Commissione Tributaria Provinciale di Firenze del 13 luglio 2007, n. 108; nel caso di specie, è stata attratta nel nostro Paese la sede dell’amministrazione di una società formalmente localizzata a San Marino controllata da società italiana tramite una subholding lussemburghese, dal momento che la società sammarinese è stata ritenuta di mera facciata. Cfr. in dottrina, per un commento a tale sentenza, G. Marino, M. Marzano, R. Lupi, La residenza delle società e controllo tra schemi OCSE ed episodi giurisprudenziali interni in Dialoghi di Diritto Tributario, n. 3/2008, pp. 91 ss.


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fiscale, di società esclusivamente finanziarie con funzioni di holding o sub-holding di partecipazioni controllate, direttamente o indirettamente, da società residenti in Italia. In altri termini, viene introdotta, a nostro avviso impropriamente, nella valutazione della presunta esterovestizione delle società anche una variabile di convenienza fiscale del tutto estranea al dato normativo (ossia al comma 5-bis dell’art. 73 del TUIR). 2.2.4

Compatibilità della norma sulla esterovestizione societaria con il diritto comunitario A giudizio della nostra Amministrazione finanziaria – circ. n. 28/2006 – sotto il profilo della compatibilità comunitaria la normativa in materia di esterovestizione è coerente con l’orientamento espresso dalla Corte di Giustizia che nella sentenza 9 marzo 1999, causa C-212/97, «Centros LTD», ha ritenuto che gli Stati membri sono liberi di determinare il criterio di collegamento di una società con il territorio dello Stato. Inoltre, la possibilità di fornire la prova contraria garantisce una valutazione case by case e dunque la proporzionalità della norma rispetto al fine perseguito, necessario a mitigare la portata generale delle disposizioni antielusive. A noi pare invece, che tale normativa sia in contrasto con il diritto comunitario48 perché: ● è di ostacolo alla libertà di stabilimento49 delle società e alla libera circolazione delle persone, ovvero dei servizi50 (ad esempio, la norma dissuade a nominare membri dei Consigli di amministrazione delle società estere italiani);

48 Al riguardo, va osservato che Commissione per l’esame della compatibilità comunitaria di norme e prassi tributarie italiane (ADC di Milano) ha presentato nel giugno 2009 alla Commissione Europea una denuncia di infrazione del Trattato CE in relazione alla esterovestizione societaria nella quale è stato ritenuto che tale normativa è incompatibile con il diritto comunitario. 49 Con particolare riferimento alla libertà di stabilimento, cfr. anche le sentenze della Corte di Giustizia 10 luglio 1986, causa C-79/85, «Segers»; 27 settembre 1988, causa C-81/87, «Daily Mail»; 5 novembre 2001, causa C-208/00, «Überseering»; e 30 settembre 2003, causa C-167/01, «Inspire Art LTD.», cit. Per constante orientamento della Corte di Giustizia, le restrizioni alla libertà di stabilimento possono essere previste solamente per contrastare le localizzazioni fittizie e non anche per impedire l’esercizio effettivo di attività economiche in altri Stati, anche se, quindi, la collocazione in tali Stati è correlata alla fruizione di vantaggi fiscali. 50 Cfr., al riguardo, le conclusioni dell’Avvocato Generale J.Kokott del 14 luglio 2005, C-265/04, nel caso Margaretha Bouanich; in particolare, nel paragrafo 71 di tali Conclusioni si legge: «si desume che (…) l’una libertà non sopprime l’altra, bensì entrambe le libertà possono trovare applicazione al contempo».


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● viola il precetto di proporzionalità51 nell’inversione dell’onere della prova a carico del contribuente. Infatti, con particolare riferimento a tale ultimo aspetto va osservato che i criteri utilizzati dalla nostra Amministrazione finanziaria per ritenere effettivamente residente all’estero la società di cui si presume l’esterovestizione sono talmente stringenti da creare serie difficoltà anche a chi è effettivamente radicato da un punto di vista commerciale e imprenditoriale all’estero; ne consegue che a nostro avviso la soluzione al problema dell’esterovestizione societaria non dovrebbe ridursi ad una pura questione tecnica in base alla quale al verificarsi di due presupposti (tra loro alternativi) in precedenza commentati è attratta nel nostro Paese la sede dell’amministrazione del soggetto estero. Sarebbe probabilmente più logico considerare esterovestite solamente quelle società estere di puro artificio, di mera facciata, senza nessuna sostanza economica reale52, nonché considerare l’effettivo ruolo svolto dalla società estera all’interno del gruppo, privilegiando in tal modo un’analisi di tipo funzionale. 2.3

La residenza fiscale delle holding ai fini convenzionali La disciplina italiana in tema di esterovestizione societaria va coordinata con quella convenzionale di residenza fiscale contenuta nell’art. 4 del Modello OCSE di Convenzione contro le doppie imposizioni nel senso che, posta la prevalenza della norma convenzionale su quella nazionale53, nei casi di doppia

51 Nell’ambito del diritto comunitario, il principio di proporzionalità viene fatto rientrare fra i principi generali; tale principio, infatti, deve essere inteso come espressione del principio di Stato di diritto (cfr., ad esempio, la sentenza della Corte di Giustizia UE 13 luglio 1962, «Mannesmann AG c. Alta Autorità»). In particolare, affinché una misura antielusiva possa essere ammessa come giustificazione ad eventuali restrizioni alle libertà comunitarie di stabilimento, nonché di circolazione dei capitali, questa non deve andare oltre quanto strettamente necessario per raggiungere l’obiettivo; cfr., al riguardo, le sentenze della Corte di Giustizia UE 15 maggio 1997, «Futura Participations SA and Singer»; 16 luglio 1998, ICI; 21 novembre 2002, X e Y, C-9/02, «Hughes de Lasteyrie du Saillant»; e 12 settembre 2006, C-196/04, Cadbury Schweppes e Cadbury Schweppes Overseas citata. Ne consegue che il principio della proporzionalità deve essere rispettato anche nell’ambito della prova, con particolare riferimento alle presunzioni di residenza, il cui fine non può eccedere il fine che è quello di contrasto alle costruzioni di puro artificio. 52 A nostro avviso, nel caso delle holding estera pure andrebbero valorizzati, al fine della dimostrazione dell’effettivo radicamento all’estero della sede dell’amministrazione, non tanto la presenza di locali, dipendenti, ma ad esempio il ruolo di azionista attivo da questa svolto, nonché la funzione imprenditoriale, nonché strategica, della holding stessa all’interno del gruppo. 53 La nostra Amministrazione finanziaria ha sempre affermato la prevalenza della norma internazionale su quella interna; cfr., ad esempio, la nota del Ministero delle Finanze 15 giugno


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residenza54 bisogna far riferimento a quanto disposto da detto articolo. In particolare, il Paragrafo 3 dell’art. 4 del Modello OCSE55 dispone che nei casi di doppia residenza una persona giuridica è considerata residente soltanto nello Stato in cui si trova il place of effective management (sede della direzione effettiva)56 definito al par. 24 del Commentario all’art. 4, come il luogo in cui «the key management and commercial decisions that are necessary for conduct of the entity’s business as a whole are in substance made». Come osservato dalla dottrina57 per comprendere il perché del luogo di gestione dell’impresa con il luogo in cui vengono prese le decisioni strategiche, si deve risalire alla relazione della Lega delle Nazioni del 1923 (scritta dagli economisti Seligman, Stamp, Bruins, Einaudi) e, in particolare, a quanto chiarito dal Comitato degli Esperti della stessa Lega che nel 1925 propose di individuare il domicilio fiscale della società nel luogo in cui si trovava la mente gestionale e il controllo dell’impresa. La definizione di residenza fiscale delle società data dalle Direttive

1983, n. 8/765, la circ. n. 85/12/969/1977, la ris. n. 12/1977, la circ. n. 85/12/969/1977, la ris. n. 12/1182/1978 e la ris. n. 12/1028/1980; cfr., in dottrina G. Melis, Vincoli internazionali e norma tributaria interna, LUISS, CERADI, Centro di ricerca per il diritto d’impresa, giugno 2005. 54 Tali casi potrebbero verificarsi quando la società estera di cui si è attratta in Italia la residenza continua ad essere considerata residente nello Stato estero in virtù della Convenzione contro le doppie imposizioni stipulata tra i due Paesi. 55 Il Paragrafo 3 dell’art. 4 del Modello OCSE di Convenzione contro le doppie imposizioni prevede che «Where by reason of the provisions of paragraph 1 a person other than an individual is a resident of both Contracting States, then it shall be deemed to be a resident only of the State in which its place of effective management is situated». Cfr., in dottrina, K, Holmes, International Tax Policy and Double Tax Treaties, IBFD, 2009, pp. 125 ss. 56 Sul concetto di place of effective management, cfr. in dottrina, J.F. Avery Jones, Place of Effective Management as a Residence Tie-Breaker, in Bulletin For International Fiscal Documentation, vol. 59, n. 1, gennaio 2005, pp. 20 ss.; E. Burgstaller, K. Haslinger, Place of effective management as a tie-breaker-rule-concept, developments and prospects, in Intertax, 2004, pp. 376 e ss; C. Romano, The Evolving Concept of «Place of Effective Management» as a Tie-breaker Rule under the OECD Model Convention and Italian Law, in European Taxation, 2001, pp. 339 ss.; G. Bizioli, The evolution of the Concept of the Place of Management in Italian Case Law and Legislation: Interaction with tax treaties and EC Law, in European Taxation, 2008, pp. 527 ss. 57 Cfr. G. Moschetti, Origine storica, significato e limiti di utilizzo del place of effective management, quale criterio risolutivo dei casi di doppia residenza delle persone giuridiche, in NEΩTEPA, Periodico Ufficiale dell’ANTI (Associazione Nazionale Tributaristi Italiani), Residenza fiscale e stabile organizzazione, p. 32, nota 7. Cfr., anche, AA.VV., The origins of Concepts and Expressions used in the OECD Model and their Adoptions by States», in Bullettin, 2006, pp. 220 ss., K. Van Raad, Dual Residence, in European Taxation, 1988, pp. 241 ss.


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Comunitarie madre-figlia 58 e interessi e royalties59 corrisponde a quella di cui all’art. 4 del Modello di Convenzione OCSE e, quindi, anche ai sensi di tali Direttive Comunitarie il criterio di collegamento che deve essere assunto al fine della ripartizione del potere impositivo tra due Stati è quello del place of effective management. Inoltre, osservato che il criterio del place of effective management a cui si ispira la maggioranza delle Convenzioni contro le doppie imposizioni stipulate dall’Italia al fine di individuare la residenza delle persone giuridiche tende a privilegiare non già il luogo in cui concretamente si svolge l’attività d’impresa (rectius: il luogo in cu si produce il reddito), ma il luogo in cui si trovano le menti reali (real brains), ovvero la mente gestionale della società60. È comunque opportuno osservare che l’Italia (così come, ad esempio, l’India), al fine di rendere la definizione convenzionale di residenza maggiormente in linea con la

58 Cfr. direttiva 23 luglio 1990, 90/435/CEE, concernente il regime fiscale comune applicabile alle società madri e figlie di Stati membri diversi, come modificata dalla direttiva 2003/123/CE del 22 dicembre 2003 e, in dottrina, lettera circolare Assonime 4 agosto 2006, rubricata «Imposte sui redditi – Schema di decreto legislativo di recepimento della direttiva 2003/123/CE, recante modifiche alla direttiva n. 90/435/CEE (direttiva c.d. “madre-figlia”)» e F. Bulgarelli, Le recenti modifiche alla direttiva «Madre-Figlia» e la riforma tributaria italiana, in Rassegna Tributaria, n. 1/2005, pp. 115 ss. 59 Cfr. direttiva 2003/49/CE del Consiglio 3 giugno 2003 concernente il regime fiscale comune applicabile ai pagamenti di interessi e di canoni fra società consociate di Stati membri diversi e, in dottrina, s. Grilli, La direttiva sugli interessi e sulla royalties infragruppo, in Dir. prat. trib. internaz., 2005, pp. 130 ss.; M. Piazza, A. Della Carità, Interessi e canoni corrisposti a società consociate, in Forum Fiscale, dicembre 2005, p. 42 ss.; P. Flora, Implementation of the Interest and Royalties Directive, in Derivates & Financial Instruments, 2006, pp. 159 ss. Per un’analisi critica del decreto legislativo di recepimento della direttiva in parola (D.lgs. 30 maggio 2005, n. 130), cfr. S. Grilli e R.A. Papotti, Considerazioni critiche in merito al recepimento in Italia della c.d. direttiva «Interessi e royalties, in Riv. Dir. Trib. n. 6/2009, parte quinta, pp. 69 ss. Alcune tematiche relative all’applicazione della direttiva nei casi di pegno e usufrutto su azioni sono state analizzate da T. Marino in Il concetto di «società consociata»in caso di usufrutto e pegno di azioni con diritto di voto, in Corr. Trib., 2006, pp. 3040 ss. Con riferimento a tali direttive comunitarie, va osservato che la Commissione Europea, con comunicazione 30 dicembre 2003, n. 841, ha proposto di conformare l’elenco delle società ricomprese nell’ambito soggettivo di applicazione della direttiva interessi e royalties a quello proposto per la direttiva madri-figlie. A conferma di ciò, infatti, nella Proposta di direttiva del Consiglio UE che modifica la direttiva 2003/49/CE (cfr. la comunicazione del Consiglio UE 6 gennaio 2004, n. 5061, pubblicata nella Gazzetta Ufficiale dell’Unione Europea del 21 aprile 2004, n. C 96/5), sono state incluse nell’Allegato A della direttiva interessi e royalties le medesime forme societarie già incluse nella direttiva «madre-figlia», nonché nella direttiva «fusioni» 17 febbraio 2005, n. 2005/19/CE che modifica la direttiva 90/434/CEE. 60 Infatti, nel par. 25 del Commentario al Modello di Convenzione OCSE viene disposto che al fine di stabilire il place of effective management l’Italia ritiene che deve essere preso in considerazione anche il luogo in cui è esercitata l’attività principale e sostanziale dell’ente.


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definizione interna, ha posto un’Osservazione al comma 3 dell’art. 4 del Modello OCSE di Convenzione contro le doppie imposizioni nella quale è stato previsto che al fine di individuare il place of effective management deve essere preso in considerazione anche il luogo in cui è esercitata l’attività principale e sostanziale dell’ente61. La non piena concordanza tra gli Stati sull’utilizzo del concetto di place of effective management (utilizzato, a differenza di quanto previsto per le persone fisiche62, come unica tie breaker rule alle ipotesi dei doppia imposizione

61 Con particolare riferimento alle persone fisiche, il paragrafo 2 dell’art. 4 del Modello OCSE di Convenzione contro le doppie imposizioni, al fine di determinare la residenza delle persone fisiche prevede che se una persona fisica è considerata residente di entrambi gli Stati contraenti, si dovrà fare riferimento al luogo nel quale ha un’abitazione permanente, al criterio del centro degli interessi vitali, del luogo in cui la persona fisica soggiorna abitualmente, ovvero della nazionalità (c.d. tiebreaker rule). Se la persona fisica ha la nazionalità in entrambi gli Stati, ovvero in nessuno di essi, le Autorità competenti degli Stati contraenti risolvono la questione di comune. Come osservato da autorevole dottrina – cfr. G. Maisto, Brevi riflessioni sul concetto di residenza fiscale di società ed enti nel diritto interno e convenzionale,. cit., p. 1360 – non c’è dubbio che l’unica modalità di soluzione prevista dall’OCSE alle ipotesi di doppia residenza delle persone giuridiche sia del tutto diversa da quelle previste per la soluzione delle ipotesi di doppia residenza delle persone fisiche. Sul tema della residenza delle persone fisiche, cfr. la recente sentenza della Corte di Giustizia del 12 luglio 2001, C- 262/1999 (caso «Louloudakis») nella quale è stata ribadita la prevalenza dei legami personali su quelli economici, nonché le Risoluzioni ministeriali del 13 giugno 2008, n. 242 e n. 351 citata. 62 Cfr. Convenzione stipulata tra l’Italia e gli Stati Uniti a Washington 25 agosto 1999 e ratificata con legge del 3 marzo 2009, n.20, pubblicata nella Gazzetta Ufficiale del 18 marzo 2009, n. 64. L’art. 28 della Convenzione disciplina la decorrenza delle disposizioni in essa contenute; in particolare, come disposto dalle lett. a) e b) di detto articolo le nuove ritenute convenzionali relative a dividendi, interessi e royalties – di cui agli articoli 10, 11 e 12 della Convenzione hanno trovato applicazione con riferimento alle somme pagate o accreditate il, o successivamente al 1° febbraio 2010, mentre le altre disposizioni convenzionali sono entrate in vigore il 1° gennaio 2010. Cfr., in dottrina, AA.VV., Convenzione Italia-Usa contro le doppie imposizioni, Comparative and International Taxation, coordinato da C. Garbarino, Milano, 2001, S. Mayr, La nuova Convenzione Italia-Usa contro le doppie imposizioni sul reddito, in Boll. Trib. n. 11/2009, pp. 851 ss., P. Valente, M. Magenta, Nuova Convenzione Italia-Usa contro le doppie imposizioni, in Il fisco, n. 12/1999, pp. 3936 ss., A. Adelchi Rossi, L. Perin, Rapporti Italia-Stati Uniti. Procedure per l’applicazione dei benefici interni e convenzionali, in Il fisco n. 39/1999, pp. 12473 ss.; P. Valente, M. Magenta, G. Rolle, La nuova Convenzione Italia-Usa. Analisi delle principali disposizioni riguardanti i flussi transnazionli di reddito, in Il fisco, n. 42/1999, inserto; H.D. Rosenbloom, J.L.Katz, La «branch profits tax» nella nuova convezione con gli Stati Uniti contro la doppia imposizione, in Dir. Prat. Trib., n. 2/2000, inserto, pp. 3 ss.; S. Gallo, La Cassazione cambia radicalmente l’orientamento consolidato in precedenza – Ora l’esclusione da imposizione prevista dalla Convenzione ItaliaUsa alla luce delle norme comunitarie vale anche per l’Ilor, in Il fisco, n. 15/2003, fasc. 1, pp. 6699 ss.; P. Valente, La nuova Convenzione Italia-Usa e il Modello OCSE, in Convenzioni Internazionali contro le doppie imposizioni, Milano, 2008, pp. 1075 e ss; D. Avolio, Condizioni per l’applicazione del regime convenzionale alle «partnership,» in Corr. Trib., n. 18/2009, pp. 1453 ss.; L. Rossi, P. Angelucci, Dividendi e crediti di imposta esteri nella nuova Convenzione Italia-USA, in Corr.


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delle persone giuridiche) quale criterio da utilizzare al fine di individuare la residenza fiscale delle società ha portato alcuni Paesi ha individuare soluzioni alternative a quella rappresentata dalla individuazione della sede di direzione effettiva. Ad esempio, il terzo comma dell’art. 4 della Convenzione contro le doppie imposizioni stipulata tra l’Italia e gli Stati Uniti63 prevede che «quando in base alle disposizioni del paragrafo 1, una persona diversa da una persona fisica o da una società è considerata residente di entrambi gli Stati contraenti, le autorità competenti degli Stati contraenti faranno del loro meglio per risolvere la questione di comune accordo e per determinare le modalità di applicazione della Convenzione nei confronti di tale persona». Ad esempio, anche la Convenzione stipulata con il Giappone64 all’art. 4 dopo aver fornito la definizione di residente – l’espressione residente di uno Stato contraente «designa ogni persona che, in virtù della legislazione di detto Stato contraente è ivi assoggettata ad imposta a motivo del suo domicilio,della sua residenza, del luogo della sua sede o del suo ufficio principale,della sede della sua direzione o di ogni altro criterio di natura analoga – prevede al Paragrafo 2 che quando una persona è residente di entrambi gli Stati contraenti, le autorità competenti determineranno di comune accordo lo Stato contraente di cui detta persona dovrà essere considerata residente ai fini della presente Convenzione65. A nostro avviso, la circostanza che i casi di doppia residenza delle società possano essere risolti non in base al (l’unico) criterio del place of effective management ma sulla base di un comune accordo tra le Autorità degli Stati contranti va valutata con favore, essendo non solo più realistica e pragmatica, ma anche più aderente a quelle che sono le singole disposizioni normative interne relative alla residenza

Trib., n. 19/2009, pp. 1537 ss. Sul tema della decorrenza delle nuove disposizioni convenzionali, cfr. G.Rolle, Il nuovo accordo Italia-USA premi interessi e royalties, in Il Sole 24ore del 22 gennaio 2010, sezione «Norme e Tributi», p. 29. 63 Cfr. Convenzione contro le doppie imposizioni stipulata tra l’Italia e il Giappone a Tokyo 20 marzo 1969 e ratificata con Legge del 18 dicembre 1972, n. 855, pubblicata nella Gazzetta Ufficiale dell’8 gennaio 1973, n. 6. 64 Un altro esempio è fornito dalla Convenzione stipulata con la Thailandia firmata a Bangkok il 22 dicembre 1977 e ratificata con legge del 2 aprile 1980, n. 202, pubblicata nella Gazzetta Ufficiale del 31 maggio 1980, n. 148. Infatti, come disposto dal comma 3 dell’art. 4 di detta Convenzione, quando una persona diversa da una persona fisica è considerata residente di entrambi gli Stati contraenti, le Autorità competenti degli Stati contraenti risolveranno la questione di comune accordo. 65 Tra l’altro, si osservi che già la bozza di Convenzione della Lega delle Nazioni 1929, all’art. 11 del Titolo II (Personal Taxes) prevedeva che in caso di contribuenti che hanno il domicilio fiscale in entrambi gli Stati contraenti, l’imposta personale sarà riscossa in entrambi gli Stati di comune accordo in proporzionale al periodo di permanenza durante l’anno di imposta, oppure secondo una divisione da stabilire tramite accordo delle amministrazioni competenti. Cfr. in dottrina, V. Uckmar, G. Corasanti, P. de’ Capitani di Vimercate, Manuale di Diritto Tributario Internazionale, pp. 56 ss., R. Russo, The OECD Model: An Overview, in European Taxation, 2008, pp. 459 ss.


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che, come nel caso, ad esempio, del nostro Paese, ricollegano la residenza anche a criteri sostanziali, quali l’oggetto principale dell’attività.66. In altri termini, posto che l’accertamento della residenza delle società è una questione di fatto che riguarda e investe il reale e complesso rapporto di una società con un determinato territorio, nei casi di doppia residenza l’individuazione della residenza e, quindi, la ripartizione della potestà impositiva tra gli Stati contraenti, sulla base di un comune accordo tra le Autorità competenti di detti Stati che tenga conto di tali elementi di fatto e non di un’assunzione di principio, quale ci sembra essere quella del place of effective management ci sembra rispecchiare più realmente (rectius: fedelmente) la reale situazione economica dei gruppi di imprese la cui attività e, in alcuni casi, sempre più caratterizzata da elementi di immaterialità67, nonché di transnazionalità. Tuttavia, va tenuto presente che nella versione aggiornata del Commentario al Modello OCSE di Convenzione del 18 luglio 2008, è stato inserito un nuovo paragrafo – il 24.1 – che rimette alla procedura amichevole la soluzione dei casi di doppia imposizione, quale alternativa alla tie breaker rule fondata esclusivamente sul place of effective management. In particolare, al fine di risolvere i casi di doppia residenza, tale procedura amichevole potrà considerare, tra gli altri, il luogo in cui si svolge il Consiglio di amministrazione, il luogo in cui si svolge il senior day-to-day management, il luogo in cui sono situati gli headquarters, nonché il luogo della lex societatis68.

66 Si pensi, ad esempio, alle imprese che svolgono attività di commercio elettronico; cfr., sul tema il Rapporto OCSE, Electronic Commerce: the challenge to tax authorities and taxpayers, e, in dottrina, S. Mayr, G. Fort, La residenza fiscale delle società: necessità di un cambiamento?, in Corr. Trib., 2001, pp. 2086 ss.; G. Maisto, Le prime osservazioni dell’OCSE sulla tassazione del commercio elettronico, in Riv. Dir. Trib., «Rubrica di Diritto Internazionale», pp. 47 ss.; E. Belli Contarini, Contratto di web hosting e stabile organizzazione, in Riv. Dir. Trib., Parte Prima, pp. 755 ss., F.M. Horner, J. Owens, Tax and the web: new technology, old problems, in Bulletin for International Fiscal Documentation, 1996, pp. 109 ss.; J. Owens, The tax man cometh to Cyberspace, in Tax Notes International, 1997, pp. 1833 ss.; A. Yamanouchi, International tax issues affecting electronic commerce and banking, in Tax Notes International, 1997, pp. 1621 ss., United States Department of the Treasury, Selected Tax Policy Implications of Global Electronic Commerce, 1996, pubbicato in Intertax, 1997, pp. 148 ss. Senza pretesa di esaustività, si segnalano sul tema della tassazione della cessione di fotografie ai fini dell’imposizione sul valore aggiunto, la ris. 30 aprile 1997, n. 94/E, rubricata «IVA – Opere fotografiche – Esclusione dal campo di applicazione del tributo. Art. 3 D.P.R. n. 633/1972. Quesito», nonché la Circolare Assonime 9 luglio 1997, n. 77, rubricata «Imposta sul Valore Aggiunto – Cessione di immagine fotografiche – Risoluzione 30 aprile 1997, n. 94/E del Ministero delle Finanze». 67 Con riferimento a tale ultimo criterio, autorevole dottrina (cfr. G. Melis, La residenza fiscale delle società nell’IRES: giurisprudenza e normativa convenzionale, in Corr. Trib., n. 45/2008, pp. 3648 e ss) ha ritenuto che «la soluzione accolta dall’OCSE lascia a dir poco perplessi. Essa costituisce un affastellato di criteri di natura affatto diversa, alcuni dei quali addirittura del tutto irrilevanti in chiave di collegamento tributario (si pensi alla lex societatis, ecc.)». 68 Cfr., in dottrina, in senso critico, K. Van Raad, 2008 OECD Model: Operation and effect of


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Inoltre, è stato eliminato ogni riferimento al luogo in cui la persona o il gruppo di persone che esercitano le funzioni di rango più elevato assume le sue decisioni. Infine, la versione 2008 del Commentario all’art. 4 (in particolare, il par. 8.2) ha analizzato il rapporto esistente tra la perdita, da parte di una persona fisica o giuridica, della residenza in uno Stato a seguito dell’applicazione della tie breaker rule convenzionale e l’applicabilità delle convenzioni contro le doppie imposizioni stipulate dallo Stato di cui il soggetto ha perso la residenza ai fini convenzionali (c.d. loser State) con Paesi terzi69. In tale situazione (v. tavola 2.6), il Modello OCSE di Convenzione prevede la non applicabilità delle convenzioni stipulate dal loser State con Paesi terzi. Tavola 2.6 [MANCA FIGURA]

Article 4(1) in dual residence issues under the updated commentary, in Bulletin for International Taxation, 2009, pp. 187 ss. 69 Cfr., in dottrina, in senso critico, K. Van Raad, 2008 OECD Model: Operation and effect of Article 4(1) in dual residence issues under the updated commentary, in Bulletin for International Taxation, 2009, pp. 187 ss.


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Una persona fisica/giuridica residente per norma interna in entrambi gli Stati (A e B) che ai fini convenzionali è considerata residente esclusivamente nello Stato B, non potrà beneficare delle convenzioni stipulate dallo Stato A (loser). Tale previsione potrebbe trovare giustificazione nel fatto che si vuole evitare che un contribuente crei artificiosamente una doppia residenza per poter beneficiare delle disposizioni delle Convenzioni internazionali a lui più favorevoli; in altri termini, il contribuente creando una doppia residenza fittizia potrebbe poter scegliere quale Convenzione applicare, situazione questa non auspicabile per l’OCSE. 2.4

Applicabilità delle disposizioni convenzionali alle holding Le Convenzioni bilaterali contro le doppie imposizioni hanno come scopo principale quello di ripartire la potestà impositiva tra due Stati al fine ridurre la doppia imposizione giuridica internazionale70, in quanto la stessa rappresenta un ostacolo allo scambio di beni e servizi, ai trasferimenti di capitale, di tecnologia, nonché alla circolazione delle persone. È evidente quindi che, stante la necessità di consentire il libero movimento di tutti i fattori produttivi, siano essi di capitale o di lavoro, si senta l’esigenza di garantire tutte le condizioni necessarie per poter fare business. Come già compiutamente affrontato in precedenza, la necessità di individuare la residenza di una persona sia fisica che, come nel caso delle holding, giuridica, trova giustificazione nel diverso sistema utilizzato per tassare i redditi dalla stessa prodotti. Il criterio comunemente utilizzato dalla maggior parte degli Stati si basa sul c.d. worldwide income principle in base al quale i soggetti residenti sono tassati sui redditi ovunque prodotti, mentre i soggetti non residenti vengono tassati solo sui redditi prodotti nel territorio interno. Ovviamente tale tecnica può generare fenomeni di doppia imposizione che, come pocanzi indicato, si cerca di limitare mediante la stipula di convenzioni bilaterali internazionali che ripartiscano il potere impositivo di suddetti Stati71. A tal fine l’OCSE ha elaborato un modello di Convenzione di base aggiornato periodicamente, che l’Italia, al pari di tutti gli altri Stati, prende come riferimento per redigere il testo dei propri trattati. In base a quanto disposto dall’art. 4, paragrafo 1 di tale Modello di Convenzione, la definizione di residenza ai fini fiscali richiama esplicitamente il disposto della

70 Si ha un fenomeno di doppia imposizione giuridica quanto lo stesso reddito è tassato due volte in capo allo stesso soggetto. 71 Una Convenzione contro le doppie imposizioni non potrà mai creare un presupposto impositivo, ma solamente ripartire la potestà impositiva tra due Stati. Cfr., tra gli altri, B.J. Arnold in Bulletin for International taxation, maggio-giugno 2009, pp. 175 ss.


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normativa interna di ogni Stato contraente72 e, pertanto, qualora un soggetto sia considerato residente per le rispettive norme interne in entrambi gli Stati contraenti, e tra i due Stati sia in vigore una Convenzione contro le doppie imposizioni73, tale soggetto può chiedere l’applicazione della suddetta convenzione in virtù della quale, come specificato nell’art. 4 paragrafo 3 del Modello Ocse esso si considera residente solamente dello Stato in cui si trova la sede della sua direzione effettiva (c.d. place of effective management). Secondo il sistema delineato dall’OCSE quindi, la risoluzione dei conflitti di attribuzione della residenza tra due Stati contraenti, è affidata alla c.d. tie-breaker rule contenuta nel par. 3, la quale fissa la residenza nel luogo in cui è localizzata la sua direzione effettiva. Il concetto di sede della direzione effettiva viene poi approfondito all’interno del Commentario OCSE, il quale, preliminarmente, specifica che il paragrafo 3 si riferisce alle società e alle altre associazioni di persone, a prescindere dalla circostanza che esse siano o meno persone giuridiche, e in seguito definisce la «sede della direzione effettiva» come «il luogo dove sono sostanzialmente adottate le decisioni chiave sul piano gestorio e commerciale necessarie per l’esercizio dell’attività dell’ente74», ossia il luogo in cui le persone che esercitano le funzioni di rango più elevato assumono le decisioni necessarie per indirizzare l’attività dell’ente75. Ora, appare evidente come, nell’applicazione pratica del suddetto art. 4, paragrafo 3, si possano presentare tre tipi di problematiche76: 1. Entrambi gli Stati potrebbero ritenere che la sede della direzione effettiva sia localizzata all’interno del proprio territorio. Questo tipo di problematica è assai frequente proprio nel caso dell’Italia, in quanto il Commentario OCSE contiene una osservazione della stessa in base alla quale ai fini dell’indivi-

72 Infatti, l’art. 4, par 1, afferma che «l’espressione residente di uno Stato contraente designa ogni persona che, in virtù della legislazione di detto Stato, è ivi assoggettata ad imposta a motivo del suo domicilio, della sua residenza, della sede della sua direzione o di ogni altro criterio di natura analoga» 73 Le norma pattizia convenzionale, in quanto lex specialis, prevale sulla norma interna. Tuttavia, come previsto dall’art. 169 del TUIR, qualora più favorevole troverà applicazione la norma interna. 74 La citazione in italiano è quella contenuta nella traduzione del Modello OCSE e relativo Commentario a cura di G. Maisto, Modello di Convenzione fiscale sui redditi e sul patrimonio, Milano, 2004. 75 Per un approfondimento si veda in particolare: J.F. Avery Jones, Place of effective managment as a Tie Breaker, IBFD Bulletin, 2005, pp. 20 ss.; E. Burgstaller, K. Haslinger, Place of effective management as a Tie-Breaker-Rule, Concept, Developments and Prospects, in Intertax, 2004, pp. 376 ss.; G. Maisto, Brevi riflessioni sul concetto di residenza fiscale di società ed enti nel diritto interno e convenzionale, in Dir. Prat. Trib., 1988, parte I, pp. 1358 ss. 76 A tal proposito cfr. N. Saccardo in Riv. Dir. Trib., parte V, 2008, pp. 21 ss.


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duazione della sede della direzione effettiva bisogna tenere in considerazione anche «il luogo ove l’attività principale e sostanziale dell’ente è esercitata»77. Ciò vuol dire che l’Italia si riserva il diritto di risolvere l’eventuale conflitto di attribuzione della residenza avendo riguardo non solo della sede dell’amministrazione, ma anche al luogo in cui è ravvisabile l’oggetto sociale. 2. Grazie all’evoluzione delle tecnologie informatiche non è più necessaria una presenza fisica effettiva in un dato luogo per poter svolgere una particolare attività (come ad esempio una seduta del Consiglio di amministrazione), pertanto, un criterio di individuazione della sede di direzione basato esclusivamente su un collegamento di tipo fisico, risulta fragile e inidoneo; 3. La sede della direzione effettiva potrebbe non essere in uno dei due Stati contraenti, e in tal caso il conflitto della doppia residenza non potrebbe essere risolto. Partendo dal presupposto che il concetto di sede della direzione effettiva non è stato interpretato in maniera univoca dagli Stati e che, nello specifico, il riferimento al luogo fisico dove si riunisce il consiglio di amministrazione rappresenta ormai un approccio troppo formalistico e non coerente con il principio della prevalenza della sostanza sulla forma (c.d. substance over form), si è deciso di apportare delle modifiche al Modello OCSE e al relativo Commentario78 per evitare che il significato di place of effective managment si riducesse ad un mero dato di forma. La versione aggiornata del commentario quindi, definisce la sede di direzione effettiva in maniera volutamente sintetica e generica, eliminando il riferimento al luogo dove fisicamente si riuniscono gli organi per assumere le decisioni, e sottolinea il fatto che per l’individuazione di tale sede devono essere considerati tutti i fatti e le circostanze pertinenti. Viene inoltre riconosciuta la possibilità per gli Stati di seguire un diverso criterio per risolvere i casi di doppia residenza, delegando le rispettive autorità competenti a definire la questione mediante lo strumento della procedura amichevole. Gli Stati che decidano di esercitare tale opzione sono tuttavia invitati a tener conto di alcuni elementi ritenuti particolarmente significativi ai fini di una corretta individuazione del luogo di direzione effettiva. A tal proposito il Commentario OCSE, all’interno del nuovo par. 24, fornisce in via esemplificativa ancorché non esaustiva, delle linee guida, che, senza pretesa di esaustività, andremo ora ad elencare:

77 La scelta di ricomprendere tra i criteri idonei ad attribuire lo Status di residente anche l’oggetto principale, deriva sicuramente dall’esigenza di rendere la definizione convenzionale di residenza in linea con quanto previsto dalla nostra normativa interna. 78 Le novità e modifiche al modello di convenzione elaborato dall’OCSE e del relativo commentario, approvate dal Consiglio il 17 luglio 2008,dovrebbero entrare in vigore nella seconda metà 2010.


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● il luogo ove si riunisce il consiglio di direzione; ● il luogo dove il direttore esecutivo e gli altri senior executives esercitano la loro attività; ● il luogo dove è esercitata l’attività di gestione ordinaria; ● la legge che governa lo stato giuridico del soggetto; ● il luogo dove sono tenuti i libri contabili. Gli Stati sono comunque liberi di integrare il suddetto elenco con ulteriori fattori, qualora gli stessi siano considerati rilevanti. Appare del tutto evidente quindi, che le modifiche apportate non possano provocare una totale irrilevanza, sotto il profilo probatorio, del luogo in cui sono formalmente adottate le decisioni relative all’amministrazione dell’ente, dato che, tale luogo è pur sempre riconducibile a quei «fatti» e «circostanze pertinenti» che è il Commentario a richiamare per risolvere i conflitti di residenza79. È necessario sottolineare che l’applicazione della procedura amichevole80 non obbliga comunque gli Stati a giungere ad un accordo, in assenza del quale il soggetto non può godere dei benefici della Convenzione stipulata tra i due Stati in conflitto. Inoltre, qualora gli Stati giungano ad un accordo, il soggetto che perde lo status di residenza in uno Stato per effetto dell’applicazione di un trattato bilaterale stipulato con un secondo Stato, perde anche, e in via definitiva, la possibilità di avvalersi dei benefici garantiti dalle Convenzioni stipulate dal primo Stato con altri Stati. Ciò significa che una società avente sede legale in Italia, ma con sede della direzione effettiva, per ipotesi, in Olanda, non potrebbe beneficiare delle convenzioni stipulate dall’Italia con Stati terzi81.

79 Cfr. in tal senso E. Iascone, La residenza fiscale delle società: il caso delle Holding di partecipazioni, in Riv. Dir. Trib., parte V, 2008, pp. 186 ss. Secondo l’Autore, in assenza di elementi e circostanze idonee a dimostrare che il luogo in cui si forma in concreto la volontà dell’ente è diverso da quello in cui tale volontà trova formale manifestazione verso l’esterno, bisognerebbe proprio riferirsi, per poter individuare la sede dell’amministrazione, al luogo in cui sono formalmente adottate le deliberazioni relative all’amministrazione dell’ente. 80 Se, trascorsi due anni dalla presentazione dell’istanza del contribuente, le predette Amministrazioni non giungono ad un accordo, la questione viene sottoposta a procedura arbitrale. Il commentario OCSE ha chiarito che l’arbitrato non rappresenta una procedura alternativa a quella amichevole, bensì è un’estensione delle Mutual agreement procedure (MAP). Al riguardo cfr. A. Giordano e M.G. Imbesi, Prospettive dell’arbitrato internazionale in ambito fiscale, in Corr. Trib., n. 32/2009, pp. 2639 ss. 81 La ratio di tale norma è da ricercarsi nell’oggetto e nello scopo delle Convenzioni, in base al quale un soggetto si considera residente di uno Stato contraente unicamente se è ivi sottoposto a piena potestà impositiva, condizione che non si verifica nel momento in cui un soggetto perde, per effetto delle convenzione, lo status di residente nello Stato (loser) il quale resterà privo del suo


48 2.4.1

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Le società holding come beneficiario effettivo I soci di una società holding possono esser rappresentati da altre holding, (oppure da persone fisiche, ben potendo le stesse rappresentare il punto di riferimento per tutto il gruppo societario. Il termine beneficiario effettivo ha assunto un ruolo chiave in ambito fiscale, sia perché con riferimento ad alcune tipologie di reddito (segnatamente dividendi, interessi e royalties) il beneficio convenzionale compete esclusivamente al beneficial owner, sia perché l’Amministrazione Finanziaria tende, in particolar modo con riferimento alle holding, a disconoscere la qualifica di beneficiario effettivo al primo percettore di reddito, dichiarandolo come semplice soggetto interposto (c.d. conduit company). L’individuazione del beneficiario effettivo diventa quindi decisiva per poter attenuare fenomeni di doppia imposizione. La nozione in questione trae origine dalle legislazioni anglosassoni di diritto comune, e si basa sul presupposto che il diritto di proprietà va inteso come un insieme di diritti, ciascuno dei quali ha una sua autonomia82, potendosi infatti individuare una chiara separazione tra proprietà economica (economic owner) e proprietà giuridica (legal owner), sulla quale poggia il concetto stesso di beneficiario effettivo. L’introduzione di tale clausola all’interno delle Convenzioni contro le doppie imposizione, risponde, almeno inizialmente, alla precisa esigenza di evitare un utilizzo improprio e strumentale delle Convenzioni stesse, con il solo scopo di ottenere un beneficio fiscale. Tale clausola va infatti letta e interpretata alla luce dell’oggetto e dello scopo delle convenzioni bilaterali83 che è quello, in particolare, di evitare la doppia imposizione, nonché di prevenire l’evasione e l’elusione fiscale. Non sarebbe quindi coerente con gli obiettivi perseguiti dai trattati evitare una doppia imposizione mediante un elusione o evasione d’imposta, fattispecie che si verifica allorquando un soggetto agisce per il tramite di struttura fittizia creata al solo fine di godere di benefici convenzionali che sarebbero stati altrimenti preclusi (fenomeno del c.d. treaty shopping). È d’uopo sottolineare come la nostra Amministrazione finanziaria abbia

potere impositivo per i redditi prodotti al dì fuori del suo territorio (cfr., in dottrina, M. Giaconia e L. Greco, Le modifiche al commentario del Modello di Convenzione OCSE del 2008 in Fiscalità internazionale, maggio/giugno del 2009). Tale previsione potrebbe inoltre trovare giustificazione nel voler evitare che un contribuente crei artificiosamente una doppia residenza, per poter poi beneficiare delle disposizioni delle Convenzioni internazionali a lui più favorevoli. In altri termini, il contribuente, creando una doppia residenza fittizia, potrebbe poter scegliere quale Convenzione applicare, situazione questa non auspicabile per l’Ocse. 82 Si veda in tal senso P. Pistone, L’abuso delle convenzioni internazionali, p. 696 e 697. 83 Così Prokish citato da C. Du Toit, in Beneficial Ownership of roylaties, in Bilateral Tax Treaties, Amsterdam, 1999, pp. 173 ss.


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modificato, con il tempo, la propria impostazione in tema di beneficiario effettivo, passando da una posizione meramente formalistica (in quanto era considerato beneficiario effettivo il soggetto al quale era fiscalmente imputato il reddito e pertanto tassato84), ad una posizione assai più sostanzialistica85, in base alla quale la nostra Amministrazione verifica, al fine di qualificare un soggetto come beneficiario effettivo, se in capo allo stesso vi sia stato un trasferimento di diritti (avendo riguardo anche alla natura degli stessi), e se tale soggetto disponga del potere di gestire e di sfruttare economicamente (accollandosene quindi anche il rischio) tali diritti. Tale evoluzione interpretativa risulta inoltre coerente con l’orientamento giurisprudenziale che è andato nel tempo affermandosi86. Appare quindi evidente che, ai fini della corretta individuazione del beneficiario effettivo, non è sufficiente la mera imputazione del reddito ad un determinato soggetto, il quale anzi, per poter ricoprire tale qualifica deve poter disporre liberamente e a suo piacimento del reddito, senza essere gravato da alcun obbligo o restrizione. Infatti, laddove il soggetto abbia poteri talmente limitati da essere equiparato ad un mero intermediario, è evidente che non può essere riconosciuta la qualifica di beneficiario effettivo87. A tal fine, gli Uffici dell’Amministrazione Finanziaria, così come i Giudici tributari, al fine di ritenere dimostrata la sussistenza della veste di beneficiario effettivo in capo ad un soggetto, richiede la prova che tale soggetto abbia concretamente ed effettivamente percepito i flussi reddituali. A tal fine, non sarebbe sufficiente la produzione della documentazione bancaria proveniente dal soggetto che ha effettuato i pagamenti dei canoni, degli interessi o dei dividendi, bensì è richiesta la produzione di documenti bancari direttamente riferibili al soggetto percettore estero. Documentazione atta a dimostrare la qualifica di beneficiario effettivo di un determinato flusso reddituale, ad esempio, è rappresentata da un’attestazione fornita per tale scopo dalla banca estera su richiesta del correntista, ovvero da una copia autentica di un estratto del conto corrente relativo al periodo nel quale le somme sono state effettivamente incassate88.

84 Cfr. ris. 7 maggio 1987, n. 12/431 e circ.del 23 dicembre 1996, n. 306/E. 85 Cfr. ris. Agenzia delle Entrate 12 Luglio 2006, n.86/E; ris. Agenzia delle Entrate 21 aprile 2008, n. 167/E 86 Cass. 10 novembre 1999, n. 12458; Cass. 29 gennaio 2001 n. 1231; Cass. 5 febbraio 2001, n. 1583; Cass. 21 febbraio 2001, n. 2532. 87 Cfr, in particolare, il par. 12.1 del Commentario OCSE all’art. 10. 88 Per un approfondimento su tale aspetto, cfr., in giurisprudenza, sentenza della CTR Abruzzo del 25 maggio 2008, n. 16; sentenza della CTR Abruzzo 29 aprile 2008, n. 75; sentenza della CTR


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Quanto in precedenza osservato, rappresenta un elemento di non poco conto, soprattutto alla luce dei rapporti infragruppo intercorrenti tra la holding, primi percettori del reddito, e i suoi soci, dal momento che la contestazione che potrebbe essere mossa alla holding medesima potrebbe proprio essere quella di agire quale semplice soggetto interposto. Ciò detto, è innegabile che la principale funzione di una società holding sia quella di detenere partecipazioni, e che a tal fine non sia necessaria un’articolata struttura operativa (sia in termini di personale che di infrastrutture), ma tutto ciò non può essere sufficiente per riqualificarla come mero soggetto interposto, anche nel caso in cui fosse partecipata in maniera totalitaria da un altro soggetto89. È da sottolineare in tal senso la posizione assunta dalla Supreme Court of Canada nella c.d. sentenza «Prevost Car», con la quale ha precisato che il beneficiario effettivo dei dividendi è la persona che riceve i dividendi per il suo proprio uso e godimento e assume i rischi e il controllo dei dividendi che riceve. Quando ci si riferisce alle società, non si deve perforare il «velo societario» a meno che la società non agisca come veicolo per un’altra persona e non abbia alcuna discrezionalità sull’utilizzo e la destinazione dei fondi rimessi a lei in qualità di veicolo90. Affinché una società holding possa essere qualificata come beneficiario effettivo, è necessario ricercare il grado di autonomia di cui gode il suo organo amministrativo ovvero determinare fino a che punto tale organo è svuotato dei propri poteri gestori, tenendo ben presente tuttavia che tale analisi deve essere condotta senza perdere di vista, innanzitutto qual è il ruolo ricoperto dalla società all’interno della catena del gruppo, e che tale società deve comunque soggiacere agli obiettivi operativi e gestionali impartiti dal socio, salva la possibilità di conseguirli operando in maniera del tutto autonoma91.

Abruzzo 2 aprile 2008, n. 51; sentenza della CTR Abruzzo 20 marzo 2008, n. 36; sentenza della CTR Abruzzo 20 febbraio 2008, n. 11; sentenza della CTR Abruzzo 20 febbraio 2008, n. 9. 89 Vedi report sulle Conduit companiess, par. 34 nonché la comunicazione del 10 dicembre 2007, n.785, della Commissione Europea 90 In tal senso D.Avolio, B.Santacroce, Il Beneficiario effettivo nella giurisprudenza nazionale e comunitaria, in Corriere Tributario n.6/2010, pp. 431 ss. 91 In tal senso D. Avolio, B. Santacroce, op. cit., pg 432 ss. In tema di beneficiario effettivo, si vedano anche i casi giurisprudenziali Royal Bank of Scotland e Indofood e, in dottrina, K. Vogel, On double taxation conventions, Londra, 1997, p. 562; A. Ballancin, La nozione di beneficiario effettivo nelle convenzioni contro le doppie imposizioni e nell’ordinamento tributario italiano, in Rass. Trib. n. 1/2006, p. 209; A. Tomassini, Alcuni recenti sviluppi interpretativi sulla nozione di beneficiario effettivo, in Rass. Trib. n. 5/2008, p. 1383; J.D.B. Oliver, J.B. Libin, S. Van Weeghel, C. du Toit, Beneficial Owner, in Bullettin for International Taxation, 2000, p. 310; C. Garbarino, Manuale di tassazione internazionale, Ipsoa, 2008, p. 889; R. Lupi, La clausola dell’effettivo beneficiario e il «Treaty shopping», in AA.VV., Il diritto tributario nei rapporti internazionali, Milano,


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Pertanto, il fatto che un soggetto sia residente di uno Stato contraente e sia ivi assoggettato (anche solo potenzialmente) ad imposizione, che tale soggetto abbia la titolarità giuridica nonché la disponibilità economica del reddito percepito, che eserciti un potere effettivo sui diritti da cui promanano i redditi (anche in termini di rischi assunti) dovrebbe essere di per sé sufficiente a configurare il soggetto in questione quale beneficiario effettivo. Si tenga inoltre presente che, una società operativa la cui attività svolta si basa su di una effettiva ragione economica (e quindi non riconducibile al mero ottenimento di benefici fiscali), non potrà mai essere qualificata come soggetto conduit. 2.5

Aspetti civilistici dell’attività di direzione e coordinamento Una delle novità di maggior rilievo introdotte dal Legislatore con la riforma del diritto societario operata a mezzo del D.lgs. 17 gennaio 2003, n. 6, è costituita senza dubbio dall’inserimento, all’interno delle disposizioni del Codice civile, di un insieme di disposizioni relative all’esercizio dell’attività di direzione e coordinamento nei gruppi societari92; in particolare, per il tramite di tali

2003, p. 86; P. Montesano, Brevi note sulla qualifica del soggetto come beneficiario effettivo prevista nel Modello di Convenzione OCSE, in Boll. Trib., n. 3/2008, p. 190; C. Perrone, Brevi note sul significato convenzionale del concetto di beneficiario effettivo, in Rass. Trib. n. 1/2003, p. 151; H. Pijl, The Definition of Beneficial Owner under Dutch Law, in Bullettin for International Taxation, 2000, p. 256; S. Van Weeghel, The improper use of Tax Treaties, London, 1998, p. 89; A. Furlan e M. Toccaceli, Il concetto di beneficial owner nei trattati internazionali contro le doppie imposizioni, in Fiscalità internazionale, settembre/ottobre 2009, pp. 390 ss. 92 Deve essere ricordato che precedentemente all’emanazione del D.lgs. 17 gennaio 2003, n. 6, nel nostro ordinamento, a differenza di quanto previsto ad esempio in Germania, non esisteva una normativa specifica per i gruppi di impresa, fatta eccezione per quella relativa ai gruppi bancari e ai gruppi finanziari, introdotte rispettivamente nel D.lgs. 1° settembre 1993, n. 385 e nel D.lgs. 24 febbraio 1998, n. 58. Cfr., in dottrina, F. Galgano, I gruppi nella riforma delle società di capitali, in Contratti e impresa, 2002, II, p. 1015 dove si osserva che «il gruppo di società è frutto dell’inventiva imprenditoriale: non già creazione legislativa, bensì creazione dell’autonomia provata; e la legge è intervenuta solo per prendere atto di un già consolidato fenomeno e solo per correggerne alcuni effetti discorsivi. Il gruppo di società nasce dalla valorizzazione delle potenzialità implicite nella forma giuridica della società per azioni, che l’inventiva imprenditoriale porta alle estreme conseguenze». E ancora, l’autorevolissimo Autore, op. cit., p. 108 osserva che «Altro vantaggio che deriva dall’organizzazione dell’impresa nella forma del gruppo di società risiede nella trasformazione che si determina entro l’organizzazione imprenditoriale, essendo spezzata la gerarchia dell’impresa ed attribuita ad una, sia pure relativa, autonomia decisionale ai manager preposti ai diversi settori o alle diverse fasi del processo produttivo o distributivo a ai diversi mercati entro i quali l’impresa opera». In tema di gruppi, cfr. in dottrina anche Scognamiglio, I gruppi di società, in Diritto Commerciale, Bologna 2004; Azzini, I gruppi aziendali, Milano, 1975; R. Rordorf, I gruppi nella recente riforma del diritto societario, in Società, 2004, pp. 5 ss.; … Montalenti, La traslazione dei poteri nei gruppi di società: i management contracts, in I contratti del commercio,


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disposizioni, il Legislatore ha inteso fornire una disciplina sistematica, uniforme e comune a tutte le tipologie di gruppi societari che cercasse di superare il non sempre chiaro e univoco orientamento giurisprudenziale e dottrinale formatosi in passato; il Legislatore delegato non ha introdotto una definizione di gruppo societario93, limitandosi a dettare alcune norme di regolamentazione della direzione e del coordinamento di società, espressione questa già in precedenza

dell’industria e del mercato finanziario, Torino, 1995; … Rondinone, I gruppi di imprese tra diritto comune e diritto speciale, Milano, 1999; G.F. Campobasso, Gruppi e gruppi bancari: un’analisi comparata, in Banca borsa e titoli di credito, VI, 1995; pp. 729 ss. Con particolare riferimento al diritto di gruppi societari nei principali Paesi europei, va osservato che solamente la Germania e il Portogallo hanno adottato una specifica regolamentazione della fattispecie; in particolare, il primo esempio di normativa organica e compiuta in tema di gruppi è fornita nell’Aktiegensez (AktG) tedesco del 1965 il quale nel definire il Konrzen prevede che «quando un’impresa dominante ed una o più imprese dipendenti sono riunite sotto la direzione unitaria dell’impresa dominante esse formano un gruppo» (cfr. in dottrina … Piras, I gruppi di società nel diritto tedesco e brasiliano, in Giur. Comm., 1977, pp. 239 ss.; … Schneider, La disciplina del finanziamento nel konrzen, in Riv. Soc. 1985, pp. 995 ss; … Lutter, Dieci anni di diritto tedesco dei gruppi: valutazione di un’esperienza, in Società, 1975, pp. 1295 ss.). Il Legislatore tedesco dopo aver fornito una definizione generale di imprese collegate, definisce i rapporti di dipendenza, nonché il gruppo; in particolare si configura un rapporto di dipendenza quando un’impresa esercita direttamente o indirettamente un’influenza dominante su un’altra impresa. Il gruppo si configura allorquando un’impresa dominante e una o più imprese dipendenti vengono riunite sotto la direzione unitaria dell’impresa dominante medesima: l’aspetto caratterizzante il konrzen è l’unicità dell’indirizzo economico, ossia la circostanza che più imprese, pur giuridicamente autonome, sono gestite nelle loro linee essenziali con finalità unitarie dall’impresa dominante. Il Legislatore tedesco ha considerato sia il gruppo gerarchico sia il gruppo paritetico costituito da un insieme di imprese collegate cui corrisponde, pur in assenza di vincoli di carattere strettamente gerarchico, l’instaurazione di una direzione unitaria. In Portogallo invece la normativa in materia di gruppi è stata introdotta nel 1986 con la legge 2 settembre 1986, n. 262. 93 La relazione di accompagnamento al D.lgs. n. 6/2003 ha indicato espressamente le ragioni della scelta di politica legislativa volta a non definire espressamente la fattispecie di gruppo societario. Si afferma infatti che «non si è ritenuto opportuno fornire o richiamare alcuna definizione di gruppo per due ordini di ragioni: in primo luogo, perché è apparso chiaro che le innumerevoli definizioni di gruppo già esistenti fossero funzionali a problemi specifici e, quindi, inadatte a contemplare il fenomeno nel suo complesso e, comunque, qualunque nuova nozione si sarebbe mostrata inadeguata all’incessante evoluzione della realtà sociale economica e giuridica». Inoltre, va osservato che l’assenza di una definizione di gruppo è fondata sulla consapevolezza che il fenomeno centrale dei gruppi societari sia proprio quello della responsabilità della società controllante nei confronti dei soci, ovvero dei creditori sociali, della società controllata e che, al fine della previsione di tale responsabilità, rilevi il solo fatto dell’esercizio dell’attività di direzione e coordinamento, essendo del tutto ininfluente la fonte da cui tale potere promana (cfr. in dottrina, … Tombari, Riforma del diritto societario e gruppi di impresa, in Giur. Comm., 2004, I, p. 67 il quale afferma che «non vi è dubbio che le proposizioni normativa di cui agli articoli 2497 ss sono ispirate ad un «principio di effettività» disciplinando un fatto è più in particolare l’attività di direzione e coordinamento di società, a prescindere dalla fonte del potere (contratto, partecipazione sociale, interloching directorates, ecc.), in forza del quale tale attività viene esercitata»


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utilizzata, seppur in un contesto assai più limitato, dal comma 4 dell’art. 61 del Testo Unico delle leggi in materia bancaria94. Il Legislatore con l’introduzione nel Codice civile del Capo IX (Direzione e Coordinamento di Società) e, in particolare, degli articoli da 2497 a 2497-septies95, muovendo dall’assunto che, all’interno di un gruppo societario, la società capogruppo esercita nei confronti delle controllate una certa influenza che determina il superamento dell’interesse e della posizione del singolo soggetto giuridico a favore di quello del gruppo medesimo, ha regolamentato, seppur in termini estremamente generici96, su di un piano normativo l’esercizio di tale potere. Tale obiettivo, del resto, emergeva con chiarezza già dal tenore della legge

94 Per un approfondimento critico, cfr. in dottrina … Enquires, in AA.VV., Il nuovo diritto societario fra società aperte e società private, a cura di P. Benazzo, S. Patriarca, G. Presti, Milano, 2003, pp. 250 ss. 95 Con tale intervento legislativo, il Legislatore si è limitato a prendere atto della direzione e del coordinamento nei gruppi di società, nonché dei conseguenti profili di responsabilità nei confronti dei creditori e degli azionisti di minoranza, senza individuare una definizione generale di gruppo, né una sua disciplina unitaria. Il Legislatore ha ravvisato, quindi, l’inopportunità di fornire una nozione di gruppo, da un lato per la molteplicità settoriale delle diverse nozioni, funzionali alla risoluzione di problemi specifici e per l’inadeguatezza di ogni nuova definizione all’incessante evoluzione della realtà sociale, economica e giuridica, dall’altro per la centralità del tema della responsabilità della società controllante nei confronti dei soci e dei creditori sociali della società controllata. Del resto, come osservato dalla stessa dottrina (cfr. … Spada, Gruppi di società, in Riv. Dir. Civ., 1992, II, p. 228) «come ha dimostrato una ricerca empirica in materia di gruppi promossa dalla Comunità Europea (…) il diritto dei gruppi sembr interessare poco o nulla in Europa, Germania compresa: non lo auspicano ma neppure lo temono le dirigenze dei gruppi; né lo invocano i piccoli azionisti». 96 L’espressione direzione e coordinamento, infatti, appare estremamente generica, non risultando in concreto esplicitati nella norma le modalità attraversi cui questa possa esplicarsi; al riguardo, si osservi che tale espressione nei suoi tratti fondamentali è stata mutuata dall’analogo principio contenuto nel comma 4, dell’art. 61 del D.lgs. 1° settembre 1993, n. 385 (c.d. TUB), disciplinante il settore bancario e creditizio, ai sensi del quale «capogruppo è la banca italiana o la società finanziaria con sede legale in Italia, cui fa capo il controllo delle società componenti il gruppo bancario e che non sia, a sua volta, controllata da un’altra banca italiana o da un’altra società finanziaria con sede legale in Italia, che possa essere considerata capogruppo ai sensi del comma 2. La società finanziaria è considerata capogruppo quando nell’insieme delle società da essa controllate abbiano rilevanza determinante, secondo quanto stabilito dalla Banca d’Italia in conformità delle deliberazioni del CICR, quelle bancarie, finanziarie e strumentali. Ferma restando la specifica disciplina dell’attività bancaria, la capogruppo è soggetta ai controlli di vigilanza previsti dal presente capo. La Banca d’Italia accerta che lo statuto della capogruppo e le sue modificazioni non contrastino con la gestione sana e prudente del gruppo stesso. La capogruppo, nell’esercizio dell’attività di direzione e di coordinamento, emana disposizioni alle componenti del gruppo per l’esecuzione delle istruzioni impartite dalla Banca d’Italia nell’interesse della stabilità del gruppo. Gli amministratori delle società del gruppo sono tenuti a fornire ogni dato e informazione per l’emanazione delle disposizioni e la necessaria collaborazione per il rispetto delle norme sulla vigilanza consolidata. Alla società finanziaria capogruppo si applica l’art. 52».


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delega 3 ottobre 2001, n. 366, al cui art. 10 si prevedeva che la riforma in materia di gruppi societari97 fosse ispirata ai seguenti principi e criteri direttivi: ● prevedere una disciplina del gruppo secondo principi di trasparenza e tale da assicurare che l’attività di direzione e di coordinamento contemperasse in modo adeguato l’interesse del gruppo, delle società controllate e dei soci di minoranza di queste ultime; ● prevedere che le decisioni conseguenti ad una valutazione dell’interesse del gruppo fossero motivate; ● prevedere forme di pubblicità dell’appartenenza al gruppo; ● individuare i casi nei quali riconoscere adeguate forme di tutela al socio al momento dell’ingresso e dell’uscita della società dal gruppo, ed eventualmente il diritto di recesso quando non sussistano le condizioni per l’obbligo di offerta pubblica di acquisto. Per potersi configurare una responsabilità da direzione e coordinamento ai sensi dell’art. 2497 c.c. è necessario che ricorrano i seguenti presupposti:

1. sia stata posta in essere un’attività di direzione e coordinamento esercitata da una società o da un ente; 2. tali soggetti abbiano agito nell’interesse imprenditoriale proprio o altrui e sia riscontrabile una violazione dei principi di corretta gestione societaria e imprenditoriale; 3. la violazione di tali principi abbia determinato un pregiudizio per i soci, ovvero i creditori sociali della società eterodiretta98. Pur potendo il potere di direzione e coordinamento essere esercitato oltre che da società, siano esse di capitali o di persone, anche da enti diversi dalle società (quali ad esempio una fondazione, un’associazione, un comitato, un ente

97 Il gruppo societario rappresenta il modello di organizzazione aziendale delle imprese di mediegrande dimensioni, caratterizzato da una sostanziale antinomia tra unità economica e pluralità giuridica dei diversi soggetti coinvolti: la conseguenza di tale situazione conflittuale è costituita dalla difficoltà di determinare un punto di equilibrio tra unitarietà del gruppo e separazione soggettiva dei centri di imputazione. In questi termini si esprime … Montalenti, Conflitto di interesse nei gruppi di società e teoria dei vantaggi compensativi, op. cit., p. 712. 98 In relazione a tale ultimo aspetto, cfr. in giurisprudenza la sentenza del Tribunale di Biella del 17 novembre 2006 nella quale è stato chiarito che «nel gruppo di società, gli amministratori delle società controllate che si adeguano alle disposizioni impartite dalla capogruppo sono comunque tenuti al controllo dei parametri di legalità delle decisioni assunte e sono personalmente responsabili delle loro decisioni nei confronti dei soci della società amministrata», nonché la sentenza del Tribunale di Milano 23 aprile 2008.


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pubblico), il Legislatore non sembra che abbia voluto considerare l’ipotesi di direzione e coordinamento esercitata da una persona fisica, nel caso della c.d. holding personale; al riguardo, il testo definitivamente approvato della novella legislativa ha limitato la responsabilità per il non corretto esercizio dell’attività di direzione e coordinamento ai soggetti diversi dalle persone fisiche che, tuttavia, avendo preso parte al fatto lesivo possono essere solidamente coinvolte nella responsabilità, in base a quanto disposto dal secondo comma dell’art. 2497 c.c. La dottrina99 inoltre ha sin da subito concentrato la propria attenzione nel distinguere quanto previsto dalla normativa in tema di direzione e coordinamento dal comportamento del c.d. «socio tiranno» che esercita una direzione e un coordinamento delle società controllate con potere pressoché illimitati e a proprio esclusivo vantaggio. Infatti, mentre in tema di direzione unitaria di un gruppo societario il Legislatore ha inteso disciplinare un fenomeno giuridico rappresentativo di un interesse meritevole d’apprezzamento da parte del nostro ordinamento giuridico, nel caso del c.d. socio tiranno si verifica un abuso della personalità giuridica: questo infatti esercita una posizione di direzione o coordinamento nel sostanziale spregio dell’autonomia formale dei soggetti giuridici dominati, usurpandone i poteri e le funzioni e costituendo un unico centro di imputazione dell’attività imprenditoriale, con conseguente confusione tra i patrimoni delle società dominate. Nella nuova disposizione codicistica, per addivenire alla formulazione del concetto di «direzione e coordinamento» dovrà necessariamente essere tenuta in considerazione la nozione di direzione unitaria, formulata nell’ambito della disciplina dell’amministrazione straordinaria delle grandi imprese in crisi100. Con tale espressione, in particolare, ci si riferisce a quell’attività, volta a coordinare la politica economica e le linee essenziali dell’attività delle società collegate, imprimendo una identità o conformità di indirizzi operativi a una pluralità di soggetti formalmente distinti, di modo che il gruppo sia gestito come se si trattasse di una sola impresa. Tale elemento, congiuntamente al presupposto della «situazione di controllo», risulta imprescindibile affinché una pluralità di società possa essere considerata facente parte di un medesimo gruppo e, in quanto tale, astrattamente caratterizzabile da una politica comune di direzione e coordinamento regolata dalla società capogruppo. Come osservato dalla dottrina101, la disciplina

99 Cfr. in dottrina … Patti, La riforma del diritto societario, a cura di G. Lo Cascio, Milano, 2003, pp. 2459 ss. e, in giurisprudenza, Tribunale Genova 26 settembre 2005, in Società 2006, p. 320, Tribunale Monza, sez. distaccata di Desio, 31 marzo 2005, in Giur. Comm., 2005, II, pp. 530 ss. 100 Cfr., in particolare, l’art. 3, comma 10, della legge 3 aprile 1979, n. 95, così come sostituito dall’art. 90 del D.lgs. 8 luglio 1999, n. 270. 101 Cfr. C. Venturi, L’attività di direzione e coordinamento. La pubblicità dei gruppi nella riforma del diritto societario, in Tuttocamere, gennaio 2005, p. 2.


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in commento ha regolato l’attività di direzione e coordinamento di società, in altri termini quella situazione che ricorre «allorquando più società sono soggette, in virtù di un rapporto di controllo (non necessariamente azionario) alla “direzione e coordinamento” di un unico soggetto», con la conseguenza che l’attività di coordinamento delle imprese appartenenti al medesimo gruppo si traduce nell’armonizzazione dei fini e delle operazioni delle singole entità, con l’effetto che proprio in tale coordinamento sarebbe riscontrabile la manifestazione concreta della direzione unitaria102. Scopo della riforma societaria, in tale contesto, è stato, pertanto, quello di porre dei limiti alle modalità con cui tale potere possa essere esercitato dalla società capogruppo, così da circoscrivere il rischio che l’esercizio della direzione e del coordinamento dell’attività dei soggetti controllati si traduca in un abuso di posizione dominante (tematica coincidente con il concetto di «responsabilità» enunciato dall’art. 2497 c.c.)103. Con specifico riferimento al caso in cui la società capogruppo sia una holding (soprattutto qualora essa gestisca unicamente le partecipazioni nei soggetti controllati), risulta fisiologico al suo ruolo che essa tanto porrà in essere una serie di atti patrimoniali (ad esempio, il rilascio di una fideiussione o la concessione di un credito) quanto eserciterà un’attività direttiva, nei confronti delle controllate; solo quest’ultima tipologia di attività, come logico, potrà a tutti gli effetti essere qualificata come attività di direzione e coordinamento e, in quanto tale, sarà disciplinata dagli artt. 2497 e ss. c.c.104. Al contempo, sarà necessario verificare che quanto disposto e deciso a livello di società holding sia realmente configurabile come attività di direzione e

102 Cfr. V. Salafia, La responsabilità della holding verso i soci di minoranza delle controllate, in Le Società, n. 1/2004. 103 Cfr., in dottrina, L. Patelli e G. Doneddu, Gruppi societari e regolamentazione del potere di direzione e coordinamento», in Dir. Prat. Soc., n. 7-8/2009, p. 52, i quali affermano che «la lettera dell’art. 2497 cod. civ. induce a ritenere ormai possibile (peraltro con opportune cautele, che di seguito saranno evidenziate) l’adozione di un regolamento dal quale, contrattualmente, sia possibile definire le modalità di gestione strategica e funzionale del gruppo. Tale regolamento può essere predisposto dalla capogruppo al fine di determinare le modalità di svolgimento dell’attività di direzione e coordinamento nei confronti delle società da essa controllate o, come più spesso accade di constatare nella pratica, per rendere “vincolanti” le direttive di indirizzo e coordinamento della capogruppo. L’efficacia di una tale regolamentazione non potrà, tuttavia, che essere subordinata a specifica deliberazione consiliare delle società rientranti nell’area di direzione e coordinamento, che dovranno esprimere la volontà di assoggettarsi a esso. Il regolamento, dunque, lungi dal poter essere considerato atto d’imperio della controllante, richiama e, anzi, rafforza il principio di autonomia cui deve ispirarsi l’attività delle società appartenenti al gruppo, le quali non potranno certo alienare supinamente alla capogruppo il governo della propria intrapresa economica». 104 La distinzione in parola era già in passato stata evidenziata dalla giurisprudenza di legittimità. Cfr., in particolare, le sentenze della Corte di Cassazione n. 2215/1968, n. 1963/1969, n. 907/1969 e n. 3150/1976.


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coordinamento, ossia sia in altri termini effettivamente realizzata nell’interesse del gruppo nel suo complesso, comportando contestualmente il sacrificio o la compressione dei vantaggi della singola entità105, senza trascurare il giusto bilanciamento tra le due sfere di interesse. A tal fine, le norme in commento precisano che il limite al corretto esercizio dell’attività di direzione e coordinamento da parte della società capogruppo consiste nel rispetto della «partecipazione sociale» e nell’integrità del patrimonio del soggetto controllato, in guisa che l’attività direttiva deve comunque sempre essere condotta nel rispetto della corretta gestione societaria e imprenditoriale delle società controllate che non potranno essere lese adducendo quale unica ragione l’esclusivo interesse del gruppo. Ne consegue che l’eventuale danno prodotto dalle decisioni stabilite dalla società capogruppo in capo alle controllate non potrà essere valutato con riguardo ad una singola operazione quanto piuttosto facendo riferimento ai risultati complessivi delle operazioni infragruppo; al riguardo, come meglio si dirà in seguito, nell’ottica della singola operazione spesso accadere che la società controllata subisca un sacrificio che però viene ampiamente compensato dal vantaggio che tale operazione assicura al gruppo di imprese nel suo complesso. Emerge con limpida chiarezza che il Legislatore della riforma societaria del 2003 ha inteso tutelare la posizione dei soci di minoranza, nonché dei creditori della società controllata che, altrimenti, sarebbero passivi testimoni di scelte operate in altra sede, anche a proprio danno, senza la loro partecipazione, che si tradurrebbero, in ultima istanza, in una lesione del proprio interesse particolare a vantaggio del gruppo nel suo complesso. Appare evidente come la disciplina dell’attività di direzione e coordinamento non sia stata implementata al solo fine di regolamentare i rapporti interni al gruppo, ma, forse ancor di più, in un’ottica di tutela degli interessi e dei diritti dei soci e dei terzi che, in tal modo, sono posti nella condizione di valutare, attraverso adeguate forme di pubblicità (espressamente disciplinate dall’art. 2497-bis c.c.), i riflessi che l’attività di direzione e coordinamento produce sui soggetti facenti parte del gruppo. La tutela degli interessi così sintetizzati è sostanzialmente operata attraverso i seguenti strumenti: ● la responsabilità del soggetto che esercita la direzione e il coordinamento di società e il conseguente contemperamento degli interessi delle singole società

105 Il Legislatore con l’art. 2497-sexies c.c. – disposizione questa definita da alcuni Autori improvvida e poco razionale (cfr. … Pavone La Rosa, Nuovi profili della disciplina dei gruppi societari, cit., pp.773 ss.) – ha previsto che, salvo prova contraria, che l’attività di direzione e coordinamento di società sia esercitata dalla società o ente tenuto al consolidamento dei loro bilanci, ovvero dalla società o ente che le controlla.


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del gruppo, dei loro soci esterni e dei creditori sociali con la politica di gruppo (art. 2497 c.c.)106; ● la pubblicità dell’appartenenza a un gruppo di società (art. 2497-bis c.c.); ● la trasparenza dei processi decisionali dell’organo di amministrazione delle società del gruppo (art. 2497-ter c.c.); ● la tutela del socio nel caso di ingresso o fuoriuscita della società dal gruppo (art. 2497-quater c.c.). 2.5.1

La responsabilità L’art. 2497 c.c. ha previsto un particolare regime di responsabilità in capo alla società che illegittimamente abbia abusato della propria posizione di influenza dominante, volto a tutelare tanto i soci dei soggetti controllati quanto i creditori di tali società; tale responsabilità non investe direttamente le persone fisiche incaricate di funzioni amministrative al vertice del gruppo societario, bensì si riflette in capo all’ente cui la direzione e il coordinamento societario sono fatti risalire. Più in particolare, come disposto dal comma 1 di detto articolo, le società o gli enti che, esercitando attività di direzione107 e coordinamento di società, agiscono nell’interesse imprenditoriale proprio o altrui in violazione dei principi di corretta gestione societaria e imprenditoriale108 delle società medesime, sono

106 Il Legislatore con l’art. 2497-sexies c.c. – disposizione questa definita da alcuni Autori improvvida e poco razionale (cfr. … Pavone La Rosa, Nuovi profili della disciplina dei gruppi societari, cit., pp.773 ss.) – ha previsto che, salvo prova contraria, che l’attività di direzione e coordinamento di società sia esercitata dalla società o ente tenuto al consolidamento dei loro bilanci, ovvero dalla società o ente che le controlla. 107 Come osservato in dottrina (cfr. … Montalenti, Direzione e coordinamento nei gruppi societari: principi e problemi, cit., p. 320) «per attività di direzione deve intendersi l’esercizio di una pluralità sistematica e costante di atti di indirizzo idonei ad incidere sulle decisioni gestorie dell’impresa, ciò sulle scelte strategiche ed operative di carattere finanziario, industriale, commerciale che attengono alla conduzione degli affari sociali; l’attività di coordinamento consiste nel realizzare un sistema di sinergie tra diverse società del gruppo nel quadro di una politica strategia complessiva, estesa all’insieme di società». 108 Autorevole dottrina (cfr. R. Rordorf, I gruppi nella recente riforma del diritto societario, in Le Società, 2004, p. 542) ha ritenuto in maniera molto condivisibile che «ancor più problematico è individuare un criterio di valutazione della correttezza della gestione imprenditoriale. Qui entrano inevitabilmente in gioco strategie di mercato e se, da un lato, può apparire quasi ovvio che queste siano elaborate e decise unitariamente al vertice del gruppo, per altro verso diviene assai arduo tracciare il confine tra quel che attiene al rischio di impresa e al merito delle scelte imprenditoriali, mai sindacabili in ambito giudiziario, e quel che configura invece violazione di una regola di correttezza rilevante sul piano giuridico e suscettibile di generare responsabilità legale. Il confine tra la regola giuridica e la business judgement rule rischia, insomma, di farsi qui pericolosamente labile. L’esperienza applicativa dirà se tale preoccupazione è eccessiva». Tale previsione si presta ad essere interpretata nel senso che all’interno dei gruppi le scelte poste in essere dagli amministratori


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direttamente responsabili nei confronti dei soci di queste per il pregiudizio arrecato alla redditività e al valore della partecipazione sociale, nonché nei confronti dei creditori sociali per la lesione cagionata all’integrità del patrimonio della società109. Al fine della corretta ricostruzione della fattispecie, appare di estrema importanza soffermarsi brevemente sulle espressioni «agiscono nell’interesse imprenditoriale proprio o altrui in violazione dei principi di corretta gestione societarie e imprenditoriale», nonché «risultato complessivo dell’attività di direzione e coordinamento» entrambe contenute nel testo dell’art. 2497 c.c. In particolare, secondo una interpretazione strettamente aderente alla lettura del testo normativo, l’espressione interesse imprenditoriale proprio o altrui intende riferirsi all’agire nell’interesse imprenditoriale proprio o altrui, e non anche all’agire nell’interesse di altra natura proprio o altrui. Tale lettura normativa sembra discendere in primo luogo dalla considerazione che l’agire nel perseguimento di interessi di natura non imprenditoriale esula dall’ambito di applicazione dell’art. 2497 c.c. e, che, in quanto tale, pare configurare una forma di abuso più grave di quella colpita dalla norma in commento; inoltre, l’espresso riferimento all’interesse di natura imprenditoriale sembrerebbe avvalorato anche dal particolare meccanismo compensativo prefigurato dall’art. 2497 volto alla soddisfazione di interessi di tipo imprenditoriale. La violazione dei principi di corretta gestione societaria e imprenditoriale potrebbe lasciar presumere che la responsabilità della società capogruppo si configuri in presenza di una gestione non corretta sotto il profilo sia societario sia imprenditoriale, con la conseguenza che l’attività di direzione e coordinamento debba essere apprezzata sia sotto il profilo societario sia sotto il profilo imprenditoriale. Aderendo a tale interpretazione, si potrebbe pertanto ipotizzare una gestione di società diretta e coordinata non conforme ai principi di corretta gestione societaria, ma rispettosi di quelli di una corretta gestione imprenditoriale e, viceversa, irrispettosa dei principi di corretta gestione imprenditoriale ma conforme a quelli di corretta gestione societaria.

possono essere sindacate con parametri attinenti al merito delle decisioni o diversi dagli standard giurisprudenziali. 109 Al riguardo, va osservato che ai fini della responsabilità non pare corretto limitarsi ai soli azionisti di minoranza delle società dirette e coordinate, nonché dei creditori sociali, essendo necessario a nostro avviso fornire adeguata tutela anche ai soci di minoranza della società capogruppo; cfr., in dottrina, in tal senso, … Spolidoro, La tutela dei soci di minoranza e dei creditori della holding nella nuova disciplina delle società di capitali, in Scritti in onore di Vincenzo Bonocore, III, 3, Milano, 2005, pp. 3897 ss,; … Portale, Osservazioni sullo schema di decreto delegato (approvato dal Governo in data 29-30 settembre 2002) in tema di riforma delle società di capitali, in Riv. Dir. Priv., 2002, pp. 716 ss. Cfr. anche la sentenza del Tribunale di Milano del 28 gennaio 2008 nella quale è stato chiarito che non può agire secondo quanto disposto dall’art. 2497 c.c. il titolare di un warrant prima dell’esercizio del suo diritto.


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In tal modo, dalla violazione di uno solo dei due principi di corretta gestione non discenderebbe la possibilità di tutela risarcitoria prevista dall’art. 2497 c.c.; tuttavia, tale interpretazione normativa seppur aderente al tenore letterale della norma, suscita seri dubbi. Infatti, a nostro avviso una lettura più sistematica della norma induce a considerare soddisfatta la condizione di applicabilità della norma sanzionatoria qualora risulti violato anche uno solo dei principi di corretta gestione enunciati dalla norma110. Con particolare riferimento poi alla locuzione «alla luce del risultato complessivo dell’attività di direzione e coordinamento», occorre formulare alcune osservazioni; in primo luogo, dalla lettura del primo comma dell’art. 2497 c.c. sembra dedursi che l’analisi debba operarsi con riferimento alla società diretta e coordinata, con la conseguenza che il risultato complessivo dell’attività di direzione e coordinamento dovrebbe riguardare proprio questa società. La seconda riflessione riguarda il regime temporale della compensazione, dovendosi stabilire se l’espressione «risultato complessivo» riguardi il risultato apprezzabile alla chiusura dell’esercizio nel quale l’atto pregiudizievole è stato compiuto e ha prodotto i propri effetti, ovvero se debba aversi riguardo al momento della eventuale fuoriuscita dal gruppo della società diretta e coordinata, ovvero infine, con riferimento al tempo di svolgimento del giudizio instaurato con l’azione prevista dallo stesso art. 2497 c.c. Ci sembra corretto ritenere che l’adozione delle due soluzioni da ultime citate conduca a risultati non coerenti con la ratio della norma, in quanto, essendo legate essenzialmente ad eventi puramente ipotetici (quale, ad esempio, l’uscita dal gruppo della società diretta e coordinata), ci sembrano molto incerte dell’an. Soggetti destinatari della diretta responsabilità del soggetto che esercita attività di direzione e coordinamento sono quindi i soci di minoranza111, nonché i creditori sociali112. L’interesse tutelato dei primi è costituito dalla redditività e dal valore

110 Cfr. in dottrina R. Rordorf, I gruppi di società nella recente riforma del diritto societario, in Società 2004, pp. 538 ss. 111 Nel caso dei soci, si tratta di una tipica ipotesi di responsabilità aquilana, posto che il socio di minoranza subisce un danno, autonomo rispetto a quello sofferto dalla società controllata cui partecipa, consistente nella diminuzione di valore della propria partecipazione. Diverse sono le posizioni dottrinali sul tema; cfr., in particolare, senza pretesa di esaustività, … Sacchi, Sulla responsabilità da direzione e coordinamento nella riforma delle società di capitali, in Giur. Comm., 2003, I, pp. 670 ss.; R. Rordorf, I gruppi di società nella recente riforma del diritto societario, cit., pp. 545 ss.; P. Rescigno, Eterogestione e responsabilità nella riforma societaria fra aperture e incertezze: una prima riflessione, in Società, 2003, p. 335; … Gallucci, In la nuova S.p.a. e la nuova S.r.l., a cura di C. Bauco, Milano, 2004, p. 475; … Carano, Responsabilità per direzione e coordinamento di società, in Riv. Dir. Civ., 2004, II, p. 432. 112 Nel caso della responsabilità nei confronti dei creditori sociali, il danno da essi subito, consistente nella lesione cagionata all’integrità del patrimonio della società diretta e coordinata, discende direttamente dall’illecito esercizio della direzione unitaria; ne consegue che la responsabilità


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della partecipazione sociale, mentre quello tutelato dei secondi è rappresentato dall’integrità del patrimonio sociale. Sul punto non può non osservarsi che le nozioni di redditività e di valore della partecipazione sociale esprimono concetti incerti, nonché generici, sia con riguardo al periodo di riferimento da assumere sia con riguardo al criterio estimativo. Tuttavia, ci sembra corretto ritenere che con riferimento ai soci di minoranza della società eterodiretta il Legislatore con la disposizione in commento abbia innanzitutto inteso riferirsi all’aspettativa del socio di conseguire gli utili che si realizzano attraverso lo svolgimento dell’attività; il pregiudizio arrecato al valore della partecipazione sembra alludere al valore reale della partecipazione, quale conseguenza di una diminuzione del valore del patrimonio netto. Inoltre, per lesione alla redditività della partecipazione sembra doversi intendere l’impossibilità per il socio di trarre dalla stessa i vantaggi che gli sono propri. Inoltre, con particolare riferimento ai creditori sociali della società diretta e coordinata, l’interpretazione più coerente della disposizione legislativa sembra essere quella secondo cui verificandosi un danno rilevante ex art. 2497 c.c., solamente in caso di incapienza del patrimonio della società diretta e coordinata la pretesa risarcitoria deve essere rivolta nei confronti della società che esercita la direzione e coordinamento, nell’ipotesi in cui ovviamente detta incapienza risulti concretamente dimostrata. Ciò presuppone che il creditore sociale leso nei propri diritti, prima di agire nei confronti della società controllante, deve aver richiesto infruttuosamente il soddisfacimento delle proprie ragioni creditorie alla società eterodiretta. Tale responsabilità quindi assume la natura di responsabilità sussidiaria. Inoltre, come disposto dal comma 3 dell’art. 2497 c.c., il socio di minoranza, nonché i creditori sociali, della società eterodiretta possono agire nei confronti della società o dell’ente che esercita l’attività di direzione e coordinamento solo se non siano stati soddisfatti dalla società soggetta a tale coordinamento113. Sotto il profilo probatorio, i soci di minoranza e i creditori sociali devono provare il comportamento antidoveroso che è alla fonte della responsabilità, ossia il nesso tra tale comportamento e il danno subito; in altri termini, tali soggetti hanno l’onere di provare (con adeguate e convincenti motivazioni) l’illecito esercizio, da parte della società che esercita attività di direzione e coordinamento, della direzione unitaria che ha comportato una violazione dei principi di correttezza societaria e imprenditoriale. La responsabilità derivante dal non corretto esercizio dell’attività di direzione e coordinamento è stata, come in precedenza osservato, estesa nei confronti di chi

del soggetto dominante pare conseguire dalla violazione dell’obbligazione specifica di un corretto esercizio di tale direzione posto a carico della società capogruppo. 113 Cfr. in dottrina Maggiolo, L’azione di danno contro società o ente capogruppo, cit., p. 192.


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abbia comunque preso parte al fatto lesivo e, nei limiti del vantaggio conseguito, a chi ne abbia consapevolmente tratto beneficio. Tale previsione normativa deve essere inquadrata nella categoria della responsabilità extracontrattuale o aquilana114, in quanto essa insorge non a seguito della violazione del dovere di perseguire l’interesse della società controllata, ma piuttosto dalla lesione dell’obbligo di astenersi dall’adottare comportamenti per essa pregiudizievoli, in ottemperanza al principio di diritto del neminem ledere115. La stessa natura deve essere riconosciuta alla responsabilità di chi con preordinata volontà, ovvero con piena consapevolezza del danno arrecato dall’illecito esercizio della direzione unitaria, (rectius: consapevolmente) abbia tratto da esso un beneficio, nei limiti del vantaggio conseguito (secondo un criterio quindi di natura indennitaria) non già dal soggetto danneggiato ma dal soggetto indebitamente avvantaggiato per la cooperazione prestata alla condotta dannosa. Da un punto di vista pratico, sembra corretto ritenete che l’estensione della responsabilità di cui al secondo comma dell’art. 2497 c.c. si riferisca innanzitutto ai soci della società holding i quali abbiano in concreto autorizzato gli amministratori ad attuare il programma di direzione unitaria lesivo nei confronti dei soci e dei creditori sociali della società controllata. Potrebbe inoltre comprendere anche i creditori della stessa holding che abbiano influenzato i suoi amministratori ad elaborare detto programma con la consapevolezza che la sua attuazione avrebbe apportato dei vantaggi tali da rendere possibile il soddisfacimento delle proprie ragioni creditorie, anche se conseguite con il sacrificio della società controllata, dei suoi soci nonché degli altri creditori. Deve ritenersi che analoghe considerazioni possano valere anche nei confronti dei sindaci i quali ai sensi dell’art. 2407, secondo comma, c.c. sono responsabili solidalmente con gli amministratori per i fatti o le omissioni

114 In tal senso depone la Relazione al D.Lgs. n. 6/2003 dove si legge che: «la responsabilità dettata da questa impostazione normativa è apparsa fondamentalmente di stampo “aquiliano”, e necessariamente della controllante direttamente verso i danneggiati»; Tuttavia, parte della dottrina considera tale responsabilità di natura contrattuale (cfr. per tutti, R. Rordorf, Società, 2004, pp. 545 ss.); tra l’altro va osservato che anche prima della riforma sia la dottrina sia la giurisprudenza avevano sostenuto la natura contrattuale della responsabilità della società capogruppo (cfr. per tutti, … Libonati e P. Marchetti, Gruppi di società, in Atti del Convegno di Venezia del 16-18 novembre 1995). 115 Come osservato in dottrina (cfr. … Di Giovanni, La responsabilità della capogruppo dopo la riforma delle società, in Riv. Dir. Priv., 2004, p. 42) «quando la Legge estende l’obbligo di ristorare il danno “nei limiti del vantaggio conseguito”, anche a chi “ne abbia consapevolmente tratto beneficio”, è trasparente l’allusione all’eventualità che determinate operazioni progettate dalla “capogruppo” abbiano l’effetto di sacrificare una delle società del gruppo a beneficio di altra società “sorella”. Dinanzi a tale eventualità, la Legge non impone di ridistribuire i vantaggi all’interno del gruppo ma si preoccupa di rimediare ai danni che possono essere risentiti dai soci di minoranza della società “sacrificata” o dai creditori di questa, mediante un’estensione dell’azione di responsabilità».


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di questi, quando il danno non si sarebbe prodotto se essi avessero vigilato in conformità degli obblighi della loro carica116; in tal caso, chi promuove l’azione di responsabilità deve dimostrare il nesso tra l’inadempienza dei sindaci e l’omissione amministrativa da cui il danno è derivato. Infine anche la società di revisione, a cui fosse affidato il controllo contabile delle società che ricorrono al mercato del capitale di rischio, per effetto di quanto disposto dall’art. 2409-sexies c.c.117, potrebbero concorrere con gli amministratori della società capogruppo nella produzione del danno, qualora ovviamente i soggetti danneggiati riuscissero a dimostrare un nesso di causalità tra l’irregolarità della revisione contabile effettuata e la non corretta qualità della direzione unitaria o del coordinamento esercitato118. Deve infine essere osservato che se non esiste un nesso di causalità immediato o diretto tra la condotta degli amministratori (che con negligenza, imperizia, hanno prodotto un danno valutabile) e dei sindaci (che non hanno correttamente adempiuto a controllare gli amministratori) della società controllata e il danno da questa subito non si potrà configurare il coinvolgimento dei soggetti controllanti nella responsabilità dei predetti amministratori e sindaci. In altri termini, potrà configurarsi una responsabilità dei soggetti controllanti nella misura in cui si possa configurare una responsabilità degli amministratori ed eventualmente anche dei sindaci della società controllata. L’ultimo comma della disposizione in esame prevede che in caso di procedura concorsuale che interessi la società soggetta ad altrui direzione e coordinamento l’azione spettante i creditori di questa si trasferisce all’organo della stessa procedura, ossia al curatore, commissario liquidatore o commissario straordinario. A differenza che per le azioni di responsabilità ordinarie – per cui è espressamente previsto il trasferimento agli organi delle procedure concorsuali della titolarità dell’esercizio delle azioni di responsabilità sia sociale sia dei creditori societari -, il quarto comma dell’art. 2497 c.c. non prevede espressamente l’azione sociale di responsabilità. Tuttavia, dal momento che l’organo della procedura subentra in tutte le posizioni della società, pare corretto ritenere che il curatore, il commissario liquidatore, ovvero il commissario straordinario, sia comunque legittimato all’esercizio dell’azione sociale di responsabilità, oltre che ovviamente poter

116 In particolare, la corresponsabilità dei sindaci è relativa alla complessiva competenza di sia quella sulla gestione sia quella sulla contabilità; tuttavia, va osservato che nel caso delle società che ricorrono al mercato del capitale di rischio tale competenza può anche limitarsi alla sola gestione societaria. 117 Ai sensi di tale norma i soggetti incaricati dal controllo contabile sono sottoposti alle disposizioni dell’art. 2407 c.c. e sono responsabili nei confronti della società, dei soci e dei terzi per i danni derivanti dall’inadempimento ai loro doveri. 118 Cfr. in senso conforme V. Salafia, La responsabilità della holding nei confronti dei soci di minoranza delle controllate, in Società, 2003, pp. 395 ss.


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agire, in via surrogatoria per conto della società. Conclusivamente, pare opportuno formulare qualche ulteriore riflessione con particolare riferimento al tema del danno (eventualmente) derivante dal non corretto esercizio dell’attività di direzione e coordinamento; deve trattarsi, in particolare, di un danno effettivo (oltre che pluridirezionale119) che deve essere valutato non in relazione ad un singolo atto di direzione e coordinamento pregiudizievole, ma nel contesto complessivo dell’attività imprenditoriale del gruppo; inoltre, deve tenersi conto della sua (eventuale) elisione successiva, dal momento che il primo comma dell’art. 2497 c.c. esclude che via sia responsabilità quando il danno risulta mancante alla luce del risultato complessivo dell’attività di direzione e coordinamento, ovvero integralmente eliminato anche a seguito di operazioni dirette a ciò. La formulazione normativa è, in particolare, il riferimento operato dalla norma al risultato complessivo dell’attività di direzione e coordinamento sembra essere stata influenzata dalla c.d. «teoria dei vantaggi compensativi»120, dal momento che l’interesse che deve essere valutato a tal fine non è quello della singola società appartenente al gruppo ma quello del gruppo partecipato, avuto riguardo quindi ai vantaggi complessivamente tratti dalla singola società dalla sua appartenenza al gruppo. 2.5.2

La possibile limitazione dell’azione di responsabilità: i c.d. vantaggi compensativi Uno dei temi centrali della disciplina dell’attività di direzione e coordinamento – e, quindi, dei profili di responsabilità della società che esercita attività di direzione e coordinamento – è quello dei c.d. vantaggi compensativi, concetto questo oggetto di vivacissimi dibattiti dottrinali121. Parte della dottrina122 ha

119 Cfr. Tribunale Orvieto 4 novembre 1987, in Giur. It., 1988, I, 2, p. 501. 120 Per una elaborazione giurisprudenziale della teoria dei c.d. vantaggi compensativi, cfr. le sentenze della Corte di Cassazione 11 marzo 1996, n. 2001 (prima sentenza nella quale i giudici hanno compiutamente la tematica in commento); 5 dicembre 1998, n. 12325; nonché la sentenza della Corte di Appello di Milano 11 luglio 1991, in Giur. Comm., II, pp. 527 ss. Nella sentenza della Corte di Cassazione n. 12325/1998 è stato affermato il principio che, «al fine di verificare se l’operazione abbia comportato o meno per la società che l’ha posta in essere un depauperamento effettivo occorre tener conto della complessiva situazione che, nell’ambito del gruppo, a quella società fa capo, potendo l’eventuale pregiudizio economico che da essa sia direttamente derivato aver trovato la sua contropartita in un altro rapporto e l’atto presentarsi come preordinato al soddisfacimento di un ben preciso interesse economico, sia pure mediato e indiretto». 121 Per una sintesi delle diverse posizioni elaborate dalla dottrina, cfr. … Montalenti, Conflitti di interesse nei gruppi di società e teoria dei vantaggi compensativi, cit., p. 710 ss. 122 Cfr. … Libonati, I Gruppi di società, in Atti del Convegno internazionali di studi, Venezia 16-18 novembre 1995, a cura di P. Balzarini, G. Carcano, G. Mucciarelli, vol. II, Milano 1996, pp.


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proposto che il surplus prodotto dal compimento delle operazioni compiute in pregiudizio ad una corretta attività di direzione e coordinamento debba essere (obbligatoriamente) ridistribuito in maniera equa tra tutte le società del gruppo; altri Autori123 hanno invece proposto soluzioni di tipo risarcitorio a carico della società capogruppo nei confronti della società svantaggiata. Secondo un’elaborazione dottrinaria più recenti124, alla quale ci sentiamo di aderire, «la teoria dei vantaggi compensativi non è teoria dell’indennizzo ma bensì una valutazione ex-ante in termini di razionalità e coerenza di una singola scelta, ancorché pregiudizievole per la società che la pone in essere, rispetto ad una politica economica generale di gruppo di medio – lungo termine, da cui può ragionevolmente derivare un vantaggio alla singola società, anche su piani economici differenti, anche in tempi diversi rispetto al momento dell’operazione ed anche secondo un parametro non rigidamente proporzionale, né necessariamente quantitativo». In conformità a tale concezione quindi le operazioni poste in essere devono essere valutate nel quadro della generale politica di gruppo, al fine di verificare se da queste possano derivare alle società soggette a direzione e coordinamento benefici non immediati, ma ragionevolmente certi, anche su piani economici diversi da quelli incisi dall’operazione imposta dalla capogruppo. Se tali condizioni risultano soddisfatte l’operazione potrebbe considerarsi legittima realizzandosi, in tal modo, il giusto contemperamento dell’interesse del gruppo con quello delle società ad esso affiliate. In particolare, a nostro avviso, deve essere accolta una concezione dei vantaggi compensativi per così dire flessibile e, in ogni caso, volta ad un equo contemperamento delle varie esigenze che si manifestano all’interno di un gruppo societario; in altri termini, una lettura rigida delle condizioni poste al riguardo dalla norma non ci sembra sufficientemente idonea a operare il giusto contemperamento delle esigenze del gruppo con quello delle società controllate e dei soci di minoranza. Infatti, non ci sembra corretto condizionare la legittimità dell’interesse di gruppo ad una rigida e precisa riallocazione specifica di vantaggi e svantaggi all’interno del gruppo, in modo tale da rendere il risultato economico finale equivalente a quello che potrebbe conseguire una società isolata. La legittimità dell’operazione infatti dovrebbe essere valutata tenuto conto sia dei

1489 ss.; … Scognamiglio, La politica di gruppo e l’interesse delle società controllate, cit., p. 487 ss.; … Preite, Il conflitto di interessi del soci tra codice e disciplina del mercato, in Riv. Soc. 1988, pp. 361 ss. 123 Cfr. … Spada, L’amministrazione delle società per azioni tra interesse sociale e interesse di gruppo, cit., pp. 233 ss. 124 Cfr., … Montalenti nei vari interventi dedicati a tale argomento e, in particolare, Conflitto di interessi e teoria dei vantaggi compensativi, cit., p. 710, Operazioni infragruppo e vantaggi compensativi: l’evoluzione giurisprudenziale (a commento Cass. Civ. 5 dicembre 1998, n. 12325), cit., pp. 2317 ss.


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benefici derivanti alla società dall’appartenenza al gruppo sia della politica economica generale di gruppo di medio e lungo periodo, di talché il considerare la società danneggiata come isolata e, quindi, non facente parte di un insieme diretto e coordinato di società non pare aderente con la realtà dei moderni gruppi societari. Tale concezione per così dire «flessibile» dei vantaggi compensativi è stata accolta dalla Commissione Mirone di riforma del diritto societario; infatti, la Relazione di accompagnamento al progetto di riforma, afferma la possibilità di operare il contemperamento dell’interesse del gruppo con quello delle società controllate e dei soci di minoranza mediante adeguato bilanciamento dei costi addebitati alla controllata con i benefici ad essa derivanti dal gruppo, senza necessità, peraltro, che questi ultimi siano determinati attraverso un calcolo analitico125. Sul punto, merita di essere segnalata la sentenza della Corte di Cassazione 24 agosto 2004 n. 16707126, nella quale la Suprema Corte sembra confermare la tendenza giurisprudenziale a favore dell’ammissibilità della teoria dei vantaggi compensativi. In particolare, i giudici di legittimità, hanno riconosciuto che il dovere degli amministratori di perseguire l’oggetto sociale non osta alla partecipazione di una società ad un gruppo di imprese, né all’adozione da parte di questi di scelte ispirate alle strategie economiche del gruppo che, anche se immediatamente pregiudizievoli per la società partecipata, sono giustificate unicamente dalla politica complessiva dello stesso gruppo e quindi, in buona sostanza, dall’aspettativa di un beneficio futuro compensativo del pregiudizio economico immediato. Del resto, come osservato dalla dottrina127, essendo l’art. 2497 primo comma c.c., nonché l’art. 2634 c.c.128, accomunati dalla medesima ratio, il pregiudizio arrecato al patrimonio della società controllata non costituisce fonte di responsabilità né civile della holding, né penale dei suoi amministratori, se trova compensazione in vantaggi conseguiti o fondatamente prevedibili derivanti dall’appartenenza al gruppo. Da tale impostazione discende quindi che la norma in commento avrebbe dei margini di flessibilità tali da consentire di attribuire

125 Cfr., in senso critico, … Enriques, Il conflitto di interessi nella gestione delle società per azioni: spunti teorici e profili comparatistica in vista della riforma del diritto societario, in Riv. Soc., 2000, pp. 509 ss. 126 Cfr. Cassazione civile, sezione I, 24 agosto 2004, n. 16707, in Giur. Comm., 2005, II, pp. 246 ss.; in Giur. Comm., 2005, II, pp. 405 ss.; in Società, 2005, pp. 164 ss.; in Giur. It., 2005, pp. 68 ss. 127 Cfr., F. Galgano, Il nuovo diritto societario, in Trattato di diritto commerciale e di diritto pubblico dell’economia, XXIX, pp. 603 ss. 128 Si ricorda che il terzo comma di detto articolo dispone che «in ogni caso non è ingiusto il profitto della società collegata o del gruppo, se compensato da vantaggi, conseguiti o fondatamente prevedibili, derivanti dal collegamento o dall’appartenenza al gruppo». Cfr. in giurisprudenza, per le prime applicazioni di tale norma, le sentenze della Corte di Cassazione n. 3/38110 e n. 4/10688.


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rilevanza anche alla previsione di vantaggi futuri; in altri termini, nell’ambito dei gruppi di società, si pone la necessità di utilizzare un criterio valutativo non limitato alla singola operazione, ma che tenga conto anche dei vantaggi non meramente ipotetici, ma come osservato fondatamente prevedibili, che una società può trarre dall’appartenenza al gruppo stesso, ovvero da altre operazioni che possono compensare il pregiudizio precedentemente subito dalla società129. 2.5.3

Gli obblighi pubblicitari L’art. 2497-bis c.c. introduce uno specifico obbligo informativo circa la sussistenza delle condizioni di società soggetta all’altrui direzione e coordinamento, obbligo posto a carico degli amministratori della società eterodiretta. La norma prevede l’obbligo in capo alla società diretta e coordinata di rendere nota la propria peculiare condizione, ossia la soggezione all’altrui attività di direzione e coordinamento. In particolare, è istituita un’apposita sezione nel Registro delle Imprese in cui dovranno essere indicati tutti i soggetti che esercitano attività di direzione e coordinamento e le società che ne sono soggette; inoltre, lo status di società eterodiretta deve essere indicato, a cura degli amministratori di questa, nei propri atti a rilevanza esterna e nella corrispondenza. Per ambedue gli obblighi citati, la norma non prevede espressamente dei termini; al riguardo, sembra corretto ritenere che possa trovare applicazione la disciplina generale prevista in materia di iscrizione delle società nel Registro delle Imprese, con la conseguenza che gli amministratori devono provvedere all’iscrizione della società eterodiretta nell’apposita sezione del Registro delle Imprese nel termine dei 30 giorni. Inoltre, con particolare riferimento alla indicazione negli atti e nella corrispondenza della società o dell’ente alla cui direzione e coordinamento è soggetta, Confindustria

129 Con particolare riferimento alla possibilità o meno di tener conto anche dei vantaggi incerti, ovvero difficilmente quantificabili, cfr. in giurisprudenza, le sentenze emesse dalla Corte di Appello di Milano il 17 luglio 1991, dal Tribunale di Verona il 7 febbraio 1990, dal Tribunale di Milano il 19 marzo 1993 e dalla Corte di Appello di Milano il 5 febbraio 1994, dalla Corte di Appello di Torino il 4 dicembre 2000: in tali sentenze è stata accolta una interpretazione di tipo estensivo dei vantaggi futuri conseguibili dalla società. Per una interpretazione restrittiva, cfr. le sentenze della Corte di Cassazione 21 gennaio 1999, n. 521, del 24 agosto 2004, n. 16707 e del Tribunale di Roma 5 febbraio 2008. In particolare, la Corte di Cassazione nella sentenza n. 16707/2004 dopo aver chiarito che «l’autonomia soggettiva e patrimoniale che pur sempre contraddistingue ogni singola società appartenente ad un gruppo impone all’amministratore perseguir prioritariamente l’interesse della specifica società cui egli è preposto; e dunque non gli consente di sacrificarne l’interesse in nome di un diverso interesse che, se pure riconducibile a quello di chi è collocato al vertice del gruppo non assumerebbe alcun rilievo per i soci di minoranza e per i terzi creditori della società controllata» ha altresì affermato che «l’eventualità che un atto lesivo del patrimonio della società trovi compensazione nei vantaggi derivanti dall’appartenenza al gruppo non può essere posta in termini meramente ipotetici».


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nella circ. 30 luglio 2003, n. 17611, ha ritenuto che questa ulteriore forma di pubblicità deve essere adottata contestualmente o immediatamente dopo l’avvenuta iscrizione nel Registro delle Imprese delle diverse società coinvolte. Come osservato da Assonime130 «l’iscrizione nel Registro delle Imprese così come l’indicazione negli atti e nella corrispondenza svolgono una mera funzione di pubblicità notizia. La responsabilità sancita dall’art. 2497 sussiste anche qualora non venissero osservati gli obblighi di pubblicità e di iscrizione; analogamente non sembra possibile ricondurre veri effetti di patronage a siffatte forme pubblicitarie». Gli stessi amministratori devono indicare nella Nota Integrativa un prospetto riepilogativo dei dati essenziali dell’ultimo Bilancio della società o dell’ente che esercita attività di direzione e coordinamento131 e nella Relazione sulla Gestione i rapporti, intercorsi con la società capogruppo e altre società del gruppo, nonché i relativi effetti132. In sostanza, tali adempimenti rientrano nell’obbligo della pubblicità-notizia, avente la funzione di rendere conoscibili determinati fatti, senza tuttavia influire sulla efficacia o sulla opponibilità dei comportamenti adottati133.

130 Cfr. Circolare n. 44/2006, cit., p. 9. 131 La ratio sottostante tale norma sembra rinvenibile nella circostanza di voler consentire ai soci e ai terzi la conoscenza dei dati del bilancio relativi alla società o all’ente che esercita attività di direzione e coordinamento e nei cui confronti può essere esercitata azione di responsabilità. In merito al contenuto di tale prospetto riepilogativo, in assenza di specifiche previsioni, si ritiene che l’indicazione dei dati essenziali dell’ultimo Bilancio della società che esercita l’attività di direzione e coordinamento sia soddisfatta dalla menzione dei medesimi dati richiesti dall’art. 2429, comma 3, c.c. Sul punto, la dottrina (C. Venturi, op. cit., p. 6) ha, tuttavia, osservato che «non si può escludere che, per ragioni di prudenza, gli amministratori della società obbligata alla redazione del prospetto riepilogativo scelgano di allegare alla nota integrativa l’intero bilancio della società che esercita l’attività di direzione e coordinamento». Va, comunque, osservato che la società controllata riporterà nel proprio bilancio i dati contabili della società che esercita attività di direzione e coordinamento non aggiornati, in quanto derivati dal bilancio di quest’ultima dell’anno precedente. 132 Al riguardo, si osserva che anteriormente alla riforma solamente le società controllate erano obbligate, ai sensi dell’art. 43 del D.Lgs. 9 aprile 1991 n. 127 a trasmettere tempestivamente alla controllante le informazioni da questa richieste per la redazione del bilancio consolidato. Cfr. in dottrina F. Bonelli, Disciplina dei flussi informativi infragruppo nelle società quotate, in Giur. Comm., 2002, I, pp. 681 ss. In particolare, l’art. 2497-ter c.c. richiede anche che gli amministratori della società controllata diano conto nella relazione sulla gestione anche delle operazioni influenzate dalla società che esercita attività di direzione e coordinamento e che sono state oggetto di analitica motivazione. 133 Cfr. … Cariello, Direzione e coordinamento di società e responsabilità: spunti interpretativi iniziali per una riflessione generale», in Riv. Soc., 2003, p. 1259. Sul punto, cfr. F. Galgano, op. cit.., il quale pone alcuni dubbi in merito all’adempimento in esame, sostenendo che «è un adempimento che può talvolta rivelarsi problematico. Possono insorgere due ordini di problemi: 1) quelli connessi all’identificazione, per l’applicazione del 1° comma, della


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Con particolare riferimento alla società tenuta all’obbligo di iscrizione, sebbene la dottrina abbia assunto anteriormente all’entrata in vigore della riforma posizioni discordanti134, ci sembra corretto ritenere che l’obbligo in parola sussista unicamente in capo alle sole società soggette a direzione e coordinamento135. Tale interpretazione appare infatti la più rispondente allo spirito della norma, dal momento che l’art. 2497-bis c.c. non richiama espressamente tra i soggetti destinatari dell’obbligo di iscrizione la società esercente attività di direzione e coordinamento, né per altro paiono ammissibili interpretazioni di detta norma di tipo estensivo136. All’adempimento degli oneri pubblicitari parola si ricollegano le conseguenze prevista dal comma 3 dell’art. 2497-bis137 in tema di responsabilità degli

società o ente che, nel caso di controllo indiretto, si collochi al vertice del gruppo; che può rivelarsi un’ardua identificazione quando il comando del gruppo discenda a catena sulle controllate e si manifesti nelle forme del noto effetto telescopio. Si può dire, in linea di massima, che nei casi dubbi gli amministratori della controllata identificheranno la holding di vertice a seguito della consultazione del registro delle imprese, dove troveranno il nome della propria società nell’elenco delle società soggette a direzione e coordinamento, figurante sotto il nome della holding, e andranno esenti da responsabilità se indicheranno il nome di questa come la società o l’ente alla cui direzione o coordinamento la loro società è sottoposta. Ma resta da domandarsi che cosa accadrà se l’indicazione risultante dal registro delle imprese si riveli ingannevole, sapendo essi o potendo comunque desumere dalle confidenziali direttive ricevute che il centro di comando del gruppo risieda in una società o ente diverso da quello indicato nel registro delle imprese e collocato più a monte di questo; 2) la holding di vertice sia una società o ente con sede all’estero e, perciò, non figurante nel registro delle imprese». 134 Alcuni Autori (cfr. F. Galgano, Il nuovo diritto societario, in Trattato Galgano, XXIX, Padova, 2003, pp. 193ss.) hanno ritenuto che l’obbligo in parola riguardava unicamente la società capogruppo; su posizioni opposte, cfr. Scognamiglio, I gruppi e la riforma del diritto societario: prime riflessioni, in Riv. Dir. Impr., 2002, pp. 590 ss. 135 Cfr. in tal senso … Irace, Commento sub. art. 2497 c.c., in La riforma del diritto societario, a cura di … Sandulli, … Santoro, Torino, 2003, p. 326. 136 Il Legislatore infatti quando ha voluto ha previsto specifici obblighi informativi in capo alla società capogruppo; ad esempio, l’art. 64 del D.lgs. 1° settembre 1993 n. 385 prevede che la società capogruppo debba comunicare alla Banca d’Italia l’esistenza del gruppo bancario, nonché la sua composizione aggiornata. Cfr. sul punto in dottrina … Croff, Modalità di adempimento di nuovo obblighi di pubblicità derivanti dall’appartenenza ad un gruppo [art. 2497-bis c.c.], in Atti del Convegno Paradigma, 28 maggio 2003, Milano. Va tuttavia osservato che in dottrina alcuni Autori (cfr. P. Montalenti, La riforma del diritto societario: profili generali, in Riv. Dir. Comm. 2003, pp. 75 ss.) hanno ritenuto che la soluzione più opportuna «sarebbe stata quella di imporre la pubblicità, nel registro delle imprese, non già alla società assoggettata, bensì alla società che esercita l’attività di direzione e coordinamento». 137 Il comma 3 dell’art. 2497-bis c.c. dispone che gli amministratori che omettono l’indicazione di cui al comma primo (indicazioni negli atti e nella corrispondenza) ovvero l’iscrizione di cui al comma secondo (iscrizione presso l’apposita sezione nel Registro delle Imprese), o le mantengono quando la soggezione è cessata, sono responsabili dei danni che la mancata conoscenza dei


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amministratori per i danni subiti dai soci o dai terzi a causa della mancata esecuzione di tali oneri138, ovvero dal mancato adeguamento dell’indicazione e dell’iscrizione quando la soggezione all’altrui attività di direzione e coordinamento è cessata. In capo agli amministratori della società controllata sussiste una responsabilità che potremmo definire codificata, dal momento che questa troverà applicazione ogni qualvolta il socio, ovvero un soggetto terzo in base al principio dell’affidamento, siano stati indotti dalla mancata conoscenza dell’attività di direzione e coordinamento, ovvero dall’individuazione del soggetto che esercita tale attività, ad adottare decisioni per essi pregiudizievoli. Detto in altre parole, tale responsabilità trae origine dalla condotta negligente degli amministratori che provochino un danno ai soci, ovvero ai terzi139; affinché tale responsabilità possa trovare applicazione è necessario che i soci, ovvero i terzi in base al principio dell’affidamento siano stati indotti dalla mancata conoscenza della soggezione ad altrui attività di direzione e coordinamento, ovvero dall’errata individuazione del soggetto che esercita tale attività, ad adottare decisioni ad essa pregiudizievoli. Da un punto di vista pratico, le Istruzioni ai nuovi modelli per l’iscrizione o il deposito di atti o fatti presso il Registro delle Imprese precisano che: 1. deve essere indicato lo stato in cui è stabilita la sede sociale della società o dell’ente che esercita l’attività di direzione e coordinamento, anche qualora non residenti nel territorio dello Stato; 2. deve essere indicato il tipo di attività di direzione e coordinamento esercitato, nonché le modalità attraverso cui questa viene esplicata;

fatti abbia recato ai terzi. Secondo alcuni Autori (cfr. … Giardino, La disciplina della pubblicità ex art. 2497-bis Cod. Civ., in Le Società, 2004, p. 1083) «la formulazione del terzo comma della disposizione in commento [dell’art. 2497-bis c.c.] lascia pensare che l’amministratore che incorra nelle violazioni ivi sanzionate ben difficilmente potrà liberarsi delle responsabilità conseguenti (ovviamente laddove un danno si sia effettivamente prodotto in capo al socio e/o al terzo), si ritiene, pertanto opportuno che gli amministratori, onde garantire il diligente rispetto della normativa in parola implementino strumenti idonei a garantire flussi informativi infragruppo e si attivino presso la capogruppo per ottenere le informazioni di cui necessitano». 138 In particolare, il danno risarcibile è quello che deriva al socio e al terzo dall’aver fatto affidamento sull’esistenza di una situazione di soggezione all’altrui attività di direzione e coordinamento. Cfr. in dottrina A. Giardino, La disciplina della pubblicità ex art. 2497-bis c.c., in Le Società, 2004, vol. 9, pp. 1080 ss. 139 Dalla lettura del comma 3 si evince che l’amministratore che incorra nelle violazioni ivi sanzionate difficilmente potrà liberarsi dalle responsabilità conseguenti; ne consegue che appare di estrema importanza che gli amministratori al fine di garantire il puntuale rispetto della normativa in parola implementino nella società strumenti idonei a garantire flussi informativi infragruppo, nonché che si attivino tempestivamente presso la capogruppo per ottenere le informazioni di cui necessitano.


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3. devono essere indicate più sezioni nel caso di soggezione plurima all’altrui direzione e coordinamento. La norma infine non prevede alcun termine entro cui gli oneri pubblicitari in parola debbano essere assolti; ne deriva che è rimessa alla dirigenza degli amministratori la scelta della tempistica con cui eseguire l’iscrizione richiesta dalla legge140. 2.5.4

La motivazione delle decisioni Con l’introduzione dell’art. 2497-ter c.c., il Legislatore ha disposto che le decisioni adottate dalla società soggetta ad attività di direzione e coordinamento, quando da questa influenzate, devono essere analiticamente motivate, con puntuali indicazioni delle ragioni e degli interessi la cui valutazione abbia inciso sulle suddette decisioni141. In sostanza, tale obbligo finisce con il riguardare la trasposizione, entro la società controllata, delle decisioni assunte ad un livello più alto della catena societaria; tale obbligo è riferito dunque alle decisioni in genere, non solo, dunque, alle deliberazioni assembleari, ma anche a quelle dell’organo amministrativo o, se c’e, del consiglio di sorveglianza, oppure del comitato esecutivo. La ragione dell’analitica motivazione delle decisioni, oltre che rispondere ad una precisa indicazione della delega, è altresì coerente all’impianto generale della normativa attenta a prevedere regole di trasparenza, del resto solo la conoscenza delle ragioni economiche e imprenditoriali di un’operazione può consentire un giudizio sulla correttezza di questa, può cioè consentire di valutare se la apparente diseconomicità di un atto, isolatamente considerato, trova giustificazione nel quadro generale dei costi e benefici derivanti dall’integrazione di un gruppo o meno. Inoltre, la motivazione delle decisioni oltre che le ragioni deve recare anche una puntale indicazione degli interessi che esse abbiano influenzato; il Legislatore della riforma quindi ha stabilito un obbligo di motivazione delle decisioni delle società controllate, quando influenzate dall’attività di direzione e coordinamento e ciò per un’esigenza di piena trasparenza al fine di poterne apprezzare l’equilibrata influenza sull’andamento gestionale della società diretta e coordinata.

140 Sul punto, … Croff, in Atti del Convegno Paradigma, 28 maggio 2003, Milano ha ritenuto che detti oneri pubblicitari devono essere adempiuti entro il termine di 30 giorni, in analogia con quanto previsto per le iscrizioni nel registro delle imprese. 141 Tale norma da attuazione al principio generale posto dall’art. 10 della Legge delega, ai sensi del quale la disciplina dei gruppi societari deve essere ispirata secondo principi di trasparenza tali da assicurare che l’attività di direzione e coordinamento contemperi adeguatamente l’interesse del gruppo delle società controllate e dei soci di minoranza di quest’ultime. Il principio di trasparenza è dunque strettamente funzionale all’operatività del principio del contemperamento degli interessi.


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L’obbligo di motivazione in parola riguarda unicamente le decisioni che sono state influenzate dall’attività di direzione e coordinamento, formulazione questa foriera di non pochi dubbi di carattere interpretativo; ad esempio non è chiaro se l’obbligo di motivazione in parola riguardi unicamente le decisioni assunte nell’interesse della società capogruppo a discapito dell’interesse della società eterodiretta, ovvero tutte le decisioni in qualche modo da questa influenzate e, cioè, indipendentemente dagli effetti che le stesse determinano in capo alla società amministrata. Se infatti il termine influenzate è inteso in senso ampio, l’obbligo di motivazione dovrà necessariamente estendersi a tutte le decisioni comunque influenzate dalla holding anche se neppur potenzialmente dannose. Tuttavia, ci sembra corretto ritenere che tale obbligo di motivazione debba riguardare non già tutte le decisioni influenzate dalla società capogruppo, ma unicamente quelle da questa influenzate che determinano un effetto nei confronti della società diretta e coordinata. Tra l’altro, una possibile estensione dell’obbligo di motivazione a tutte le decisioni adottate dalla società eterodiretta influenzate dall’attività di direzione e coordinamento finirebbe per svilire del tutto la portata della stessa norma. L’art. 2497-ter c.c. non chiarisce quali conseguenze possono derivare nel caso in cui la società soggetta ad attività di direzione e coordinamento non motivi analiticamente le decisioni da questa influenzate; in dottrina142, pur ipotizzandosi che nella specie possa essere esperita azione di responsabilità nei confronti degli amministratori della società eterodiretta, è stata anche sostenuta la possibilità di far valere l’invalidità della delibera da questi adottata in contrasto con le prescrizioni previste dalla norma in commento. Inoltre, va osservato che, l’obbligo di motivazione riguardando unicamente la società soggetta ad attività di direzione e coordinamento non si estende anche alle decisioni assunte dalla società che esercita tale attività. Tuttavia, come osservato dalla dottrina143, tale scelta normativa, pur essendo coerente con l’impostazione della riforma del 2003 – che ha ritenuto necessario tutelare unicamente i creditori e i soci di minoranza della società controllata – lascia perplessi, dal momento che invece proprio dalla lettura delle motivazioni rese dalla società che esercita l’attività di direzione che influenzano le decisioni delle società controllate si potrebbero dedurre importanti delucidazioni sull’esercizio, abusivo o meno, dell’attività svolta. Al fine di assicurare un costante ed effettivo monitoraggio delle conseguenze derivanti dall’andamento della gestione sociale in presenza di attività di direzione e coordinamento nelle decisioni assunte nel corso dell’esercizio, sulla redditività e sul valore della partecipazione sociale, nonché sull’integrità del patrimonio

142 Cfr. … Buonocore, Giur. Comm., 2003, suppl. 38. 143 Cfr. G. Cian, A. Trabucchi, Commentario breve al Codice Civile, Nona edizione a cura di G. Cian, Padova, 2009, p. 3053.


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occorrerebbe istituire canali informativi diretti e di immediata fruizione da parte dei soggetti tutelati. Ai fini in esame risulta particolarmente importante chiarire se l’obbligo di motivazione in parola debba riguardare qualsiasi decisione che tenga conto delle strategie del gruppo ovvero solamente le decisioni potenzialmente pregiudizievoli per la società eterodiretta. Come chiarito anche da Assonime144, ci sembra corretto ritenere che l’obbligo in parola debba riguardare esclusivamente le decisioni che costituiscono la fonte di un potenziale pregiudizio nei confronti della società controllata; infatti, l’indicazione analitica delle ragioni e degli interessi la cui valutazione ha inciso sulla decisione consente un controllo sia sulla legittimità dell’esercizio della direzione del coordinamento sia sul rispetto dei principi di corretta gestione imprenditoriale e societaria della società controllata145. Del resto, come opportunamente evidenziato dalla stessa Associazione, ritenere che l’obbligo di motivazione riguardi non solamente le decisioni potenzialmente pregiudizievoli ma tutte le decisioni influenzate dalla direzione unitaria, anche se prive di una portata potenzialmente dannosa, significherebbe neutralizzare l’efficacia stessa della norma; a ciò si aggiunga che l’indicazione negli atti e nella corrispondenza, nonché l’iscrizione nel Registro delle Imprese, della soggezione all’altrui direzione e coordinamento costituisce già di per sé fatto idoneo «a rendere edotti i terzi della circostanza che la società è inserita in un contesto di gruppo e che le decisioni della società si giustificano nel contesto di un più ampio disegno imprenditoriale di gruppo146». È di tutta evidenza quindi come uno dei problemi centrali sia proprio quello di stabilire quando una decisione possa essere potenzialmente pregiudizievole, ovvero diseconomica, nei confronti della società diretta e coordinata. 2.5.5

Il diritto di recesso La tutela del socio di società soggetta ad attività di direzione e coordinamento può realizzarsi sia mediante l’esercizio dell’azione di responsabilità di cui all’art. 2497 c.c., nel caso in cui il socio permanga nella compagine societaria, sia

144 Cfr. circolare Assonime n. 44/2006, p. 10. 145 In tal senso si esprime anche la Relazione allo schema di decreto legislativo nella quale viene specificato che «la ragione dell’analitica motivazione delle decisioni di chi esercita attività di direzione e coordinamento, oltre che rispondere ad una precisa indicazione della delega, è altresì coerente all’impianto generale della normativa attenta a prevedere regole di trasparenza; del resto, solo la conoscenza delle ragioni economiche e imprenditoriali di un’operazione può consentire un giudizio sulla correttezza di questa, può cioè consentire di valutare se la apparente diseconomicità di un atto, isolatamente considerato, trova giustificazione del quadro generale dei costi e dei benefici derivanti dall’integrazione di un gruppo oppure no». 146 Cfr. circolare Assonime n. 44/2006, p. 11.


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mediante recesso, secondo quanto previsto dall’art. 2497-quater C.C147. In particolare, ai sensi di tale ultima disposizione, al socio di una società soggetta ad attività di direzione e coordinamento è riconosciuta una facoltà di recesso più ampia rispetto a quella ordinariamente concessa al socio di una S.p.a., dal momento che egli ha la facoltà di esercitare tale diritto: ● quando la società o l’ente che esercita attività di direzione e coordinamento ha deliberato una trasformazione148 che implica il mutamento del suo scopo sociale, ovvero ha deliberato, ovvero una modifica del suo oggetto sociale consentendo l’esercizio di attività che alterino in modo sensibile e diretto le condizioni economiche e patrimoniali della società soggetta ad attività di direzione e coordinamento – comma 1, lett. a); ● quando a favore del socio sia stata pronunciata, con decisione esecutiva149, condanna150 di chi esercita attività di direzione e coordinamento ai sensi dell’art. 2497 c.c.: in tal caso il diritto di recesso può essere esercitato soltanto per l’intera partecipazione del socio – comma 1, lett. b); ● all’inizio e alla cessazione dell’attività di direzione e coordinamento, quando non si tratta di una società con azioni quotate in mercati regolamentati e ne deriva un’alterazione delle condizioni di rischio dell’investimento e non venga promossa un’offerta pubblica di acquisto – comma 1, lett. c)151.

147 Come osservato nel par. 13 della Relazione allo schema di decreto legislativo di riforma del diritto societario, la norma in commento si colloca nel quadro di una più ampia concezione del diritto di recesso, che vede in esso l’attribuzione al socio del potere di negoziare la propria permanenza in società, a fronte di rilevanti alterazioni dell’assetto originario. La previsione introdotta dal Legislatore nazionale appare ispirata dall’ordinamento tedesco il quale sul punto prevede, a tutela degli azionisti esterni, l’alternativa tra l’uscita della società diretta e coordinata a condizioni equitative e la possibilità di permanenza nella stessa società a fronte della percezioni di equi compensi periodici. 148 La dottrina (cfr. G. Cian, A. Trabucchi, op. cit., p. 3054) ha ritenuto che «il recesso sia limitato all’ipotesi di trasformazioni eterogenee e non si richiede (a differenze dall’ipotesi di recesso per modifica dell’oggetto sociale o per entrata e uscita dal gruppo) la dimostrazione di un’alterazione delle condizioni economiche e patrimoniali della società soggetta ad attività di direzione e coordinamento». 149 Sembra corretto ritenere che per decisione esecutiva debba intendersi una sentenza ormai definitiva in quanto passata in giudicato. Tuttavia, va osservato che secondo alcuni Autori (cfr. … Galletti, Nuovo dir. soc., … Maffei Alberti, art. 2497-quater, pp. 2415 ss.) adottando tale interpretazione si esclude che possano verificarsi dei casi in cui un socio recede dalla società sulla base di una sentenza esecutiva riformata in un successivo grado di giudizio. 150 In tal caso, il recesso assume una chiara valenza sanzionatoria; come sostenuto in dottrina (cfr. … Ferrara, Corsi, Impr. Soc., 13, pp. 828 ss.) si tratta di un recesso per giusta causa, rappresentata dal legittimo venir meno della fiducia del socio. 151 In tale ipotesi, la facoltà di recesso del socio è subordinata all’esistenza di diverse condizioni.


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Va osservato che analizzando le ipotesi di recesso di cui al comma 1 dell’art. 2497-quater c.c., le fattispecie individuate dalle lett. a) e c) fanno riferimento all’alterazione «in modo sensibile e diretto delle condizioni economiche e patrimoniali della società soggetta ad attività di direzione e coordinamento» e delle «condizioni di rischio dell’investimento» con ciò evidenziando la connessione diretta con la disposizione in tema di responsabilità (di cui all’art. 2497 c.c.) che tutela l’interesse dei soci di minoranza dal pregiudizio arrecato dall’illecito esercizio dell’attività di direzione e coordinamento «alla redditività ed al valore della partecipazione sociale». Più in particolare, la prima fattispecie di recesso di cui alla lett. a) prevede il caso della trasformazione della società che esercita attività di direzione e coordinamento (rectius: holding) che implichi il mutamento del suo scopo sociale, ovvero una modificazione del suo oggetto sociale, consentendo l’esercizio di attività che alterino le condizioni in precedenza richiamate. L’ipotesi di cui alla lett. c) è invece relativa all’alterazione delle condizioni di rischio, ovvero della cessazione dell’attività di direzione e coordinamento; entrambe le fattispecie sembrano rispondere alle esigenze di tutela (preventiva) per il socio di minoranza, posto che tali condizioni subiscono un significativo cambiamento per effetto dell’entrata nel gruppo, ovvero dell’uscita dallo stesso152. La causa di recesso prevista dalla lett. b), in dipendenza di una condanna esecutiva della società che esercita attività di direzione e coordinamento in favore del socio costituisce il possibile esito dell’accertamento del pregiudizio subito dal socio di minoranza e, in quanto tale, appare di evidente giustificazione; in tale ipotesi il diritto di recesso può essere esercitato soltanto per l’intera partecipazione detenuta e non solamente per una sola parte di essa. Il richiamo operato dall’art. 2497-quater c.c. alle norme previste in materia di recesso da una S.p.a. riconosce anche ai fini in parola il diritto del socio recedente alla liquidazione delle azioni o della quota, che andrà esercitato nei confronti della società cui appartiene, anche se il fatto che ha dato luogo al suo recesso è stato provocato non da questa, bensì dalla società che esercita l’attività di direzione e coordinamento.

Innanzitutto, non si deve trattare di società quotata e non deve essere promossa una offerta pubblica di acquisto; inoltre è necessario che si verifichi un’alterazione delle condizioni di rischio dell’investimento, condizione questa non facilmente accertabile da parte del socio che intende recedere. 152 Nel caso in cui si tratti di una società con azioni quotate sui mercati regolamentati e venga promossa una offerta pubblica di acquisto, operano i particolari meccanismi compensativi previsti dall’art. 10 della legge 18 febbraio 1992, n. 149, in tema di OPA che consentono un’adeguata tutela degli azionisti esterni al gruppo di comando. Cfr. in dottrina Costi, Operazioni infragruppo e OPA obbligatorie, in Giur. Comm., 1993, I, pp. 65 ss.


76 2.5.6

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I finanziamenti L’art. 2497-quinquies c.c. contiene un esplicito rinvio all’art. 2467 c.c.153 per i finanziamenti effettuati a favore della società eterodiretta da chi esercita l’attività di direzione e coordinamento154. In particolare, il primo comma della norma richiamata prevede che la postergazione, rispetto al soddisfacimento degli altri creditori, del rimborso dei finanziamenti dei soci a favore della società; inoltre, se avvenuto nell’anno precedente la dichiarazione di fallimento, tale finanziamento deve essere restituito. Il secondo comma dell’art. 2476 c.c. definisce poi i finanziamenti dei soci a favore della società come quelli, in qualsiasi forma effettuati, concessi in un momento in cui, anche in considerazione del tipo di attività esercitata dalla società, risulti un eccessivo squilibrio dell’indebitamento rispetto al patrimonio netto, oppure in una situazione finanziaria della società nella quale sarebbe stato ragionevole un conferimento. In buona sostanza, con l’art. 2497-quinquies c.c. è stata introdotta nel nostro ordinamento una specifica disciplina per quel diffuso fenomeno consistente nella concessione da parte dei soci di finanziamenti nominali che hanno lo scopo di surrogare l’insufficiente dotazione di capitale di rischio, nonché è stata prevista, nelle situazioni di squilibrio patrimoniale o di sottocapitalizzazione, una importante forma di tutela per i creditori sociali155. Infatti, affinché la suddetta postergazione possa essere effettuata è necessario che il finanziamento sia stato effettuato in un momento in cui anche in considerazione del tipo di attività esercitata dalla società risulti un eccessivo squilibrio dell’indebitamento rispetto al patrimonio netto, oppure in una situazione finanziaria della società nella quale sarebbe stato ragionevole un conferimento. È di tutta evidenza la difficoltà

153 Cfr. in dottrina, … Di Sabato, Per una riforma della riforma del diritto societario, in Società, 2006, p. 820. 154 Si ricorda che le forme più tipiche di assistenza finanziaria all’interno dei gruppi che si collocano nell’ambito delle garanzie prestate dalla holding a favore delle società dello stesso gruppo sono costituite dalla fideiussione, dal mandato di credito e dalla c.d. lettera di patronage, con riferimento alla quale si ritiene opportuno effettuare alcune considerazioni. Come noto, tale lettera che la holding trasmette alla banca che dovrebbe finanziarie una delle società controllate contiene una dichiarazione con la quale la stessa holding dichiara di detenere una partecipazione di controllo nella società da finanziare, impegnandosi altresì a vigilare sul corretto adempimento da parte della società finanziata delle obbligazioni di restituzione del prestito. L’holding si impegna altresì a non cedere ad altri soggetti il controllo della società finanziata fino al momento in cui il debito di quest’ultima sia estinto, ovvero a comunicare tempestivamente alla banca creditrice l’eventuale perdita del controllo. La lettera di patronage costituisce una forma di garanzia atipica; la sua caratteristica fondamentale è costituita dal fatto che la holding a seguito della comunicazione fatta alla banca creditrice non avrà nessuna responsabilità contrattuale, ma risponderà solamente a titolo di responsabilità extracontrattuale nei confronti della stessa banca creditrice. 155 Cfr. in dottrina Patti, La riforma del diritto societario, a cura di G. Lo Cascio, op. cit., p. 282.


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consistente nell’interpretare correttamente il significato da attribuire alle due condizioni previste dal secondo comma dell’art. 2476 c.c. ai fini dell’applicabilità della postergazione dei finanziamenti in parola; valide indicazioni sono state fornite dai giudici della Suprema Corte che nella sentenza 24 luglio 2007, n. 16393, i quali hanno interpretato il comma 2 dell’art. 2497 c.c., per le imprese che sono entrate o stiano per entrare in una situazione di crisi, come un principio di corretto finanziamento la cui violazione comporta una riqualificazione imperativa del prestito in prestito postergato rispetto alla soddisfazione degli altri creditori. Più pertinente ci sembra il chiarimento fornito nella sentenza del Tribunale di Milano 24 aprile 2007 nella quale è stato chiarito che il criterio di ragionevolezza, utilizzato dal Legislatore per individuare i finanziamenti dei soci postergati, comporta la necessità di tener conto della situazione della società al tempo del finanziamento confrontata con i comportamenti che nel mercato sarebbe ragionevole aspettarsi; i giudici di legittimità in tale sentenza hanno anche ritenuto che la causa del finanziamento del socio è riconducibile a un generico rapporto di credito o al rapporto sociale in funzione della situazione patrimoniale della società al momento della sua erogazione. Per ciascun finanziamento156 il Legislatore ha imposto la postergazione del rimborso alla soddisfazione di tutti gli altri creditori, oltre alla restituzione se avvenuto nell’anno precedente la dichiarazione di fallimento della società. Alcuni Autori157 hanno osservato che la previsione di postergazione così come formulata pare non consentire alcuna possibilità di diversa restituzione; rispetto ad essa risulta incoerente la previsione della restituzione del rimborso soltanto se compiuto nell’anno anteriore alla dichiarazione di fallimento, posto che essa attrae la fattispecie nella sfera dell’efficacia, anziché che in quella dell’indebito, giuridicamente più corretta, posta la natura di conferimento della dazione pecuniaria. L’art. 2497-quinquies attua quindi una più forte tutela dei creditori delle società dirette e coordinate in virtù della postergazione dei finanziamenti effettuati dalla

156 L’art. 2497-quinquies c.c. fa riferimento ai finanziamenti in maniera estremamente generica, con la conseguenza che si dovrebbe far riferimenti ai finanziamenti in qualsiasi forma effettuati, ad esempio, quelli in natura, le fideiussioni, sino a comprendervi anche le garanzie (così si esprime Confindustria nella circolare citata n. 17611/200). 157 Cfr. … Lolli, in Il nuovo diritto delle società (a cura di A. Maffei Alberti), Padova, 2005, p. 2417. In particolare, l’Autore ha ritenuto che «i finanziamenti erogati da una società sorella all’altra rendono applicabile anche l’art. 2497, dal momento che gli azionisti di minoranza della società finanziatrice possono sicuramente venire danneggiati dall’erogazione di denaro a favore di un soggetto in cui la società di cui essi fanno parte non ha alcuna partecipazione, nel caso in cui l’investimento non sia remunerativo e tale danno viene addirittura ad essere creato dall’applicazione dell’art. 2497-quinquies, nel caso in cui i finanziamenti erogati vengano postergati o in cui venga imposta la loro restituzione»


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società che esercita attività di direzione e coordinamento, nonché dell’inefficacia del loro rimborso infrannuale rispetto all’eventuale dichiarazione di fallimento delle società dirette e coordinate158. Va peraltro osservato che nel testo iniziale della norma il Legislatore non aveva regolato né le ipotesi dei finanziamenti posti in essere nell’ambito del gruppo tra società sorelle né i finanziamenti effettuati dalla società controllata alla sua holding; solamente a seguito delle osservazioni critiche formulate dalla dottrina al testo, nella redazione finale dell’art. 2497-quinquies è stato inserito l’inciso «nei suoi confronti o da altri soggetti ad essa sottoposti». Sembra corretto interpretare le parole nei suoi confronti con riferimento ai finanziamenti effettuati dal soggetto che esercita attività di direzione e coordinamento, mentre l’inciso da «altri soggetti ad essa sottoposti» con riferimento agli altri soggetti dominati appartenenti al gruppo e sottoposti al medesimo potere di direzione e coordinamento; tale lettura della norma, infatti, sembrerebbe coprire sia l’area dei finanziamenti alla holding sia l’area dei finanziamenti tra società «sorelle». Non risultano, invece, sottoposti alla disciplina in commento i finanziamenti effettuati da una società a favore a favore di quella che esercita attività di direzione e coordinamento. 2.5.7

Presunzioni e coordinamento fra società Come previsto dall’art. 2497-sexies del c.c. si presume, salvo prova contraria che l’attività di direzione e coordinamento di società sia esercitata dalla società, ovvero ente, tenuto al consolidamento dei loro Bilanci159 o che comunque le controlla ai sensi dell’art. 2359 c.c. Come efficacemente osservato da autorevole dottrina160 «la circostanza che tali presunzioni siano relative, cioè superabili mediante prova contraria, non credo finirà con l’avere grande rilievo pratico, ma vale a confermare che altro è la nozione di controllo societario, essenzialmente legata ad una visione proprietaria dell’impresa sociale, altro il fenomeno della direzione e del coordinamento gestionale. Il quale può sussistere, ed assumere rilievo giuridico, anche a prescindere da un qualsiasi sostrato di controllo societario riconducibile al citato art. 2359 o ad altra norma da cui direttamente discenda l’obbligo del bilancio

158 Va osservato che la norma italiana, a differenza di quanto previsto al riguardo dalla legislazione tedesca, non prevede alcuna forma di tutela per i casi in cui la società capogruppo presti garanzie affinché l’erogazione diretta del finanziamento sia compiuta da un terzo. Per un approfondimento, cfr. in dottrina … Patti, op. cit., p. 286. 159 Si ricorda che come disposto dall’art. 25 del D.lgs. 9 aprile 1991, n. 127, sono tenuti a redigere il bilancio consolidato quelle società per azioni, in accomandita per azioni, e a responsabilità limitata che controllano un’impresa. 160 Cfr. in dottrina R. Rordorf, I gruppi nella recente riforma del diritto societario, in Le Società, 2004, pp. 540 ss.


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consolidato». A nostro avviso, restano comunque indubbie le difficoltà di carattere pratico che gli amministratori della società controllata possono incontrare nel fornire la prova dell’inesistenza di un’attività di direzione e coordinamento in presenza di un obbligo di consolidamento dei bilanci, con la conseguenza che tale presunzione seppur relativa nei fatti, a nostro avviso, finisce in pratica con l’avere gli stessi effetti di una presunzione assoluta. Dalla formulazione della norma deriva che l’esistenza di un rapporto di controllo societario (anche contrattuale) pur non costituendo condizione sufficiente per ritenere che si è in presenza di un gruppo di società, ne costituisce un forte elemento di presunzione; infatti, come efficacemente evidenziato da autorevole dottrina161, il rapporto di controllo pur non implicando necessariamente l’esistenza di un gruppo «tende normalmente a risolversi in un rapporto di gruppo». Inoltre, l’esplicito riferimento operato dalla norma all’art. dall’art. 2359 C.C, rende operante la presunzione di esercizio dell’attività di direzione e coordinamento anche nei casi di controllo contrattuale, ipotesi questa che rappresenta la differenza più significativa tra l’area del consolidamento e quella più ampia delineata dalla norma testé citata. Infatti, come efficacemente osservato da autorevole dottrina162 «l’art. 26 [del D.Lgs. 9 aprile 1991, n. 127] ha escluso dall’obbligo di consolidamento le imprese che sono sotto l’influenza dominante di un’altra in virtù di particolari vincoli contrattuali, e cioè quelle controllate ai sensi del n. 3 dell’art. 2359». Il quadro delle presunzioni è poi completato dall’art. 2497-septies c.c. – norma questa avente la funzione di ampliare ulteriormente le ipotesi di sussistenza di un’attività di direzione e coordinamento – il quale prevede che, al di fuori delle ipotesi di cui all’art. 2947-sexies c.c., le disposizioni in tema di direzione e coordinamento trovano applicazione anche nei confronti della società o dell’ente che esercita un’attività di dominio sulla base di un contratto, ovvero di clausole statutarie163. Innanzitutto, verrebbe da chiedersi se attraverso l’espresso riferimento operato nella norma in esame alla parola «contratti» il nostro Legislatore abbia voluto legittimare nel nostro ordinamento i cc.dd. «contratti di dominio»164

161 Cfr. G.F. Campobasso, Diritto Commerciale, II, in Diritto delle Società, Torino, 2007, pp. 292 ss. 162 Cfr., in dottrina, G. Sbisà, Società e imprese controllate nel D.L. 9 aprile 1991, n. 127, in Riv. Soc., 1992, p. 917, articolo tratto dalla relazione svolta al Convegno di Verona su «La riforma dei bilanci annuali e consolidati delle società» del 18-19 ottobre 1991. 163 La norma sembrerebbe far riferimento al c.d. modello organizzativo del gruppo orizzontale o paritetico. 164 Per apprendimenti sul tema, cfr. … Tonello, Il contratto di dominio nei gruppi di società: e se ne ritentassimo l’esame di meritevolezza, in Contratto e Impresa, 1995, I, pp. 1079 e ss; … Lutter, Dieci anni di diritto tedesco dei gruppi: valutazione di un’esperienza, in Società, 1975, pp. 1295 ss.


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(riconosciuti in altri ordinamenti come, ad esempio, quello tedesco165), in forza dei quali una società si sottopone al dominio di un’altra società, demandando ad soggetti terzi il governo della società. Sul punto, la dottrina è ampliamente divisa: infatti, mentre alcuni Autori166 ritengono nulli i contratti di dominio – denominati nel diritto tedesco Beherrschungsvertrag167 -, indipendentemente dalla loro configurazione nella forma forte o debole, altri168 ritengono tali contratti meritevoli di tutela. Le opinioni sembrano divergere sull’ammissibilità del c.d. dominio debole, dal momento che non ci risultano prese di posizioni favorevoli al riconoscimento del c.d. dominio forte, sulla cui contrarietà al nostro ordinamento crediamo che non si possa dubitare169. Si ritiene che la tesi volta al riconoscimento dei contratti in parola, per quanto autorevolmente sostenuta, non possa essere condivisa, con la conseguenza che l’introduzione nel Codice civile dell’articolo in commento non ci sembra legittimare tale forma contrattuale. Infatti, sulla illegittimità (rectius: contrarietà al nostro ordinamento) di un contratto, quale quello in commento, in forza del quale la società capogruppo acquista il diritto di impartire alle società controllate direttive anche pregiudizievoli per queste e senza alcuna necessità di un vantaggio compensativo, pensiamo non si possa dubitare per un duplice ordine di ragioni: In primo luogo, attraverso la stipulazione di un tale contratto di dominio si realizza un’alienazione del governo della società, demandato ad altri soggetti, circostanza questa che si pone in contrasto con i principi generali del nostro ordinamento societario, quale, ad esempio, quello della autonomia giuridica e patrimoniale (rectius: della distinta soggettività e della formale indipendenza giuridica delle società del gruppo) che contraddistingue ogni singola società appartenente ad un gruppo. Inoltre, sembra evidente la contrarietà con quanto stabilito dall’art. 2497 c.c. in tema di responsabilità, dal momento che i componenti dell’organo amministrativo della società destinata ad operare come dipendente sono di fatto obbligati ad eseguire le direttive impartire dalla società capogruppo, non assumendo alcuna responsabilità per i danni che possono derivare dalla loro esecuzione170. Tuttavia,

165 Cfr. par. 291 ss. dell’Aktiengesetz del 1965. 166 Cfr. … Santagata, in Il nuovo diritto delle società, in Liber Amicorum Gian Franco Campobasso, diretto da P. Abbadessa, op. cit., pp. 870 ss. 167 Cfr. nella dottrina tedesca, Emmerrich/Habersack, Aktien- und GmbH-Konzernrecht, 5, Monaco, 2008, 109 ss.; Id. Konzernrecht, 9. Monaco, 2008, 183 ss. 168 Cfr. A. Irace, in La riforma delle società, a cura di M. Sandulli, V. Santoro, op. cit., pp. 352 ss. 169 È assoluto contrario al dominio forte, … Tombari, Il nuovo diritto societario fra società aperte e società private, cit., p. 239, nonché R. Rordorf, I gruppi nella recente riforma del diritto societario, cit., p. 540. 170 Si esprime esplicitamente sulla non legittimità dei contratti di dominio, il Consiglio Nazionale


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va segnalata la presa di posizione dei giudici del Tribunale di Roma che nella sentenza del 17 luglio 2007 hanno ritenuto che la nuova disciplina della attività di direzione e coordinamento di società contenuta negli art. 2497 ss. c.c. induce a valutare con favore la validità dei contratti di dominazione. Come detto, per effetto di tale norma si presume che esiste un’attività di direzione coordinamento anche quando di fatto tale attività venga esercita in forza di strumenti negoziali, quali, ad esempio, contratti e statuti. I contratti ai quali la norma sembra far riferimento sono quelli che derivano da accordi tra più società stipulati al fine di dar vita ad un loro coordinamento di carattere finanziario organizzativo e, quindi, ad una direzione unitaria, anche in assenza di partecipazioni di una società in un’altra. Inoltre, va osservato che la fattispecie individuata dall’articolo in esame è nella sostanza diversa da quella del c.d. controllo esterno prevista dall’art. 2359, comma 1, lett. 3), c.c., secondo cui è considerata controllata la società soggetta all’influenza dominante di un’altra società in virtù di particolari vincoli contrattuali. In tale ultima ipotesi di controllo infatti l’influenza dominante non costituisce l’oggetto principale di un contratto, ma l’effetto indiretto dello stesso171. Al riguardo, va segnalata la tesi che seppur autorevolmente sostenuta172 non ci sembra del tutto condivisibile secondo cui l’art. 2497-septies c.c. avrebbe una portata ancora più vasta di quella in precedenza delineata, includendo anche situazioni di controllo non coincidenti con quelle

del Notariato, Studio n. 248-2009, Autonomia Privata e gruppi di imprese (Contratto di «coordinamento gerarchico», «contratti di servizio» infragruppo e clausole statutarie come strumenti di disciplina dell’attività di direzione e coordinamento), approvato dalla Commissione Studi d’Impresa il 19 novembre 2009, p. 3. 171 Come osservato da Assonime nella circolare n. 44/2006 «nell’ipotesi di controllo esterno infatti l’influenza dominante è l’effetto indiretto di un contratto, non l’oggetto principale dello stesso. Si pensi, ad esempio, ai contratti di agenzia, di commissione o di concessione, quando la revoca dell’incarico determinerebbe la perdita dell’avviamento del mandatario; o ancora, ai contratti di somministrazione in esclusiva, in cui di fatto vi è un unico cliente o un unico fornitore; alle licenze di brevetto; quando la struttura produttiva non è facilmente convertibile verso altre attività. Sono questi contratti di impresa suscettibili di creare una situazione tale per cui il venir meno dell’accordo contrattuale potrebbero mettere in pericolo la continuazione dell’attività imprenditoriale. Da qui discende la posizione di potenziale influenza dominante di una società su un’altra prevista dall’art. 2359 n. 3». 172 Cfr., in dottrina, A Irace, in M. Sandulli, V. Santoro (a cura di), La riforma delle società, Torino, la quale ha incluso tra le presunzioni assolute dell’esercizio della direzione e coordinamento anche le situazioni di controllo disciplinate nella legislazione speciale che ci concretano nella presenza di una direzione comune, quali l’art. 80, comma 1, lett. b), sub. 3, D.lgs. 8 luglio 1999, n. 270, ove si definiscono imprese del gruppo quelle che per la composizione degli organi amministrativi o sulla base di concordanti elementi, risultano soggette ad una direzione comune, nonché l’art. 23, comma 2, punto 4, del TUB ove si precisa che il controllo si considera esistente nella forma dell’influenza dominante, salvo prova contraria, in ipotesi di assoggettamento a direzione comune in base agli organi amministrativi o per altri concordanti elementi.


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fornite dall’art. 2359 c.c., ma pur sempre riconducibili ad una presunzione di direzione unitaria, quali, ad esempio, a titolo esemplificativo l’art. 93 del TUF (in materia di controllo per le società quotate), l’art. 26, comma 2, D.lgs. n. 127/1991 (in tema di consolidamento) e la normativa in tema di bilanci assicurativi e bancari. Una siffatta estensione della norma finirebbe con il far rientrare tra le ipotesi di direzione unitaria e di coordinamento anche situazioni che seppur caratterizzate da una qualche forma di controllo sembrano collocarsi al di fuori dell’ambito applicativo degli artt. 2497 e ss. c.c.; in altri termini, una interpretazione analogica molto estensiva della norma in commento avrebbe la conseguenza di includere nelle fattispecie di direzione e coordinamento situazioni nelle quali l’esistenza di un rapporto di controllo è per se stessa fisiologica alla stessa fattispecie. Si ritiene che sono considerati indice della sussistenza della direzione e coordinamento anche quelli relativi, ad esempio, alla coincidenza delle stesse persone nell’organo amministrativo, ovvero la sussistenza di accordi tra le società relativi ad un coordinamento di carattere organizzativo e finanziario. In particolare, sembra corretto ritenere che la verifica della composizione prevalente o esclusiva dei Consigli di amministrazione delle società costituisce una delle prove principali al fine di dimostrare la sussistenza della direzione e del coordinamento tra società apparentemente indipendenti, ma operanti di fatto come holding occulte; al riguardo infatti, autorevole dottrina173 ha osservato che «se le due società, tra le quali non sussiste un apparente rapporto di controllo, sono amministrate in tutto o prevalentemente dalle medesime persone è legittimo supporre che esse appartengano ad un medesimo gruppo». È questo il c.d. fenomeno degli interlocking directorates174la cui adozione, rendendo

173 Cfr. … Galgano, Direzione e coordinamento di società, Bologna, pp. 197 ss. 174 Per un ampio approfondimento della tematica, alla quale si rimanda, cfr. in dottrina R. Santagata, Interlocking directorates ed «interessi degli amministratori» di società per azioni, in Rivista delle società, n. 2-3 2009, pp. 310 ss.; … Rossetto, … Cresta, Direzione e coordinamento di gruppo nella riforma societaria, prime riflessioni, in Corr. giur., 2003, pp. 823 ss. Una recente indagine conoscitiva dell’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato sugli assetti di corporate governance di banche, imprese assicurative e società di gestione del risparmio, ha messo in evidenza che nell’80% delle società quotate nella borsa valori italiana sono presenti amministratori titolari di più incarichi in imprese concorrenti (interlocking directorates). In Germania tale percentuale risulta pari al 43%, nel Regno Unito al 47,1%, in Francia al 26,7% mentre in Spagna e Olanda è pressoché assente (cfr. anche La Repubblica dell’11 gennaio 2009, pp. 12 e 13 e, in particolare l’intervista al Prof. Guido Rossi). Dati analoghi sono stati forniti anche dalla Consob nella Relazione per l’anno 2006, tenutasi a Roma il 31 marzo 2007 dove era stato evidenziato che su un totale di 210 società quotate, in 162 emittenti oltre il 50% dei componenti del Consiglio di amministrazione ricopre cariche in altre società quotate. Secondo un’indagine comparativa compiuta anche se in tempi non recenti da alcuni studiosi di Cambridge la quota più elevata di amministratori con molteplici cariche si riscontrava oltre che nel nostro Paese anche in Francia, Belgio, Finlandia e Stati Uniti. Le ragioni del successo di tale formula organizzativa sono costituite ad esempio dalla costituzione di alleanze,


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maggiormente «fluida» la direzione e il controllo unitario, per alcuni Autori175 rende la presunzione in commento pressoché invincibile. La legislazione speciale prevista in tema di banche, assicurazioni, procedure concorsuali considera gli interlocking directorates indice sintomatico, in alcuni casi, dell’esistenza di un gruppo; ci si potrebbe chiedere se analoghe considerazioni possano valere anche con riferimento all’accertamento della sussistenza di un’attività di direzione e coordinamento delle società. Innanzitutto, andrebbe osservato che l’amministratore comune alla controllante e alla controllata non dovrebbe automaticamente ritenersi in qualsiasi operazione infragruppo posta in essere da quest’ultima portatore di un interesse per conto della società controllante, dal momento che non si dovrebbe prescindere da una valutazione concreta sia dell’intensità del legame sia del contenuto delle funzioni in concreto attribuite all’amministratore nelle due società. In altri termini, dall’analisi di dette funzioni potrebbe, ad esempio, emergere che nella società controllata il ruolo rivestito dall’interlocking directorates sia di per così dire di contorno, ossia non interferisce di fatto con una determinata operazione infragruppo, provocando un danno176.

ovvero di legami di fiducia, tra imprese, dalla condivisione di importanti conoscenze manageriali per la gestione finanziaria delle stesse, dalla rimozione degli ostacoli alla completa circolazione delle informazioni all’interno dei gruppi, nonché con particolare riferimento alle società quotate dalla protezione da scalate ostili da parte di soggetti terzi. Gli interlocking directorates suscitano interesse a causa dell’importanza che essi rivestono per lo studio della concentrazione di poteri e delle conseguenze sul corretto funzionamento dei mercati (cfr. gli scritti di studiosi dell’argomento come Galbraith, Pfeffer, Salancik, Mint, Schwartz, Child, Rodriguez, Grandori, Carpani). Anche se non è questa la sede, osserviamo comunque che gli interlocking directorates possono essere interpretati alla luce dei seguenti modelli: i) modello manageriale; ii) della coesione di classe; iii) del controllo; iv) del capitale finanziario; v) della dipendenza da risorse. 175 Cfr. … Rossetto, … Cresta, op. cit., p. 825. Si pronuncia esplicitamente nel senso della rilevanza degli interlocking directorates ai fini della presunzione dell’attività di direzione e coordinamento stabilita dall’art. 2497-sexies c.c. A. Irace, in La riforma delle società, a cura di M. Sandulli e V. Santoro, III, p. 351 (in particolare nota 23). 176 Cfr. in giurisprudenza la sentenza emessa dal Tribunale di Verona il 13 luglio 2007, in Società, 2008, pp. 1385 ss., con commento di E. Civerra, relativa ad un caso di totale coincidenza dei componenti degli organi amministrativi e di controllo di due società. I giudici di legittimità in tale sentenza hanno ritenuto che il conflitto di interessi che può verificarsi quando gli amministratori di una società siano anche membri dell’organo amministrativo della controllante assume rilievo solo quando sia concretamente idoneo ad arrecare un danno alla società. Cfr. anche la sentenza della Corte di Cassazione 11 dicembre 2006, n. 26325, in Giur. Comm., 2008, II, p. 816, nella quale la Suprema Corte premesso che: 1) l’autonomia soggettiva e patrimoniale delle singole società del gruppo impone ai relativi amministratori di perseguire prioritariamente l’interesse della specifica società cui sono preposti e che: 2) dunque, non è loro consentito sacrificare il rispettivo interesse sociale in nome di un diverso interesse che, seppure riconducibile a quello della controllante, non assumerebbe rilievo per i soci di minoranza e per i terzi creditori della società controllata, ha ritenuto che ciò non esclude affatto la possibilità di tener conto di valutazioni afferenti alla condizione


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Del resto, il secondo periodo, del comma 1 dell’art. 2392 c.c., pare enfatizzare, ai fini della valutazione della responsabilità degli amministratori verso la società, le funzioni in concreto attribuite. A ciò si aggiunga che, al fine di rimediare ad alcune delle disfunzioni proprie del meccanismo testé citato, come disposto dall’art. 2391 c.c.: a) gli amministratori comuni devono dare notizia agli altri amministratori e al collegio sindacale di ogni interesse del quale siano portatori, per conto proprio o di terzi (ossia in quanto amministratori di altra società), in una determinata operazione della società, precisandone la natura, i termini, l’origine e la portata; b) gli amministratori comuni delegati sono tenuti altresì ad astenersi dal compiere l’operazione investendo della stessa l’organo collegiale177. Andrebbe valutata inoltre, ai fini della sussistenza di una responsabilità degli amministratori nei confronti della società, anche la circostanza – a nostro avviso dirimente – che il doppio ruolo degli amministratori nei Consigli d amministrazione delle società è stato sempre conosciuto e accettato da tutti i soci della medesima. Verrebbe da chiedersi se la holding che si limita a valorizzare la partecipazione posseduta nella società controllata svolga o meno attività di direzione e coordinamento; pur non dubitandosi che conseguenze di tale valorizzazione sono l’ottimizzazione gestionale, organizzativa e finanziaria della società controllata (e, quindi, latu sensu il miglior coordinamento dell’attività della società partecipata e una maggiore sinergia tra le diverse società del gruppo), sembra corretto ritenere che tale attività di per sé, per quanto possa costituire un indicatore della sussistenza dell’esercizio di un’attività di «dominio», non si traduce nell’esercizio da parte della holding di un’attività di direzione e coordinamento. Potranno costituire, al tal fine, elementi idonei a fornire la prova dell’inesistenza di un’attività di direzione e coordinamento la circostanza che, ad esempio, la partecipazione detenuta dalla holding sia iscritta come attivo circolante anziché

del gruppo nel suo insieme, purché non vengano in tal modo pregiudicati ingiustificatamente gli interessi delle singole società. I giudici di legittimità quindi, pur nella consapevolezza che si debba tener conto non già di una singola operazione ma della conduzione del gruppo nel suo insieme, sembrano puntualizzare la circostanza che di amministratori di una società non debbano sacrificare l’interesse sociale della società amministrata in nome di un interesse diverso riconducibile a quello della società controllante. 177 Si osservi che l’interlocking directorates nello svolgimento delle proprie mansioni è tenuto ad una costante mediazione delle diverse sfere di interessi delle società rappresentate; esso, infatti ha l’obbligo di dirigere con equità e ragionevolezza la gestione delle società amministrate, con la conseguenza che il suo mandato potrà definirsi diligente ed espletato in buona fede solamente se le sue decisioni sono frutto di una valutazione ponderata dell’interesse, nonché di una corretta gestione (business judgement rule) di tutte le società. Ovviamente, l’amministratore diventa responsabile nei confronti dei soci di minoranza, ovvero dei creditori sociali della società amministrata quando la sfavorisce a vantaggio di un’altra. Tali tematiche sono state ampiamente sviluppate dalla dottrina statunitense, nonché da quella tedesca (cfr. per tutti A. Fuchs, Tracking stock-spartemakien als Finanzierungsinstrument für deutsche Aktiengesellschften, in ZGR, 2003, pp. 194 ss.


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come immobilizzazione finanziaria, nonché che i piani finanziari, gestionali e strategici della holding non contengano elementi di sintomatici di una continua e duratura ingerenza gestionale nei confronti della società controllata; inoltre, anche la rinuncia da parte della holding ad alcune prerogative, quali ad esempio, il richiedere costantemente informazioni alla società partecipata circa i propri sistemi di amministrazione e controllo potrebbe costituire una valida prova dell’inesistenza di un’attività di direzione e coordinamento. Inoltre, sembra corretto ritenere che possa costituire indizio di esercizio di un’attività di direzione e coordinamento su base contrattuale o statutaria la valorizzazione della partecipazione in una società partecipata che di fatto si traduce nella pianificazione finanziaria non solo delle attività di quest’ultima, ma valida per tutto il gruppo178. Qualora, ad esempio, l’attività di impresa di una società necessiti di tempi non brevi per conseguire un equilibrio finanziario, ma anche economico, e al contempo necessitasse di risorse finanziarie che non può reperire sul mercato del capitale di rischio e non possa evitare di assumere impegni contrattuali con altra impresa, allora la pianificazione finanziaria di tale impresa si sposta gradualmente dal proprio organo amministrativo ad altri, i quali decidono come e quando detta società debba aumentare il proprio indebitamento ed eventualmente anche i mezzi propri. In tale ipotesi, la modifica della struttura finanziaria della società rappresenta la conseguenza di una programmazione finanziaria «cogente» che rappresenta un solido indicatore della sussistenza dell’esercizio di un’attività di direzione e coordinamento. Detto in altre parole, la circostanza che la programmazione finanziaria sia collocata al di fuori dell’organizzazione della società partecipata rappresenta un indizio utile, nonché forte, a fornire la prova dell’esercizio di un’attività di dominio; è di tutta evidenza comunque che la rilevanza di tale indizio deve essere comunque subordinata alla sussistenza di tutte le altre condizioni previste dal c.c. in materia. Pur nella consapevolezza che tale ambito di indagine risulta essere abbastanza problematico, implicando tra l’altro anche delle opportune valutazioni con riferimento al diritto antitrust (che qui non possono essere adeguatamente sviluppate), si ritiene che analoghe considerazioni possano valere anche nel caso in cui la holding configuri in maniera puntuale e ingerente la struttura organizzativa della società partecipata (in tali casi, infatti, è molto probabile che la holding influenzi una o più società controllate in funzione dei propri rapporti negoziali), nonché qualora la stessa

178 È condivisibile l’opinione espressa al riguardo dalla migliore dottrina (cfr., A. Niutta, Sulla presunzione di esercizio dell’attività di direzione e coordinamento di cui agli artt. 2497-sexies e 2497-septies c.c.: brevi considerazioni di sistema, in Giur. Comm., n. 4/2004, par. 7), la quale ha osservato che «la programmazione finanziaria deve essere intesa non come la semplice predisposizione di un progetto, che sia quindi suscettibile d’essere rivisto e modificato dall’altro centro di imputazione prima di recepirlo nella propria impresa, ma come atto cogente, poiché l’esecuzione della decisione assunta risulti doverosa, anche se solo dal punto di vista contrattuale».


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definisca le strategie di mercato da perseguire. Con particolare riferimento a tale ultimo aspetto, va osservato che qualora la predisposizione di una strategia di mercato da parte della holding non dà luogo a scelte di mercato alternative da parte della società controllata, obbligata o meglio vincolata a quella predisposta dalla holding, risulta evidente che un aspetto molto importante della gestione di una determinata società (quale, appunto, quello della pianificazione strategica) è collocato al di fuori di questa. 2.5.8

La responsabilità della holding nei confronti e dei creditori sociali e dei soci di minoranza delle società controllate: il caso della c.d. holding personale Conclusivamente, appaiono opportune alcune brevi osservazioni relative alla responsabilità della holding, ovvero dei suoi soci e amministratori, nei confronti e dei creditori sociali e dei soci di minoranza delle società controllate, nonché alla holding c.d. di tipo personale. Con riferimento al primo aspetto, giova ricordare che la presunzione della sussistenza di un’attività di direzione e coordinamento da parte di una società nei confronti di un’altra comporta di fatto che i soggetti controllanti se non vogliono subire le conseguenze della responsabilità per danni che la società controllata ha subito per effetto della (non corretta) gestione dei propri amministratori devono fornire la prova dell’inesistenza dell’attività di direzione e coordinamento. Si potrà configurare una responsabilità della holding in quanto si possa configurare una responsabilità degli amministratori ed eventualmente anche dei sindaci della società controllata, con la conseguenza che in assenza di un nesso di causalità tra l’operato degli amministratori e dei sindaci di quest’ultima e il danno da questa subito, non potrà configurarsi il coinvolgimento del soggetto controllante in tale responsabilità. In termini pratici, accertato tale nesso di causalità, le condizioni che devono sussistere affinché i soggetti attori dell’azione di responsabilità – ossia, i soci di minoranza, nonché i creditori sociali della società partecipata – possano esperire un’azione di responsabilità consistono nella la violazione, da parte del soggetto che esercita il controllo, dei principi di corretta gestione societaria e imprenditoriale di detta società partecipata, nonché la produzione di un danno. Gli attori devono fornire, dunque, prova della scorrettezza delle attività poste in essere dalla holding nel giudizio di responsabilità, ad esempio dimostrando che la violazione dei principi di corretta gestione è derivata dalla mancanza della preventiva raccolta, da parte degli amministratori della holding, di informazioni di mercato prima dell’avvio di determinate operazioni, ovvero dalla mancanza di un’attenta e oculata valutazione dell’entità e della natura dei rischi connessi al compimento di determinate operazioni. Da parte sua, la holding potrà dimostrare che il danno non è stato prodotto dalla direzione e dal coordinamento da essa esercitato, ma dalla negligente condotta degli amministratori della società controllata; ovviamente, la holding sarà esonerata da responsabilità se i soci


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di minoranza e i creditori sociali sono stati soddisfatti dalla società diretta e coordinata. Legittimati passivi della predetta azione di responsabilità sono le società e gli enti che esercitano attività di direzione e coordinamento; al riguardo, sembra corretto ritenere che destinatari di tale legittimazione passiva siano gli amministratori della holding stessa, infatti, dalla lettura dell’art. 2497 c.c. sembra potersi desumere anche una responsabilità degli amministratori della holding nei confronti dei soggetti danneggiati179. Inoltre, come in precedenza osservato, l’estensione della responsabilità potrebbe riguardare anche i soci della holding – i quali, ad esempio, potrebbero aver autorizzato gli amministratori ad attuare una scorretta attività di direzione e coordinamento – nonché i suoi creditori e i componenti del Collegio sindacale. Inoltre, la holding che esercita attività di direzione e coordinamento in violazione dei corretti principi di gestione societaria e imprenditoriale nell’interesse proprio o altrui potrebbe essere chiamata a rispondere in via diretta del pregiudizio patrimoniale arrecato alla società eterodiretta, fino ad essere dichiara fallita nel caso in cui non provveda al risarcimento. È questo il principio affermato dai giudici della Sezione I della Corte di Appello Bologna il 23 maggio 2007180 che, aderendo alla teoria del c.d. «dominus abusivo»181, nonché all’orientamento prevalente formatosi sulla base della sentenza c.d. «Caltagirone»182, si sono

179 È tale l’orientamento espresso da V. Salafia, op. cit., pp. 392 ss. 180 Cfr., Corte di Appello di Bologna, Sez. I, 23 maggio 2007, in Le Società, n. 3/2008, pp. 316 ss. con commento di F. Angiolini. 181 Cfr. in dottrina, F. Fimmanò, Dal socio tiranno al dominus abusivo, in Fallimento, 2007, 4, p. 407, intervenuto a commento nell’articolo citato delle sentenze del Tribunale di Napoli 8 gennaio 2007, del Tribunale di Roma, sez. fallimentare, 28 novembre 2006 nonché del Tribunale di Vicenza 23 novembre 2006. In particolare, la prima e l’ultima delle sentenze citate sono relative alla specifica fattispecie della c.d. holding di tipo personale: si ritiene utile riportare il dispositivo emesso dai giudici del Tribunale di Napoli nella sentenza dell’8 gennaio 2007 che cita testualmente: «nell’ipotesi di holding di tipo personale, cioè di una persona che sia a capo di più società di capitali in veste di titolare di quote o partecipazioni azionarie e svolga professionalmente, attraverso una stabile organizzazione, l’indirizzo, il controllo e il coordinamento delle medesime società (non limitandosi al mero esercizio dei poteri inerenti alla qualità di socio), è configurabile un’autonoma impresa, come tale assoggettabile a fallimento, qualora la suddetta attività, sia essa di sola gestione del gruppo (holding pura) ovvero anche di natura ausiliaria o finanziaria (holding operativa), si esplichi in atti, anche negoziali, posti in essere in nome proprio e, dunque, fonte di responsabilità diretta del loro autore, presentando un’obiettiva attitudine a perseguire utili risultati economici, per il gruppo o le sue componenti, causalmente ricollegabili all’attività medesima». Tale sentenza sembra dunque recepite le conclusioni cui è pervenuta la Corte di Cassazione nella nota sentenza Caltagirone (cfr. nota seguente). 182 Cfr. sentenza della Corte di Cassazione del 26 febbraio 1990, n. 1439, in Giur. It., 1990, I, 1, pp. 713 ss. con nota di R. Weigman, in Riv. Dir. Comm., 1991, II, pp. 515 ss. con nota di B. Libonati, Partecipazione in società ed esercizio di attività economica in forma di impresa; cfr. anche G.


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concentrati sui requisiti che devono essere soddisfatti affinché possa parlarsi di holding c.d. occulta, nonché sulla possibilità per quest’ultima di essere dichiarata fallita in conseguenza delle attività «occultamente» poste in essere. In particolare, tale sentenza per i principi in essa enunciati appare di rilevante interesse, in quanto riconosce la possibile esistenza di una holding persona fisica, nonché accoglie la tesi secondo cui la società holding occulta può essere chiamata a rispondere in via diretta del pregiudizio subito dalla società eterodiretta, qualora abbia esercitato attività di direzione e coordinamento in violazione dei principi di corretta gestione societaria e imprenditoriale, sino ad essere dichiarata a sua volta fallita qualora provveda al risarcimento. I giudici bolognesi si sono concentrati sui requisiti che devono ricorrere affinché possa configurarsi una holding occulta: nelle parole dei giudici – che sembrano confermare l’orientamento espresso da altri collegi giudicanti e, in particolare, dal Tribunale di Napoli nella sentenza dell’8 gennaio 2007 citata – infatti «la teoria dell’impresa fiancheggiatrice – che rappresenta la trasposizione della teoria dei gruppi di società all’interno della quale venne elaborata per la prima volta la figura della holding – persona fisica nella nota sentenza “Caltagirone” – consente di imputare al socio di larga maggioranza che controlla una pluralità di società una autonoma attività di impresa (quella della holding) che lo stesso deve avere posto in essere spendendo il proprio nome e perseguendo un risultato economico distinto da quello delle società controllate.

Schiano Di Pepe, L’imprenditore holding, in Le Società, 1990, 5, p. 869, nonché la sentenza del 9 agosto 2002, n. 12113. In particolare, nella nota sentenza Caltagirone i giudici di legittimità si sono chiesti quando sia possibile estendere anche ad una società capogruppo la procedura concorsuale delle singole società del gruppo. Secondo la Cassazione, si poteva configurare una holding qualora gli atti espressione della direzione del gruppo fossero posti in essere dalla società capogruppo in nome proprio e tale attività fosse idonea a produrre risultati economici del gruppo nel suo insieme ulteriori e diversi da quelli prodotti dalle singole società facenti parte del gruppo stesso. La holding, quindi, così come le proprie società controllate, assumeva la responsabilità patrimoniale solamente delle obbligazioni direttamente assunte; più precisamente, così come «l’attività di produzione e di scambio delle società operative doveva essere esplicata in nome proprio anche l’attività di direzione della società capogruppo, al fine di essere ritenuta autonoma rispetto alle altre attività produttive, doveva essere esplicata in via diretta e, conseguentemente, in nome proprio». Cfr., in senso contrario, Tribunale Messina, sentenze 15 febbraio 1996, 24 dicembre 1993 e 8 marzo 1994; in buona sostanza, nella seconda delle sentenze citate è stato affermato che «deve essere aperta un’unica procedura fallimentare, con unificazione delle masse attive e passive, nei confronti di quattro società per azioni utilizzate come schermo della società di fatto esistente tra i soci delle prime e di costoro quali soci illimitatamente responsabili, laddove – attraverso indici quali l’esautoramento degli organi gestori, la formazione di un centro esterno di imputazione di attività di impresa, la confusione dei patrimoni sia individuabile un unico fenomeno imprenditoriale». Tale pronunce minoritarie hanno ritenuto possibile quindi estendere alla holding la responsabilità patrimoniale per le passività accumulate nell’esercizio unitario del gruppo (cfr. in dottrina, G. Lo Cascio, Sull’abuso della personalità giuridica qualcosa si muove: recenti profili interpretativi nella giurisprudenza di merito, in Giust. Civ., 1996, IV, pp. 1815 ss.).


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La spendita del nome e l’attitudine a produrre un autonomo risultato economico devono essere requisiti entrambi presenti per la configurabilità della holding di tipo personale, cioè di una persona fisica (o società di fatto) che sia a capo di più società di capitali in veste di titolare di quote o partecipazioni azionarie e svolta professionalmente con stabile organizzazione, l’indirizzo, il controllo e il coordinamento delle società medesime (non limitandosi così al mero esercizio dei poteri inerenti alla qualità di socio) è quindi necessaria l’esplicazione di atti anche negoziali, posti in essere in nome proprio e fonte di responsabilità diretta per il loro autore, unitamente allo svolgimento di attività che presenti obiettiva attitudine a perseguire utili risultati economici, per il gruppo e per le sue componenti». Inoltre, i giudici bolognesi pur riconoscendo la possibile esistenza di una holding persona fisica non ne rinvengono in concreto i presupposti, dal momento che non risulterebbe provata l’assunzione da parte di questa di autonome obbligazioni, né il loro eventuale inadempimento. Infatti, sempre nelle parole dei giudici «anche la holding persona fisica può essere, quindi, qualificata come holding e può, in quanto tale, essere dichiarata fallita ma è necessario che abbia agito in nome proprio perseguito un autonomo scopo economico è che versi in stato di insolvenza. Nel caso concreto, pur in presenza di holding persona fisica, (o meglio società di fatto dalla stessa costituita) non risulta in alcun modo dimostrato che nel periodo del dissesto economico della K.T. durante il quale la società di fatto operò (...) essa abbia assunto obbligazioni in proprio, che tali obbligazioni siano rimaste inadempiute e comunque che tali inadempimenti, ammesso che si siano realizzati, abbiano costituito sintomi della situazione di insolvenza (...) della stessa società di fatto holding». Il collegio bolognese, quindi, pur accertando la sussistenza di un’attività di impresa della holding183, anche se occulta, hanno di fatto escluso la fallibilità della stessa società e del socio illimitatamente responsabile, sia sotto il profilo dell’unico azionista ex art. 2362 c.c., sia sotto il profilo della c.d. società fiancheggiatrice, di cui si è detto.

183 La qualifica di imprenditore commerciale in capo ad una società holding è stata riconosciuta da autorevolissima dottrina (cfr. F. Galgano, L’impresa, in Trattato dir. com. e dir. pubb. ec., Padova, 1978, pp. 78 ss.: Id. Il punto sulla giurisprudenza in materia di gruppi di società, in Contr. e Impr., 1991, pp. 901 ss.) – che ha ispirato probabilmente anche i giudici di legittimità nel caso Caltagirone – la quale ha osservato che «la società holding non ha un oggetto diverso dall’oggetto delle società controllate: la prima esercita in modo mediato e indiretto le medesime attività che formano oggetto delle seconde e che queste esercitano in modo immediato e diretto»; ne consegue che «la qualificazione dell’attività della holding come attività imprenditoriale non si effettua in ragione del fatto che essa gestisce partecipazioni in altre società (…), né in ragione del fatto che essa presta assistenza tecnica e finanziaria ad altre società (…). La holding è impresa in ragione dell’attività produttiva o di scambio esercitata dalle controllate: è, ad esempio, impresa bancaria se le controllate gestiscono banche; è impresa plurisettoriale se le controllate esercitano, come accade nei gruppi conglomerati, attività appartenenti a settori produttivi o distributivi diversi».


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Non può non essere osservato, che il ragionamento seguito dal collegio bolognese, per quanto di interesse per i notevoli spunti forniti, non sembra del tutto convincente, dal momento che il primo comma dell’art. 147 della Legge fallimentare184, come novellato, ha espressamente circoscritto – seppur per alcuni Autori in maniera non del tutto convincente185 – la regola dell’estensione del fallimento ai soci illimitatamente responsabili delle sole società in nome collettivo, in accomandita semplice e in accomandita per azioni (società appartenenti ad uno dei tipi regolati nei Capi III, IV, VI del Titolo V del Libro quinto del Codice civile). Più precisamente, per effetto di tale limitazione soggettiva, l’applicazione in estensione del fallimento di una società di capitali sull’imprenditore occulto, sulla holding di fatto od occulta, sul socio tiranno, sull’azionista sovrano, sull’amministratore di fatto, dovrà passare necessariamente attraverso il dettato normativo individuato dall’art. 2497 c.c., con la conseguenza che non si potrà più ammettere il fallimento del socio unico collegato semplicemente allo status di socio, ma solamente nel caso in cui lo stesso abbia esercitato un’attività abusiva di direzione e coordinamento186. 2.5.9

Un esempio di regolamentazione dell’attività di direzione e coordinamento Schematicamente, la struttura di direzione e coordinamento potrebbe essere delineata come rappresentato alla tavola 2.7.

184 Si ricorda che l’art. 147 della legge fallimentare dispone che «La sentenza che dichiara il fallimento della società con soci a responsabilità illimitata produce anche il fallimento dei soci illimitatamente responsabili. Se dopo la dichiarazione di fallimento della società risulta l’esistenza di altri soci illimitatamente responsabili il tribunale, su domanda del curatore o d’ufficio, dichiara il fallimento dei medesimi, dopo averli sentiti in camera di consiglio. Contro la sentenza del tribunale è ammessa l’opposizione a norma dell’art. 18. Le disposizioni di questo articolo non si applicano alle società cooperative». 185 Cfr. G.B. Portale, La Legge fallimentare rinnovata: note introduttive, in Banca borsa tit. credito, 2007, n. 3, p. 372, il quale ha autorevolmente osservato che «con riguardo allo stesso art. 147 va fatto pure rimarcare che il tentativo di circoscrivere il suo perimetro soggettivo alle società in nome collettivo in accomandita semplice e in accomandita per azioni non convince restando aperta la questione dell’estensione del fallimento ai soci agenti o consenzienti e (sempre) all’unico socio di società di capitali uni personale per i debiti da operazioni compiute dalle c.d. società di capitali informazione (art. 2331 c.c.) non qualificabili né come società di persone, né (ancora) come società di capitali». 186 Cfr., per un ampio approfondimento di tale tematica, F. Fimmanò, op. cit., pp. 421 ss.; F. Angiolini, op. cit., pp. 323 ss.


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Tavola 2.7

ALFA Spa Società capogruppo Consiglio di amministrazione LINEE STRATEGICHE

Comitato di direzione LINEE OPERATIVE

Amministratore delegato ESECUZIONE E CONTROLLO

Società del gruppo X soggette ad attività di direzione e coordinamento esercitata dalla società capogruppo ALFA Spa

L’organo preposto al coordinamento e all’attuazione delle direttive del gruppo è il Consiglio di Amministrazione della società capogruppo che potrà, pertanto, delegare le attribuzioni operative al un Comitato (nell’esempio proposto Comitato di direzione, ovvero all’Amministratore delegato). Da un punto di vista pratico, ai fini della definizione di uno modello di regolamentazione contrattuale dell’attività di direzione e coordinamento, occorre innanzitutto porre in essere alcune azioni preliminari volte a comprendere l’ambito di operatività, nonché le caratteristiche delle società per cui la regolamentazione deve essere posta in essere. In particolare, possono essere identificate le seguenti fasi:


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● identificazione delle società appartenenti al gruppo da attuarsi mediante l’analisi della documentazione ufficiale relativa all’identificazione dei socie delle singole società; ● analisi delle attività svolte da ciascuna di esse; ● identificazione dell’entità legale che esercita l’attività di direzione e coordinamento, nonché delle decisioni e delle prerogative ad essa spettanti (i poteri spettanti al soggetto che esercita attività di direzione e coordinamento non dovranno in alcun modo pregiudicare l’autonomia giuridica, patrimoniale ed economica delle società dirette; in caso contrario – allorquando l’ingerenza della società controllante è tale da eliminare l’autonomia amministrativa e finanziaria delle singole entità del gruppo – potrebbe parlarsi di esercizio da parte del soggetto controllante di un’attività di dominio abusivo, nonché potrebbe verificarsi il concreto rischio di individuazione nella società diretta e coordinata di una stabile organizzazione del soggetto dominante); ● identificazione degli organi deputati all’assunzione delle decisioni; ● definizione dei flussi informativi tra le società del gruppo rilevanti ai fini dell’assunzione delle decisioni da parte del soggetto capogruppo, nonché per l’adempimento delle funzioni di vigilanza attribuite agli organi di controllo; ● definizione delle modalità e della tempistica con cui pervenire all’attribuzione di eventuali flussi compensativi a favore delle società eterodirette a fronte di eventuali pregiudizi da queste subiti in diretta conseguenza dell’espletamento delle prerogative di direzione e coordinamento della capogruppo (al riguardo, si ricorda che tale valutazione deve essere effettuata ex ante e con tempestività). I risultati dell’analisi per fasi in precedenza brevemente riassunte dovranno essere formalizzati nel Regolamento dell’attività di direzione e coordinamento che dovrà essere approvato da parte del Consiglio di Amministrazione della società che esercita l’attività di direzione e coordinamento e dai Consigli di Gestione e Consigli di Sorveglianza delle società ad essa soggette. Nel contesto del Regolamento, la direzione e coordinamento potrebbe essere definita «come quell’attività consistente nel coordinare atti e attività delle società nell’interesse delle stesse del gruppo. L’attività di direzione e coordinamento del gruppo si svolge attraverso l’approvazione da parte del Consiglio di amministrazione della società, in conformità alle disposizioni del Codice di Autodisciplina, di atti di indirizzo, di gestione e/o in operazioni definite ed elaborate all’interno delle società e nelle attività del Consiglio di amministrazione di (...) tese alla pianificazione della gestione del gruppo e alla definizione di direttive alle società circa l’esecuzione di operazioni o di singoli atti di gestione. L’attività di direzione e coordinamento non ha carattere generale e si rivolge esclusivamente nelle aree di intervento e per il tramite delle attività previste nel presente Regolamento». In particolare, i citati atti (di ordinaria amministrazione) aventi rilevanza di gruppo sottoposti all’esame del Consiglio di amministrazione della società


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capogruppo che esercita attività di direzione e coordinamento potrebbero essere, ad esempio, quelli relativi: ● ai finanziamenti a medio-lungo termine; ● al rilascio di garanzie, fideiussioni il cui costo annuo sia superiore ad un determinato ammontare; ● ai contratti assicurativi a coperture dei rischi inerenti a danni alla proprietà e all’interruzione del business; ● utilizzo di finanziamenti a breve termine. Dall’esame del Regolamento in precedenza riportato, emerge un’attività di direzione e coordinamento strutturata secondo un modello debole che è in grado di preservare l’autonomia delle società dirette e coordinate ma, al contempo, di perseguire gli obiettivi di coordinamento e l’attuazione delle politiche di gruppo di carattere generale. Tale modello a seguito dell’introduzione degli articoli 2497 e ss. c.c. ad opera della legge di riforma del diritto societario è considerato ammissibile in quanto rispettoso dell’autonomia giuridica delle società che compongono il gruppo; al contrario, un modello di direzione e coordinamento «forte», caratterizzato da una forte ingerenza della società capogruppo anche nelle decisioni prettamente operative delle società dirette e coordinate potrebbe non risultare compatibile con l’attuale legislazione civilistica, nonché comportare indubbi rischi sul piano fiscale. 2.6

Implicazioni fiscali dell’attività di direzione e coordinamento

2.6.1

Direzione e coordinamento e sede dell’amministrazione di società Come si è già avuto modo di osservare, l’eventuale attività di direzione e coordinamento che Beta esercita su Gamma, ovvero l’attività di indirizzo gestionale esercitata dalla prima sulla seconda non dovrebbe essere confusa con l’attività rilevante ai fini dell’individuazione della sede dell’amministrazione nel nostro Paese di Beta. Infatti, non riteniamo corretto collocare della sede amministrativa di Beta presso Gamma SPA (società controllata italiana) soltanto perché tra le due società vi è uno stretto collegamento che riguarda essenzialmente il coordinamento delle rispettive attività e finalità nell’ambito del medesimo gruppo imprenditoriale, è questo perché essenzialmente tale coordinamento costituisce una prerogativa tipica del controllo societario disciplinato dall’art. 2359 c.c. A tal fine, riteniamo condivisibili le conclusioni cui sono giunti i giudici toscani nella sentenza della Commissione tributaria regionale della Toscana del 18 gennaio 2008, n. 61187 nella

187 Cfr. anche la decisione emessa dalla Commissione Tributaria Centrale del 10 ottobre 1996, n.


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quale è stato chiarito che, l’attività di indirizzo gestionale che la società controllante esercitata sulla controllata non può essere confusa con l’attività rilevante ai fini dell’individuazione della sede dell’amministrazione di quest’ultima. In termini più generali quindi non pare corretto configurare la collocazione della sede amministrativa di una società presso un’altra soltanto perché tra le due società vi è uno stretto collegamento che riguarda essenzialmente il coordinamento delle rispettive attività e finalità nell’ambito del medesimo gruppo imprenditoriale. A ciò si aggiunga che, a nostro avviso, qualora l’attività di indirizzo gestionale esercitata dalla società Beta non residente nei confronti della controllata Gamma italiana sia talmente penetrante da esautorare di fatto qualsiasi prerogativa in capo a quest’ultima dovrebbe ritenersi che la controllata italiana non è fiscalmente residente nel nostro Paese bensì all’estero. In altri termini, qualora siffatta attività di coordinamento gestionale sia talmente penetrante da «svuotare» le prerogative degli amministratori della società controllata italiana Gamma relative all’amministrazione di detta società, si produrrebbe l’effetto opposto, ossia l’individuazione – sulla base della prevalenza della sostanza sulla forma – della sede dell’amministrazione della società italiana Gamma presso la controllante non residente Beta. 2.6.2

Normativa civilistica di direzione e coordinamento e disciplina dei prezzi di trasferimento Un’altra fattispecie di indubbia rilevanza attiene alle relazioni tra la normativa civilistica in tema di direzione e coordinamento e la disciplina tributaria dei prezzi di trasferimento, di grande e attuale rilevanza per i gruppi multinazionali188.

4992 citata anche nella Relazione finale della Commissione Biasco e commentata in Dir. prat. trib., 1999, II, pp. 87 ss. con nota di T. Aragno. In particolare, tale decisione risulta essere di estrema importanza, in quanto concerne non solo la nozione di residenza fiscale di una società estera (nella specie, panamense che operava per il tramite di un agente – institore – nel nostro Paese), ma anche quella altrettanto importante di stabile organizzazione. 188 Non è questa la sede per approfondire i vivaci e interessanti dibattiti dottrinari in tema di transfer pricing; tuttavia, ci limitiamo a segnalare alcuni aspetti a nostro avviso di notevole importanza pratica. Il primo è che in alcune recenti sentenze della Corte di Cassazione (cfr. sentenza 11 giugno 2007, n. 13579 e sentenza 16 maggio 2007, n. 11226) è stato chiarito, in maniera non molto appropriata perché non desumibile dal dettato normativo, che la normativa TP avrebbe natura elusiva, essendo finalizzata ad «evitare che all’interno del gruppo vengano posti in essere trasferimenti di utili tramite applicazione di prezzi inferiore al valore normale dei beni ceduti onde sottrarli alla tassazione in Italia a favore di tassazioni estere inferiori». Inoltre, malgrado la normativa dei prezzi di trasferimento riguardi le cessioni di beni, ovvero prestazioni di servizi, posti in essere tra imprese appartenenti ad un gruppo multinazionale, mette conto rilevare che a giudizio della nostra Amministrazione finanziaria questa trovi applicazione anche nei confronti dei gruppi nazionali. Tale estensione – che francamente ci lascia notevolmente perplessi – è stata confermata nella cir-


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Come noto, come disposto dal comma settimo dell’art. 110 del TUIR «I componenti di reddito derivanti da operazioni con società non residenti nel territorio dello Stato, che direttamente o indirettamente controllano l’impresa, ne sono controllate o sono controllate dalla stessa società che controlla l’impresa, sono valutati in base al valore normale dei beni ceduti, dei servizi prestati e dei beni e servizi ricevuti, determinati a norma del comma 2 se ne deriva aumento del reddito; la stessa disposizione si applica anche se ne deriva una diminuzione del reddito, ma soltanto in esecuzione degli accordi conclusi con le autorità competenti degli Stati esteri a seguito delle speciali “procedure amichevoli” previste dalle convenzioni internazionali contro le doppie imposizioni sui redditi»189.

colare ministeriale del 26 febbraio 1999, n. 53, dove si legge: «lo strumento può essere utilizzato da società controllanti o collegate, con sede nei territori del Centro-Nord, che cedono merci o beni immateriali alle controllate o consociate aventi sede nel Mezzogiorno ad un prezzo inferiore al valore normale così come definito dall’art. 9 del D.P.R. 917/86. Tale manovra consente di realizzare una contrazione dell’utile per l’impresa settentrionale con reddito assoggettato alle aliquote ordinarie e di “gonfiare” l’utile dell’impresa meridionale che gode delle agevolazioni fiscali stabilite dall’art. 26 del D.P.R. 601/73. Questi comportamenti non possono, allo stato della legislazione, essere perseguiti ai sensi dell’art. 76, 5 comma, del T.U.I.R. che, come noto, attiene alle operazioni poste in essere con società non residenti. Analogamente, non possono trovare applicazione le disposizioni antielusive previste dall’art. 37-bis del D.P.R. 600/73 che ineriscono a fattispecie diverse. Probabilmente, potrebbe risultare proficuo ricorrere alla norma contenuta nell’art. 39, 1 comma, lett. d) del D.P.R. 600/73 afferente l’accertamento di esistenza di attività non dichiarate (nel caso in esame maggiori ricavi) sulla base di presunzioni qualificate. Potrebbe essere, altresì, utilizzata la norma prevista dall’art. 37, comma 3, del D.P.R. 600/73, attribuendo all’impresa non agevolata la quota di reddito dichiarata dall’impresa agevolata. In effetti, attraverso la manovra della “sottofatturazione”, l’alienante trasferisce quote utili all’acquirente ma resta titolare effettiva del reddito in qualità di controllante o collegata e, in sede di distribuzione di dividendi, può attribuirsi dette quote, non tassate, godendo altresì del relativo credito d’imposta. Nell’ipotesi che il ricorso alle suddette norme risultasse di difficile praticabilità, occorrerà valutare la possibilità di suggerire proposte normative finalizzate a prevedere l’estensione dell’applicazione del citato art. 76, 5 comma, T.U.I.R. anche alle società residenti». Cfr. anche la sentenza della Corte di Cassazione 24 luglio 2022, n. 10802, in Boll. Trib., 2002, pp. 1666 ss., e da ultimo in tema di transfer pricing interno e omesse ritenute la sentenza della Corte di Cassazione 23 febbraio 2010, n. 4291. Cfr. in dottrina C. Rotondaro, Il Transfer Pricing interno: brevi note in tema di strumenti giuridici di accertamento e metodi di ispezione, in Dir. Prat. Trib., 2001, Parte I, pp. 101 ss.; M. Peirolo, M. Vandonio, Ancora in tema di transfer pricing interno: limiti all’utilizzo del valore normale nei rapporti intra-gruppo tra società residenti, in Dir. Prat. Trib., n. 4/1999, pp. 999 ss.; D. Irollo, Di Transfer Pricing «interno», tra tenuta delle presunzioni e (presunti) rimedi antielusivi, in Boll. Trib., n. 23/1999, pp. 1746 ss.; P. Selicato, Il transfer pricing interno e la disciplina fiscale dei gruppi di impresa: appunti per una analisi comparata, in Riv. Dir. Trib. Intern. (International Tax Law Review), 1999, pp. 336 ss. 189 Al fine della interpretazione del comma settimo dell’art. 110 del TUIR si confrontino i chiarimenti contenuti nella circolare n. 32/1980 citata. Molto spesso si discute se la presunzione recata da tale comma abbia carattere relativo o assoluto; sul tema, la Commissione Tributaria Regionale del Piemonte, sez. XXXV, nella sentenza del 18 gennaio 1999 n. 164, ha ritenuto che «l’asserzione dell’ufficio secondo cui la fattispecie disciplinata dall’art. 76, 5° comma D.P.R. 917/86 [ora comma


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In buona sostanza, i prezzi praticati tra entità appartenenti al medesimo gruppo societario multinazionale, per cui valgono le relazioni partecipative di cui agli artt. 2497 e ss. c.c., devono essere determinati conformemente a quanto sarebbe pattuito tra soggetti indipendenti; nel caso di difformità, gli organi accertatori potrebbero addivenire ad una rideterminazione dei prezzi, con conseguente determinazione di un maggior reddito imponibile e, quindi, di un maggior debito d’imposta, oltre all’applicazione di sanzioni e interessi moratori. Molto spesso nella realtà i rapporti contrattuali di fornitura di beni, ovvero di servizi, tra entità giuridiche appartenenti al medesimo gruppo societario multinazionale siano sì determinati tenendo in considerazione le caratteristiche in termini di funzioni svolte e rischi assunti dalle singole entità legali, nonché avendo quale concreto parametro di confronto il prezzo praticato per beni e/o servizi simili a soggetti terzi su mercati comparabili, ma anche adottando un approccio volto spesso alla minimizzazione dell’onere fiscale per il gruppo societario multinazionale, inteso nella sua globalità. Può, pertanto, essere utile al riguardo riproporre il seguente esempio che coinvolge tre società: Alfa S.r.l., società Italiana produttrice di beni di largo consumo, Beta LTD., società irlandese responsabile della produzione di materie prime utilizzate nel processo produttivo di Alfa S.r.l., e Gamma Inc., società di diritto canadese esercente attività di direzione e coordinamento su numerose entità giuridiche in tutto il mondo, tra cui Alfa S.r.l. e Beta LTD. Al fine di addivenire ad un’ottimizzazione del carico fiscale del gruppo diretto e coordinato da Gamma Inc., i prezzi di fornitura da Beta LTD. a Alfa S.r.l. sono stati determinati in modo tale da far concorrere il maggior utile della transazione in Irlanda. L’Amministrazione finanziaria italiana in sede di accertamento potrebbe disconoscere, per quanto riguarda la determinazione dei prezzi, l’assetto contrattuale in commento, contestando in particolare le modalità di determinazione dei prezzi, accertando conseguemente un maggior imponibile (e, dunque, una maggiore imposta) in capo ad Alfa S.r.l. Al fine di poter valutare i profili di responsabilità della società capogruppo Gamma Inc., nella fattispecie in commento, occorre evidenziare che la società italiana Alfa S.r.l. è stata per così dire indotta alla sottoscrizione del contratto in vista di un interesse globale, indicato come prioritario dalla società capogruppo e finalizzato alla minimizzazione degli oneri fiscali del gruppo, inteso quale unicum inscindibile. Il tema di interesse sul punto ci sembra essere il seguente: la società Gamma INC potrebbe essere chiamata a rispondere dei debiti tributari accertati in capo ad Alfa S.r.l. in virtù della non corretta determinazione dei prezzi di

7 dell’art. 110] sarebbe assistita da presunzione assoluta, non trova riscontro in alcuna cultura giuridica e sarebbe certamente di dubbia costituzionalità» Cfr. in dottrina, le interessanti osservazioni di P. Besio, op. cit., pp. 1109 ss.


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trasferimento posti in essere? Se da un lato, infatti, è innegabile che la pattuizione di prezzi superiori al loro valore di comune commercio (c.d. arm’s length principle) potrebbe rispondere, in vista della minimizzazione degli oneri fiscali complessivamente intesi, all’interesse di gruppo, dall’altro ci sembra altrettanto vero che tale determinazione non può comportare in capo alla società italiana Alfa S.r.l. oneri privi di compensazione in termini di vantaggi compensativi. Ciò premesso, ci sembra corretto dare riposta positiva alla domanda in precedenza formulata, posto che l’errata determinazione dei prezzi di trasferimento potrebbe di fatto comportare: 1. una lesione negli interessi dei soci di minoranza della società italiana Alfa S.r.l., in termini di diminuzione dell’utile di competenza e del valore della partecipazione; 2. una lesione degli interessi dei creditori della stessa società, in termini di lesione all’integrità del patrimonio sociale); 3. una lesione degli interessi erariali che si sostanzia in un debito d’imposta e in sanzioni irrogate nei confronti di Alfa S.r.l. e, di riflesso, pertanto, di ulteriore diminuzione sia del valore della partecipazione per i soci di minoranza, che di lesione all’integrità del patrimonio sociale. Ne deriva che il soggetto esercente attività di direzione e coordinamento (nella fattispecie, Gamma INC), dovrebbe rifondere tempestivamente e concretamente ad Alfa S.r.l. i danni da essa subiti in conseguenza dell’accertamento da quest’ultima eventualmente subito. Si ritiene che le modalità con cui si potrà addivenire a tale compensazione debbano essere ricercate nei principi informatori la disciplina dei vantaggi compensativi, di cui si è detto nel par. … [?] Gli amministratori della società Alfa eterodiretta italiana hanno il dovere di non applicare le direttive sui prezzi di trasferimento che risultino lesive degli interessi dei soci di minoranza, nonché dei creditori sociali di detta società, qualora i danni da esse provocati non risultino effettivamente compensati da altri benefici derivanti dall’appartenenza al gruppo. Tali benefici, peraltro, dovranno avere carattere di effettività e misurabilità (rectius: non deve trattarsi di benefici ipotetici), non potendosi identificare in mere potenzialità derivanti dall’appartenenza al gruppo prive di concretezza. La determinazione degli effetti in tema di responsabilità degli amministratori e di definizione dei vantaggi compensativi, deve, tuttavia, essere analizzata anche con riferimento allo stato della disciplina internazionale vigente in materia. In particolare, oltre a quanto disposto in merito dalle convenzioni internazionali per evitare le doppie imposizioni, che espressamente prevedono il principio di determinazione dei prezzi praticati tra entità legali costituite in Paesi diversi in


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base al «valore normale190», pare in questa sede opportuno esaminare, anche quanto statuito dalla cosiddetta «Convenzione arbitrale» in tema di prezzi di trasferimento. La Convenzione arbitrale del 23 luglio 1990, n. 436, elaborata nell’ambito dell’Unione Europea, è entrata in vigore a partire dal 1° gennaio 1995

190 Si osserva che il Modello di Convenzione OCSE contro le doppie imposizioni contiene alcune disposizioni specifiche che trovano applicazione con riferimento alle problematiche relative ai prezzi di trasferimento; queste sono gli articoli 7 (con riferimento al quale recentemente l’OCSE ha avanzato delle proposte di modifica, disponibili sul sito internet www.oecd.org) 9 e 25. In particolare, quest’ultimo articolo disciplina la c.d. procedura amichevole la cui attivazione è finalizzata a risolvere situazioni di doppia imposizione. Per quanto attiene agli aspetti procedurali, va osservato che tale procedura può essere richiesta da parte di un contribuente nel caso in cui egli ritenga che il trattamento a lui riservato da uno dei due Stati contraenti possa comportare, ovvero abbia comportato, una doppia imposizione non conforme alle norme convenzionali. Ai sensi dell’art. 25 in contribuente ha il diritto di chiedere che le autorità competenti dei sue Stati competenti si mettano in contatto tra loro al fine di esaminare il caso ed eliminare la doppia imposizione; mentre però il contribuente ha il diritto di richiedere che tale procedura venga attivata, le autorità competenti non hanno l’obbligo di avviare la suddetta procedura; a ciò si aggiunga che anche qualora venga avviata non esiste alcun obbligo di risultato da parte degli Stati contraenti, ovvero non esiste alcun obbligo di arrivare ad un accordo che elimini la doppia imposizione. Come osservato in dottrina (cfr. P. Besio, op. cit., p. 1133) «ciò che si verifica in pratica, in alcuni casi, è che vengano attivate procedure amichevoli che, a distanza di anni, non sono ancora definite». È altresì molto importante notare che la procedura amichevole non costituisce un’alternativa ai rimedi esperibili innanzi ai giudici nazionali, ma una integrazione degli stessi. In altri termini, tale procedura non è alternativa a quella interna, con la conseguenza che i due rimedi (quello convenzionale e quello interno) possono essere portati avanti parallelamente. In particolare, qualora per il tramite della procedura amichevole viene raggiunto un accordo questo diventa efficace se accettato dal contribuente e qualora questo rinunci ad instaurare, ovvero proseguire, il contenzioso nazionale. Secondo dati ufficiali OCSE (disponibili sul sito internet www.oecd.org) il numero delle procedure amichevoli pendenti nel corso degli ultimi anni è cresciuto in maniera considerevole; infatti, si è passati da 1097 casi pendenti di Mutual Agreement Procedure (MAP) nel 2006 a ben 2655 casi nel 2007. In Italia si è passati da 14 casi pendenti nel 2006 ai 63 casi pendenti nel 2007; in tale anno il numero maggiore di casi pendenti ha riguardato gli Stati Uniti, la Germania, la Francia, il Canada, l’Austria, l’Olanda, la Danimarca e il Giappone. Con riferimento alla disciplina della procedura amichevole, cfr., in dottrina, C. Garbarino, Note a margine del «Caso Onduline»: interpretazione funzionale delle convenzioni contro le doppie imposizioni e procedura amichevole, in Dir. Prat. Trib., parte I, 1989, pp. 970 ss.; P. Filippi, Dalla procedura amichevole alla procedura arbitrale: osservazioni, in Dir. Prat. Trib., 1996, pp. 1171 ss.; F. Adami, F. Leita, La procedura amichevole nelle convenzioni bilaterali per evitare le doppie imposizioni, in Riv. Dir. Trib, parte I, 2000, pp. 349 ss.; L. Consalvo, L’efficacia degli accordi conclusi a seguito delle procedure amichevoli previste dalle Convenzioni contro le doppie imposizioni, in Boll. trib., n. 18/1993, pp. 1354 ss.; M. Cerrato, International aspects of Transfer pricing litigation, in International Transfer Pricing Journal, n. 1/2002, pp. 23 ss.; R. Dominici, Le regole per la risoluzione dei conflitti in materia di doppia imposizione internazionale, in AA.VV., Corso di diritto tributario internazionale, coordinato da V. Uckmar, Padova, pp. 921 ss.; S. Mayr, La procedura amichevole nei trattati contro le doppie imposizioni, in Boll. trib., 1981, pp. 1150 ss.; O. Reale, Le procedure amichevole nelle convenzioni internazionali contro le doppie imposizioni, in Riv. Dir. Trib, n. 4/2003, pp. 335 ss.


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in seguito alla ratifica da parte di tutti gli Stati membri191. L’Italia ha ratificato la Convenzione con la legge 22 marzo 1993, n. 99, riconoscendo l’applicabilità dell’istituto nel nostro ordinamento. Successivamente, in data 7 luglio 2004, è stato approvato dalla Commissione europea, al fine di dare attuazione operativa alla procedura arbitrale, un Codice di condotta192 per consentire a società e professionisti di poter fare affidamento su un documento operativo e per dare impulso ad una pratica che aveva avuto sino ad allora una assai limitata diffusione. La Convenzione ha istituito in particolare una procedura arbitrale per la soluzione delle controversie fiscali in materia di determinazione dei prezzi di trasferimento che trova applicazione nei confronti delle transazioni poste in essere tra imprese associate residenti in Stati diversi dell’Unione Europea. Finalità precipua della procedura è quella di evitare l’insorgere di doppie imposizioni all’interno di gruppi multinazionali nel caso in cui, in seguito ad un accertamento che comporti la rettifica dei prezzi di trasferimento attuato dall’Autorità fiscale di uno Stato (nella fattispecie innanzi analizzata l’Italia), l’altro Stato (nella fattispecie l’Irlanda) non riconosca una corrispondente

191 Cfr. in dottrina per un ampio commento alla Convenzione arbitrale P. Besio, op. cit., pp. 1175 ss. 192 Cfr. «Communication from the Commission to the Council, the European Parliament and the Economic and Social Committee:on the work of the EU Joint Transfer Pricing Forum in the field of business taxation from October 2002 to December 2003 and on a proposal for a Code of Conduct for the effective implementation of the Arbitration Convention (90/436/SEC of 23 July 1990)», COM(2004) 297 del 23 aprile 2004. Cfr., in dottrina, C. Alagna, P. Valente, «Transfer Pricing: la commissione dà il via libera al codice di condotta sull’uniformità documentale» in Il Sole 24Ore del 29 novembre 2005, pp. 32 ss.; S.B Huibregtse, R.H.M.J. Offermanns, What is the Future of the EU Arbitration Convention?, in International Bureau of Fiscal Documentation, n. 2/2004, pp. 76 ss. Inoltre, in materia di obblighi di documentazione e di transfer pricing cfr. «Communication from the Commission to the Council, the European Parliament and the Economic and Social Committee: on the work of the EU Joint Transfer Pricing Forum on Transfer Pricing documentation or associated enterprises in the EU», Comunicazione UE, COM (2005), 543 7 novembre 2005; D. Fuxa, Il Transfer Pricing e gli obblighi di documentazione, in Fiscalità Internazionale, n. 6/2005, pp. 508 ss.; M. Beudeker e S. Janssen, EU Transfer Pricing Documentation Requirements: A Critical Analysis and Comparison, in International Transfer Pricing Journal, settembre/ottobre 2006, pp. 235 ss.; P. Escault e I. Sprenger, «Transfer Pricing Documentation Requirements: A Comparison of German and French Practice, in International Transfer Pricing Journal, settembre/ottobre 2006, p. 245; H.K. Kroppen e A. Eigelshoven, Landmark Federal Tax Court decision: no Transfer Pricing documentation requirements under tax law, in International Transfer Pricing Journal, novembre/dicembre 2001, pp. 226 ss.; S. Schnorberger, J. Rosenkranz, M. Garcia, Transfer Pricing Documentation: The EU Code of Conduct Compared with Member State Rules», in Intertax, vol. 34, n. 6/7, in Kluwer Law International 2006, pp. 307 ss.; S. Rasch e A. Roeder, The German love to transfer pricing documentation, penalities, in Tax Management Transfer Pricing Report, vol. 11, 11 dicembre 2002, n. 16, pp. 731 ss.; S. Schnorbeger, I. Gerdes, M.H. Herksen, Transfer Pricing Documentation: The EU Code of Conduct Compared with Member State Rules (Part 3), in Intertax, vol. 34, n. 10, in Kluwer Law International 2006, pp. 517 ss.


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riduzione dell’imponibile. In sostanza, la procedura è attivabile quando negli utili di un’impresa residente in uno Stato (per ritornare all’esempio precedente la società Alfa S.r.l.) sono inclusi, a seguito di accertamento, gli utili di un’impresa residente nell’altro Stato (Beta LTD.) in violazione del principio di unicità del prelievo sugli utili prodotti dal gruppo nel suo complesso in relazione a medesime transazioni. Condizione essenziale è, in ogni caso, che la rettifica dei prezzi di trasferimento si riferisca ad operazioni intercorse tra imprese residenti in due diversi Paesi dell’Unione Europea, appartenenti al medesimo gruppo societario. A seguito della richiesta del contribuente, le amministrazioni finanziarie degli Stati coinvolti sono tenute a porre in essere un tentativo per il raggiungimento di un accordo. Il termine concesso alle amministrazioni dall’art. 7 della Convenzione è di due anni e decorre dal momento in cui il contribuente abbia fornito una completa documentazione ad almeno una delle Amministrazioni coinvolte. Se entro il termine perentorio di due anni le amministrazioni degli Stati coinvolti non hanno raggiunto un accordo, le stesse devono nominare una Commissione consultiva, tenuta a rendere il proprio parere sul caso in discussione entro il termine di sei mesi. Le Autorità degli Stati coinvolti sono tenute ad assumere una decisione entro sei mesi dalla predisposizione del parere da parte della Commissione; qualora non raggiungano l’accordo, esse sono comunque tenute a conformarsi al parere reso dalla Commissione consultiva. La legge di ratifica e attuazione della Convenzione nel nostro ordinamento prevede che il Ministero delle Finanze provveda, su richiesta del contribuente, al rimborso dell’imposta versata in base all’eventuale accertamento ma non dovuta in seguito all’esito positivo della procedura arbitrale193.

193 La dottrina ha efficacemente evidenziato le diversità, anche in termini di risultato, tra la procedura amichevole di cui si è detto e quella arbitrale prevista a livello comunitario. In particolare, è stato osservato (cfr. P. Filippi op. cit., pp. 117 ss.) che «la vera novità di tale convenzione multilaterale è il fatto che si pervenga in ogni caso ad una decisione è che tale decisione abbia natura “arbitrale”. La procedura amichevole [di cui all’art. 25 del Modello OCSE di Convenzione] invece non sono non conduce necessariamente ad una soluzione in quanto (…) pone a carico degli Stati unicamente un obbligo di “diligenza” e non anche di “risultato”, ma addirittura può anche non avere inizio laddove l’Amministrazione Finanziaria ritenga non fondata la pretesa del contribuente. Inoltre la soluzione che si raggiunge nel caso della procedura amichevole è una soluzione di “compromesso”, mentre la decisione arbitrale è volta ad eliminare del tutto la doppia imposizione economica e vincola gli Stati contraenti, a meno che essi, entro sei mesi, non pervengano ad un accordo sull’eliminazione di tale doppia imposizione. Una volta raggiunta la soluzione, la legge di ratifica italiana regola gli aspetti applicativi relativi alla sospensione della riscossione ed allo sgravio delle imposte. In particolare di prevede che nelle more della procedura il Ministero delle finanze possa autorizzare la sospensione della riscossione degli atti esecutivi fino alla sospensione della procedura e disporre, “con proprio decreto, su richiesta del contribuente che l’intendente di finanza, sentito l’ufficio imposte, provveda al rimborso o allo sgravio dell’imposta non dovuta” (art. 3 l. 22 marzo 1993 n. 99)». Cfr. anche P. Besio, op. cit., p. 1178, il quale ha osservato che la Convenzione arbitrale prevede espressamente che la decisione definitiva sia eseguita all’interno


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Riveste particolare importanza analizzare i riflessi derivanti dall’utilizzo di uno strumento di tal fatta sulla normativa in tema di direzione e coordinamento, considerando altresì gli effetti complessivi derivanti dall’attivazione della procedura. Se con riguardo agli effetti di un accertamento in materia è stato possibile delineare profili di responsabilità in capo alla società, nonché agli Amministratori di Gamma Inc. che ha posto in essere una regolamentazione contrattuale dei rapporti di fornitura pregiudizievole per gli interessi di Alfa S.r.l., lo stesso non potrebbe dirsi, secondo la lettura della norma e l’interpretazione delle sue finalità, in caso di attivazione e finalizzazione della procedura arbitrale. In tal caso, infatti, l’effetto pregiudizievole per Alfa S.r.l. verrebbe neutralizzato dagli effetti derivanti dall’esperimento della procedura prevista dalla Convenzione arbitrale e ciò secondo due alternative possibili. Accertata la sussistenza di una fattispecie di doppia imposizione, l’Amministrazione finanziaria che ha emesso l’accertamento rinuncia alla propria pretesa, in quanto il medesimo imponibile è stato oggetto di tassazione in capo alla società residente nell’altro Paese appartenente all’Unione Europea. Tornando alla fattispecie esaminata nel presente paragrafo, l’Amministrazione finanziaria Italiana potrebbe convenire, in esito alla procedura arbitrale, che il medesimo reddito assoggettato ad imposizione in virtù dell’accertamento è stato tassato in Irlanda; in tal caso, non potrebbe far altro che rinunciare alla propria pretesa impositiva, con annullamento dell’atto amministrativo emesso. È evidente che il pregiudizio subito dalla società Italiana è eliminato e, pertanto, non si pone alcun problema di addivenire ad una compensazione del pregiudizio arrecato (se non, eventualmente, in relazione ai costi sostenuti per l’esperimento della procedura) né sono individuabili profili di responsabilità per gli Amministratori, posto che la società italiana non potrebbe dimostrare l’esistenza di alcun tipo di danno. Accertata la sussistenza di una fattispecie di doppia imposizione, le autorità amministrative competenti dei due Paesi si accordano, in virtù dei risultati conseguenti alla positiva conclusione della procedura, eliminando la doppia imposizione mediante rimborso delle imposte versate dalla società residente nell’altro Paese dell’Unione Europea sul medesimo reddito oggetto di accertamento: in buona sostanza, vengono mantenuti fermi gli effetti dell’accertamento ma, contestualmente, a seguito del riconoscimento della fattispecie di doppia imposizione è garantito il rimborso dell’imposta versata dalla società non accertata sul medesimo reddito. Nella fattispecie oggetto di analisi, Alfa S.r.l. sarà tenuta a versare le imposte accertate a seguito della rideterminazione dei prezzi, mentre la società Beta LTD. sarà rimborsata delle imposte versate sul medesimo reddito. Se ciò dovesse avvenire senza che si dia

di ciascuno Stato, a nulla rilevando eventuali termini di prescrizione eventualmente contenuti nel proprio ordinamento.


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luogo ad alcun flusso compensativo a favore di Alfa S.p,a., potrebbe teoricamente derivarne un pregiudizio a carico di quest’ultima società e un corrispondente beneficio conseguito dalla capogruppo Gamma Inc., in contrasto con la ratio della normativa in tema di direzione e coordinamento. Al fine di rispettare tali previsioni civilistiche sarà pertanto necessario che la società che abbia conseguito il beneficio, consistente nella rifusione delle imposte versate sulla medesima fattispecie reddituale, provveda a compensare la società del gruppo che ha subito l’accertamento corrispondente. Nella fattispecie qui in esame, al fine di eliminare i profili di responsabilità di cui all’art. 2497 c.c., sarà dunque necessario che la società irlandese Beta LTD provveda ad accreditare a favore della società italiana Arla S.r.l. quanto percepito a titolo di ristorno per la doppia imposizione subita, nonché l’eventuale maggior danno derivante dalla maggiore aliquota d’imposta sulle società vigente in Italia rispetto all’Irlanda (la quantificazione del danno, infatti, non può che avvenire avuto riguardo al pregiudizio concretamente subito dalla società italiana). Quanto osservato in precedenza con riferimento all’ambito e agli effetti derivanti dall’applicazione della Convenzione arbitrale vale unicamente per rapporti intercorrenti tra società appartenenti a gruppi residenti nell’Unione Europea, lasciando impregiudicati i profili di responsabilità individuati con riferimento ai rapporti aventi la medesima natura e caratteristiche posti in essere tra società – tutte o una sola di esse – non residenti in detto territorio. Occorre, peraltro, dar conto di una possibile lettura interpretativa alternativa circa gli effetti della procedura arbitrale; questa, infatti, potrebbe essere intesa quale strumento volto esso stesso alla sostanziale neutralizzazione e al riequilibrio degli effetti positivi e negativi derivanti dall’applicazione di procedure di determinazione dei prezzi tra entità appartenenti al medesimo gruppo societario. Adottando tale approccio, non sarebbe necessario attivare alcun meccanismo di vantaggi compensativi, essendo tale meccanismo la caratteristica e l’essenza stessa della procedura arbitrale; in buona sostanza, l’accordo raggiunto tra le amministrazioni finanziarie dei Paesi coinvolti nella procedura varrebbe quale automatico meccanismo compensativo dei pregiudizi subiti e dei benefici conseguiti dalle società del gruppo. È evidente che, in tal caso, nessun profilo di responsabilità si porrebbe a carico degli amministratori della controllante e delle controllate, posta l’assenza di danno effettivo e dimostrabile. 2.6.3

Direzione e coordinamento e possibile identificazione di una stabile organizzazione Altra fattispecie di indubbia rilevanza è quella relativa alla possibilità di configurare nel nostro Paese una stabile organizzazione a fini fiscali della società non residente esercente attività di direzione e coordinamento. Ad esempio, in concreto tale fattispecie potrebbe manifestarsi qualora una società residente e


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operante fuori dal territorio Italiano eserciti attività di direzione e coordinamento nei confronti di una società residente in Italia. Non potendo in questa sede dar conto dell’ampio dibattito dottrinale in tema di configurabilità ai fini fiscali di una stabile organizzazione italiana di società non residente, ci si può limitare ad osservare come la stabile organizzazione costituisca una mera fictio iuris elaborata dal nostro Legislatore fiscale al fine di tassare – secondo le modalità di determinazione del reddito d’impresa – nel nostro Paese ivi prodotti da entità giuridiche residenti in altri Paesi. Come noto, la nozione non ha alcuna rilevanza dal punto di vista del diritto societario potendo, al più, essere definita quale ufficio in Italia di società estera, regolata, quindi, dalle norme di diritto vigenti nel Paese in cui è costituita. È invece interessante, per la ricostruzione della fattispecie e per individuazione delle conseguenze derivanti dall’introduzione nel Codice Civile delle norme sulla direzione e coordinamento sulla norma fiscale, nonché per il vivace dibattuto dottrinale che ha suscitato, analizzare il contenuto di alcune sentenza elaborate dalla Corte di Cassazione. 2.6.4

Il c.d. «caso Philip Morris»: una breve ricostruzione della fattispecie Nel caso di specie194, sulla base di un processo verbale di constatazione notificato, nel 1996, alle società estere del gruppo Philip Morris, e, per esse, alla controllata italiana Intertaba S.p.a.195, partecipata da società del gruppo Philip

194 Cfr. sentenze della Corte di Cassazione, Sezione tributaria, 20 dicembre 2001, nn. 3367/02, 3368/02 e 3369/02, pubblicate in data 7 marzo 2002 e, in dottrina, A. Ballancin, La nozione di «stabile organizzazione di gruppo» in una recente pronuncia della Suprema Corte di Cassazione, in Dir. Prat. Trib. Internaz., 2002, pp. 953 ss.; G. Sozza, Note a margine della pronuncia della Cassazione sul caso Philip Morris, in Il Fisco, n. 38/2002, pp. 6036 ss.; P. Valente, G. Valente, Stabile organizzazione: profili di criticità per i gruppi multinazionali derivanti dalle sentenze della Cassazione sul caso Philip Morris, in Rassegna di Fiscalità Internazionale, n. 5/2002; E. Altieri, Orientamenti della giurisprudenza della Sezione Tributaria della Cassazione in materia di rapporti tra diritto nazionale comunitario e convenzioni, nozione di stabile organizzazione di società straniere, in L’applicazione del diritto comunitario nella giurisprudenza della sezione tributaria della Corte di Cassazione, 2003; R. Lupi, Una società controllata può «nascondere» una stabile organizzazione? Ci sono differenze tra profili Iva e imposte sui redditi?, in Dialoghi di Diritto Tributario, n. 1/2003, pp. 35 ss.; B. Accili, Il caso «Philip Morris», in Dir. Prat. Trib., n. 1/2004, Parte I, pp. 65 ss.; E. Cacciapuoti, La società residente stabile organizzazione di una società non residente, in Rassegna Tributaria, n. 4/2007, pp. 1175 ss. 195 Tale società aveva assunto come oggetto sociale la produzione, distribuzione, vendita, commercializzazione di filtri per prodotti di tabacco, la prestazioni di servizi ausiliari alla distribuzione in relazione a prodotti propri e di terzi, la raccolta, compilazione e analisi dei dati relativi alla vendita e alla distribuzione delle sigarette, ecc.


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Morris,196 veniva contestato di aver omesso di fatturare i corrispettivi dovuti dall’Amministrazione dei Monopoli di Stato197 per la fornitura e la distribuzione nel territorio italiano di sigarette con il marchio Philip Morris; inoltre, veniva contestato alle società estere del gruppo di aver omesso di autofatturare i corrispettivi dovuti all’Amministrazione dei Monopoli di Stato per il trasporto e la distribuzione sul territorio nazionale dei tabacchi operando, al contempo, una mera compensazione finanziaria in sede di pagamento dei corrispettivi delle forniture. Venendo ai profili qui di interesse, al fine di accertare l’esistenza, in Italia, di una stabile organizzazione del gruppo Philip Morris, l’Amministrazione finanziaria ha dato rilievo alla concreta attività svolta dalla controllata Intertaba e, in particolare, alla stipulazione di contratti di fornitura (che prevedevano che i filtri fossero forniti da Intertaba all’Amministrazione dei Monopoli di Stato), di commissione stipulati, ad esempio, con Fabriques de Tabac Réunies, altra società del gruppo (in base ai quali quest’ultima società doveva promuovere la vendita dei filtri prodotti da Intertaba S.p.a. in Europa), di distribuzione (stipulati dai Monopoli di Stato con società estere del gruppo, nei quali si prevedeva la nomina di un rappresentante in Italia deputato a controllare l’attività di distribuzione delle sigarette con marchio Philip Morris) nonché di agenzia (sulle aree duty free con la Fabriques de Tabac Réunies, con la Philip Morris Holland e con la Philip Products Inc. per la promozione della vendita in aree e negozi duty free). In sintesi, gli interventi della società capogruppo non residente avevano ad oggetto diverse attività e, in particolare, le seguenti aree. Area strategico-decisionale Sussisteva, in base alle risultanze probatorie acquisite, una commistione tra attività, cariche e funzioni svolte in rappresentanza delle società del gruppo e, in particolare, risultava evidente la posizione dominante assunta da Philip Morris nei confronti di Intertaba, nonché l’assunzione di oneri e spese da parte di quest’ultima nei confronti delle altre società del gruppo. Area esecutiva Dall’analisi della documentazione reperita in sede di verifica fiscale, emergevano

196 Il capitale di tale società era posseduto per il 98% dalla Fabriques de Tabac Réunies e per il 2% dalla Philip Morris Europe S.A.. 197 L’Amministrazione dei Monopoli di Stato disponeva della licenza per la produzione e la vendita di alcune marche di sigarette; tale contratto prevedeva il pagamento di royalties e la liquidazione alla Philip Morris delle somme al netto dell’IVA.


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puntuali e penetranti interventi da parte di Philip Morris nei confronti di Intertaba relativi alla determinazione dei prezzi e alle condizioni di fornitura e pagamento, oltre che all’effettuazione di attività promozionali, alla gestione contabile e alle campagne pubblicitarie per il lancio di nuovi prodotti. Tali interventi pregiudicavano di fatto l’autonomia patrimoniale ed economica di Intertaba. Area del personale I dirigenti di Intertaba dipendevano gerarchicamente da dirigenti di altre società del gruppo e perseguivano, a giudizio dei verificatori, le finalità e gli obiettivi del gruppo Philip Morris. Inoltre, alcuni dirigenti di Intertaba erano stati remunerati anche da altre società del gruppo e partecipavano a corsi aventi ad oggetto il ruolo di responsabili di vendita di Philip Morris Area gestionale Intertaba utilizzava un sistema informativo globale per il monitoraggio delle vendite realizzate dal gruppo Philip Morris nel suo complesso sul territorio nazionale, trasmetteva periodicamente dati e notizie relativi alla propria situazione contabile alla Philip Morris e alcuni dirigenti di Intertaba avevano partecipato alle trattative tra Philip Morris e l’Amministrazione autonoma dei Monopoli di Stato finalizzate alla stipulazione di contratti relativi alle concessioni delle licenze per la vendita di prodotti Philip Morris. Più in particolare, l’Amministrazione finanziaria ha dedotto la posizione di dominanza cui era soggetta Intertaba da numerosi rilievi, quali, ad esempio, gli interventi di Philip Morris in relazione agli accordi relativi al prezzo, alle condizioni di resa e al pagamento delle materie prime per la produzione dei filtri; gli interventi di Intertaba S.p.a. per promuovere il lancio dei prodotti Philip Morris, per interrompere pubblicità negativa, per assicurare la remuneratività delle vendite, per definire un’operazione commerciale di altre società del gruppo, per calcolare le royalties dovute dall’AAMS nei confronti delle società estere del gruppo, l’utilizzazione da parte di Intertaba S.p.a. di un sistema informatico per analizzare tutte le informazioni sui prodotti Philip Morris distribuiti sul territorio nazionale. Dal giornale aziendale di Intertaba S.p.a. si desumeva la forte attenzione per il raggiungimento degli obiettivi della Philip Morris da parte dei suoi dirigenti; tale società, inoltre, fruiva di una convenzione per l’autonoleggio dei veicoli stipulata da Philip Morris a favore delle sue consociate, numerosi suoi dirigenti dipendevano da manager di altre società del gruppo e avevano il compito di perseguire strategie e obiettivi della Philip Morris, alcuni dirigenti erano retribuiti sia da Intertaba S.p.a. che da altre società del gruppo e, infine, alcuni dirigenti di Intertaba S.p.a. avevano partecipato alle trattative tra Philip Morris e l’AAMS per la stipulazione dei contratti relativi alle concessioni delle


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licenze di produzione e alla vendita dei prodotti Philip Morris. Secondo la Corte di Cassazione l’effettiva l’attività svolta da Intertaba S.p.a., in base a tali contratti, celava il suo ruolo effettivo di stabile organizzazione del gruppo Philip Morris. Infatti, secondo i giudici di legittimità nel caso di specie si sarebbe trattato in realtà di un’organizzazione frazionata nel cui ambito le imprese indipendenti, incluso Intertaba S.p.a., svolgevano attività complementari ciascuna alle altre, avvalendosi di collegamenti, diretti o indiretti, con i vertici del gruppo nel settore del tabacco. In particolare, seguendo il ragionamento dei giudici, poiché la costituzione di una società riconducibile alle società estere oggetto di accertamento avrebbe potuto comportare l’attribuzione a questa dei redditi di fonte italiana, si sarebbe adottata la soluzione di costituire una società (Intertaba S.p.a.) con denominazione sociale diversa dall’usuale e con un oggetto sociale non comprendente il compimento di attività, quali quelle produttiva, di assistenza, di rappresentanza, di pubblicità, di controllo e intermediazione nel settore del tabacco, di fatto esercitate. Inoltre, la Corte di Cassazione ha evidenziato che l’attività di Intertaba S.p.a. era indirizzata dal vertice del gruppo e, quindi, coordinata al fine del raggiungimento di obiettivi unitari di gruppo; inoltre, aveva operato per il gruppo Philip Morris in forma apparentemente autonoma godendo di vantaggi (le vendite al Monopolio di Stato su condizioni poste da altre società del gruppo) e svantaggi (l’assunzione di costi inerenti ad attività di prevalente interesse di altre società del gruppo, per le quali non aveva ricevuto alcun incarico di rappresentanza, né percepiva alcun corrispettivo. Sempre secondo la Corte di Cassazione, il ruolo effettivo di Intertaba S.p.a. sarebbe confermato dalla posizione di dominanza assunta, dai vertici del gruppo, nei confronti della medesima e dall’assunzione, da parte di questa, di oneri e spese nei confronti di altre società Attività di direzione e coordinamento e possibile accertamento di una stabile organizzazione Sembra ragionevole ritenere che la fattispecie in commento possa rientrare tra le ipotesi di esercizio da parte di società del gruppo di attività di direzione e coordinamento; tuttavia, quale sia nel concreto l’entità giuridica non residente a cui imputare tale attività non è cosa di immediata percezione, posta l’estrema frammentazione dei centri decisionali. La Suprema Corte, nella motivazione della sentenza, compie una dettagliata analisi degli elementi probatori acquisiti, pervenendo a conclusioni valutabili anche ai fini di una concreta qualificazione delle funzioni di gruppo, apprezzate nel contesto delle loro conseguenze sull’autonomia della società italiana. Si ritiene opportuno richiamare alcune affermazioni dei Giudici utili a nostro avviso a definire l’ambito e la portata del concetto di stabile organizzazione, quale centro giuridico autonomo di imputazione di affari afferenti la società capogruppo (ovvero le consociate). In particolare, «Pur non essendo il gruppo come tale – almeno allo stato attuale


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dell’ordinamento italiano – centro di riferimento globale di rapporti giuridici, anche sul piano dell’ordinamento tributario, occorre comunque considerare che una o più società del gruppo possono esercitare un’attività di gestione (management) attraverso una struttura operante nello Stato della fonte, come parte integrante di un più vasto programma, facendo capo ad un gruppo. Pertanto, le sinergie delle diverse società, alle quali la struttura nazionale fa riferimento, non possono non essere unitariamente considerate e di conseguenza costituisce un indebito frazionamento del fenomeno la mancata utilizzazione di tutti gli elementi di prova che, pur non riguardando il singolo rapporto tra ciascuna società e struttura nazionale servente, contribuiscono a verificare l’esistenza di un rapporto di dipendenza – soprattutto sotto l’aspetto funzionale – in relazione ad un programma al quale le diverse società del gruppo contribuiscono». Prendendo le mosse da tale premessa metodologica, e aggiungendo che, qualora un’impresa abbia delegato ad una propria struttura funzioni di management, anche limitatamente ad un settore dell’attività, gli affari in tal modo condotti costituiscono un centro stabile di attività, la Suprema Corte afferma che l’indagine «deve riguardare l’attività compiuta dalla struttura nazionale al di fuori del proprio ordinary business nel suo complesso. Sul piano della prova, ciò comporta che gli elementi rivelatori dell’esistenza di una stabile organizzazione devono essere considerati globalmente e nella loro reciproca connessione». Indagando poi sulla sussistenza, nella fattispecie, degli elementi di prova, i giudici osservano che «l’affermazione secondo cui gli elementi che giustificavano tale giudizio [giudizio di sussistenza degli elementi fondanti la stabile organizzazione, risultanti dalla documentazione probatoria rinvenuta] – e in particolare, il compimento, da parte di Intertaba, di una serie di attività di esclusivo interesse di Philip Morris Gmbh e di altre società estere del gruppo ed estranee all’oggetto sociale di Intertaba, la quale subiva costi senza una conseguente redditività e senza formale incarico – sarebbero stati eliminati con appropriati interventi. Non viene, infatti spiegato in che cosa tali interventi fossero consistiti e, anzi, dal testo dei documenti riportato nella sentenza emerge chiaramente un intento di mantenere fermo lo stesso assetto». Non si comprendere cosa debba intendersi, nel contesto in esame, per interventi volti all’eliminazione della situazione esistente; tuttavia, mutatis mutandis potrebbero configurarsi, oltre che modificazioni di uno stato di fatto in precedenza esistente, quali vantaggi compensativi, volti quantomeno ad indennizzare Intertaba dei costi, nonché dei svantaggi, subiti per effetto delle attività svolte a favore delle società appartenenti al gruppo. In base alle considerazioni svolte e alla ritenuta sussistenza degli elementi fattuali già ricordati circa lo svolgimento da parte di Intertaba di attività proprie della consociata non residente Philip Morris GmbH e di altre consociate residenti in vari Paesi, la Suprema Corte ha ritenuto che Intertaba ricopriva, il ruolo di stabile organizzazione c.d. «occulta» e


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«plurima»198 delle società consociate non residenti. Al di là di ogni considerazione circa il merito più strettamente tributario della sentenza in commento, non può non essere evidenziato l’accento posto dai giudici sulla nozione di gruppo e sulla configurazione delle attività che, per importanza e valore, possono dar luogo ad una fattispecie di dominio di una società, sia essa controllante o anche consociata, sulla società italiana o su alcune funzioni da essa svolte. Ma quanto in precedenza dedotto non trova un punto d’approdo, seppur diversamente mediato, nella normativa recata dagli artt. 2497 e ss. c.c.? Non possono farsi discendere dall’applicazione della normativa civilistica in tema di direzione e coordinamento importanti conclusioni tali da avallare o, al contrario, porre nel nulla le statuizioni dei giudici di legittimità nella sentenza in commento? Tali

198 La Corte di Cassazione ha ritenuto che il carattere occulto di Intertaba era rinvenibile nella non formale sua costituzione, nell’esercizio di attività al di fuori del proprio ordinario business, nonché nel penetrante controllo subito dalle società straniere del gruppo. Inoltre, i giudici di legittimità, ritenendo che Intertaba avesse operato come «serva di più padroni» (tanti padroni quante erano le società del gruppo Philip Morris che si avvalevano delle sue strutture per realizzare operazioni fiscalmente rilevanti in Italia) sono arrivati alla conclusione che la stessa Intertaba fosse una stabile organizzazione plurima delle società estere del gruppo. Tale società quindi aveva acquistato una funzione nuova, non più subordinata alle direttive della società madre, ma di coordinamento e gestione. Seguendo il ragionamento dei giudici quindi è come se Intertaba avesse assunto il coordinamento e la gestione dell’intero gruppo, conclusione che francamente ci lascia in quale modo perplessi. La ratio utilizzata dai giudici per affermare che Intertaba costituiva una stabile organizzazione plurima e occulta delle società estere del gruppo è stata criticata, molto condivisibilmente, dalla migliore dottrina. R Lupi, op. cit., p. 38, si esprime in questi termini: «Una volta condiviso il pensiero generale della Cassazione, sarebbe da approfondire il rapporto di questo tipo di rettifiche con quelle basate sul transfer pricing: le autorità fiscali italiane avrebbero infatti potuto applicare alla società italiana in cui si trovava la stabile organizzazione”occulta” [Intertaba] le rettifiche del reddito in base al valore normale dei servizi prestati gratuitamente alla casa madre. Anche la Cassazione, del resto, si sofferma sulla materia del transfer pricing, rilevando come la società italiana sostenesse costi a beneficio esclusivo dei rapporti che una società estera del gruppo intratteneva con un cliente italiano esclusivamente proprio. E probabilmente, ai fini delle imposte sui redditi, l’imponibile da attribuire alla stabile organizzazione “occulta” non dovrebbe essere concettualmente molto diverso rispetto a quello che si sarebbe dovuto attribuire alla società italiana valorizzando, secondo il criterio del transfer pricing, i servizi resi senza corrispettivo alla casa madre o alle consociate estere». Tra l’altro, va osservato che la Corte di Giustizia nella sentenza 20 febbraio 1997, causa C-260/95, «Dfds», ha chiarito che la configurabilità di una società controllata come stabile organizzazione è un’ipotesi che può sussistere solamente in casi eccezionali e in deroga ai principi generali dell’autonomia soggettiva delle società appartenenti a un gruppo. Infine, riteniamo opportuno puntualizzare che l’Italia nelle proprie Osservazioni al Commentario dell’art. 5 del Modello OCSE di Convenzione ha chiarito che «its giurisprudence [ossia quella elaborata principalmente con le sentenze in esame] is not to be ingnored in the interpretation of cases falling in the above paragraphs». Con particolare riferimento all’ambiguità di tale affermazione, sia consentito il rinvio a S. Tronconi, I. La Candia, Stabile organizzazione, Modello di Convenzione OCSE contro le doppie imposizioni e Corte di Cassazione, in Fiscalità Internazionale, novembre/ dicembre 2007, pp. 524 ss.


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interrogativi meritano indubbiamente approfondimento; assunta l’autonomia giuridica della disciplina civilistica della direzione e coordinamento da quella tributaria in tema di stabile organizzazione, sembra comunque evidente che il modello di direzione e coordinamento in concreto assunto comporta indubbi riflessi di natura fiscale. In particolare, qualora si volesse ammettere sul piano teorico e adottare nel concreto un modello forte, di matrice tedesca, di direzione e coordinamento, con pregnanti poteri conferiti al soggetto che, in via di fatto, la eserciti, potrebbero indubbiamente verificarsi importanti conseguenze sul piano fiscale, con derivata possibilità per l’Amministrazione finanziaria di attrazione a tassazione nel nostro Paese di elementi reddituali propri della società non residente in Italia. Qualora, invece, si adottasse un modello debole di direzione e coordinamento, il rischio inerente la possibile configurazione di una stabile organizzazione non potrebbe, per ciò solo, risultare aumentato. La problematica non può e non deve porsi in connessione con il soddisfacimento degli obblighi pubblicitari di cui all’art. 2497 bis c.c., essendo questa una mera presa d’atto circa la sussistenza dei presupposti per l’applicazione della normativa di riferimento, guidata, tra l’altro, dalle presunzioni relative recate dall’art. 2497-sexies c.c. nonché dalle concrete modalità con cui il rapporto di direzione e coordinamento concretamente si atteggia. Ciò posto, sorge il problema, o l’opportunità di regolamentare adeguatamente i poteri, le facoltà e le attività che sono propri della società che esercita attività di direzione e coordinamento; ma su questo fronte, a seguito dell’entrata in vigore della riforma del diritto societario, gli strumenti non mancano, nella forma prevista dall’art. 2497-septies c.c.: il riferimento vuol essere ai contratti di gruppo, ovvero ad opportune clausole statutarie, la cui disciplina è stata analizzata nel par. ...[?]. Nella pratica, il contratto, ovvero regolamento, di gruppo rappresenta lo strumento più efficace con cui identificare e limitare opportunamente i poteri del soggetto – o dei soggetti, posta l’ammissibilità della c.d. «direzione congiunta” – che esercita l’attività di direzione di coordinamento, al fine di escludere fattispecie di «dominio puro” e di limitare, in tal modo, eventuali censure sollevabili dall’Amministrazione finanziaria in merito alla possibile configurabilità di una fattispecie di stabile organizzazione. In tale contesto, inoltre, potrebbero essere esplicitate le finalità delle direttive impartite e definiti i meccanismi compensativi utili a mantenere indenne la società eterodiretta dagli eventuali costi sostenuti a beneficio del soggetto che tale potere di direzione e coordinamento esercita, ovvero dello stesso gruppo. Ad esempio, a nostro avviso, l’esistenza di siffatta regolamentazione dei poteri esercitati dalle società del gruppo Philip Morris nei confronti di Intertaba – naturalmente se al tempo dei fatti dedotti in causa fosse esistita una normativa analoga a quella recata dall’art. 2497 e ss. c.c. – avrebbe probabilmente potuto condurre il giudizio innanzi alla Corte di Cassazione ad esiti diversi, in quanto i poteri di direzione e coordinamento avrebbero potuto essere adeguatamente descritti e circoscritti nella loro dimensione soggettiva e oggettiva. Inoltre, per le attività


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svolte da Intertaba a beneficio delle consociate non residenti avrebbe potuto essere prevista una compensazione, sotto forma di vantaggio compensativo, in concreto adeguata alle caratteristiche e alle funzioni svolte; anche le trattative svolte da dirigenti di Intertaba a favore delle società del gruppo avrebbero potuto essere opportunamente regolamentate all’interno di un rapporto di mandato, limitato alle fattispecie oggetto di trattativa e, in ogni caso, escludendo il conferimento di un mandato generale che la Suprema Corte paventa esistente nella fattispecie. Inoltre, i rapporti gerarchici interni al gruppo avrebbero potuto essere puntualmente identificati su base matriciale in relazione alle singole entità giuridiche e con adeguata ripartizione (e conseguente limitazione in positivo e in negativo) di responsabilità. Quanto innanzi rappresentato non significa naturalmente che la sottoscrizione di un contratto di gruppo possa eliminare ogni rischio ed essere, di per sé, una soluzione; occorre, innanzitutto che quanto ivi contenuto corrisponda alla realtà fattuale e che, come in precedenza osservato, non finisca per configurare una fattispecie di «dominio forte», foriera di precise conseguenze sul piano tributario. Inoltre, da un punto di vista fattuale, va ritenuto che, ad esempio, la partecipazione e la conclusione di contratti vincolanti per il soggetto non residente che esercita attività di direzione e coordinamento da parte di personale qualificato della società italiana eterodiretta può aumentare, alla luce di quanto in precedenza osservato, il rischio che quest’ultima società possa costituire una stabile organizzazione del soggetto non residente. Pur nella consapevolezza che tali possibili conseguenze di carattere fiscale non costituiscono un effetto che si manifesta sempre e comunque, in maniera del tutto automatica, a seguito della soggezione all’altrui direzione e coordinamento, riteniamo che da un punto di vista pratico, anche alla luce del mutato approccio utilizzato dai verificatori nell’attività accertativa, queste possano comunque prodursi, soprattutto laddove l’esercizio di siffatta attività si traduce in una totale e pressoché incondizionata ingerenza della società estera nelle scelte gestionali operative della società italiana eterodiretta. Sarà, pertanto, responsabilità degli Amministratori sia della società eterodiretta che di quelli della capogruppo – o delle società consociate che esercitino in concreto tali poteri, in caso di direzione e coordinamento esercitata da più società in base ad uno schema di tipo matriciale – assicurare la conformità della regolamentazione contrattuale all’assetto di poteri e responsabilità effettivamente adottato e alle norme civilistiche inerenti l’esercizio delle attività di direzione e coordinamento, con un’attenzione sempre viva, tuttavia, per le implicazioni di carattere tributario che potrebbero discendere dall’assetto prescelto.


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