Holding e controllate estere
SOMMARIO 5.1
Il consolidato fiscale mondiale
5.2
La disciplina delle CFC
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172 5.1
IL REGIME FISCALE DELLE SOCIETÀ HOLDING
Il consolidato fiscale mondiale L’istituto del Consolidato fiscale mondiale, introdotto nel nostro ordinamento con la riforma fiscale del 2004 negli artt. 130 e seguenti del TUIR al fine di attuare la tassazione unitaria di un unico soggetto – la società capogruppo italiana1 – prevede che la società controllante residente italiana di grado più elevato possa consolidare proporzionalmente il reddito imponibile di tutte le proprie società consolidate non residenti (c.d. principio all in, all out)2, secondo un meccanismo
1 Autorevole dottrina – cfr. G. Zizzo, Prime considerazioni in tema di consolidato mondiale, in Fiscalità Internazionale, settembre-ottobre 2003, p. 309 ss., – ha ritenuto che «mentre il consolidato nazionale – previsto dall’art. 4, c. 1, lett. a), della legge delega 80/2003 – è strumento di tassazione unitaria di una pluralità di soggetti, le società del gruppo, (…) il consolidato mondiale – previsto dalla lett. b) del medesimo articolo – è invece strumento di tassazione di un unico soggetto, la capogruppo, per la quale rappresenta il mezzo tramite cui provvedere alla valorizzazione – nel calcolo della propria base imponibile – dei redditi e, soprattutto, delle perdite (non più conteggiabili per il tramite dell’iscrizione o del realizzo delle minusvalenze relative alle partecipazioni) prodotti dall’investimento nelle controllate estere». Come anche chiarito nella relazione illustrativa al decreto di riforma, l’introduzione del consolidato fiscale mondiale è volta al riconoscimento fiscale del gruppo di imprese, nonché a rendere il sistema tributario italiano omogeneo a quelli dei Paesi membri dell’Unione Europea. In tale relazione si legge infatti «nel rispetto dei principi della codificazione, per incrementare la competitività del sistema produttivo, adottando un modello fiscale omogeneo a quelli più efficienti in essere in Paesi membri dell’Unione Europea, la riforma dell’imposizione sul reddito delle società, si articola, per quanto riguarda l’imponibile, sulla base dei seguenti principi e criteri direttivi». Si mostrava scettico nei confronti dell’introduzione nel nostro Paese dell’istituto del consolidato fiscale mondiale F. Gallo (Cfr. I gruppi di imprese e il fisco, [COMPLETARE LA CITAZIONE], p. 585) il quale ha ritenuto che la costruzione di una base imponibile di gruppo presuppone che l’ente impositore sia solo uno, mentre in realtà gli enti impositori sono più di uno e ad essi non possono essere imposte le regole stabilite dal nostro ordinamento. 2 Il consolidamento di tutte le società controllate estere (c.d. principio all in, all out), introdotto per motivi di cautela fiscale, vuole evitare un consolidamento selettivo delle società partecipate estere, al solo fine di includere quelle società estere sottoposte, ad esempio, ad un livello di tassazione notevolmente inferiore rispetto a quello italiano; in tal modo, la società estera sarebbe sottoposta ad una tassazione inferiore rispetto a quella cui sarebbe soggetto nel proprio Stato di residenza. Tuttavia, si è dell’avviso che la considerazione del solo fattore fiscale quale unico elemento essenziale da prendere in considerazione al fine della giustificazione del principio in parola e, quindi, di un consolidamento non selettivo delle partecipate estere (non preordinato al conseguimento di un beneficio fiscale) ci è sembrata carente, nonché priva anche di una ratio di carattere sistemico, dal momento che il consolidamento degli imponibili potrebbe essere giustificato anche da motivazioni ulteriori e diverse da quella fiscale. Cfr. in dottrina, [?.] Miccinesi, La tassazione del gruppo multinazionale in Italia, relazione tenuta al Convegno La tassazione dell’impresa multinazionale nell’Unione Europea, Università di Siena, 24-25 gennaio 2003, il quale osserva che il consolidamento obbligatorio di tutte le società controllate estere vuole evitare facili abusi della disciplina consistenti nella inclusione nel consolidato delle società in perdita, e [?.] Greggi, La fiscalità dei gruppi di società, in Rass. trib., 2004, pp. 1953 ss. secondo cui l’introduzione nell’ambito della disciplina del consolidato del principio in commento è finalizzato ad inibire una importazione delle
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applicativo già previsto per le CFC residenti, ovvero localizzate in Stati e territori a fiscalità privilegiata, di cui all’art. 167 del TUIR. L’art. 4, comma 1, lett. b), della legge delega ha previsto, infatti, la «determinazione in capo alla società o ente controllante di un’unica base imponibile per il gruppo esteso anche alle società controllate non residenti sulla base degli stessi principi e criteri previsti per il consolidato nazionale di cui alla lett. a)». Potranno beneficiare del consolidato fiscale mondiale le società e gli enti di cui all’art. 73 comma 1, lett. a) e b), del TUIR3, mentre ne sono escluse le stabili organizzazioni italiane di società estere; in particolare, come previsto dall’art. 130 del TUIR, potranno esercitare l’opzione: 1. le società i cui titoli sono negoziati nei mercati regolamentati4; 2. le società e gli altri enti direttamente controllati di diritto dallo Stato o da altri enti pubblici, ovvero da persone fisiche che non si qualificano a loro volta, tenendo conto anche delle partecipazioni possedute da loro parti correlate5, quali
perdite straniere senza al contempo beneficiare della contestuale importazione di materia imponibile, ossia di reddito prodotto dalle società estere consolidate. 3 Si tratta in particolare delle società per azioni, in accomandita per azioni, delle società a responsabilità limitata, delle società cooperative, delle società di mutua assicurazione, nonché delle società europee di cui al regolamento comunitario n. 2157/2001 e delle società cooperative europee di cui al regolamento comunitario n. 1435/2003 residenti nel territorio dello Stato. Potranno inoltre esercitare l’opzione in qualità di soggetti controllanti gli enti pubblici e privati diversi dalle società, nonché i trust, residenti nel territorio dello Stato che hanno per oggetto esclusivo principale l’esercizio di attività commerciale. 4 Cfr. in G. Marino, La nuova imposta sul reddito delle società. Il parere dei tecnici, Milano, 2004, pp. 220 ss., il quale ha osservato che quando il Legislatore fa riferimento alle società quotate si devono intendere solamente le società italiane aventi i requisiti di cui all’art. 73, comma 1, lett. a) e b), del TUIR quotate presso la Borsa valori italiana, ovvero in mercati regolamentati stranieri; per contro, le società di diritto estero quotate presso la Borsa valori italiana, non avendo la forma di società di capitali secondo il diritto civile italiano, non potrebbero essere a capo di un consolidato mondiale italiano. 5 Molto spesso le parti correlate coinvolgono le holding dei gruppi di imprese; per una definizione di parte correlata, cfr. le Comunicazioni Consob 20 febbraio 1997, n. 90001574, e 2 marzo 1998, DAC 98015554, nonché la recentissima delibera Consob 12 marzo 2010, n. 17721, avente ad oggetto l’adozione del regolamento recante disposizioni in materia di operazioni con parti correlate. Sul tema si veda anche il documento del 17 marzo 2010 elaborato dal Consiglio Nazionale dei Dottori Commercialisti e degli Esperti Contabili avente ad oggetto le informazioni sulle operazioni con parti correlate e le relative problematiche e, in particolare, l’art. 2427, comma 1, n. 22-bis c.c. Secondo tale disposizione la Nota integrativa al Bilancio deve indicare tra l’altro le operazioni realizzate con parti correlate, precisando l’importo, la natura del rapporto e ogni altra informazione necessaria per la comprensione del Bilancio relativa a tali operazioni, qualora le stesse siano rilevanti e non siano state concluse a normali condizioni di mercato. Inoltre, le informazioni relative alle singole operazioni possono essere aggregate secondo la loro natura, salvo quando la loro separata evidenziazione sia necessaria per comprendere gli effetti delle operazioni medesime sulla situazione patrimoniale e finanziaria e sul risultato economico della società. Si ricorda altresì che
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soggetti controllanti di altre società o ente commerciale residente, ovvero non residente. In particolare, va osservato che le società quotate nei mercati regolamentati potranno esercitare l’opzione per il consolidato fiscale mondiale anche qualora siano controllate da altra società residente e, quindi, anche se non sono le controllanti di livello più elevato soggette ad IRES; inoltre, non potranno esercitare l’opzione in parola le società controllate da persona fisica e si qualificano a loro volta quali soggetti controllanti di altre società, residenti ovvero non residenti. Infatti, come chiarito anche nella Relazione di accompagnamento al D.lgs. n. 344/2003 se un gruppo familiare controlla due holding una delle quali si qualifica per l’esercizio dell’opzione questa non potrà essere esercitata. Non possono optare per il Consolidato in qualità di società controllante italiana le società di persone residenti, gli enti residenti che non hanno per oggetto esclusivo o principale l’esercizio di attività di impresa, nonché gli enti non residenti; tali soggetti non potranno esercitare l’opzione in parola neanche qualora dispongano di una stabile organizzazione nel territorio dello Stato nel cui patrimonio sia compresa la partecipazione in ciascuna società controllata, ipotesi questa tra l’altro francamente poco verificabile da un punto di vista pratico controllante residente di grado più elevato può esercitare l’opzione con tutte le proprie società controllate non residente per la determinazione di un unico reddito imponibile consolidato, da determinarsi proporzionalmente alle partecipazioni in queste detenute6.
secondo il paragrafo 9 dello IAS 24 (omologato dalla Commissione Europea e pubblicato con il regolamento n. 2238/2004 nella Gazzetta ufficiale dell’Unione Europea del 31 dicembre 2004, L 394) una parte è correlata a un’entità se: a) direttamente o indirettamente attraverso uno o più intermediari la parte controlla l’entità, ne è controllata, oppure è sotto controllo comune, detiene una partecipazione nell’entità tale da poter esercitare un’influenza notevole su quest’ultima o controlla congiuntamente le entità; b) la parte è una società collegata dell’entità; c) la parte è una joint venture in cui l’entità è una partecipante; d) la parte è uno dei dirigenti con responsabilità strategica dell’entità o della sua controllante; e) la parte è uno stretto familiare di uno dei soggetti indicati nei punti a) o d) che precedono; f) la parte è un’entità controllata, controllata congiuntamente o soggetta ad influenza notevole da parte di uno dei soggetti di cui ai punti d) o e), ovvero tali soggetti detengono, direttamente o indirettamente, una quota significativa dei diritti di voto, o g) la parte è un piano per beneficio successivi alla fine del rapporto di lavoro a favore dei dipendenti delle entità, o di una qualsiasi altra entità ad essa correlata. Come evidenziato nello stesso documento elaborato dal Consiglio Nazionale dei Dottori Commercialisti e degli Esperti Contabili, non sono parti correlati due società che hanno in comune un amministratore, ovvero un dirigente con responsabilità strategiche, né due società partecipanti per il solo fatto di detenere il controllo congiunto di una joint venture. 6 Cfr., in dottrina, F. Tesauro, Aspetti internazionali della riforma fiscale, in Fiscalità Internazionale,
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A differenza di quanto previsto in tema di Consolidato fiscale nazionale – dove, come noto, il soggetto controllante residente deve essere un soggetto passivo IRES – nel Consolidato fiscale mondiale il soggetto controllante italiano dovrà soddisfare l’ulteriore requisito di essere in assoluto il soggetto controllante di grado più elevato, ossia deve essere posto al vertice del gruppo7 – sia a livello nazionale che internazionale e questo al di garantire che l’opzione in commento interessi tutte le società controllate, residenti e non; ne deriva che le società controllanti residenti a loro volta controllate dall’estero sono escluse non possono esercitare l’opzione in commento. Autorevole dottrina8 ha osservato che tale spe-
2003, pp. 427 e ss., M. Greggi, La fiscalità dei gruppi di società: profili tributari comparati, in Rass. trib., 2002, pp. 1953 e ss. 7 La disciplina italiana del Consolidato, quindi, a differenza di quella adottata in altri ordinamenti, si rivolge a modelli organizzativi di tipo verticistico. Per un’analisi comparata del modelli di consolidamento introdotti in altri ordinamenti europei, cfr., in dottrina, G. Marongiu, Istituto del consolidato fiscale nell’esperienza tedesca dell’Organschaft, in Riv. Dir. Trib., 2004, IV, p. 202 e ss.; B. Aloisi, P. Carabellese, Il consolidato fiscale in Italia e in altri Paesi europei, in Corr. trib., n. 41/2002, pp. 307 ss., degli stessi Autori Il consolidato fiscale in Germania, Olanda, Spagna e Regno Unito, in Corr. trib., n. 45/2002, pp. 4099 ss.; W. Blumers, German Tax Ground relief: Organschaft, in Tax planning International European Union focus, giugno 2001.; F. Rasi, La tassazione dei redditi societari in ambito U.E. Il nuovo modello italiano a confronti con i sistemi degli altri Paesi, in Rass. trib., n. 5/2004, pp. 1789 e ss.; A. Crosti, Il consolidato fiscale mondiale: «benefice consolidé» francese e «consolidato mondiale» italiano, in Fiscalità internazionale, n. 2/2005, pp. 101 e ss.; A. Crosti, Consolidato fiscale mondiale italiano e «benefice consolidé» francese, in Forum Fiscale, n. 11/2005, pp. 92 e ss.; J. A. Borrat, A. Bassière, Imposition des groupes des sociétés, 2004 Ifa Congress, vol. 89B, pp. 271 ss.; Fondazione Luca Pacioli, documento del 19 giugno 2002, n. 17, Appunti comparatistici per l’introduzione in Italia della tassazione di gruppo; P. Jussi, Fiscalità di gruppo: analisi comparativa Francia-Italia, in Il Fisco - Rass. fisc. internaz., n. 49/2000, pp. 42 ss.; N. Melot, Territorialitè et mondialitè de l’impot, Dalloz 2004, pp. 643 ss.; B. Gothière, Les impots dans les affaires, Editions Francis Lefebvre, 1995-1996, pp. 65 e ss.; L. Cerioni, The possible introduction of Common Consolidated Base Taxation via Enhanced Cooperation: Some Open Issues, in European Taxation, 2006, p. 187 ss.; J. Hernler, European Tax Allocation System (ETAS): A proposal for Consolidated European Tax System, in European Taxation, 2004, p. 246 ss; Westberg B., Consolidated Corporate Tax Bases for EU-Wide Activities: Evaluation of Four Proposals Presented by the European Commission, in European Taxation, 2002, p. 322 ss.; A. Del Sole, L’armonizzazione delle imposizioni societarie nell’Unione Europea, in Fiscalità internazionale, 2004, pp. 135 ss.; D. Anderson, Taxation of UK Branches on Non-UK Companies, in European Taxation, 2003, p. 427 ss.; P. Valente, Base imponibile consolidata. Profili nazionali e internazionali, in Rass. fisc. internaz., 2003, pp. 111 ss.; dello stesso Autore, Tassazione consolidata nei gruppi di imprese, in Il Fisco – Rass. fisc. internaz., n. 27/2001, pp. 189 ss.; Base imponibile consolidata: profili nazionali e internazionali e prospettive comunitarie, in Rass. fisc. internaz., n. 2/2003, D. Stevanato, La tassazione dei gruppi europei: l’Home State Taxation quale alternativa al consolidato «mondiale», in Rass. trib., n. 4/2003, pp. 1248 e ss.; P. Valente, Base imponibile consolidata: profili nazionali e internazionali e prospettive comunitarie, in Rass. fisc. internaz., n. 2/2003, 8 Cfr. G. Zizzo, op. cit., p. 310
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cifica condizione (ossia che il soggetto controllante italiano sia posto al vertice della catena di controllo) possa essere interpretata sia nel senso che la società controllante deve essere di grado più elevato e residente, così come riteniamo, sia che tale società sia di grado più elevato quale residente. Al riguardo, ci sembra corretto ritenere che il soggetto controllante residente che esercita l’opzione per il consolidato fiscale mondiale debba essere quello di grado più elevato in senso assoluto, con la conseguenza che all’interno del gruppo non possa esistere un soggetto di grado ancora più elevato, neppure se residente all’estero9. A seguito dell’esercizio dell’opzione, vincolante per un periodo non inferiore a 5 esercizi (i successivi rinnovi non possono avere una durata inferiore a 3 esercizi), al soggetto consolidante controllante di grado più elevato sono imputati, indipendentemente dalla distribuzione10 i redditi, ovvero le perdite, di tutte le proprie società consolidate non residenti per la quota corrispondente alla quota di partecipazione agli utili, tenuto contro della demoltiplicazione11 determinata dalla catena societaria di controllo.
9 Cfr. in senso contrario, [?.] Girolamo, [?.] Rossi, [?.] Scarioni, L’imposta sulle società nel progetto di riforma, in Quaderni di formazione della Scuola Superiore dell’Economia e delle Finanze, 2002, pp. 49 ss., i quali hanno ritenuto che il soggetto di grado più elevato tra quelli residenti in Italia non sarebbe necessariamente quello di grado più elevato all’interno del gruppo, potendo esistere all’interno dello stesso gruppo un soggetto di grado ancora più elevato non residente nel territorio dello Stato. 10 Come ritenuto da autorevole dottrina, cfr. A. Fantozzi, I Rapporti di gruppo, Atti del Convegno Cesifin «La riforma dell’imposta sulle società»Firenze, Palazzo degli Affari, 23 gennaio 2004, p. 19, «È agevole inferire il significato sistematico della struttura applicativa del consolidato mondiale. Muovendo da una sorta di presunzione di interposizione, il legislatore ha disciplinato l’imputazione dei redditi delle c.d. CFC secondo una logica intermedia tra quella dell’appartenenza propria delle stabili organizzazioni e quella della trasparenza propria delle società di persone. Ha disposto, infatti, la rideterminazione del reddito dell’impresa estera ad opera della controllante residente secondo le regole nazionali e tuttavia l’imputazione di tale reddito soltanto in proporzione alla partecipazione. In tal caso, l’imputazione del reddito della controllata estera alla controllante residente si giustifica in termini di capacità contributiva per la finalità anti-elusione della disposizione, che muove dall’implicita presupposizione che il reddito estero, almeno pro quota, sia nell’effettiva disponibilità della controllante residente. Benché la finalità sia differente, anche la struttura del consolidato mondiale si muove nella stessa logica intermedia tra appartenenza e trasparenza. In tal caso, tuttavia, l’imputazione del reddito estero alla controllante residente non risponde ad una presunzione di disponibilità, ma si giustifica con la finalità agevolativa e la corrispondente facoltatività dell’imputazione, che muove dall’implicita presuppozione che l’opzione sia utilizzata soltanto ove oggetto di imputazione sia una perdita complessiva». 11 Come osservato dalla dottrina, G. Lenzi, D. Stevanato, R. Lupi, Le perdite delle consociate estere nell’IRES: il consolidato mondiale e il principio all in, all out» in Dialoghi di Diritto tributario, n. 1/2004, pp. 71 e ss., «a causa del meccanismo del demoltiplicatore è possibile sottrarre dal consolidato una o più società estere semplicemente collocandole ai più bassi gradini della catena di controllo, con ciò svuotando in parte il principio all in, all out»
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Al riguardo, autorevole dottrina12 ha ritenuto che la necessità, ai fini del consolidamento, di esercitare l’opzione per tutte le società consolidate non residenti pur essendo «probabilmente giustificata dalla circostanza che le società non residenti sono soggette a regimi impositivi diversi tra loro e comunque diversi da quelli italiani di guisa che la società controllante residente potrebbe sfruttare tale diversità ed esercitare l’opzione esclusivamente per le società residenti aventi un regime impositivo elevato per le società in perdita fiscale» non appare sufficiente a giustificare una «discriminazione rispetto al regime del consolidato nazionale», nel quale, come noto, la società controllante italiana (che, tra l’altro, non deve essere neanche quella di grado più elevato) può scegliere quali delle società controllate italiane consolidare. In effetti, come osservato dallo stesso Autore, il consolidamento selettivo delle controllate essere, volto ad esempio, ad includere per solo motivi di opportunità fiscale nel Consolidato le società in perdita, ovvero quelle soggette ad un regime impositivo più elevato di quello italiano, avrebbe potuto essere evitato non già con un obbligo (quale quello del consolidamento di tutte le controllate non residenti) ma forse attraverso la previsione di norme antielusive ad hoc – come ad esempio quelle relative al riporto delle perdite delle società estere nei limiti previsti anche se in tema di fusioni dal comma 7 dell’172 del TUIR, finalizzate a scongiurare siffatti comportamenti13. Inoltre, la stessa dottrina ha evidenziato che un secondo profilo di possibile incompatibilità del Consolidato fiscale mondiale con il diritto comunitario potrebbe anche discendere dalla circostanza solamente la società residente apicale (ossia posto al vertice della catena di controllo) possono esercitare, al ricorrere delle altre condizioni previste dalla normativa, per il regime del Consolidato; infatti, se la norma come interpretata appare rispondere ad una finalità antielusiva14, «appare essere ancora
12 Cfr. G. Maisto, op. cit., p. 742. L’autorevole Autore nella nota 193 di p. 742 ha ritenuto che «pertanto, la condizione aggiuntiva posta dalla lett. b) del comma 1 dell’art. 4 – consolidamento per tutte le società controllate – appare sproporzionata alla esigenza che tale misura intende assolvere, rappresentando una ingiustificata restrizione al diritto di stabilimento in altri Stati membri nella misura in cui la costituzione di una società in un altro Stato membro è scoraggiata rispetto alla costituzione di una società controllata residente in Italia per la quale la controllante può esercitare la facoltà del consolidamento». Viene citata, al riguardo, la sentenza della Corte di Giustizia UE 6 aprile 2000, C-264/96 «Imperial Chemical Industre PLC (ICI)» e, in particolare, il paragrafo 22 nel quale viene evidenziato che la particolare controversa posta alla Corte di Giustizia UE riguardava la limitazione del diritto di stabilimento da parte dello Stato membro di stabilimento primario e non da parte dello Stato membro di stabilimento ospitante (rectius: Stato membro di stabilimento secondario). Cfr., in dottrina, anche K. Van Raad, The Impact of the EC Treaty’s Fundamental Freedoms provisions on EC Member States’ Taxation, Border-Crossing Situations – Current State of Art, in EC Tax Review, 1995, pp. 190 e ss. 13[MANCA TESTO NOTA 13] 14 Osserva, infatti G. Maisto, op. cit., pag 744, «la necessità che la società controllante di grado più elevato sia al contempo residente in Italia sembra rispondere ad una preoccupazione antielusiva.
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una volta sproporzionata in rapporto all’esigenza che intende tutelare, rappresentando [anche in questo caso] una ingiustificata restrizione al diritto di stabilimento in Italia da parte di soggetti non residenti». Pur nella consapevolezza dell’esistenza dei (possibili) profili di contrato, in precedenza menzionati, con il diritto comunitario15 va comunque osservato che Consolidato mondiale che, a giudizio di alcuni Autori16, «costituisce un debole
Il principio “all in, all out” infatti, potrebbe essere aggirato, in presenza di una capogruppo non residente, mediante l’attribuzione alla capogruppo estera delle società partecipate estere che non si intende consolidare, mantenendo in capo alla sub-holding italiana le sole società estere che si intende ricomprendere nell’area di consolidamento». Pur comprendendo le preoccupazioni di fondo che hanno indotto il nostro Legislatore ad una formulazione della norma come quella attuale, va, tuttavia, osservato che probabilmente lo stesso risultato del consolidamento selettivo delle controllate estere potrebbe essere ottenuto attribuendo non alla capogruppo estera ma ad una società estera del gruppo le partecipazioni nelle altre società non residenti che non si intende consolidare, attuando, in tal modo, un consolidamento selettivo delle partecipate estere. Cfr., su tale tematica anche A. Simoni, Il riconoscimento fiscale dei gruppi di imprese: analisi e confronto dei due modelli previsti dalla Riforma Tremonti, Parte Prima, in Boll. trib., n. 11/2003, pp. 811 e ss.; M. Greggi, op. cit.; M. Miccinesi, Il Consolidato mondiale nella riforma del sistema fiscale statale, Atti del Convegno Ipsoa, Roma, 23 ottobre 2003. A dire il vero, … [MANCA TESTO] 15 Con particolare riferimento al principio di non discriminazione in materia fiscale cfr. in dottrina V. Uckmar, Corso di diritto tributario internazionale, Padova, 2002, pp. 599 ss.; F Amatucci, Il principio di non discriminazione fiscale, Padova, 1998; dello stesso Autore L’interpretazione e l’applicazione del principio di non discriminazione nell’ordinamento tributario italiano, in Riv. dir. trib., 1999, parte I, pp. 182 ss.; Avery Jones, The non discrimination articles in tax treaties, in British Tax Review, 1991, pp. 359 ss.; P. Adonnino, Il principio di non discriminazione nei rapporti tributari tra Paesi membri secondo le norme Cee e la giurisprudenza della Corte di Giustizia delle Comunità europee, in Riv. dir. fin., 1993, parte I, p. 63; dello stesso Autore Il principio di non discriminazione nella fiscalità internazionale, in Riv. dir. fin., 1999, parte I, pp. 173 ss.; F. Vanistendael, Tax evolution in Europe, the impact of the non discrimination, in European Taxation, 2000, parti I e II, pp. 3 ss.; G. Melis, Libertà di stabilimento dei lavoratori, Libertà di stabilimento e principio di non discriminazione nell’imposizione diretta. Note sistematiche sulla giurisprudenza della Corte di Giustizia delle Comunità europee, in Rass. trib., 2000, pp. 455 ss.; G. Maisto, Unione Europea e coordinamento delle politiche fiscali degli stati membri in materia di convenzione fiscale, in Riv. dir. trib., 2004, parte IV, pp. 76 ss. Va comunque osservato che tale principio non va interpretato il senso assoluto, dal momento che esistono ipotesi che sembrano giustificare l’esistenza di situazioni discriminatorie come, ad esempio, nel caso della c.d. «coerenza del sistema fiscale» affermata per la prima volta nella sentenza della Corte di Giustizia 28 gennaio 1992, C-204/1990, caso « Bachman». Per un commento a tale principio, nonché a tale sentenza, si veda M. Procopio, Agevolazioni fiscali: tra abuso del diritto e limitazioni delle libertà di prestazione di servizi e di stabilimento, in Dir. prat. trib., gennaio-febbraio 2010, Parte seconda, pp. 4 e ss. 16 L’espressione è di R. Lupi (cfr. Le perdite delle consociate estere nell’IRES: il consolidato mondiale e il principio «all in, all out» in Dialoghi di Diritto tributario, n. 1/2004, p. 82); l’autorevole Autore chiarisce che «le minusvalenze e le svalutazioni sono state rese fiscalmente e irrilevanti dalla adozione dalla participation exemption, ma sarebbe stato irragionevole negare la deduzione diretta delle perdite realizzate dalle società controllate, anche perché altrimenti si sarebbe discriminato a danno dei gruppi che, per loro esigenze interne, non riuscivano a trasformarsi in una struttura
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sostituto della possibilità di dedurre, attraverso minusvalenze e svalutazioni [delle partecipazioni17], le perdite sostenute dalle società del gruppo» presenta il vantaggio – forse da solo insufficiente di per se a determinare il successo dell’istituto – derivante dall’immediato utilizzo, da parte del soggetto controllante italiano di grado più elevato, delle eventuali perdite prodotte dalle proprie controllate non residenti, con il conseguente ottenimento di un beneficio – di carattere prima finanziario e poi economico – consistente nella immediata compensazione nello stesso esercizio degli utili della consolidante con le perdite prodotte dalle società consolidate. In altri termini, il Consolidato garantendo la possibilità della compensazione immediata di tali componenti reddituali, permette di ottenere un beneficio di carattere temporaneo, dal momento che, ad esempio, qualora la perdita della società controllata non residente consolidata fosse recuperabile in cinque anni la società controllante, optando con tutte le proprie consolidate non residenti per il Consolidato, godrebbe di un beneficio di carattere finanziario, consistente appunto nell’accelerazione del recupero della perdita estera nello stesso esercizio in cui si è optato per il Consolidato. Ovviamente, qualora detta perdita non fosse recuperabile, l’esercizio dell’opzione per il Consolidato permetterebbe di ottenere un beneficio di carattere non temporaneo ma assoluto. In definitiva, quindi, qualora le aliquote effettive di imposizione sui redditi societari vigenti nei Paesi in cui sono residenti le società estere controllate da consolidare siano superiori all’aliquota IRES italiana, l’esercizio dell’opzione per il consolidato fiscale nazionale risulterà conveniente per ovvie ragioni: infatti, attraverso il consolidamento degli imponibili in capo alla società controllante italiana detti redditi saranno assoggettati ad una tassazione inferiore nel nostro Paese. Viceversa, qualora dette aliquote dovessero essere inferiori alla corrispondente aliquota IRES italiana, il ricorso al consolidato sarà conveniente solamente qualora tra le società controllate non residenti da consolidare siano presenti delle società con perdite fiscali; in tale circostanza, infatti, la compensazione di tali perdite fiscali, riducendo il reddito imponibile consolidato italiano compensa lo svantaggio derivante dalla
c.d. “multidivisionale”». 17 Va ricordato, infatti, che l’introduzione del Consolidato fiscale mondiale ha avuto anche l’obiettivo di porsi quale correttivo alla indeducibilità delle minusvalenze su partecipazioni; tuttavia, con particolare riferimento al previgente meccanismo, ora abrogato, della svalutazione delle partecipazioni, va osservato che le possibilità ora offerte dal Consolidato Fiscale Mondiale sono peggiorative rispetto alle precedenti. Infatti, , ad esempio, il precedente meccanismo di svalutazione delle partecipazioni operava con riferimento alla generalità delle partecipazioni estere, indipendentemente dall’esistenza di un vincolo di controllo e non si applicava, quindi, esclusivamente alla società controllante residente di grado più elevato. Cfr. in dottrina, F. Rossi Ragazzi, I nuovi limiti delle svalutazioni di partecipazioni indicizzate, in Il Fisco, 2002, p. 16406 ss.; cfr. anche la circolare dell’Agenzia delle Entrate n. 85/2002, nonché le circolari Assonime n. 70/2002 e 71/2002.
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tassazione degli imponibili delle società controllate estere con una maggiore aliquota sui redditi societari. Va, tuttavia, osservato che alcune caratteristiche proprie del Consolidato – quali, ad esempio, il consolidamento degli imponibili tutte le società estere del gruppo, senza la possibilità di scegliere quali società escludere o includere nella tassazione di gruppo18, ovvero la durata irrevocabile di 5 esercizi dello stesso, hanno di fatto fortemente limitato l’accesso a detto regime da parte delle imprese italiane (ad oggi infatti, a quanto è dato sapere, non più di una decina di gruppo multinazionali italiano hanno aderito alla tassazione di gruppo su base mondiale). Tutte le caratteristiche in precedenza descritte impongono quindi alla società capogruppo una accurata analisi di convenienza dell’istituto del consolidato fiscale mondiale. 5.1.1
La nozione di società controllate non residenti nel Consolidato Fiscale Mondiale Il comma 1 dell’art. 133 del TUIR individua il c.d. «perimetro di consolidamento», prevedendo che si considerano controllate le società ed enti non residenti le cui azioni, quote, diritti di voto o di partecipazione agli utili, sono possedute direttamente o indirettamente, per una percentuale superiore al 50%. In particolare, ai sensi di tale norma il soggetto controllante italiano, tenuto conto della eventuale demoltiplicazione19 prodotta dalla catena societaria di controllo, deve:
18 Su tale aspetto, alcuni Autori (cfr., G. Lenzi, D. Stevanato, R. Lupi, op. cit., p. 81) ritengono che operazioni di riorganizzazioni societarie volte allo spostamento di una società controllata estera in fondo alla catena societaria, attuata esclusivamente allo scopo di sfuggire al suo consolidamento, ovvero alla esclusione, attraverso il meccanismo del demoltiplicatore, delle società controllate estere dall’area di consolidamento non dovrebbero essere considerate elusive dalla nostra Amministrazione finanziaria. Allo stesso modo non dovrebbe considerarsi elusivo ogni comportamento volto a ridefinire il perimetro di consolidamento. 19 Al riguardo, autorevole dottrina (cfr., G. Lenzi, D. Stevanato, R. Lupi, Le perdite di consociate estere nell’IRES: il consolidato mondiale e il principio «all in, all out», in Dialoghi di diritto tributario, n. 1/2004, p. 80), ha ritenuto che «il meccanismo del demoltiplicatore, nel consolidato mondiale, può produrre una significativa riduzione (se non uno svuotamento) dell’area di operatività del principio «all in, all out»: semplicemente collocando una certa consociata estera ai più bassi gradini della catena societaria, se ne può evitare il consolidamento, altrimenti obbligatorio». Gli Autori osservano inoltre che «l’utilità del demoltiplicatore è tale soprattutto nel consolidato nazionale, dove altrimenti, grazie al meccanismo di imputazione integrale dei redditi delle società controllate indirettamente, si sarebbe consentito alla compagine espressione della controllante di beneficiare della compensazione delle perdite spettanti sostanzialmente, per la maggior parte, ad altri soggetti (le compagini di minoranza). Nel consolidato mondiale, invece, opera già il principio di imputazione proporzionale, e quindi la demoltiplicazione riduce anche l’ammontare dell’imponibile (e dunque dell’eventuale perdita) imputabile alla controllante di grado più elevato, scongiurando così il rischio sopra evidenziato (l’appropriazione da parte della capogruppo di rilevanti
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• possedere in modo diretto o indiretto più del 50% delle azioni o delle quote emesse dalla società non residente controllata; • possedere in modo diretto o indiretto più del 50% dei diritti di voto della società non residente controllata; • partecipare in modo diretto o indiretto all’utile della società partecipata non residente in misura superiore al 50%20. Il ruolo di società controllata potrà essere assunto da qualsiasi società o ente, con o senza personalità giuridica, non residente nel territorio dello Stato, ancorché residenti in Stati o territori a regime fiscale privilegiato. La norma quindi non richiede che la società estera sia assoggettata a tassazione nel proprio Stato di residenza, ben potendo questa essere esclusa ovvero esentata da imposizione anche per effetto di rulings eventualmente stipulati con le autorità fiscali estere. Analoghe considerazioni valgono nel caso in cui le società estere, in quanto destinatarie delle disposizioni previste dalle direttive comunitarie in materia di dividendi, nonché di interessi e royalties, siano sottoposte ad una tassazione effettiva particolarmente lieve. Ovviamente in tali ipotesi è di tutta evidenza che non si avrebbe nessun interesse a consolidare tali società, dal momento che la naturale conseguenza dell’esercizio dell’opzione per il Consolidato fiscale mondiale sarebbe la tassazione di tali redditi esteri con un’aliquota di imposta maggiore rispetto a quella a cui sarebbero assoggettati nel Paese estero. La norma, inoltre, esclude espressamente che possano essere consolidati i redditi prodotti da stabili organizzazioni di soggetti controllati non residenti nei confronti delle quali sarebbe difficile ipotizzare, tra l’altro, anche una situazione di controllo da parte di un soggetto italiano. Particolare potrebbe essere il caso in cui un soggetto controllato non residente disponga in uno Stato estero di una stabile organizzazione per mezzo della quale esercita la propria attività; in tale
quote di perdite economicamente spettanti a soggetti terzi, estranei al gruppo). In questo contesto, ovvero nel consolidato mondiale il demoltiplicatore finisce invece per produrre effetti opposti a quelli di tutela delle ragioni erariali, per la possibilità di un utilizzo strumentale dell’istituto, quale meccanismo in grado di evitare i rigori del principio all in, all out), il quale parrebbe così – a prima vista suscettibile – di un vero e proprio “aggiramento”». Cfr., su tale argomento, anche G. Turri, Riforma fiscale: disciplina del consolidato mondiale, in Dir. prat. trib., 2006, p. 114). 20 In dottrina (cfr. B. Izzo, L. Miele, Il consolidato si affida alla base unica. Occorre partecipare agli utili, in Il Sole 24 Ore, 7 giugno 2003) è stato ritenuto che la necessità che il soggetto controllante italiano partecipi agli utili delle società partecipate estere ha di fatto ristretto l’ambito di applicazione soggettivo dello stesso consolidato. Al riguardo, si osserva che non potranno esercitare l’opzione in parola quei soggetti che detengono le partecipazioni in società controllate estere a titolo diverso dalla piena proprietà, quali il creditore pignoratizio, l’usufruttuario, ovvero il nudo proprietario che sebbene possano esercitare il diritto di voto nell’assemblea ordinaria della società partecipata non partecipano alla distribuzione degli utili. Cfr., su tali tematiche, in dottrina P. Scarioni, G. Rossi, Consolidato fiscale domestico, in Boll. trib., 2002, pp. 1132 ss.
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ipotesi infatti il reddito da questa prodotto, benché assoggettato a tassazione in un terzo Stato, concorre comunque a formare il reddito del soggetto non residente da includere, al ricorrere delle condizioni previste dalla normativa, nel reddito imponibile consolidato. Inoltre, ci si potrebbe chiedere se i redditi prodotti da una stabile organizzazione debbano essere inclusi nel reddito consolidato anche qualora, ad esempio, una convenzione internazionale contro le doppie imposizioni preveda l’esenzione nello Stato della società madre dei redditi prodotti dalle proprie stabili organizzazioni estere. 5.1.2
Controllo di soggetti non residenti detenuto per il tramite di sub-holding intermedie residenti Nel caso particolare in cui il controllo sulle società non residenti sia detenuto dal soggetto controllante residente per il tramite di sub-holding intermedie residenti, l’esercizio dell’opzione per il Consolidato fiscale mondiale sarà subordinata alla circostanza che la società controllante opti con ciascuna delle società controllare residenti per il Consolidato fiscale nazionale21. In tal caso, la quota di reddito di ciascuna società controllata non residente che deve essere inclusa nella base imponibile del Consolidato corrisponde alla somma delle quote di partecipazione detenute da ciascuna controllata residente; per effetto di tale sommatoria si determina di fatto un ampliamento22 dell’ambito soggetto di applicazione del Consolidato, dal momento che di fatto sono incluse in esso anche società estere che invece, per effetto dell’applicazione dell’effetto demoltiplicativo della catena societaria di controllo, ne potrebbero invece essere escluse. In altri termini, tale ampliamento dell’ambito applicativo deriva dal fatto che la demoltiplicazione della catena di controllo non opera con riferimento alle
21 Cfr. il comma 2 dell’art. 130 , rubricato «Soggetti ammessi alla determinazione della unica base imponibile per gruppo di imprese non residenti» il quale dispone che «nel caso in cui la partecipazione in una controllata non residente sia detenuta in tutto o in parte per il tramite di una o più controllate residenti, per la validità dell’opzione di cui al’art. 130 [per il Consolidato fiscale mondiale] è necessario che la società controllante e ciascuna di tali controllate residenti esercitino l’opzione di cui alla sezione II [opzione per Consolidato fiscale nazionale]. In tal caso la quota di reddito della controllata non residente da includere nella base imponibile del gruppo opzione corrisponde alla somma delle quote di partecipazione di ciascuna società residente di cui la presente comma». 22 Così si esprime G. Maisto, op. cit., p. 743 (in particolare, nota 105); l’autorevole Autore ritiene infatti che «preme rilevare che per effetto della sommatoria delle quote di partecipazione detenute da ciascuna società residente, si determina di fatto un ampliamento dell’ambito applicativo del consolidato mondiale, in quanto la demoltiplicazione della catena societaria di controllo non opera con riguardo alle partecipazioni nelle società non residenti detenute in tutto o in parte per il tramite di società controllate residenti. Esemplificando, una società controllante residente che detiene il 60% di una società residente la quale a sua volta detiene il 60% di una società non residente deve consolidare la società estera».
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partecipazioni detenute nelle società non residenti in tutto o in parte per il tramite di società controllate residenti, ma rileva esclusivamente a partire dalla società controllata residente di grado inferiore. Al riguardo, alcuni autorevoli Autori23 hanno osservato che «poiché il reddito della controllata non residente viene imputato alla controllante solo per la quota di sua pertinenza, ignorare la diluizione della partecipazione prodotta dalla catena societaria comporterebbe l’inclusione nel consolidato di controllate i cui redditi sono imputabili alla controllante in una percentuale modesta, con oneri (per la controllante) non corrispondenti ai benefici (per l’Erario)». Ad esempio, nel caso in cui una holding residente A detiene una partecipazione pari al 60% in un’altra società B anch’essa residente che, a sua volta partecipa una società non residente C per il 70%, in conseguenza dell’obbligo di consolidamento A e B equivalgono ad un unico soggetto; in altri termini, il consolidamento nazionale A+B ha il controllo della società non residente nella misura del 70%. In questa ipotesi, la quota di reddito di C da includere nella base imponibile del gruppo (rectius: consolidato nazionale, ossia (A+B) deve corrispondere alla quota di partecipazione detenuta da B in C, pari la 70%24 (v. tavola 5.1)
Tavola 5.1 A ITALIANA 60% B ITALIANA 70% C ESTERA
E ancora, se una società controllante residente A detiene il 55% di una società
23 Cfr. G. Zizzo, op. cit., p. 312. 24 Cfr. in dottrina M. Campra, Consolidato fiscale mondiale, in Contabilità e bilancio, n. 10/2001, pp. 911 ss., l’esempio proposto dall’Autrice è quello relativo ad una società A residente in Italia che controlla al 60% una società B anch’essa residente che, a sua volta controlla al 70% una società D non residente. In tale ipotesi, se A vuole optare per il consolidato fiscale mondiale, A e B devono fare opzione bilaterale per il consolidato fiscale nazionale. Con l’esercizio di detta opzione, A e B diventano equivalenti ad un unico soggetto, con la conseguenza che il consolidato nazionale ha il controllo di D nella misura del 70%.
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residente B, la quale a sua volta detiene il 55% di una società estera, la società A dovrà consolidare la società estera, anche se per effetto della demoltiplicazione della catena societaria di controllo si trova a detenere il 30,25% (55% di 55%) della società non residente, quota di partecipazione che di per se non darebbe ad A la possibilità di consolidare la società non residente. Come in precedenza osservato, quindi, il controllo detenuto nelle società non residente (nella tavola 5.1 la società C estera) che sarà considerato rilevante ai fini del consolidamento sarà quello detenuto dall’ultima società controllata intermedia residente di grado inferiore nelle società controllate non residenti. Nell’esempio proposto, quindi, la controllante residente di grado più elevato A è ciascuna delle proprie controllate residenti dovranno optare per il Consolidato fiscale nazionale, con la conseguenza che le partecipazioni nelle società non residenti confluiranno al soggetto controllante residente, inteso fiscalmente quale gruppo residente consolidato. Si ipotizzino inoltre le strutture raffigurate nella tavola 5.2. In tale ipotesi, la società controllante italiana A detiene il 70% di due sub-holding italiane sorelle tra loro B e C; la società B controlla il 100% della società D estera, mentre la società C controlla il 60% della società E estera. Ai fini del consolidato mondiale, la società controllante A e ciascuna delle due controllate B e C residenti dovranno esercitare l’opzione per il consolidato fiscale nazionale; gli utili e le perdite di D saranno imputate alla società A consolidante nella misura del 100%, mentre gli utili e le perdite della società E saranno assunte da A nella misura del 60%, anziché che in quella del 42%. A e C infatti formano a tal fine un unico soggetto, come se la capogruppo italiana A detenesse direttamente la partecipazione del 60% nella società estera E, anziché attraverso C. Nella tavola 5.3, la società capogruppo italiana A deve consolidare nella misura del 70% i redditi e le perdite della società B; per effetto del meccanismo del demoltiplicatore gli utili della società estera C, partecipata indirettamente dal soggetto A per il 42%, sarebbero esclusi dal consolidamento.
5. HOLDING E CONTROLLATE ESTERE
Tavola 5.2 A ITALIA
70%
70% C ITALIA
B ITALIA 100%
60%
D
E
Consolidato fiscale nazionale tra A e B
Consolidato fiscale nazionale tra A e C
Tavola 5.3 A ITALIANA
60%
B ESTERA 70%
C ESTERA
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Nella tavola 5.4, la società consolidante italiana A detiene il 60% di due sub-holding italiane B e C; entrambe controllano la società C estera nella misura rispettivamente del 60% e del 70%. Ai fini del consolidato mondiale, la società controllante A e ciascuna delle due controllate B e C residenti dovranno esercitare l’opzione per il consolidato fiscale nazionale; inoltre, in tale ipotesi, la quota di reddito della società non residente D che dovrà essere inclusa nella base imponibile di gruppo corrisponde alla somma che B e C detengono in D. In questo caso quindi la quota di reddito di D da imputare nella base imponibile del gruppo è pari al 78% (36% + 42%).
Tavola 5.4 A ITALIA
60%
60% A ITALIA
A ITALIA
60%
70%
D
Consolidato fiscale nazionale tra A e B Consolidato fiscale nazionale tra A e C
L’obbligo di consolidare ciascuna delle proprie società controllate residenti non ci sembra tuttavia, immune da critiche. Innanzitutto, va osservato che per effetto di tale regola, nell’ipotesi più complessa del controllo detenuto dalla capogruppo italiana in società estere per il tramite di svariate società intermedie residenti, sarà sufficiente che una sola di esse detenga il controllo di una società non residente per far sorgere l’obbligo di consolidarla, anche se di fatto la capogruppo italiana non è la sua controllante. Con il risultato di consolidare, ad esempio, una società di cui non si ha il controllo, neanche indiretto. Certo il consolidamento (nazionale) della società intermedia diretta controllante della società estera con la società capogruppo equivale (probabilmente in maniera piuttosto grossolana!) al consolidamento diretto della controllata non residente, ma non va comunque dimenticato che le regole sottese alla determinazione del reddito dei due modelli di consolidamento previsti dal nostro Legislatore sono
5. HOLDING E CONTROLLATE ESTERE
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per certi versi non perfettamente identiche tra loro. Infatti, non va trascurata la circostanza che la funzione dei due modelli di consolidamento, quello nazionale e quello estero, per quanto simile non è del tutto coincidente25. Inoltre, come osservato in precedenza osservato, il comma 2 dell’art. 130 del TUIR pone l’obbligo del Consolidato fiscale nazionale tra la capogruppo e ciascuna delle controllate intermedie residenti, circostanza questa che ci sembra in contrasto con quanto previsto in tema di Consolidato fiscale nazionale, la cui disciplina prevede invece che il soggetto controllante italiano possa scegliere quale delle proprie controllate residenti consolidare. A ciò si aggiunga che, da un punto di vista pratico, l’aver ampliato per effetto di tale meccanismo l’ambito di applicazione del Consolidato ha nei fatti contribuito probabilmente a complicare notevolmente e scoraggiare l’utilizzo da parte dei contribuenti di tale istituto. Tuttavia, non manca chi in dottrina26 ha comunque sottolineato che l’obbligo della società controllante residente di consolidare ognuna delle proprie società controllate residenti rappresenta una soluzione opportuna, in quanto – «permette di conteggiate per intero (e non per la sola quota di pertinenza della capogruppo) i redditi e le perdite che affluiscono al vertice del gruppo dalle controllate estere». 5.1.3
Le condizioni di efficacia dell’opzione e gli effetti del consolidamento Come disposto dall’art. 132 del TUIR, permanendo il requisito del controllo, l’efficacia dell’opzione per il Consolidato fiscale Mondiale è subordinata al verificarsi delle seguenti condizioni:
25 Al riguardo, autorevole dottrina – cfr. A. Simoni, Il riconoscimento fiscale dei gruppi di imprese: analisi e confronto dei due modelli previsti dalla riforma Tremonti, Parte Prima, in Boll. trib., n. 11/2003, p. 812, ha ritenuto al riguardo che «assai diversa è la loro natura [la natura dei due modelli di consolidamento] e conseguentemente le modalità di funzionamento di ciascuno. Lo scopo di entrambi è evidentemente quello di contrasto alla doppia imposizione economica, ma il riferimento che a questo scopo assume ciascuno dei due modelli è diverso. Il modello domestico infatti ha come punto di riferimento l’impresa unitariamente gestita ancorché articolata su una pluralità di soggetti giuridici, assumendo come sintomo della gestione unitaria il possesso di una partecipazione diretta o indiretta non inferiore a quella necessaria per il controllo di diritto (…). Al contrario nel modello mondiale il riferimento è il soggetto controllante residente e non il gruppo. Per questo motivo gli imponibili di ciascuna entità legale, la controllante residente e le controllate non residenti, sono considerati non per intero, ma proporzionalmente alla quota di partecipazione del soggetto controllante. Coerentemente, raggiungendo la percentuale di controllo che sarà determinata dal legislatore delegato, la compensazione avverrà in modo proporzionale a tale percentuale». Cfr., inoltre, dello stesso Autore, La nuova imposta sulle società, Atti del convegno «I centogiorni e oltre: verso una rifondazione del rapporto fisco-economia», Bari 15-17 gennaio 2002, allegati a Il Fisco del 6 maggio 2002, nonché in Boll. trib., 2003, pp. 814 ss. 26 Cfr. G. Zizzo, op. cit., pag 313
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1. l’opzione deve essere esercitata per tutte le società controllate non residenti (c.d. principio all in, all out), con o senza personalità giuridica, controllate sulla base delle condizioni in precedenza descritte; 2. l’identità dell’esercizio sociale di ciascuna controllata non residente con quello della società o ente controllante, salvo il caso in cui questa coincidenza non sia consentita dalle legislazioni locali27; 3. la revisione obbligatoria del bilancio del soggetto controllante residente, delle sub-holding residenti eventualmente poste nella catena societaria del controllo, e delle controllate non residenti da parte dei soggetti iscritti all’albo Consob come previsto dal D.lgs. 24 febbraio 1998, n. 5828, in materia di intermediari, –
27 Va osservato che la non coincidenza degli esercizi sociali delle società consolidate costituisce causa di preclusione dell’opzione e non è semplicemente causa di esclusione dal consolidato della società priva di tale requisito. Inoltre, la Relazione governativa alle disposizioni in esame ha chiarito che per identità dell’esercizio sociale il legislatore ha voluto intendere identità di chiusura del periodo d’imposta; pertanto, deve considerarsi ammessa la tassazione consolidata delle società costituite in corso d’anno, le quali dovranno necessariamente stabilire la data di chiusura del periodo d’imposta in coincidenza con quello di gruppo. 28 Tale decreto è stato attuato a mezzo della deliberazione Consob 29 ottobre 2007, n. 16190. Con particolare riferimento alla revisione obbligatoria delle società consolidate, cfr. in dottrina, R. Cordeiro Guerra, Il bilancio consolidato fiscale nello schema di Decreto delegato per la riforma del diritto tributario, in Atti del Convegno Paradigma tenutosi a Milano il 10 ottobre 2003, il quale ha ritenuto che questa deve avere ad oggetto tutte le società controllate estere consolidate, nonché dovrebbe essere effettuata da un unico soggetto che garantisca la completezza dell’analisi e l’omogeneità del risultato. Cfr. anche M. Beghin, La revisione del bilancio nella disciplina del consolidato mondiale: profili funzionali e aspetti problematici nella bozza di Testo Unico predisposta dal Ministero dell’Economia e delle Finanze, in Riv. dir. trib., 2003, parte I, pp. 579 ss. Su tale aspetto, G. Maisto, op. cit., p. 745, ha ritenuto che «la revisione obbligatoria dei bilanci mira a sollevare l’amministrazione finanziaria da un’autonoma verifica dell’attendibilità dei bilanci delle società estere. Trattasi di condizione ultronea rispetto a quelle previste per il consolidato nazionale e quindi si pone anche per essa il tema della compatibilità con il diritto comunitario. Vi è in particolare da domandarsi se sia soddisfatta anche per essa la condizione della proporzionalità che giustificherebbe il regime sostanzialmente difforme rispetto al consolidato nazionale. Le perplessità in merito ai profili incompatibilità poggiano su un consolidato orientamento giurisprudenziale volto a valorizzare gli strumenti – comunitari – idonei allo svolgimento di attività di accertamento (Direttiva 77/799/Eec del 19 dicembre 1997 avente ad oggetto lo scambio di informazioni come anche le disposizioni analoghe contenute nelle convenzioni internazionali per evitare le doppie imposizioni sul reddito) che rappresenterebbero strumenti sufficienti per consentire alle amministrazioni finanziarie una adeguata attività di controllo, rendendo quindi ingiustificato ogni eventuale (maggiore) onere posto a carico del soggetto passivo d’imposta. Considerazioni pressoché analoghe possono svolgersi per la condizione di revisione posta Anche per il bilancio della società controllante residente». L’Autore a sostegno della propria argomentazione cita (cfr. nota 112 di p. 745), tra le altre, anche la sentenza della Corte di Giustizia UE 15 maggio 1997, C-250/95, «Futura Participations SA e Singer c. Administration des contributions», nel cui paragrafo 41 viene chiarito che: «Si deve ricordare….che le autorità competenti di uno Stato membro hanno sempre la possibilità, a norma della direttiva 77/799, di chiedere alle autorità competenti di un altro Stato
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per quanto riguarda le società controllate non residenti, il bilancio potrà essere revisionato anche da altri soggetti, ma a condizione che il revisore del soggetto controllante utilizzi gli esiti della revisione contabile dagli stessi soggetti effettuata ai fini del giudizio sul bilancio annuale o consolidato29; 4. nel caso in cui la società controllante non abbia l’obbligo della redazione annuale del bilancio, è necessario che l’organo sociale cui compere l’amministrazione della società rediga un bilancio volontario, riferito a un periodo di tempo corrispondente al periodo d’imposta della controllante, comunque soggetto alla revisione menzionata nel punto 3). Inoltre, la norma pone l’obbligo che la società controllante presenti entro il primo periodo di efficacia dell’opzione istanza d’interpello all’Amministrazione finanziaria ai sensi dell’art. 11 della legge 27 luglio 200, n. 212, al fine di verificare la sussistenza dei requisiti per il valido esercizio dell’opzione30.
membro ogni informazione idonea a consentire loro di determinare correttamente, alla luce della normativa che esse devono applicare, l’ammontare dell’imposta sul reddito di un contribuente residente nell’altro Stato membro suddetto». Non va, tuttavia, trascurato che potendo essere le società consolidate estere anche non comunitarie, ovvero residenti in Stati o territori a fiscalità privilegiata (con i quali il nostro Paese non ha stipulato convenzioni internazionali contro le doppie imposizioni sul reddito) gli strumenti di cooperazione amministrativa, o meglio dello scambio di informazioni fiscali, offerti dalle norme comunitarie e convenzionali potrebbero essere per lo natura insufficienti a garantire l’attendibilità dei bilanci delle società consolidate estere. Su tale aspetto, cfr, anche M. Beghin, La revisione del bilancio nella disciplina del consolidato mondiale: profili funzionali e aspetti problematici della bozza di Testo Unico predisposta dal ministro dell’economia e delle finanze» in Riv. dir. trib., 2003, 5, pp. 579 e ss. 29 La norma fa esclusivo riferimento all’obbligo di revisione, senza però specificare se ai fini del valido esercizio dell’opzione sia sufficiente che la revisione sia semplicemente svolta, ovvero che debba assumere rilevanza, come crediamo, anche l’esito della stessa; in altri termini, ci si potrebbe chiedere se un esito non positivo della revisione di una soltanto delle società consolidate è in grado di inibire l’esercizio dell’opzione. Al riguardo, si è dell’avviso che l’esito negativo della revisione anche di una sola delle società incluse nel perimetro di consolidamento compromette l’esercizio dell’opzione, rendendo di fatto impossibile l’esercizio della stessa da parte della società consolidante. È della stessa opinione, M. Beghin, op. cit., p. 579. 30 In particolare, come disposto dal comma 3 dell’art. 132 del TUIR l’istanza di interpello dovrà contenere la qualifica soggettiva del soggetto controllante ai sensi dell’ art. 130, comma 2, la puntuale descrizione della struttura societaria estera del gruppo con l’indicazione di tutte le società consolidate, la denominazione, la sede sociale, l’attività svolta, l’ultimo bilancio disponibile di tutte le consolidate non residenti nonché la quota di partecipazione agli utili riferita alla consolidante e alle consolidate residenti, l’ eventuale diversa durata dell’ esercizio sociale e le ragioni che richiedono tale diversità, la denominazione dei soggetti a cui è stato attribuito l’ incarico per la revisione dei bilanci e le conferme dell’avvenuta accettazione di tali incarichi, nonché l’elenco delle imposte assolte all’estero relativamente alle quali verrà presumibilmente richiesto il credito per le imposte estere di cui all’art. 165 del TUIR; con particolare riferimento alla disciplina del credito per le imposte assolte all’estero anche con riferimento al Consolidato Fiscale Mondiale. Inoltre,
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Da parte loro, le società controllate non residenti consolidate dovranno rilasciare un’attestazione dalla quale risulti il consenso alla revisione del proprio bilancio, nonché l’impegno a fornire al soggetto controllante italiano la collaborazione necessaria per determinazione dell’imponibile consolidato e per soddisfare alle richieste dell’Amministrazione finanziaria entro 60 giorni dalla loro notifica. L’art. 131 disciplina gli effetti del consolidamento prevedendo, in particolare, che a seguito dell’esercizio dell’opzione, i redditi e le perdite delle società controllate estere sono imputate al soggetto controllante residente non integralmente, ma pro quota in proporzione, cioè, alla rispettiva quota di partecipazione demoltiplicata. La quota di utili della società partecipata estera che concorrerà alla formazione del reddito imponibile su base mondiale sarà quella risultante dalla data di chiusura dell’esercizio della società consolidata non residente o, se maggiore, quello risultante dalla data di approvazione o revisione del relativo bilancio. 5.1.4
Metodo di consolidamento e determinazione unitaria del reddito imponibile consolidato Il reddito delle società controllate estere da includere nel reddito imponibile consolidato deve essere imputato al soggetto italiano con criteri analoghi a quelli previsti dall’art. 3 del D.M. 21 novembre 2001, n. 429, in tema di imprese estere controllate (c.d. disciplina CFC); in particolare, l’imputazione del reddito delle società controllate estere deve avvenire in proporzione alla quota di partecipazione agli utili diretta o indiretta in queste detenute dal soggetto controllante. Il metodo di consolidamento è quindi quello proporzionale, mentre il reddito imponibile complessivo del consolidato deve essere determinato effettuando la
relativamente alla necessità di presentazione dell’istanza di interpello preventivi, cfr., in dottrina, M. Beghin, Note minime a proposito dell’interpello obbligatorio nella disciplina delle c.d. consolidato mondiale, in Boll. trib., 2003, pp. 1285 e ss. L’Autore ritiene che l’attività richiesta dall’Amministrazione finanziaria al tal fine sia più simile a quella disciplinata dall’art. 37-bis del D.P.R. n. 600/1973 che a quella prevista nell’art. 11 dello Statuto dei diritti del Contribuente. Con particolare riferimento allo Statuto dei diritti del contribuente e all’interpello di cui all’art. 11 di detto Statuto, cfr. in dottrina, senza pretesa di esaustività, E. De Mita, Interessi fiscale e tutela del contribuente, Giuffrè, Milano, 1991; G. Falsitta, Informazioni del fisco e affidamento del contribuente, in Riv. dir. trib., 1996, parte I, pp. 291 ss.; Lo Statuto dei diritti del contribuente a cura di G. Marongiu, Torino, 2004, (opera collettanea in cui sono racchiusi i lavori di Convegno ANTI organizzato a Genova di M. Beghin, R. Cordeiro Guerra, L. Del Federico, E. Della Valle, G. Marongiu, M. Miccinesi, L. Salvini, S. Sammartino, D. Stevanato, D. Uricchio); G. Marongiu, Statuto del contribuente, affidamento e buona fede, in Rass. trib., 2001, pp. 1275 ss.; P. Russo, Manuale di diritto tributario, Parte generale, Milano, 2002, pp. 63 e ss.; A. Colli Vignarelli, Considerazioni sulla tutela dell’affidamento e della buona fede nello Statuto del contribuente, in Riv. dir. trib., 2001, parte I, pp. 684 ss. L. Salvini, in Lo Statuto, cit., pp. 107 e ss.
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somma algebrica31 dell’imponibile delle società consolidate italiane con quelli delle società estere – determinati extracontabilmente – con quello del soggetto consolidante32. Sembra quindi corretto ritenere che il rinvio operato dalla legge delega al D.M. n. 429/2001, attuativo della disciplina prevista in materia di imprese estere controllate, debba essere interpretato non tanto come riferimento alle regole di determinazione del reddito33 (tra l’altro previste dalla disciplina propria del Consolidato fiscale mondiale dal comma 1 dell’art. 134 del TUIR) ma come volontà del Legislatore di adottare in tema di Consolidato il metodo di consolidamento analogo34 a quello previsto in tema di imprese estere controllate. Il reddito risultante dai bilanci di ciascuna società estera sottoposto a revisione deve essere rideterminato dal soggetto controllante italiano secondo le norme relative alla determinazione del reddito d’impresa (artt. 55 e seguenti del TUIR), le norme del Titolo III del TUIR relativo alle Disposizioni Comuni in quanto compatibili con quelle del Bilancio consolidato, nonché tutta una serie di rettifiche di consolidamento tassativamente individuate. Va osservato che, salvo alcune eccezioni35, i valori risultanti dal bilancio re-
31 Cfr. in dottrina, R. Lupi, Prime osservazioni sulla proposta di consolidato fiscale, in Giur. imp., 2002, p. 497 ss., il quale ritiene che il criterio della somma algebrica dei redditi delle società incluse nell’area di consolidamento fiscale permette di trasferire le perdite, ovvero i cespiti patrimoniali, a valore di libro ad una società che, pur essendo del gruppo, può avere una diversa compagine sociale; cfr. anche C. Garbarino, Aspetti internazionali delle riforma fiscale, Milano, 2004, p. 121, nota 4, il quale ha osservato che il consolidamento degli imponibili costituisce la risultante di un processo di determinazione giuridica. Secondo l’Autore «nonostante il testuale riferimento alla somma algebrica degli imponibili in realtà la società dichiarante non si può limitare a portare a conoscenza dell’Amministrazione finanziaria una serie di valori positivi o negativi formati nella sfera delle singole società che vi partecipano. La controllante deve, piuttosto, organizzare l’aggregazione in relazione alla rilevanza stabilita per la diversa misura dei valori e operare la qualificazione giuridica in conformità ai criteri previsti dalla normativa sul consolidamento». 32 Cfr. comma 1, dell’art. 136 del TUIR rubricato «Determinazione dell’imposta dovuta». 33 Tale tesi è sostenuta da D. Stevanato in Il consolidato fiscale nella delega per la riforma tributaria: profili problematici e prospettive di attuazione, in Rass. trib., 2002, pp. 1205 e ss. 34 Cfr. in dottrina C. Garbarino, op. cit. pp. 365 ss., D. Stevanato, La delega fiscale e la Cfc Legislation, in Il Fisco 2002, pp. 2730 ss., L. Guatri, P. Gnudi, La nuova fiscalità e i gruppi societari, Milano, 2004, pp. 367 ss. 35 Ad esempio, i fondi per rischi e oneri risultanti dal bilancio relativo all’esercizio anteriore al primo cui si applicano le norme sul Consolidato fiscale mondiale istituiti con finalità analoghe a quelli previsti dalle norme sulla determinazione della base imponibile IRES, si considerano riconosciuti ai fini della stessa fini a concorrenza dell’ importo massimo per gli stessi previsto; nel caso in cui le norme sopra indicate non prevedano un importo massimo, gli stessi si considerano fiscalmente riconosciuti per intero o nel minor ammontare corrispondente agli accantonamenti che sarebbero stati deducibili secondo le predette norme a condizione che il minor ammontare sia rideterminato dalla consolidante. Inoltre, il valore delle rimanenze finali dei beni che originano ricavi si considera fiscalmente riconosciuto in maniera non superiore al valor normale medio di essi nell’ ultimo mese di esercizio.
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lativo all’esercizio anteriore al primo cui si applicano le norme del consolidato mondiale sono riconosciuti ai fini IRES a condizione che siano conformi a quelli derivanti dall’ applicazione dei criteri contabili adottati nei precedenti esercizi e che siano adempiuti agli obblighi formali eventualmente previsti da un apposito decreto, salvo quanto previsto da 5.2
La disciplina delle CFC La normativa Controlled Foreign Company – di seguito CFC – definitivamente approvata nel corso della seduta della Camera dei Deputati del 4 ottobre 2000 – già adottata da molti Paesi36, rappresenta una delle novità fiscali più importanti contenute nella legge 21 novembre 2000, n. 342 – Collegato fiscale alla Legge finanziaria 2000. In ambito internazionale, L’OCSE37 ha incoraggiato gli Stati membri ad emanare norme che, al fine di contrastare operazioni elusive, disciplinassero i rapporti intercorrenti tra soggetti residenti e soggetti controllati in Paesi a bassa fiscalità. Sebbene introdotte nei vari ordinamenti tributari con caratteristiche e finalità differenti38, le CFC legislations si caratterizzano per il fatto di prevedere, in capo ad uno o più soggetti residenti, l’imputazione pro quota – imputazione in proporzione alle partecipazioni detenute – del reddito prodotto da soggetti esteri partecipati, residenti o localizzati in Paesi a fiscalità privilegiata, di cui ne detengono, direttamente o indirettamente, il controllo39. Infatti, una ca-
36 La normativa CFC, introdotta per la prima volta negli Stati Uniti nel 1962, è stata di seguito adottata da altri Paesi quali Canada, Giappone, Austria, Francia, Germania, Portogallo, Spagna, Finlandia, Danimarca, Svezia, ecc. 37 L’OCSE ha raccomandato in tal modo gli Stati membri auspicando che « that countries that do not have such rules consider adopting them and that countries that have such rules ensure that they apply in a fashion consistent with the desirability of curbing harmful tax practices», Raccomandazione n. 1. Inoltre, l’OCSE auspica che: «that the Commentary on the Model Tax Convention be clarified to remove any uncertainty or ambiguity regarding the compatibility of the domestic anti-abuse measures with the Model Tax Convention», Raccomandazione n. 10. Entrambe le raccomandazioni sono contenute nel Rapporto OCSE del 1998 «Harmful Tax Competition: An Emerging Global Issue». 38 Per un’analisi comparata delle normative CFC introdotte nei vari Paesi cfr. Rapporto OCSE, Studies in Taxation of Foreign Source Income, Controlled Foreign Companies Legislation, OCSE, 1996; Daniel Sandler, Tax Treaties and Controlled Foreign Company Legislation, Kluwer Law International, 1998. 39 Elemento qualificante la CFC è la presenza di un legame di partecipazione qualificata da parte del soggetto residente; nella maggior parte dei Paesi, la nozione di partecipazione qualificata si riferisce alla partecipazione azionaria e ai diritti di voto posseduti dai residenti in una controllata estera. Ad esempio, in Germania ai fini della identificazione di una partecipazione qualificata viene richiesto un possesso di partecipazioni di oltre il 50% mentre Spagna, Regno Unito, Svezia e Finlandia richiedono almeno il 50%.
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ratteristica comune a tutti i regimi CFC è la tassazione corrente di tutti o di una porzione dei profitti non distribuiti dalle controllate estere, nelle mani di tutti o alcuni azionisti residenti nell’anno in cui sorgono piuttosto che nell’anno in cui sono distribuiti. In particolare, la normativa italiana CFC di cui agli artt. 167 e 168 del TUIR (come modificati, come di dirà40, di recente dall’art. 13 del D.lgs. 1° luglio 2009, n. 78. c.d. «decreto anticrisi») consente di imputare per trasparenza41 al soggetto controllante, residente in Italia, il reddito conseguito dal soggetto estero partecipato a prescindere, quindi, dal momento della distribuzione del dividendo. Al fine di comprendere la portata della normativa CFC italiana, va detto che il sistema adottato dal legislatore sembra collocarsi nel c.d. jurisdictional approach alternativo al transnational approach42. Sebbene entrambi gli approcci raggiungano l’obiettivo del contrasto dell’elusione fiscale, essi originano da differenti presupposti; mentre il primo43, infatti, si qualifica per il fatto che il reddito conseguito dal soggetto estero partecipato è imputato al soggetto controllante residente nella sua unitarietà a prescindere, quindi, dalle varie fonti di provenienza del reddito, il secondo44 fa riferimento solamente al passive income di norma costituiti dai redditi di capitale, gli interessi, le royalties, i dividendi, i canoni di locazione. Ne deriva che la scelta, da parte del nostro legislatore, di inquadrare la normativa CFC nell’ambito del jurisdictional approach mira ad impedire ai contribuenti residenti la localizzazione delle proprie attività, indipendentemente dalla tipologia di reddito cui danno luogo, in giurisdizioni a bassa fiscalità finalizzata all’elusione d’imposta. (N.B.: evoluzione della norma). Secondo quanto disposto dall’art. 167 del 127-bis del TUIR, la norma CFC si applica ai seguenti soggetti:
40 Cfr. per un commento delle modifiche apportate dall’art. 13 del decreto anticrisi il paragrafo a pp. [??] e ss. 41 Si attua un’imputazione del reddito per trasparenza secondo il meccanismo di tassazione del reddito delle società di persone. Ci sono, però, differenze sostanziali dato che, per esempio, mentre la società di persone non è soggetto passivo la CFC lo è; la società di persona determina il reddito che imputa pro quota mentre il socio della CFC ricalcola il medesimo. 42 N.B. EVOLUZIONE DELLA NORMA [??] 43 Tra i Paesi che si avvalgono di tale sistema possiamo menzionare, a titolo esemplificativo, Francia, Portogallo, Regno Unito, Svezia e Finlandia. 44 Adottato da Stati Uniti e Canada e, in ambito comunitario, da Danimarca, Spagna e Germania.
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• persone fisiche residenti; • soggetti ex art. 5 del TUIR (società di persone e soggetti equiparati); • soggetti di cui all’art. 73 del TUIR, lett. a), b) e c), del TUIR. Data l’ampia formulazione della norma, ai fini dell’individuazione dei soggetti destinatari della medesima, si rinvia ai principi generali, con la conseguenza che anche i soggetti equiparati, ai fini fiscali, alle società di persone e di capitali rientrano nell’ambito soggettivo di applicazione. Sono esclusi dall’applicazione della norma45 le società ed enti di ogni tipo – compresi le società di capitali, le imprese individuali e le associazioni di cui all’art. 5 del TUIR non residenti nel territorio dello Stato. Inoltre, la norma non richiede che il soggetto residente eserciti un’attività d’impresa; ne deriva che soggetti destinatari della normativa sono anche le persone fisiche e gli enti residenti non titolari di redditi d’impresa. Come osservato nella relazione al decreto di attuazione46 della disciplina in esame, «tale soluzione appare coerente non solo con il dato normativo di cui ai commi 1 e 2 dell’art. 127-bis, [ora art. 167 del TUIR] ma anche con le finalità della disciplina CFC che mira ad evitare la collocazione di attività economiche in paesi con regimi fiscali privilegiati mediante uno schermo soggettivo che consente di differire l’imposizione rispetto all’ipotesi di esercizio diretto da parte del soggetto residente delle stesse attività; risultato cui, potenzialmente, possono pervenire anche soggetti non titolari di reddito d’impresa in Italia». Il presupposto oggettivo per l’applicazione della norma CFC è che il soggetto residente italiano detenga il controllo, diretto o indiretto47 della società estera partecipata. Come chiarito dall’Amministrazione finanziaria48 i criteri da prendere in considerazione ai fini della verifica della sussistenza del rapporto di controllo sono solamente quelli fissati dalla normativa italiana all’art. 2359 c.c., a nulla valendo altri criteri di determinazione del controllo (eventualmente) presenti nella legislazione dello Stato dove è residente o localizzata la CFC. Stante il richiamo a detta disposizione civilistica, assumono rilevanza ai fini dell’applicazione della normativa CFC le seguenti ipotesi di controllo:
45 Cfr. circolare 16 novembre 2000, n. 207/E. 46 Regolamento recante disposizioni in materia di tassazione dei redditi di imprese partecipate estere partecipate in attuazione dell’art. 127-bis, comma 8, del Testo Unico delle imposte sui redditi, approvato con decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1987, n. 917, e successive modificazioni. 47 «Ai fini della verifica della sussistenza del controllo di cui al comma 1, si applicano, anche nei confronti dei soggetti diversi dalle società commerciali, i criteri indicati nell’art. 2359, primo e secondo comma». Cfr. art. 1, comma 3, del regolamento attuativo delle disposizioni in esame. 48 Cfr. circolare 16 novembre 2000, n. 207/E.
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• controllo di diritto, che viene integrato quando una società dispone, direttamente o indirettamente, della maggioranza dei voti esercitabili nell’assemblea ordinaria della società controllata; al riguardo, si osserva che tale fattispecie di controllo non sia di diritto ma di fatto quando alla maggioranza dei diritti di voto esercitabili nell’assemblea ordinaria non si accompagni (per effetto di usufrutto o pegno di azioni) la proprietà della maggioranza delle azioni o quote; • controllo di fatto, nell’ipotesi in cui una società dispone dei voti sufficienti per esercitare un’influenza dominante nell’assemblea ordinaria della società controllata; • controllo in base a vincoli contrattuali, che si realizza quando una società esercita un’influenza dominante su di un’altra in base a vincoli contrattuali, ossia in base a contratti o clausole statutarie. Ai fini della verifica della sussistenza del controllo detenuto nel soggetto non residente da persone fisiche residenti, si tiene conto anche dei voti spettanti ai familiari di cui all’art. 5, comma 5, del TUIR49. Al riguardo, va osservato che il richiamo all’art. 2359 c.c. presuppone che si faccia esclusivo riferimento ai diritti di voto esercitabili (rectius: diritti di voto disponibili) nell’assemblea ordinaria della partecipata estera; in altri termini, tale disponibilità deve derivare dalla titolarità, in capo al soggetto controllante italiani, delle azioni o quote del soggetto estero partecipato ben, però, potendo essere che possa derivare da azioni o quote detenute in pegno, usufrutto, o da tutte quelle situazioni alle quali si accompagni, in ogni caso, il diritto di esercitare il voto. Unici limiti posti, al riguardo, dalla legge sono che non si tratti di azioni o quote spettanti per conto di terzi, e che tale disponibilità non sia occasionale ma sufficientemente stabile e duratura nel tempo. Affinché il regime di tassazione per trasparenza del reddito della CFC in capo al soggetto controllante italiano possa concretamente operare è necessario che oltre al controllo, da parte del soggetto controllante residente, dell’impresa estera partecipata, possa individuarsi anche una (seppur minima) partecipazione all’utile di quest’ultima, ossia la disponibilità, in capo al soggetto residente, del reddito conseguito dalla CFC. In altri termini, come osservato da Assonime nella circolare del 18 dicembre 2000, n. 65, «sarebbe difficile pensare ad un’imputazione che prescindesse da un livello effettivo, sia pur minimo, di partecipazione all’utile; ne consegue che al soggetto controllante residente dovrà essere imputato il reddito della CFC ma unicamente nella misura effettiva della partecipazione agli utili della medesima. La norma non dispone nulla circa il momento a cui fare riferimento per la veri-
49 Art. 5, comma 5, TUIR « Si intendono per familiari, ai fini delle imposte sui redditi, il coniuge, i parenti entro il terzo grado e gli affini entro il secondo grado».
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fica della sussistenza del rapporto di controllo; tuttavia, come chiarito nel decreto attuativo delle disposizioni in esame50, rileva la situazione di controllo esistente alla data di chiusura dell’esercizio o periodo di gestione del soggetto estero partecipato. Ne consegue che analogamente alla prassi in materia di società di persone, l’imputazione per trasparenza degli utili avviene in capo al soggetto che, alla data della chiusura del periodo d’imposta del soggetto estero partecipato, riveste la qualità di socio51. Il reddito della CFC è imputato, quindi, al socio controllante residente che risulta tale alla chiusura dell’esercizio della partecipata per l’intero ammontare a prescindere, quindi, dalla circostanza che la detenzione della partecipazione di controllo si sia protratta per l’intero periodo d’imposta. In altri termini, non trova applicazione l’imputazione del reddito pro rata temporis con la tassazione in capo alla controllante del solo reddito prodotto dalla controllata successivamente al verificarsi del requisito del controllo. Al riguardo va osservato che come disposto dall’art. 3, comma 7, del decreto attuativo delle disposizioni in esame per i comportamenti posti in essere allo scopo del frazionamento del controllo (controllo esercitato attraverso partecipazioni detenute dai familiari) o della perdita temporanea dello stesso (cessione di partecipazioni nei confronti del soggetto non residente in prossimità della chiusura dell’esercizio e successivo riacquisto) si applicano gli artt. 37, comma 3, e 37-bis del D.P.R. n. 600/1973. Il soggetto residente che detiene il controllo dovrà dichiarare il reddito dell’impresa partecipata estera in proporzione alla sua quota di partecipazione agli utili diretta o indiretta. Scopo della norma è, infatti, quello di imputare al soggetto, residente – in capo al quale si effettua il consolidamento dei risultati conseguiti – il reddito posseduto pro quota, anche indirettamente, nella CFC. Così, ad esempio, se il soggetto persona fisica X detiene direttamente il 70% della società NewCo residente nel paradiso fiscale che ha prodotto reddito per 100, X dovrà dichiarare, in Italia, 70. Inoltre, se il soggetto residente controlla il 90% della società Alfa residente in un paese a fiscalità non privilegiata la quale controlla il 60% di NewCo società residente in un paradiso fiscale, la quota di reddito di NewCo che dovrà essere dichiarata in Italia dal soggetto residente sarà pari al 54% (ossia, il 90% del 60%) del reddito prodotto da NewCo. Ovviamente, nel caso in cui il soggetto residente controllante detenga, in aggiunta a tali partecipazioni indirette, anche una partecipazione diretta nella CFC, subirà l’imputazione per trasparenza del reddito in proporzione alla partecipazione detenuta. Dal momento che, quindi, l’imputazione per trasparenza vale anche per le partecipa-
50 Come osservato nella relazione al decreto «la scelta, oltre a introdurre elementi di certezza, presenta caratteri di omogeneità con la prassi in materia di società di persone dove gli utili si imputano nella loro interezza al socio che è tale alla data di chiusura del periodo d’imposta della società». 51 Cfr. D. Stevanato, Controlled Foreign Companies: concetto di controllo e imputazione del reddito, in Riv. dir. trib. I, 2000, pp. 777 e ss.
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zioni indirette – catene partecipative – si è voluto attrarre nella sfera di applicabilità della norma anche le partecipazioni detenute per il tramite di sub-holding. Nel caso in cui, invece, il controllo della società partecipata estera sia detenuto, dal soggetto residente per il tramite di altri soggetti ugualmente residenti il reddito conseguito dalla CFC dovrebbe essere ripartito tra i soggetti residenti intermedi della catena partecipativa, attraverso i quali è esercitato il controllo, in proporzione alle partecipazioni da essi detenute; in tale ipotesi, l’imputazione del reddito dovrebbe fermarsi a tale primo livello del controllo, nel senso che i soggetti residenti dovrebbero essere considerati come i soggetti finali destinatari della normativa. Il reddito della CFC dovrebbe, quindi, essere imputato «pro quota ai soggetti residenti aventi il legame partecipativo diretto, nell’ordine sequenziale della catena di partecipazione, con l’impresa residente nel paradiso fiscale52». Un caso particolare di controllo è quello esercitato dal soggetto residente per il tramite di società estera avente in Italia una stabile organizzazione che detiene partecipazioni di controllo nella CFC; in questi casi, il reddito di quest’ultima è imputato per trasparenza alla stabile organizzazione e non al soggetto residente in Italia posto al vertice della catena partecipativa. Il controllo da parte del soggetto residente nella CFC può essere detenuto anche per il tramite di società fiduciaria53 o interposta persona54; la norma CFC consente, quindi, di imputare al soggetto residente redditi anche riferibili ad altri soggetti quando si dimostra che egli ne è l’effettivo titolare. Un’ipotesi di controllo può anche derivare dall’esistenza, in capo al soggetto residente controllante, di patti parasociali, quali, per esempio, i sindacati di voto55, di blocco; la ricondu-
52 Tale soluzione, a nostro avviso condivisibile oltre che ragionevole, è stata proposta da Assonime nella circolare n. 65/2000 citata nella quale è stato anche ritenuto che «se il controllo è detenuto, da parte del soggetto residente, per il tramite di altri due soggetti residenti che detengono una partecipazione del 30% e del 35% nella CFC, il reddito dovrà essere imputato a tali soggetti residenti in proporzione delle rispettive partecipazioni». Inoltre, l’Associazione specifica che così facendo « si otterrebbero anche vantaggi in ordine alla semplificazione degli oneri gravanti sul contribuente residente in quanto sia il reddito della CFC che gli oneri di documentazione del reddito del soggetto estero saranno attribuiti al primo livello della catena di controllo». 53 Cfr. il par. [??] a p. [??]. 54 Come chiarito dall’Amministrazione finanziaria nella circolare dei 16 novembre 2000, n 207/E il termine «persona» va inteso in senso ampio conformemente all’interpretazione estensiva adottata dalla normativa internazionale e nelle Convenzioni contro le doppie imposizioni. In particolare, il modello di Convenzione OCSE precisa che il termine «persona» comprende le persone fisiche, le società e «ogni ente che, sebbene non sia esso stesso un insieme di persone, è trattato come tale ai fini fiscali». 55 Il sindacato di voto è una fattispecie dei patti parasociali, attraverso i quali i soci dispongono, in modo separato, dei diritti a loro derivanti dallo status di socio. In tema di sindacato di voto, si è fatto ad esso esplicito riferimento nell’art. 23, T.U. n. 385/1993 in tema di società bancarie, nell’art. 26, secondo comma, D.lgs. 9 aprile 1991, n. 127, in tema di
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cibilità del controllo da sindacato alle fattispecie ex art. 2359 c.c. non può porsi con riferimento al sindacato nel suo complesso ma deve porsi con riferimento al rapporto tra ogni socio partecipante al sindacato di controllo e la società controllata. Al riguardo, la legge antitrust56 dispone espressamente che quando i soci che partecipano al sindacato di voto possiedono complessivamente più di un quarto delle azioni ordinarie della società ogni socio è considerato controllante – art. 27, comma 2. Tuttavia, autorevole dottrina57 ha ritenuto che il controllo di sindacato non è riconducibile al tipo di controllo ex art. 2359 c.c. «essendo per definizione un controllo che compete alla collettività dei soci che partecipano al sindacato di controllo e non si può dire che ciascuno di loro, in forza del vincolo parasociale, debba considerarsi portatore dell’intero pacchetto azionario del sindacato e quindi debba considerarsi come controllore solitario». In altri termini, appare corretto qualificare il sindacato di voto come un caso di controllo congiunto dei soci che vi partecipano con la conseguenza che la qualità di controllante non va riconosciuta all’azionista che ha una posizione d’influenza dominante all’interno del sindacato58 bensì alla collettività dei soci. Il Tribunale di Milano nella sentenza 28 marzo 1990 ha ritenuto che sono da considerarsi validi i sindacati che, contenuti entro convenienti limiti di tempo e di oggetto e rispondenti all’interesse sociale, postulino un semplice impegno, ad efficacia obbligatoria, dei soci a votare nel senso stabilito dalla maggioranza degli appartenenti al sindacato o a conferire, di volta di volta, una delega a tal fine ad un rappresentante comune. Nella realtà si riscontrano diverse tipologie di sindacati di voto ed, evidentemente, in base alle specifiche caratteristiche di ognuna di esse sarà opportuno considerare il concetto di controllo alla luce delle differenti posizioni citate. Quanto agli Stati o territori con regime fiscale privilegiato di cui al comma 4 dell’art. 127-bis del TUIR, questi sono stati individuati con decreto (del 21 novembre 2001) in ragione del livello di tassazione sensibilmente inferiore a quello applicato in Italia59,
redazione del bilancio consolidato, nell’art. 10, comma 2, Legge 9 gennaio 1991, n. 20 in tema di società assicurative e nell’art. 93, D.lgs. n. 58/1998 in tema di disciplina delle società quotate. 56 Legge 10 ottobre 1990, n. 287. 57 Cfr. F. Bonelli e P.G. Jaeger, Sindacati di voto e sindacati di blocco, p. 35. 58 Tale ultima tesi è stata sostenuta da Campobasso in Diritto Commerciale, IV ed., Torino, p. 227. L’autore ritiene che si tratta di una regola che può essere considerata espressione di un principio generale. 59 Il livello di tassazione dello Stato estero di residenza o localizzazione della impresa partecipata estera si considera sensibilmente inferiore a quello applicato in Italia quando si discosta di almeno il 30% da quello medio italiano, Infatti, nella Seduta della Camera dei Deputati del 4 ottobre 2000 nel corso della quale la Camera aveva formalmente impegnato il Governo «in sede di prima applicazione della nuova disciplina a definire in via transitoria, quale livello di tassazione sensibilmente inferiore, quello che in media si discosta di almeno il 30% dal livello di tassazione medio applicato
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della mancanza di un adeguato scambio di informazioni, ovvero di altri criteri equivalenti. Con riferimento al livello di tassazione, il Ministero delle finanze60 ha chiarito che «una tassazione sensibilmente inferiore è riscontrabile non solo con riferimento al livello delle aliquote delle imposte di un determinato Paese o territorio, ma anche alle caratteristiche strutturali dei tributi, la cui applicazione comporti, di fatto, una tassazione inferiore in capo al contribuente. Esempi di tali regimi fiscali privilegiati possono essere anche quelli che interessano un solo settore economico o determinati tipi di soggetti. Potranno essere considerati a fiscalità privilegiata, ad esempio, Stati o territori le cui aliquote d’imposta siano eccessivamente basse e altri in cui le aliquote siano paragonabili a quelle italiane ma, in ipotesi, adottino regole generali di formazione della base imponibile notevolmente difformi, con la conseguenza che la tassazione risulta sensibilmente inferiore». Sul punto si osserva che già, nella relazione di accompagnamento al D.M. 24 aprile 1992 – «Individuazione degli Stati o territori non appartenenti alla Comunità economica europea aventi un regime fiscale privilegiato» – era emersa una certa consapevolezza sull’importanza del problema visto che si afferma che «almeno in termini teorici, la comparazione tra i regimi fiscali non dovrebbe fermarsi ad un confronto tra aliquote nominali d’imposta, ma debba fare riferimento alla fiscalità effettiva, quale risulta considerando le diverse variabili che concorrono a definirla, con particolare riguardo alla determinazione della base imponibile»61. Al riguardo, per completezza si osserva che il Codice di condotta62 ha ritenuto, in tema di concorrenza fiscale, dannose (o potenzialmente idonee a creare danno) quelle misure fiscali che determinano un livello di tassazione nettamente inferiore, compreso quello nullo rispetto ai livelli effettivamente applicati nello Stato membro in oggetto63.
in Italia». 60 Cfr. circolare 16 novembre 2000, n. 207/E. 61 Per un approfondimento, cfr. T. di Tanno, La indeducibilità dei componenti negativi di reddito nei rapporti con residenti in paradisi fiscali individuati nel D.M. 24 aprile 1992, in Boll. trib., n. III/1992, pp. 1405 e ss. 62 Approvato dal Consiglio UE e dai rappresentanti dei governi degli Stati membri il 1° dicembre 1997 (in GUCE 6 gennaio 1998, n. C 2). L’impegno assunto dagli Stati membri in sede di sottoscrizione del Codice ha esclusivamente natura politica – si parla, infatti, di obbligazione politica – con la conseguenza che non sono state imposte sanzioni in capo a Stati inadempienti. 63 Inoltre, come chiarito nel Codice di condotta, Inoltre, sono, in ogni caso, state considerate dannose quelle misure: i) destinate solo ai non residenti; ii) isolate dall’economia nazionale; iii) che si allontanano dalle raccomandazioni OCSE; iv) accordate anche in assenza dell’effettiva presenza sul territorio dello Stato che le accorda; v) non trasparenti.
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I tre criteri in precedenza indicati sono tra loro alternativi e anche la presenza di uno solo di essi, facendo considerare uno Stato o territorio fiscalmente privilegiato, integra l’ipotesi di applicazione delle nuove regole di tassazione. In particolare, la lista elaborata dal Ministero si compone di tre gruppi: • Stati e territori a cui si applica, sempre e comunque, il regime di cui all’art. 167 del TUIR – si tratta in pratica di Stati extraeuropei caratterizzati da un regime impositivo tipico dei paradisi fiscali (solo per fare alcuni esempi ci citano le Bahamas, le Isole Vergini Britanniche, Antigua, Vanuatu); • Stati e territori che pur costituendo paradisi fiscali prevedono fattispecie che soddisfano le condizioni di tassazione ordinaria – è questo il caso degli Emirati Arabi Uniti per quel che riguarda le società operanti nel settore petrolifero e petrolchimico assoggettate a tassazione ordinaria; • Stati e territori per i quali la qualifica di paradiso fiscale opera solo limitatamente a specifici soggetti e specifiche attività – è questo il caso del Lussemburgo, limitatamente alle holding del 1929, e della Svizzera, limitatamente alle c.c.dd. holding ausiliarie e di domicilio. Il decreto include, invece, nella black list i soggetti e le attività insediate negli Stati (di cui al comma 1 dello stesso art. 3) che usufruiscono di regimi fiscali agevolati sostanzialmente analoghi a quelli ivi indicati in virtù di accordi o provvedimenti dell’Amministrazione finanziaria dei medesimi Stati. Tale previsione attribuisce di fatto, in maniera non del tutto condivisibile, ampi margini di discrezionalità nell’includere in via analogica nei regimi privilegiati fattispecie ulteriori rispetto a quelle indicate nello stesso decreto; tale circostanza non ci pare del tutto coerente con il sistema della black list che, invece, definisce ex lege le «situazioni a rischio di applicazione della CFC» e coerentemente ha introdotto l’interpello preventivo obbligatorio per i contribuenti. In altri termini, ci sarebbe sembrato più logico verificare la sussistenza degli elementi di analogia con le fattispecie di regimi fiscali privilegiati individuate nel decreto criteri molto rigorosi e restrittivi, volti a preservare i caratteri di tassatività della stessa black list64. Inoltre, tenu-
Va anche ricordato che nel maggio del 1998, l’OCSE ha pubblicato il rapporto Harmful Tax Competition: an emerging global issue nel quale vengono analizzati, con riferimento alle attività finanziarie e di servizi, gli effetti derivanti dalla competizione fiscale dannosa tra gli Stati. Tale rapporto considera come paradisi fiscali o Stati con regimi fiscali preferenziati quegli ordinamenti che si caratterizzano oltre che per l’assenza di tassazione (ovvero un’imposizione sostanzialmente irrilevante) per la mancanza di un effettivo scambio di informazioni e di trasparenza nonché nell’assenza di esigenza di attività effettive. Cfr., sul punto, in dottrina, G. Maisto Il regime di imputazione dei redditi delle imprese partecipate (c.d. Controlled Foreign Company), in Riv. dir. trib., vol. X, febbraio 2000, Parte quarta, pp. 39 e ss. (in particolare la tavola comparativa proposta dall’Autore). 64 Cfr. sul punto la circolare Assonime 28 novembre 2001, n. 52.
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to contro anche delle recenti modifiche apportate alla disciplina CFC dal decreto «anticrisi», non sono incluse nella black list le società e gli enti interessati dalla direttiva madre-figlia, mentre sono state incluse le società holding lussemburghesi del 1929, tra l’altro non rientranti né nell’ambito soggettivo d’applicazione dei trattati internazionali né della citata direttiva. Con particolare riferimento alla individuazione degli Stati o territori da considerare black list, nonché dei criteri utilizzati al fine di individuare gli stessi, va innanzitutto evidenziato che l’art. 1, comma 83, lett. n) della Legge finanziaria è intervenuta sulle modalità di individuazione dei Paesi considerati a fiscalità privilegiata, introducendo il nuovo art. 168-bis del TUIR65. In particolare, in sostituzione delle previgenti black lists, è disposto che, con apposito decreto del Ministro dell’Economia e delle Finanze, al momento non ancora emanato, vengano individuati gli Stati e territori (c.d. white lists) che consentono un adeguato scambio di informazioni e il cui livello di tassazione non sia sensibilmente inferiore a quello applicato in Italia. In altri termini, da un un’elencazione in negativo dei c.d. paradisi fiscali si passera ad un’elencazione in positivo di Paesi e territori considerati a fiscalità virtuosi (o meglio a fiscalità ordinaria) e, pertanto, non considerati paradisi fiscali66. In particolare, il comma 2 dell’art. 168-bis del TUIR citato dispone ai fini dell’applicazione della normativa CFC – o meglio dell’individuazione degli Stati o territori inclusi nelle white lists di prossima emanazione – si deve far riferimento al criterio dell’adeguato scambio di informazioni fiscali con lo Stato o territorio in cui la CFC è residente, ovvero localizzata, nonché al livello di tassazione che non deve essere sensibilmente inferiore a quello applicato in Italia, ai fini dell’applicazione. Per completezza, si ritiene utile osservare che ai sensi di detto comma si deve far riferimento all’adeguato scambio di informazioni, nonché al livello di tassazione che non deve essere sensibilmente inferiore a quello applicato in Italia,
65 Cfr. art. 168-bis, rubricato «Paesi e territori che consentono un adeguato scambio di informazioni». 66 Al riguardo, la dottrina (cfr. G. Maisto, Il metodo delle liste positive (white lists) e negative (black lists) ai fini dell’imposizione nei rapporti con Stati aventi regime fiscale privilegiato, in Saggi sulla riforma dell’Ires, a cura di M. Beghin, Milano 2008, pp. 291 ss.) ha osservato che le osservazioni poste dalla Commissione Biasco con riferimento ai non pochi problemi posti dal metodo della c.d. lista negativa «consistenti nell’esigenza di un monitoraggio costante e di rapidi aggiornamenti dei regimi impositivi privilegiati» hanno probabilmente ispirato il Legislatore del 2008 ad introdurre sull’argomento le modifiche in parola. Andrebbe altresì a nostro avviso osservato che, anche tenuto conto dei recenti sviluppi compiuti a livello OCSE, il passaggio dalle liste negative alle liste positive sembra porre le basi per una riformulazione – in un’ottica di razionalizzazione normativa – organica di tutta la materia, purtroppo a nostro avviso non compiutamente realizzata con la Legge finanziaria 2008.
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anche ai fini dell’applicazione dei seguenti articoli del TUIR: art. 47, comma 4 (relativo agli utili da partecipazioni), art. 87, comma 1 (relativo al regime della participation exemption), art. 89, comma 3 (in materia di tassazione dei dividendi), art. 132, comma 4 (relativo all’esercizio dell’opzione per il Consolidato fiscale mondiale), art. 168, comma 1 (relativo alla tassazione delle imprese estere collegate), nonché dell’art. 27, comma 4, del D.P.R. n. 600/1973 (in materia di ritenute sui dividendi), e dell’art. 37-bis, comma 3, dello stesso decreto (relativo all’applicazione della clausola antielusiva). Il comma 1 del medesimo articolo dispone invece che ai fini dell’individuazione e degli Stati o territori non inclusi nelle future white lists si deve fare esclusivo riferimento all’adeguato scambio di informazioni ai fini dell’applicazione degli artt. 73, comma 3, del TUIR (in tema di residenza dei trust), degli artt. 110, comma 1067 e 12-bis, sempre del TUIR (relativi all’indeducibilità delle spese e dei componenti negativi sostenuti con fornitori indipendenti residenti in Paesi esclusi dalla white list e delle prestazioni di servizi rese da professionisti ivi residenti), nonché dell’art. 27, comma 3-ter, del D.P.R. n. 600/1973, in materia di ritenute sui dividendi (v. Tavola …). L’adozione di un differente criterio ai fini della individuazione di un Paese non incluso nelle future white lists in dipendenza della norma applicabile non ci sembra del tutto immune da critiche; infatti, con particolare riferimento ad esempio alla disciplina della indeducibilità dei costi sostenuti nei confronti di fornitori indipendenti non comunitari considerati black lists, condividiamo l’opinione espressa dalla dottrina68 la quale ha prontamente ed efficacemente osservato che «la scelta di subordinare la deducibilità dei componenti negativi di reddito alla inclusione dello Stato di residenza della controparte estera nella lista positiva introdotta dall’art. 168-bis TUIR (…) subordina anche la deducibilità delle componenti negative di reddito alla solerzia dell’Amministrazione finanziaria nell’adeguamento dell’elenco degli Stati che scambiano informazioni e che dispongono di un adeguato scambio di informazioni con l’Italia, di guisa un mancato tardivo aggiornamento della white lists è idoneo a pregiudicare ingiustificatamente la deducibilità dei componenti negativi di reddito sostenuti dal contribuente». A nostro avviso, comunque, il rispetto delle condizioni prescritte dalla norma (art. 110, comma 11), nonché l’inerenza del costo sostenuto, non dovrebbero compromettere la deducibilità dello stesso in capo al soggetto italiano per il solo fatto che lo Stato del fornitore indipendente estero non ponga in essere prontamente un adeguato scambio di informazioni con il nostro Paese. Infatti, il condizionare la deducibilità dei costi in parola principalmente alla circostanza che lo Stato estero di residenza del soggetto fornitore scambi in maniera adeguata
67 … [MANCA TESTO] 68 Cfr. G. Maisto op. cit. p. 306
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delle informazioni, ci sembra introdurre nel nostro ordinamento elementi che per quanto comprensibili – essendo volti a tutelare la pretesa erariale – ci sembrano ultronei e forse non del tutto coerenti con le particolari regole (in particolare, quella dell’effettivo interesse economico69, nonché dell’inerenza del costo) che disciplinano la deducibilità dei costi in parola. Tali modifiche si applicheranno a partire dal periodo di imposta che inizia successivamente alla data di pubblicazione nella Gazzetta ufficiale del decreto del Ministro dell’Economia e delle Finanze di cui all’art. 168-bis del TUIR. Che individuerà, come osservato, gli Stato e territori inclusi nelle white lists. Inoltre, per un periodo transitorio di cinque anni, saranno inclusi nella white list anche i Paesi attualmente non individuati dalle previgenti black lists70 e, in particolare, in tale periodo, saranno inclusi in dette white lists gli Stati o territori che, anteriormente al 1° gennaio 2008, non sono elencati nei decreti del Ministro delle Finanze 4 settembre 199671 e 4 maggio 199972, nonché nei decreti del Ministero dell’Economia e delle Finanze 21 novembre 200173 e 23 gennaio 200274. Analogamente, saranno ricompresi nelle white lists, con riferimento al medesimo periodo, gli Stati o territori di cui all’art. 2 del decreto del Ministro dell’Economia e delle Finanze del 21 novembre 2001, limitatamente ai soggetti ivi indicati, nonché gli Stati o territori di cui all’art. 3 dello stesso decreto, ad eccezione dei soggetti ivi indicati75.
69 Sul punto meritano di essere segnalate le recenti sentenze elaborate dalla Commissione tributaria provinciale di Roma del 13 novembre 2009, n. 454, nonché dalla Commissione tributaria provinciale di Napoli del 15 gennaio 2010, n. 6, nelle quali è stato ritenuto che la prova dell’effettivo interesse economico possa avere anche natura oggettiva, con la conseguenza che detta prova non richiederebbe la puntuale dimostrazione della maggiore convenienza economica dell’operazione posta in essere con il fornitore indipendente black list. 70 Cfr. art. 1, comma 90 della Legge finanziaria 2008. 71 Cfr. decreto del Ministro delle Finanze 4 settembre 1996, rubricato «Elenco degli Stati con i quali è attuabile lo scambio di informazioni ai sensi delle convenzioni per evitare le doppie imposizioni sul reddito in vigore con la Repubblica italiana». 72 Cfr. decreto del Ministro delle Finanze 4 maggio 1999, rubricato «Individuazione di Stati e territori aventi un regime fiscale privilegiato». 73 Cfr. decreto del Ministero dell’Economia e delle Finanze 21 novembre 2001, rubricato «Individuazione degli Stati o territori a regime fiscale privilegiato di cui all’art. 127-bis, comma 4, del Testo Unico delle imposte sui redditi (c.d. «black list»). 74 Cfr. decreto del Ministero dell’Economia e delle Finanze 23 gennaio 2002, rubricato «Indeducibilità delle spese e degli altri componenti negativi derivanti da operazioni intercorse con imprese domiciliate in Stati o territori aventi regime fiscale privilegiato». 75 G. Maisto (op. cit., p. 313) ritiene che «la ratio di tale disposizione è verosimilmente di prevedere un congruo periodo di tempo (5 anni) per consentire la stipulazione di idonee convenzioni contro le doppie imposizioni che assicurino un adeguato scambio di informazioni con l’Italia agli Stati esteri che attualmente, pur non figurando in alcuna black list (perché non prevedono regimi fiscali privilegiati), ne sono sprovvisti. Il passaggio dal meccanismo delle liste negative a quello delle liste
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Inoltre, va osservato che il Legislatore a mezzo dell’art. 13 (rubricato «Contrasto agli arbitraggi fiscali internazionali) D.L. 1° luglio 2009, n. 78 (c.d. decreto anticrisi) ha esteso, al ricorrere di particolari condizioni, l’ambito soggettivo di applicazione della disciplina CFC anche alle società estere controllate ovunque residenti, pertanto anche comunitarie, qualora si verifichino congiuntamente, in capo ad esse, due condizioni, una relativa al livello di imposizione, l’altra alla composizione dei proventi realizzata dalla CFC medesima. In particolare, l’estensione della disciplina CFC troverà applicazione qualora la società controllata estera sia assoggettata a tassazione effettiva inferiore a più della metà di quella a cui sarebbe stata soggetta ove residente in Italia e abbia conseguito proventi derivanti per più del 50% da passive income, nonché dallo svolgimento di servizi intercompany. Con riferimento alla prima condizione, la Relazione illustrativa al D.L. n. 78/2009 ha precisato che il riferimento alla tassazione inferiore deve essere riferita la relativo al carico effettivo di imposizione, e non solo all’aliquota nominale di imposizione societaria, gravante sulla società estera controllata76. Dalla formulazione della norma si evince la necessità di porre a raffronto – secondo il c.d. modello del comparable tax approach – la tassazione effettiva subita all’estero e quella «virtuale» che sarebbe stata applicabile in Italia. Al fine del non facile confronto tra la tassazione effettiva estera e quella italiana, assume particolare importanza individuare le imposte estere da prendere in esame soprattutto qualora queste abbiano un presupposto diverso rispetto all’imposizione italiana77, vi siano diversi enti territoriali impositori nello Stato di residenza della controlla-
positive avrebbe infatti istantaneamente comportato, in assenza di tale correttivo transitorio, serie conseguenze negative nei rapporti con soggetti residenti in tali Stati o territori (…) pur non essendo gli Stati in questione inclusi ad oggi in alcuna black list». Inoltre, secondo l’Autore, un effetto indiretto derivante della formulazione di tale disposizione transitoria è che «per un periodo di 5 anni dalla pubblicazione del Decreto Ministeriale ex art. 168-bis si considerano automaticamente inclusi in tale decreto anche i soggetti che non erano qualificati come beneficiari “di regimi fiscali privilegiati” (…) pur essendo residenti in Stati e territori che per altro verso sono annoverati tra i “paradisi fiscali”. È il caso, ad esempio, del Principato di Monaco, che si qualifica come Stato “a regime fiscale privilegiato” “con esclusione delle società che realizzano almeno il 25% del fatturato fuori dal Principato” (…) e delle società residenti nella Confederazione Elvetica, che non costituisce “paradiso fiscale” ai fini del Decreto citato [D.M. 21 novembre 2001] se non con “riferimento alle società non soggette alle imposte cantonali e municipali”, quali le società holding, ausiliarie e “di domicilio”». 76 Al riguardo, va osservato che le legislazioni europee che si riferiscono all’imposizione effettiva non attribuiscono rilevanza all’aliquota nominale ma a quella effettiva, derivante dal rapporto tra l’ammontare delle imposte applicate al soggetto estero e il reddito prodotto dallo stesso, rideterminato secondo le regole dello Stato estero che applica la normativa CFC, L. Miele, Il bilancio detta il confronto sul prelievo CFC, in Il Sole 24 Ore del 3 agosto 2009. 77 Cfr. art. 165 del TUIR rubricato «Credito d’imposta per i redditi prodotti all’estero».
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ta, ovvero nel caso in cui il prelievo sia esercitato anche in Stati diversi da quello di residenza della controllata. Inoltre, è opportuno individuare dei criteri omogenei di computo dell’onere tributario estero, considerando, come evidenziato dalla dottrina78, l’esistenza di eventuali divergenze temporanee inerenti la determinazione della base imponibile. In particolare, possono sussistere divergenze di carattere non strettamente temporaneo, ma che tuttavia influiscono sul confronto fra i livelli di imposizione effettiva in via occasionale o marginale che, come tali, a nostro avviso non dovrebbe essere considerate ai fini del confronto dell’imposta estera con quelle italiane. La seconda condizione richiesta dalla norma è che la CFC abbia conseguito proventi derivanti per più del 50% dalla gestione, dalla detenzione o dall’investimento in titoli, partecipazioni, crediti o altre attività finanziarie, dalla cessione o dalla concessione in uso di diritti immateriali relativi alla proprietà industriale, letteraria o artistica (c.c.dd. passive income), nonché dalla prestazione di servizi nei confronti di soggetti che direttamente o indirettamente controllano la società o l’ente non residente, ne sono controllati o sono controllati dalla stessa società che controlla la società o l’ente non residente, ivi compresi i servizi finanziari (ossia, prestazione di servizi intercompany). L’estensione della disciplina CFC alle imprese controllate ovunque residenti non trova applicazione qualora il soggetto residente dimostra che l’insediamento all’estero non rappresenta una costruzione artificiosa – espressione questa mutuata dalla sentenza della Corte di Giustizia 12 settembre 2006, causa C-196/04, «Cadbury Schweppes»79 – volta a conseguire un indebito vantaggio fiscale80. A tal fine, il contribuente dovrà ricorrere alla procedura di interpello di cui all’art. 11 della legge 27 luglio 2000, n. 21281, come espressamente previsto dall’art. 167, comma 5, TUIR. È importante notare che non viene richiesto che la CFC estera dimostri il radicamento geografico, ovvero economico, con lo Stato estero di insediamento; inoltre, dalla formulazione della norma sembra emergere quello che a noi pare essere un possibile (e probabile) contrasto della normativa in esame con la giurisprudenza elaborata dalla). Come già evidenziato, infatti, in
78 C. Feliziani, A. Manzitti, Alle società estere regole lontane dai principi UE, in Il Sole 24 Ore del 18 luglio 2009, p. 21, evidenziano l’opportunità di trascurare le differenze derivanti da fattori incidentali, quali vincoli temporali alla deducibilità di un costo o alla riportabilità delle perdite. 79 Con tale caso giurisprudenziale, la Corte di Giustizia è stata invitata per la prima volta ad esaminare la compatibilità delle CFC rules (nella specie, quelle inglesi, contenute negli artt. 747-756 e negli Allegati 24-26 della legge inglese del 1988 sull’imposta sul reddito delle società) con il diritto comunitario e, in particolare, con le libertà di stabilimento e di circolazione di capitali. 80 Cfr. art. 167, comma 8-ter del TUIR, introdotto dall’art. 13, comma 1, lett. c), del D.L. n. 78/2009. 81 Cfr. art. 11 della legge del 27 luglio 2000, n. 212, rubricata «Disposizioni in materia di statuto dei diritti del contribuente».
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altra sede, la sentenza Schweppes citata al fine di definire una costruzione come artificiosa dà importanza esclusivamente all’inesistenza di reale esistenza della struttura all’estero in un determinato Paese e non anche, a differenza della norma italiana anche al livello di tassazione. In particolare, la Corte di Giustizia in tale sentenza (relativa alla società inglese Cadbury Schweppes che, tra l’altro aveva delle società controllate in Irlanda) ha chiarito che costituisce costruzione di puro artificio una società fantasma o schermo e, pertanto, saranno considerate tali le società che non hanno nessuna sostanza economica. In sostanza, deve essere considerata costruzione di puro artificio qualsiasi società fittizia che non esercita alcuna attività economica reale nel territorio dello Stato membro di insediamento, con la conseguenza che l’insediamento è considerato reale, nonché effettivo, qualora tale società abbia sostanza economica, a nulla rilevando la circostanza che nello Stato estero di insediamento la tassazione è inferiore a quella dello Stato della società madre. La Corte di Giustizia, infatti, nel paragrafo 37 della sentenza Cadbury Schweppes ha chiarito che la costituzione di una società allo scopo di fruire di una legislazione più vantaggiosa o, più specificamente, dei vantaggi fiscali legalmente offerti dalle norme in vigore in uno Stato membro diverso da quello in cui risiede non costituisce abuso della libertà di stabilimento82. A noi pare che l’aver ampliato l’ambito di applicazione della disciplina CFC a società controllate residenti in Paesi Comunitari in funzione del livello di tassazione, nonché della composizione dei proventi percepiti, non sia del tutto coerente con il predominante l’indirizzo giurisprudenziale comunitario in precedenza
82 Tale affermazione è senz’altro condivisibile. Cfr., in tal senso: il par. 27 della sentenza della Corte di Giustizia [??] marzo 1999, causa C-212/97, «Centros Ltd», nel quale è stato chiarito che il fatto che un cittadino di uno Stato membro che desideri creare una società scelga di costituirla nello Stato membro le cui norme di diritto societario gli sembrino meno severe e crei succursali in altri Stati membri non può costituire di per sé un abuso del diritto di stabilimento; e il par. 96 della sentenza della Corte di Giustizia 30 settembre 2003, causa C-167/2001, «Inspire Art», dove è stato precisato che la circostanza che la società sia stata creata in uno Stato membro unicamente per fruire di una legislazione più vantaggiosa non costituisce un abuso, e ciò anche qualora la società in questione svolga l’essenziale, se non il complesso, delle sue attività economiche nello Stato di stabilimento. Cfr., in dottrina, R. Lupi, Illegittimità delle regole CFC se rivolte a Paesi comunitari: punti fermi e sollecitazioni sulla sentenza Schweppes, in Dialoghi di Diritto tributario n. 12/2006, pp. 1589 e ss.; l’Autore dall’esame della sentenza Cadbury Schweppes trae la condivisibile conclusione che le misure di contrasto debbano essere limitate alle ipotesi in cui la struttura è meramente di facciata, ovvero sia fittizia, mentre le attività effettive meritano la protezione del Trattato CE qualunque sia il loro grado di collegamento al territorio. Cfr., anche, R. Fontana, The Uncertain Future of CFC Regimes in the Member States of the European Union – Part. 2, in European Taxation n. 7/2006, pp. 317 e ss.; A. Rainer, J. Roels, O. Thommes, E. Tomsett, H. Hurk, G. Weening, ECJ Restricts Scope of CFC Legislation, in Intertax, vol. 34, n. 12/2006, pp. 636 e ss.; G. Rolle, CFC Legislation e abuso della libertà di stabilimento, in Fiscalità Internazionale, n. 12/2006, pp. 534 e ss.; S. Cipollina, CFC legislation e abuso della libertà di stabilimento: il caso Cadbury Schweppes, in Riv. dir. fin., n. 1/2007, pp. 15 e ss.
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richiamato. Inoltre, per effetto delle modifiche, si avranno due categorie distinte di società controllate estere per le quali troverà applicazione l’art. 167 del TUIR; quelle rientranti nell’ambito di applicazione del regime CFC in ragione del livello di imposizione effettivo e della composizione dei proventi conseguiti e quelle assoggettate al medesimo regime in ragione della localizzazione in un Paese o territorio considerato black list a prescindere, in alcuni casi, dal livello di imposizione effettivo (si pensi, ad esempio, a giurisdizioni estere considerate dalla black list come paradisi fiscali puri) 83. Ovviamente, l’effettiva compatibilità di tale estensione della normativa CFC (e segnatamente dei commi 8-bis e 8-ter dell’art. 167 del TUIR) con il diritto comunitario e, in particolare, con la libertà di stabilimento (artt. 43-48 del Trattato CE)84 – dovrà essere valutata nel tempo alla luce della concreta prassi applicativa; premesso che le restrizioni alla libertà di stabilimento sono vietate, e che, come osservato, secondo la Corte di Giustizia nell’orientamento citato considera di puro artificio solamente una costruzione non reale e non effettiva, va tuttavia osservato che sembra fondato il sospetto che per la nostra Amministrazione finanziaria possano essere considerate di puro artificio quelle società assoggettate ad un livello di tassazione effettivo minimo, ancorché effettivamente e stabilmente insediate, per il tramite di locali, personale e attrezzature, nello Stato estero85. L’estensione della disciplina CFC anche alle società residenti, ovvero localizzate, in Stati o territori considerati a fiscalità ordinaria, non trova applicazione nei confronti delle imprese estere collegate ivi residenti. 5.2.1
Tassazione del reddito della CFC Il reddito prodotto all’estero dalla CFC è imputato alla controllante italiana secondo un criterio di imputazione per competenza e non secondo un criterio di imputazione per cassa; inoltre, come in precedenza osservato, il presupposto impositivo
83 Cfr., ad esempio, la risoluzione ministeriale 21 settembre 2007, n. 262, nella quale è stato chiarito che «l’inclusione di uno Stato o territorio … tra gli Stati considerati comunque a fiscalità privilegiata, a prescindere dal tipo di regime tributario concretamente applicabile alle società di volta in volta considerate è stata effettuata dal legislatore in base a valutazioni non sindacabili in sede di interpello». 84 In particolare, l’art. 43 del Trattato CE dispone che «le restrizioni alla libertà di stabilimento dei cittadini di uno Stato Membro nel territorio di un altro Stato membro vengono vietate. Tale divieto si estende altresì alle restrizioni relative all’apertura di agenzie, succursali, o filiali, da parte dei cittadini di uno Stato membro stabiliti sul territorio di uno Stato membro». 85 Tra l’altro non sembra compatibile con la giurisprudenza comunitaria neanche un’interpretazione che riconduca fra le costruzioni di puro artificio quelle strutture che, pur dotate di adeguate risorse umane e mezzi tecnici, conducano attività prive di apprezzabili elementi di collegamento con l’economia del territorio di insediamento.
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sorge, per il soggetto controllante residente, con la chiusura dell’esercizio o periodo di gestione del soggetto estero partecipato e, quindi, con riferimento a tale momento che vanno verificate le condizioni per l’applicazione della disciplina in esame. In altri termini, l’obbligazione tributaria sorge, in capo al soggetto residente controllante, nel periodo d’imposta nel corso del quale si verifica l’evento in questione (ossia la chiusura dell’esercizio o periodo di gestione del soggetto estero partecipato), con la conseguenza che il reddito della CFC sarà imputato, al soggetto residente, solo a decorrere da tale momento. In particolare, i componenti positivi e negativi di reddito della CFC, imputati per competenza al soggetto residente, dovranno essere riqualificati fiscalmente da parte di quest’ultimo secondo quanto disposto dagli artt. 55 e seguenti del TUIR86 (ossia, secondo le regole che governano la determinazione del reddito d’impresa). Qualora, a seguito dell’applicazione delle norme sul reddito sul reddito d’impresa, dovesse scaturire una perdita della CFC, questa è riportabile in diminuzione del solo reddito del soggetto non residente, non potendo essere imputate ai soggetti controllanti residenti; restando le perdite imputate alla partecipata estera, questa potrà scomputare le stesse anche nel caso in cui il soggetto controllante italiano dovesse cedere ad altro soggetto le partecipazioni di controllo detenute nella CFC. Nel caso di diverse CFC, controllate dallo stesso soggetto residente, il reddito di ognuna di esse deve essere determinato autonomamente, con la conseguenza che nessuna compensazione potrà essere effettuata tra i risultati conseguiti; inoltre, nel caso di partecipazioni a catena in due CFC, l’una sottoposta all’altra, il reddito tassato sull’una ovviamente non deve essere tassato nuovamente sull’altra qualora ne venga deliberata la distribuzione a quest’ultima87. La disciplina CFC sul punto prevede che nel caso di comportamenti posti in essere al fine di ridurre il reddito imponibile della CFC trovino applicazione gli artt. 37 e 37-bis del D.P.R. n. 600/1973. Ovviamente, gli utili distribuiti dall’impresa partecipata estera, qualora distribuiti, non concorreranno alla formare il reddito imponibile del soggetto parte-
86 Il Legislatore del 2001 tra l’altro ai fini della determinazione del reddito della CFC, aveva richiamato le seguenti norme del TUIR: artt. 96 (ora relativo al regime degli interessi passivi nel reddito d’impresa) e 96-bis (abrogato) che erano relativi ai dividendi provenienti da soggetti controllati ex art. 2359 c.c. e da società «figlie», ai sensi della direttiva madre-figlia, 103 (ora relativo all’ammortamento dei beni immateriali) e 103-bis del TUIR (abrogato) relativo alle imprese assicurative, nonché agli enti creditizi e bancari, 121-bis del TUIR (ora abrogato) relativo alle condizioni e ai limiti di deducibilità delle spese e degli altri componenti negativi relativi agli autoveicoli e altri mezzi di trasporto. Ai fini dell’applicazione dei componenti di reddito della CFC, non trovano applicazione le disposizioni ora contenute nel comma 4 dell’art. 86 del TUIR (con la conseguenza che nel caso di cessione della partecipazione di controllo nella CFC l’eventuale tassazione della plusvalenza concorrerà per intero alla formazione del reddito nell’esercizio in cui è conseguita). 87 Cfr. circolare Assonime n. 65/2000, cit.
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cipante residente fino a concorrenza dell’ammontare complessivo dei redditi ad esso imputati e tassati per trasparenza. Nel caso di catena partecipativa che veda coinvolti anche soggetti intermedi non black list si presume che i dividendi distribuiti all’ultimo anello della catena partecipativa – ossia al soggetto controllante finale italiano – si considerano formati, fino a concorrenza, con gli utili prodotti e distribuiti dalla CFC estera. Inoltre, va considerato che per effetto di quanto disposto dall’art. 36, comma 3, del D.L. n. 223/2006 – che ha modificato l’art. 47, nonché l’art. 89, comma 3, del TUIR – a partire dal periodo d’imposta in corso al 4 luglio 2006, gli utili provenienti (e non solamente corrisposti) da soggetti black list, anche qualora prodotti prima di tale data, hanno concorso integralmente, salvo interpello favorevole di cui alla lett. b) del comma 5 dell’art. 167 del TUIR di cui si dirà, alla formazione del reddito imponibile del soggetto partecipante italiano. Tenuto presente che la norma non sembra porre alcun ordine di priorità in relazione alla movimentazione di tali utili, da un punto di vista pratico nel caso di distribuzioni effettuate da CFC per il tramite di soggetti intermedi della catena partecipativa residenti in Stati non black list e ivi soggetti a tassazione ordinaria si pongono non pochi problemi di carattere applicativo. Solo per fare alcuni esempi, uno dei temi che presenta risvolti di notevole complessità è proprio quello relativo al particolare ordine di distribuzione dei dividendi provenienti dai paradisi fiscali, nel caso in cui evidentemente il soggetto intermedio non black list distribuisca sia utili propri che utili provenienti da CFC. In tali ipotesi, infatti, l’utile della CFC è andato a confluire in quello del soggetto non black list che ha poi provveduto alla sua distribuzione. Per rimanere alle ipotesi principali, si potrebbe ritenere che: • gli utili provenienti dalla CFC si considerino prioritariamente distribuiti rispetto a gli altri (e, quindi, anche a quelli prodotti e distribuiti dal soggetto intermedio della catena partecipativa non black list), ovvero che • questi si considerano distribuiti successivamente a tutti gli altri, o ancora che • gli utili provenienti dalla CFC si considerano distribuiti contemporaneamente agli utili distribuiti dal soggetto intermedio non black list, secondo un criterio proporzionale che tenga conto degli utili prodotti e accumulati dalla CFC e dal soggetto non black list. Posto che l’adozione, da parte del contribuente, di un criterio assolutamente discrezionale nella distribuzione degli utili sarebbe oggetto di una possibile censura da parte della nostra Amministrazione finanziaria (che in questo modo vedrebbe tra l’altro vanificata la finalità antielusiva delle modifiche apportate con il D.L. n. 223/2006), la rigorosa lettura della norma sembrerebbe far propendere per un’imputazione prioritaria, in capo al soggetto percipiente italiano, degli utili provenienti dalla CFC rispetto a tutti gli altri. In altri termini, quest’utile, ancorché confluito in quello del soggetto non black list, proprio perché proveniente
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dalla CFC manterrebbe una propria qualificazione fiscale per così dire prioritaria e «assorbente» rispetto a quello dell’utile prodotto dal soggetto non black list. Secondo tale lettura normativa, l’utile distribuito dal soggetto intermedio non black list si considererebbe prioritariamente formato, e fino a concorrenza, dell’intero ammontare dall’utile prodotto e a questo distribuito, anche in precedenza esercizi, dalla stessa CFC, con la conseguente tassazione integrale del medesimo da parte del soggetto controllane italiano. Non può tuttavia trascurarsi che, secondo una lettura sicuramente più ragionevole, nonché auspicabile, della norma – che però al momento non sembra essere confortata, a quanto è dato sapere, da nessuna interpretazione ministeriale ufficiale – l’ordine di distribuzione di detti utili dovrebbe essere quello proporzionale, con la conseguenza che il soggetto italiano riceverebbe sia utili della CFC sia utili prodotti dal soggetto non black list, tassando questi (integralmente, ovvero nella misura del 5%) secondo una ripartizione proporzionale, sulla base degli importi accumulati dei due diversi tipi di utili – quello della CFC e quello del soggetto non black list88. Inoltre, il soggetto intermedio non black list potrebbe distribuire detti utili anche in esercizi diversi da quello in cui questi sono stati prodotti e distribuiti dalla CFC; in tale ipotesi, dal momento che la norma non pone alcun limite temporale all’attribuzione prioritaria in capo al soggetto italiano di detti utili, l’utile si considera comunque proveniente dal paradiso fiscale e, in quanto tale, dovrebbe essere assoggettato a tassazione ordinaria. Tra l’altro, nel caso di distribuzioni di utili effettuate da società comunitarie nei cui confronti trova applicazione il particolare regime di esclusione dei dividendi dal concorso alla formazione del reddito dei dividendi previsto in tema di società madri e figlie comunitarie ci si potrebbe chiedere quale parte degli utili distribuiti beneficia della tassazione nella misura ridotta del 5%, nonché quale parte degli stessi non vada assoggetta a nessuna ritenuta alla fonte al momento del pagamento dei dividendi. E ancora al di fuori delle ipotesi di applicazione della direttiva madre-figlia ci si potrebbe chiedere se la minore ritenuta convenzionale prevista in tema di dividendi dall’art. 10 del Modello di Convenzione OCSE contro le doppie imposizioni debba applicarsi solamente sui dividendi distribuiti dal soggetto non black list, ovvero sull’intero ammontare (compreso anche degli utili della CFC) dei dividendi da questo distribuiti al soggetto italiano. Infine, le osservazioni in precedenza effettuate sono destinate a complicarsi notevolmente da un punto di vista operativo sia per effetto dell’inclusione, al ricorrere delle condizioni previste dalla normativa, a partire
88 Tale lettura della norma sembrerebbe avvalorata dalla circostanza che nel silenzio della norma detto criterio è stato di frequente indicato dalla stessa Amministrazione finanziaria (cfr., ad esempio, la circ. 17 marzo 2005, n. 11, la ris. 29 dicembre 2003, n. 232, nonché la ris. 8 aprile 1980, n. 9).
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dal 1° gennaio 2010, nell’ambito soggettivo di applicazione della normativa CFC delle società comunitarie sia nelle ipotesi in cui la catena di controllo è formata da un numero considerevole di società intermedie non black list residenti in diversi Paesi che effettuano distribuzione a cascata, anche in periodi diversi, di utili provenienti da CFC. 5.2.2
Tassazione dei redditi da assoggettare a tassazione separata I redditi imputati ai soggetti partecipanti – convertiti secondo il cambio del giorno di chiusura dell’esercizio, ovvero del periodo di gestione della CFC – sono assoggettati, da ciascun partecipante, a tassazione separata nel Quadro RM del Modello Unico 2010 – Società di capitali, per il medesimo periodo d’imposta in cui gli sono imputati i redditi della partecipata estera, con l’aliquota media di tassazione propria del reddito complessivo netto e, comunque, non inferiore al 27%89. La tassazione separata del reddito ha l’effetto di evitare che il reddito della controllata estera possa essere portato in deduzione dalle perdite della controllante italiana. In particolare, come osservato, dalla dottrina90 «il regime di tassazione separata è volto ad impedire sia che i risultati negativi del soggetto residente possano abbattere l’utile dell’impresa estera partecipata sia che eventuali risultati negativi di quest’ultima possano essere portati a compensazione dell’utile direttamente conseguito dal soggetto residente». In altri termini, il Legislatore, facendo ricorso alla tassazione separata del reddito della CFC, ha voluto sostanzialmente evitare che attraverso il consolidamento dei risultati conseguiti fossero vanificati gli effetti della stessa disciplina con la conseguente non tassazione del reddito prodotto nel paradiso fiscale. La tassazione separata del reddito costituisce una scelta obbligata dato che l’art. 168 del TUIR non contempla la possibilità di optare per la tassazione ordinaria. Con riferimento alle modalità di determinazione dell’acconto dell’imposta dovuta sui redditi derivanti da partecipazioni in imprese controllate estere, le istruzioni ministeriali al Modello Unico 2010 – Società di Capitali, prevedono che l’acconto ai fini delle imposte sui redditi vada determinato
89 Va evidenziata la presunta incostituzionalità di siffatto principio, dal momento che secondo quanto disposto dall’art. 23 e 53 della Costituzione tutti devono concorrere alla spesa pubblica in ragione del principio della capacità contributiva che, nel caso di mancato riconoscimento delle perdite prodotte dalla CFC, viene evidentemente a mancare. A livello internazionale, tra i Paesi che prevedono una normativa CFC l’approccio che prevale è comunque quello di consentire l’utilizzo delle perdite prodotte dalla CFC per compensare gli utili prodotti dal soggetto controllante residente. Tra l’altro, l’Assonime nella circ. n. 65/2000 ha ritenuto che la previsione di una misura minima di imposizione, da applicare al reddito della CFC, dovrebbe consentire la tassazione dei proventi di quest’ultima anche in caso di assenza di reddito imponibile nazionale da parte del soggetto che ne detiene il controllo. 90 Cfr. circolare Assonime n. 65/2000, cit.
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autonomamente rispetto a quello per i redditi assoggettati in via ordinaria ad IRES. Particolare importanza assume la tematica relativa al riconoscimento dei valori fiscalmente rilevanti dei beni che compongono l’attivo, nonché il passivo, patrimoniale della CFC; in particolare, il criterio adottato dal Legislatore – che presenta indubbi vantaggi di ordine semplificativo – prevede il riconoscimento integrale dei valori emergenti dal bilancio relativo all’esercizio dell’impresa controllata estera anteriore a quello di decorrenza delle nuove disposizioni. Tale riconoscimento è subordinato alla circostanza che i valori di partenza dei beni risultino conformi a quelli derivanti dall’applicazione dei criteri contabili adottati nei precedenti esercizi, ovvero che ne venga attestata la congruità dai soggetti in possesso dei requisiti previsti dall’art. 11 del D.lgs. 27 gennaio 1992, n. 88. – ossia, revisori contabili, dottori commercialisti. Tale soluzione, come chiarito nella Relazione al decreto di attuazione delle disposizioni in esame, non ha carattere transitorio, dal momento che si rende applicabile anche successivamente all’entrata in vigore della nuova disciplina; inoltre, nel caso di società neo-costituita, il riferimento potrà essere ugualmente operato ai valori emergenti dalla situazione patrimoniale di costituzione. 5.2.3
Obblighi contabili e dichiarativi del soggetto controllante residente Il soggetto controllante residente, anche non titolare di reddito d’impresa, deve dichiarare il reddito del soggetto partecipato estero assoggettato a tassazione in un apposito prospetto91 da allegare alla propria dichiarazione dei redditi agli effetti delle imposte sui redditi. Ai fini della determinazione del reddito da imputare al soggetto controllante residente, si considera valida la contabilità tenuta dall’impresa estera partecipata secondo le regole del Paese a fiscalità privilegiata. In altri termini, «la norma non ha posto nessun obbligo documentale e di tenuta di scritture di supporto alla determinazione del reddito in capo al soggetto partecipante; vengono ritenute sufficienti le scritture tenute in loco dal soggetto partecipato»92. Resta, comunque, ferma la facoltà per l’Amministrazione finanziaria di chiedere al soggetto residente controllante (obbligato a fornire tale documentazione nel termine di 30 giorni dalla richiesta) idonea documentazione che supporti la rideterminazione del reddito dell’impresa partecipata estera secondo le regole nazionali e individui il costo di acquisizione dei beni relativi all’attività esercitata93.
91 Cfr. art. 4, comma 2: « Ai fini dell’applicazione dell’art. 2, il bilancio ovvero altro documento riepilogativo della contabilità di esercizio redatti secondo le norme dello Stato o territorio in cui risiede o è localizzata l’impresa, la società o l’ente non residente costituisce parte integrante del prospetto di cui al comma 1». 92 Cfr. Relazione al decreto di attuazione. 93 Con particolare riferimento alla tematica della iscrizione in bilancio delle imposte sulla CFC,
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5.2.4
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La disciplina delle «circostanze esimenti» Secondo l’originaria formulazione della lett. a) del comma 5 dell’art. 167 del TUIR (c.d. prima circostanza esimente) la disciplina CFC non trova applicazione quando il soggetto controllante italiano riesce a dimostrare, tramite interpello preventivo, che la società o ente controllato non residente svolge un’effettiva attività industriale o commerciale94, come sua principale attività nello Stato o nel territorio nel quale ha sede. Inoltre, come previsto dalla lett. b) del comma 5 del medesimo articolo la disciplina in commento non si applica quando il soggetto controllante residente, tramite interpello preventivo, riesce a dimostrare che dalla detenzione delle partecipazioni nella CFC non è conseguito l’effetto di localizzare, sin dall’inizio del periodo di possesso, i redditi in Stati o territori in cui gli stessi sono sottoposti a regimi fiscali privilegiati. Con particolare riferimento alla prima circostanza esimente, va osservato che l’art. 13, comma 1, lett. a), del D.L. n. 78/2009 citato ha modificato la formulazione di tale esimente, prevedendo, in particolare, che questa trovi applicazione qualora la società controllata estera residente, ovvero localizzata, in un paradiso fiscale svolge un’effettiva attività industriale o commerciale come sua principale attività nel mercato dello Stato o nel territorio di insediamento. Ne deriva che, a differenza della previgente formulazione, ora viene richiesto un radicamento non solo geografico ma anche economico con lo Stato estero di insediamento. Pertanto, dal confronto tra le formulazioni di tale circostanza esimente, appare evidente che la valutazione relativa alla sussistenza delle circostanze esimenti si caratterizza per un ben più ampio margine di discrezionalità rispetto al passato; ci pare, infatti, profondamente diverso verificare se una data impresa abbia una struttura materiale in un dato territorio, rispetto alla valutazione di un grado di radicamento economico della CFC estera con lo Stato o territorio in cui ha sede.
riteniamo possibili i seguenti comportamenti contabili: a) iscrizione in bilancio delle imposte sul reddito della CFC assolte dalla società italiana; b) imputazione nel bilancio della società italiana sia del reddito della CFC che del relativo onere fiscale; c) iscrizione delle imposte dovute sui redditi della CFC come imposte anticipate – imposte differite attive – della società italiana. 94 Al riguardo, si osserva che nella seduta della Camera del 4 ottobre 2000 la locuzione industriale o commerciale è stata intesa come comprensiva di ogni attività d’impresa, e pertanto senza esclusione delle attività finanziarie, bancarie e assicurative. In tal senso, anche la circ. 26 gennaio 2001, n. 9/E nella quale è stato sostenuto che «per attività industriali e commerciali si devono intendere quelle indicate nell’art. 2195 del Codice civile, il quale esplicitamente prevede che le disposizioni di legge che fanno riferimento alle attività commerciali si applicano a tutte le società indicate nell’articolo stesso: attività industriali dirette alla produzione di beni e servizi; attività intermediarie nella circolazione dei beni, attività di trasporto per terra, per acqua o per aria, attività bancarie e assicurative, nonché altre attività ausiliarie delle precedenti».
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In sostanza, anche tenuto conto delle interpretazioni Ministeriali fornite dalla nostra Amministrazione Finanziaria95 diversi sono gli elementi che devono e dovranno essere presi in considerazione a fine di provare il radicamento della società controllata estera nello Stato o territorio estero di insediamento; pertanto, stante il riferimento operato dalla norma al radicamento non solo geografico ma anche economico, è possibile affermare che non sarà più sufficiente la mera disponibilità in loco di una struttura organizzativa96 per quanto idonea e funzionale all’attività esercitata dalla CFC; inoltre, al fine della disapplicazione della CFC, è necessario dimostrare che la questa partecipa in modo stabile e continuativo alla vita economica dello Stato o del territorio estero ospitante, ossia che è rinvenibile un nesso di carattere economico, politico e strategico della CFC con lo Stato o territorio in cui ha sede97. Appare evidente, quindi, l’attenzione posta dal Legislatore alla nozione di mercato locale nel quale la CFC svolge la propria attività e, al tale fine, è opportuno commentare le interpretazioni fornite sul punto. In particolare, autorevole dottrina98 ha ritenuto che, conformemente a quanto
95 Cfr. ris. 5 maggio 2008, n. 187/E; ris. 8 aprile 2009, n. 100/E; ris. 26 maggio 2009, n. 128/E; A. Tomassini, in Corr. trib. n. 20/2009, p. 1637; Cfr. M. Piazza, S. Simontacchi, Senza mercato locale il Fisco applica la CFC, in Il Sole 24 Ore del 16 febbraio 2009, p. 5; M. Gabelli, CFC e controllate svizzere: brevi note critiche alla svolta dell’Amministrazione, in Fiscalità internazionale n. 1/2009, p. 9; G. Rolle, Clienti esteri, niente sconti, in Il Sole 24 Ore del 9 aprile 2009, p. 26; G. Ferranti, Entrate e Unione in cerca di intesa, ivi del 15 giugno 2009, p. 2. 96 L’Amministrazione finanziaria già nella circ. 12 febbraio 2002, n. 18, aveva chiarito che l’effettivo svolgimento dell’attività della società controllata estera nello Stato o territorio nel quale aveva la propria sede doveva essere valutato in relazione alla idoneità della struttura organizzativa in loco predisposta; cfr., tra le altre, le risoluzioni 31 ottobre 2002, n. 343; 19 dicembre 2002, n. 386; 19 dicembre 2002, n. 389; 5 maggio 2008, n. 187. 97 Sulla necessità di dimostrare un nesso di tipo economico, politico, geografico o strategico, in modo da partecipare in maniera stabile e continuativa alla vita economica dello Stato estero, si confrontino la ris. 8 aprile 2009, n. 100, nella quale è stato chiarito che «l’impresa estera in tanto potrà considerarsi effettivamente localizzata in territorio a fiscalità privilegiata in quanto abbia stabilito con quel territorio rapporti di tipo economico, politico, geografico o strategico»; la ris. 10 novembre 2008, n. 427, nella quale è stato ritenuto che «non si rinviene alcun nesso economico, politico, geografico o strategico tra il Paese in cui la CFC è localizzata e i mercati ai quali si rivolge l’attività svolta e pertanto è da ritenere che la costituzione di una società in territorio elvetico non appare giustificata dall’esistenza di apprezzabili motivazioni di carattere economico-imprenditoriale»; e la ris. 22 giugno 2009, n. 165, nella quale è stato precisato che «un’entità economica come quella in esame in tanto potrà considerarsi effettivamente localizzata in territorio a fiscalità privilegiata in quanto abbia stabilito con quel territorio rapporti di tipo economico, politico, geografico o strategico. In altri termini, è necessario che detta entità risulti effettivamente radicata nel territorio estero di localizzazione, in modo da partecipare in maniera stabile e continuativa alla vita economica di quest’ultimo». 98 Cfr., in dottrina, G. Maisto, Controllate estere poco allineate, Il Sole 24 Ore dell’8 luglio 2009,
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già espresso dall’Agenzia delle Entrate nella ris. 26 maggio 2009, n. 12899, «il riferimento al mercato dello Stato o territorio di insediamento potrebbe essere sostituito con un più ampio richiamo al mercato regionale di riferimento cui appartiene lo Stato o territorio di insediamento. Inoltre, sarebbe opportuno prevedere che l’esercizio di attività industriali di produzione di beni nello Stato con regime fiscale privilegiato soddisfa comunque la condizione dell’esimente anche se il mercato (di approvvigionamento e di sbocco) non è localizzato in quello Stato o area geografica. Diversamente, si penalizzerebbe la delocalizzazione delle attività produttive di gruppi italiani in paesi maggiormente competitivi sotto il profilo industriale (ad esempio, per minor costo del lavoro o know-how nella produzione di particolari beni). Pertanto il riferimento al mercato rilevante dovrebbe riguardare solo le attività commerciali e non anche quelle industriali». Altra dottrina100 è dell’avviso che il mercato locale dovrebbe essere interpretato non solo avendo come presupposto il dato numerico delle vendite o degli acquisti effettuati all’interno dell’area considerata, ma, più in generale, anche in base ad elementi politici, strategici e normativi; infine, altra dottrina101 ha ritenuto che il mercato dovrebbe essere inteso come il complesso delle relazioni economiche e locali ovvero delle peculiarità del settore, valorizzando fattori quali le fonti di approvvigionamento, le risorse umane, i rapporti con Università e centri di ricerca. Al riguardo, ci sembra opportuno richiamare anche quanto chiarito recentemente sul tema da Confindustria la quale ha ritenuto, in maniera condivisibile, che è necessario che si dimostri che la società controllata estera dispone nel proprio Stato di residenza delle principali funzioni organizzative, nonché delle risorse necessarie per svolgere autonomamente la propria attività, concretizzando così il proprio oggetto sociale. Deve prendersi, comunque, atto della difficoltà pratica di definire correttamente la nozione di mercato locale, nonché quella correlata di prevalente attività esercitata, perché, al di là della mera definizione normativa, non risulta agevole definire concetti come quelli del radicamento politico, economico, ovvero strategico, della CFC con lo Stato o territorio in cui ha sede. Infatti, ad esempio, il riferimento operato dalla norma al mercato locale rende difficile la dimostrazio-
p. 29. 99 Cfr. la ris. 26 maggio 2009, n. 128; in particolare, in detta risoluzione è stata fornita una definizione più estesa di mercato di riferimento al fine di ricomprendere il mercato regionale e l’area geografica economica adiacente (ad esempio, Sud Est Asiatico per Hong Kong e Singapore). A tal fine, ci auspichiamo che tale interpretazione possa essere in futuro confermata dalla nostra Amministrazione finanziaria. 100 Cfr., in dottrina, R. Giorgetti, B. Santacroce, La lotta all’evasione punta alle controllate nei paradisi fiscali, in Il Sole 24 Ore del 25 luglio 2009, p. 4. 101 Cfr., in dottrina, G. Rolle, La stretta sulle «Cfc» scatta su due vie, in Il decreto anti-crisi/Lo scudo fiscale, in Le Guide Norme e Tributi, Il Sole 24 Ore del 7 agosto 2009, pp. 14 e ss.
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ne della prima circostanza esimente nel caso di società controllate estere black list che svolgono attività off-shore, situazione questa che ci appare ingiustificato, qualora ovviamente dette società siano genuine, ossia dotate in loco di idonea struttura organizzativa funzionale allo svolgimento di un’attività d’impresa. A nostro avviso, infatti, dovrebbe ritenersi escluso che le imprese debbano dimostrare che l’attività industriale e commerciale è rivolta al mercato del Paese di insediamento, nel senso che l’approvvigionamento (fornitori) e/o lo sbocco (clienti) è rivolto principalmente al mercato dello Stato ospitante; una simile interpretazione, infatti, ancora una volta, oltre ad essere di difficile dimostrazione, comporterebbe pesanti aggravi amministrativi in capo alle imprese, nonché penalizzerebbe eccessivamente la competitività di quei gruppi che hanno insediamenti all’estero operanti in diversi mercati nazionali. È difficile comprendere, infatti, per quale motivo le imprese dotate di strutture organizzative e produttive effettive nei Paradisi Fiscali non possano ottenere la dimostrazione della prima circostanza esimente anche se l’approvvigionamento e lo sbocco non siano localizzati in quello Stato o territorio, ancorché dimostrino di essere dotate in loco di strutture organizzative e funzionali che le consentono di svolgere la propria attività in via autonoma. A nostro avviso, la prova dell’effettivo radicamento economico della struttura estera con lo Stato estero di insediamento dovrebbe essere fornita solamente dimostrando l’esistenza di una idonea struttura produttiva che è in quanto tale espressiva di una sostanza economica reale; per contro, la dimostrazione da parte del soggetto italiano della sussistenza di elementi di collegamento di carattere economico, politico, geografico o strategico (e quindi di una connessione di carattere extra-tributario) della struttura estera con il Paese ospitante rende eccessivamente sproporzionata la normativa in commento. La norma così come scritta pone il dubbio se sia possibile invocare con successo la prima esimente qualora la società estera svolga sia servizi off-shore a favore di tutte le società del gruppo – consistenti, ad esempio, nella gestione centralizzata della tesoreria, nei servizi di marketing, ovvero di pubblicità, a favore di tutte le società del gruppo – sia attività di produzione rivolta al mercato locale; infatti, qualora quest’ultima non sia prevalente rispetto alla prima (nel senso che la percentuale di acquisiti e/o vendite sul mercato locale non sia superiore al 50%) ci si chiede se si possa ottenere la disapplicazione della disciplina CFC, pur esistendo in loco una effettiva struttura organizzativa. La circostanza che in tale ipotesi non possa essere invocata la circostanza esimente in commento oltre che essere poco ragionevole in punto di diritto, ci sembra essere eccessivamente penalizzante, dal momento che tutte quelle imprese insediate genuinamente all’estero – e, quindi, dotate di una sostanza economica reale – sarebbero fortemente e ingiustamente penalizzate. Sul punto, va osservato che l’Agenzia delle Entrate102 ha ritenuto la normativa
102 Cfr. la ris. n. 427/2008 citata nella quale è stato chiarito che una società controllata elvetica,
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CFC non disapplicabile qualora la società controllata residente, ovvero localizzata, in un Paese a regime fiscale privilegiato svolga attività estero su estero; è auspicabile che, per evitare risultati del tutto irragionevoli, la nozione di estero su estero non sia limitata al mercato di sbocco, ma prenda in considerazione, al fine della dimostrazione dell’effettivo radicamento economico con lo Stato estero di insediamento, anche ogni altro possibile legame con il Paese di insediamento quale, ad esempio, il rapporto con le fonti di approvvigionamento. Inoltre, va osservato che l’art. 13, comma 1, lett. b), del D.L. n. 78/2009, con l’aggiunta del nuovo comma 5-bis all’art. 167 del TUIR, ha previsto un’ulteriore limitazione alla possibilità di provare l’effettivo svolgimento di un’attività industriale e commerciale principale nel mercato del Paese ospitante; in particolare, è prevista l’impossibilità di applicare la prima circostanza esimente qualora i proventi della società partecipata estera o dell’ente non residente provengano da fonti qualificate per una percentuale superiore al 50%. Nello specifico, sono considerate fonti qualificate: • la gestione, la detenzione ovvero l’investimento in titoli, partecipazioni, crediti o altre attività finanziarie; • la cessione, ovvero la concessione in uso di diritti immateriali, relativi alla proprietà industriale, letteraria o artistica; • la prestazione di servizi nei confronti di soggetti che, direttamente o indirettamente, controllano la società o l’ente non residente, ne sono controllati ovvero sono controllati dalla stessa società che controlla la società o l’ente non residente, compresi i servizi finanziari. • In altri termini, la prima esimente in precedenza commentata non potrà essere invocata qualora i proventi conseguiti dalla società controllata estera derivino per una percentuale superiore al 50% da passive income, nonché da servizi intercompany. L’Agenzia delle Entrate103, in realtà, aveva già chiarito che qualora l’attività
che opera come distributore centralizzato di beni prodotti in Stati diversi dalla Svizzera (i beni venivamo acquistati e rivenduti a soggetti prevalentemente non residenti in Svizzera), operando principalmente su mercati diversi da quello elvetico, non può ritenersi effettivamente radicata in detto territorio, così da partecipare in maniera stabile e continuativa alla vita economica dello Stato svizzero. 103 Cfr., al riguardo, la ris. 29 gennaio 2003, n. 18. Si ritiene opportuno richiamare anche la posizione espressa, sia pur in tema di participation exemption, dall’Agenzia delle Entrate nella ris. 18 agosto 2009, n. 226; in tale risoluzione, è stato escluso che le attività di mero godimento hanno carattere commerciale, con la conseguenza che l’attività della società partecipata consistente nel mero sfruttamento economico del marchio di proprietà – e nella percezione di royalties conseguenti alla concessione in licenza d’uso – non soddisfa il requisito della commercialità e, quindi, non beneficia, al momento della cessione della partecipazione, del regime della participation exemption.
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svolta dalla società estera fosse limitata alla mera intestazione di attività finanziarie e al godimento degli eventuali frutti da esse prodotti, il reddito non poteva essere ricondotto ad un’attività commerciale svolta all’estero. Stante il richiamo operato dal comma 1 dell’art. 168 del TUIR104 all’art. 167 del TUIR, le modifiche in precedenza descritte trovano applicazione anche nel caso di partecipazioni in imprese estere collegate. Con particolare riferimento alle attività bancarie, finanziarie e assicurative, l’art. 13, comma 1, lett. a), del D.L. n. 78/2009 dispone che il criterio del radicamento economico, ovvero lo svolgimento dell’attività principale nel mercato locale, si ritiene soddisfatto nel caso in cui la maggior parte delle fonti, degli impieghi o dei ricavi originano nello Stato o territorio di insediamento. Al riguardo, va osservato che la scheda di lettura del Servizio Studi del Senato del luglio 2009, n. 145/I, ha ritenuto che «sembrerebbe opportuno chiarire la portata della locuzione «originano nello Stato o territorio di insediamento» riferita a fonti, impieghi o ricavi delle società o degli enti “esteri” controllati da banche e assicurazioni, ai fini dell’esclusione dalle norme CFC»105. La seconda circostanza esimente invocata dalla norma (ossia, che dalla detenzione delle partecipazioni nella CFC non è conseguito l’effetto di localizzare, sin dall’inizio del periodo di possesso, i redditi in Stati o territori in cui gli stessi sono sottoposti a regimi fiscali privilegiati) troverà applicazione quando i redditi conseguiti dalla CFC siano stati prodotti per almeno il 75% del loro ammontare in Stati o territori non inclusi nella black list e ivi sottoposti integralmente a tassazione ordinaria. In tale ipotesi, infatti, dalla detenzione delle partecipazioni non consegue l’effetto di localizzare i redditi in Stati o territori a regime fiscale privilegiato e, quindi, la localizzazione in Stati o territori black list (rectius: non inclusi nelle future white lists) non costituisce uno strumento volto a realizzare vantaggi fiscali ma una modalità legata al proprio assetto operativo. Nel caso in cui la CFC operi in Stati o territori con regime fiscale privilegiato per il tramite di stabili organizzazioni, la disciplina CFC non trova applicazione quando i redditi delle medesime risultino sottoposti integralmente a tassazione ordinaria nello Stato o territorio in cui ha sede l’impresa, la società o l’ente partecipate.
Cfr., in dottrina, G. Ferranti, L. Miele, L’attività di godimento mette fuori gioco la Pex, in Il Sole 24 Ore del 31 agosto 2009, p. 4. 104 Cfr. art. 168 del TUIR rubricato «Disposizioni in materia di imprese estere collegate». 105 Al riguardo, Confindustria, con particolare riferimento all’attività di riassicurazione – che è rivolta al mercato mondiale – ha auspicato che il radicamento con il territorio estero non possa essere comprovato dalla prevalenza delle fonti e degli impieghi, ma debba poter essere dimostrato in altro modo.
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Interpello del contribuente Il contribuente che voglia avvalersi delle esimenti in precedenza descritte deve interpellare preventivamente e obbligatoriamente l’Amministrazione finanziaria ai sensi dell’art. 11 della legge 27 luglio 2000 n. 212106, recante lo statuto dei diritti del contribuente. La procedura di interpello disciplinata nelle disposizioni in commento si differenzia da quella prevista dal regolamento del 26 aprile 2001, n. 209107 (emanato ai sensi dell’art. 11, comma 5, della legge del 27 luglio 2000, n. 212) soltanto per quanto riguarda l’individuazione dell’Ufficio al quale presentare l’istanza di interpello. In particolare, l’interpello corredato degli elementi necessari ai fini della disapplicazione della normativa CFC deve essere presentato108 all’Agenzia delle Entrate – Direzione centrale per la normativa e il contenzioso per il tramite della Direzione regionale competente per territorio. Il decreto attuativo delle disposizioni in esame prevede che la risposta debba essere fornita dall’Amministrazione con atto espresso entro 120 – ovvero 180 per le imprese che già detenevano il controllo di soggetti residenti in Paesi a regime fiscale privilegiato alla data di entrata in vigore della legge 21 novembre 2000, n. 342, ossia al 10 dicembre 2000 – giorni dalla data di consegna o di ricezione dell’istanza di interpello da parte dell’Ufficio. Se la risposta fornita dall’Amministrazione perviene entro il termine di 120 giorni gli uffici non possono emettere atti di accertamento a contenuto impositivo o sanzionatorio in contrasto con la medesima. Decorso tale termine, la risposta si intende resa positivamente nel senso della non applicazione delle disposizioni CFC al caso che ha formato oggetto dell’interpello; ne consegue il silenzio-assenso dell’Amministrazione e, quindi, l’acquiescenza di quest’ultima al comportamento o all’interpretazione prospettata dal contribuente. La mancata presentazione in via preventiva dell’interpello109 preclude defi-
106 Come disposto dall’art. 11 «Ciascun contribuente può inoltrare per iscritto all’Amministrazione finanziaria, che risponde entro 120 giorni, circostanziate e specifiche istanze d’interpello concernenti l’applicazione delle disposizioni a casi concreti e personali, qualora vi siano obiettive condizioni di incertezza sulla corretta interpretazione delle disposizioni stesse. La presentazione dell’istanza non ha effetto sulle scadenze previste dalla disciplina tributaria». 107 D.M. 26 aprile 2001, n. 209 (G.U. del 5 giugno 2001, n. 128). 108 A pena di inammissibilità l’istanza d’interpello deve contenere; i dati identificativi del contribuente ed eventualmente del suo legale rappresentante; la descrizione del caso concreto e personale su cui sussistono concrete condizioni di incertezza; l’indicazione del domicilio del contribuente; la sottoscrizione del contribuente o del suo legale rappresentante; eventuale documentazione utile. Preferibilmente, l’istanza deve contenere la soluzione interpretativa prescelta dal contribuente tra diverse letture possibili della norma. L’istanza redatta in carta libera va consegnata a mano o tramite servizio postale, in plico senza busta, raccomandato con avviso di ricevimento. 109 Ad esempio, un analogo precedente esiste in materia di Dual Income Tax dove l’art. 3, comma
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nitivamente in capo al contribuente, anche in un’eventuale fase contenziosa, la possibilità di provare la sussistenza delle condizioni richiesta dalla normativa per la disapplicazione della CFC. In tale ipotesi, la valutazione circa il fondamento economico e, quindi, la presunta elusività dell’operazione è lasciata unicamente alla volontà discrezionale dell’Amministrazione; inoltre, il mutamento sostanziale della struttura societaria impone l’esercizio ex novo, da parte del contribuente, del diritto di interpello. In dottrina110 è stato ritenuto che la scelta di richiedere l’interpello ai sensi dell’art. 11 dello Statuto dei diritti del contribuente (art. 11, comma 5, della legge 27 luglio 2000, n. 212) invece che quello disciplinato dall’art. 21 della legge n. 413/1991111 «deve essere reputata indicativa della precisa scelta di circoscrivere la valutazione della prova e delle altre allegazioni fornite dal contribuente in quella sede alle sole considerazioni di diritto e non di fatto, posto che l’interpello tipizzato dall’art. 11 concerne unicamente questioni interpretative, peraltro limitate alla sola materia tributaria, escludendosi, perciò, ogni rilevanza a qualificazioni di tipo extratributario». 5.2.5
Normativa CFC e sua compatibilità con le disposizioni convenzionali L’introduzione nel nostro ordinamento della normativa CFC va analizzata anche con riferimento a quanto previsto dai Trattati internazionali contro le doppie imposizioni e, in particolare, con quanto disposto dall’art. 7 del modello di convenzione OCSE112. [PARTE DACOORDINARE CON L’ULTIMO CAPITOLO SULL’ELUSIONE] Infatti, dato che la norma CFC assoggetta a tassazione, in Italia, redditi prodotti in un altro Stato potrebbero sorgere dubbi sulla sua compatibilità con l’art. 7 citato il quale, come regola generale, dispone la tassazione degli utili dell’impresa
3, lett. a), del D.lgs. n. 66/1997 non riconosce i conferimenti in denaro provenienti da soggetti non residenti, se controllati da soggetti residenti, qualora non sia ottenuto il parere favorevole del comitato d’interpello di cui all’art. 21 della legge 413/1991. 110 Cfr. [?.] Nussi, Prime osservazioni sull’interpello del contribuente, in Rass. trib., n. 6/2000, pp.1859 e ss. 111 L’art. 21 della legge n. 413/1991, avente ad oggetto «Disposizioni per ampliare le basi imponibili, per razionalizzare, facilitare e potenziare l’attività di accertamento; disposizioni per la rivalutazione obbligatoria dei beni immobili delle imprese, nonché per riformare il contenzioso e per la definizione agevolata dei rapporti tributari pendenti; delega al Presidente della Repubblica per la concessione di amnistia per reati tributari; istituzioni di centri di assistenza fiscale e del conto fiscale», reca disposizioni in materia di interpello dell’Amministrazione finanziaria da parte del contribuente. 112 L’art. 7 del Modello OCSE dispone che «Gli utili di un’impresa di uno Stato contraente sono imponibili solamente in detto Stato, a meno che l’impresa non svolga la sua attività nell’altro Stato contraente per mezzo di una stabile organizzazione ivi situata. Se l’impresa svolge in tal modo la sua attività, gli utili dell’impresa sono imponibili nell’altro Stato, ma soltanto nella misura in cui detti utili sono attribuibili alla stabile organizzazione».
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(rectius: utili della CFC) residente in uno Stato B in uno Stato A solo se essa ha in tale Stato di una stabile organizzazione ivi localizzata113. In altri termini, per effetto dell’applicazione della normativa CFC, nel nostro Paese viene tassato un reddito prodotto da un’impresa altrove residente anche in assenza di una stabile organizzazione in Italia, con la conseguenza che la tassazione per trasparenza nel nostro Paese del reddito prodotto dalla CFC potrebbe essere in conflitto con la Convenzione fiscale stipulata tra il nostro Paese e quello in cui la CFC è residente, dato che il reddito prodotto da quest’ultima dovrebbe essere tassato in Italia solo se l’impresa è ivi operante per il tramite di un stabile organizzazione. Tale tematica è stata affrontata a livello giurisprudenziale – non in maniera univoca – da alcuni Paesi, come ad esempio la Francia, che prima di noi hanno introdotto, nel proprio ordinamento, disposizioni in tema di controllate estere. La Francia ha previsto, in alcune recenti convenzioni contro la doppia imposizione, apposite clausole114 dirette a salvaguardare la compatibilità delle disposizioni CFC con le norme convenzionali; di conseguenza, la disciplina CFC francese di cui all’art. 209/B del Codice tributario francese dovrebbe trovare applicazione (anche) nei confronti delle società localizzate in tutti i Paesi esteri, anche se questi hanno stipulato, con la Francia, trattati che non prevedono espressamente l’applicazione di tale articolo. L’incompatibilità delle disposizioni CFC con l’art. 7 del modello di Convenzione OCSE è stata sancita dalle sentenze del Tribunale amministrativo di Poitiers 25 febbraio 1999115 e del Tribunale amministrativo di primo grado di Strasburgo 12 dicembre 1996116. In entrambe le sentenze è stata affermata l’incompatibilità della normativa CFC con le disposizioni convenzionali, in particolare con l’art. 7 della Convenzione Francia-Svizzera, sulla base delle seguenti argomentazioni:
113 Cfr. OCSE, Controlled Foreign Company Legislation, 1996, p. 89; [?.] Douvier, [?.] Bouzoraa, Compatibility of CFC rules with Tax Treaties: Lower Courts Reach Conflicting Conclusions, in European Taxation, 1997, pp. 103 e ss. 114 Clausole di compatibilità delle disposizioni CFC e le disposizioni pattizie sono presenti, per esempio, nei trattati stipulati dalla Francia con l’Austria, Canada, Giappone, Messico, Norvegia, Russia. Il testo della clausola tipo è il seguente: «La convenzione non può precludere alla Francia l’applicazione dell’art. 209/B del Codice generale delle imposte o alcuna clausola antiabuso, sostanzialmente simile, che modifichi o sostituisca il disposto di questo articolo». Anche la Spagna prevede che i trattati contro la doppia imposizione non pregiudicano l’applicazione della CFC spagnola. Finlandia e Svezia escludono dal campo di applicazione delle CFC le controllate estere che hanno diritto ai benefici derivanti dalle convenzioni contro la doppia imposizione concluse con tali Paesi. 115 T.A. Poitiers, 2 ch., 25 febbraio 1999, n. 96-684SA «Rèmy- Cointreau» (Revue de Jurisprudence Fiscale, 7/1999, n. 847). 116 T.A Strasbourg, 5 ch., 12 dicembre 1996, n. 91-58, «Stè Strafor Facom» (Revue de Jurisprudence Fiscale, 2/1997, n. 124).
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• la norma pattizia prevale su quella di grado inferiore e solo una norma di pari se grado, se successiva, può modificarla; • i redditi di una società svizzera controllata da una società residente francese non possono essere assoggettati a tassazione in Francia per il solo fatto che la società svizzera goda di un regime fiscale privilegiato. Tale posizione è condivisa anche dal Ministero delle Finanze il quale ha ritenuto117 che, «considerato che molti Stati hanno stipulato con l’Italia convenzioni contro le doppie imposizioni, le disposizioni introdotte dalla normativa in commento non appaiono in contrasto con quelle convenzionali e, pertanto, si dovranno ritenere operanti anche in presenza di Convenzioni che non contengono apposite clausole dirette a salvaguardare l’applicabilità della normativa CFC». Di recente, la Corte di Appello di Parigi nella sentenza del 30 gennaio 2001118 ha sostenuto che l’applicazione della normativa francese in tema di CFC, di cui all’art. 209 B del Codice tributario francese, non è compatibile con l’art. 7, paragrafo 1, del Trattato fiscale stipulato tra Francia e Svizzera. In particolare, è stato ritenuto che dato che la CFC svizzera non aveva una stabile organizzazione in Francia, i suoi utili non potevano essere ivi assoggettati a tassazione anche se l’imposta fosse stata applicata alla società francese e non alla stessa CFC svizzera. Avverso tale sentenza, pendono i termini per un appello alla Corte Suprema amministrativa119. Nella tavola 5.5 sono riportati i trattati stipulati da alcuni Paesi contenenti norme che salvaguardano l’applicazione delle CFC. Tavola 5.5 Paese
Clausola-tipo
Francia
La Convenzione non può precludere alla Francia l’applicazione dell’art. 209/B del suo Codice generale delle imposte o altra clausola sostanzialmente simile che modifichi o sostituisca quelle di quest’articolo.
117 Cfr. circolare del 16 novembre 2000, n. 207/E. 118 Cfr. sentenza «Schneider v/CCA Paris», n. 96-1408. 119 Il Ministero delle Finanze francese in risposta ad una questione interpretativa sottopostagli dal parlamento nazionale ha dichiarato la perfetta compatibilità della normativa interna CFC con la Convenzione Francia-Svizzera contro le doppie imposizioni come modificata dal protocollo del 22 luglio 1997
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Germania
La Convenzione non potrà essere interpretata nel senso di limitare la Germania nell’assoggettare ad imposizione le somme che, ai sensi della parte quarta della legge 8 settembre 1972 relativa all’obbligazione fiscale nelle relazioni con l’estero, sono attribuibili ad una persona residente della Germania.
Canada
La Convenzione non potrà essere interpretata nel senso di precludere al Canada di tassare una parte del reddito di un residente canadese ai sensi della sezione 91 della Legge sulle imposte sui redditi.
Stati Uniti
Nonostante le disposizioni di questa Convenzione, uno Stato contraente può tassare i suoi residenti e, in ragione della cittadinanza, i suoi cittadini, come se la Convenzione non avesse effetto.
Fonte: P. Valente, Controlled Foreign Company – Strumenti di contrasto all’elusione fiscale internazionale, p. 13.
Si osserva che l’Italia ha stipulato convenzioni contro le doppie imposizioni con alcuni dei Paesi inclusi nella black list ministeriale. È questo il caso di Cipro, Filippine, Singapore, Emirati Arabi Uniti, Kuwait, Corea del Sud, Ecuador, Lussemburgo, Malta, Mauritius, Svizzera. 5.2.6
Estensione della normativa CFC alle imprese estere collegate Con la legge delega del 7 aprile 2003, n. 80 (art. 4, comma 1, lett. o), attuata con il D.lgs. 12 dicembre 2003, n. 344, è stato esteso con alcune particolarità alle società collegate estere l’ambito di applicazione della normativa CFC; in particolare, a mezzo dell’art. 168 del TUIR, il regime analizzato in materia di imprese estere controllate è stato esteso anche alle società e agli enti residenti, ovvero localizzate, in Paesi a fiscalità privilegiata che sono collegati al soggetto residente italiano. Ove non diversamente stabilito, alle imprese collegate estere si applicano le stesse disposizioni previste in tema di imprese controllate estere, in precedenza commentate; inoltre, stante il richiamo operato dal comma 1 dell’art. 168 del TUIR all’art. 167 del TUIR, le modifiche apportate – tranne quella relativa all’applicazione della disciplina CFC alle società residenti, ovvero localizzate, in Paesi a fiscalità ordinaria – a tale ultimo articolo dal D.L. n. 78/2009 trovano applicazione anche nel caso di partecipazioni in imprese estere collegate. L’art. 168 del TUIR definisce come collegamento la partecipazione, detenuta dal soggetto residente in Italia, diretta o indiretta, anche tramite società fiduciarie o per interposta persona, non inferiore al 20% agli utili di un’impresa, di una società o di altro ente, residente o localizzato in Stati o territori a fiscalità privilegiata, ridotta al 10% nel caso di partecipazione agli utili di società quotate in borsa. Nel calcolare tale partecipazione deve tenersi contro della demoltiplicazione prodotta dalla catena societaria di controllo; inoltre, nel caso in cui la partecipazione nella società collegata estera sia detenuta da
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persone fisiche si deve tener conto anche degli utili spettanti ai familiari di cui al comma 5 dell’art. 5 del TUIR. Al socio residente italiano dovrà essere imputato, in misura proporzionale alla quota di partecipazione agli utili da lui posseduta, un reddito presunto pari al maggiore tra l’utile risultante dal bilancio della collegata prima delle imposte e il reddito determinato in base a coefficienti di rendimento per categorie di beni che compongono l’attivo patrimoniale, pari all’1% con riferimento alle partecipazioni, al 4% relativamente al valore delle immobilizzazioni costituite da beni immobili e dai navi, anche il locazione finanziaria e al 15% sul valore delle altre immobilizzazioni, anche in locazione finanziaria. Anche nel caso di imprese estere collegate, il contribuente dovrà interpellare preventivamente la nostra Amministrazione Finanziaria. 5.2.7
Normativa CFC e società holding Con particolare riferimento alla collocazione di una subholding in un paradiso fiscale e al regime CFC, si ritiene utile commentare l’interpretazione fornita nella risoluzione 27 luglio 2007, n. 191, con la quale la nostra Amministrazione finanziaria è tornata nuovamente ad occuparsi della tematica, più volte affrontata in passato120, relativa al riconoscimento, ai fini della disapplicazione della normativa CFC, dell’esimente in precedenza descritta di cui all’art. 167, comma 5, lett. b), del TUIR nel caso in cui una società residente nel nostro Paese controlli una sub-holding residente in un paradiso fiscale, la quale a sua volta controlli società non black-listed sottoposta a tassazione ordinaria. In particolare, nella fattispecie prospettata dal contribuente, una società italiana controlla una sub-holding residente in Hong Kong (black-listed) che, a sua volta, deteneva la totalità delle partecipazioni di una società operativa residente in Cina (non black-listed), ivi assoggettata a tassazione in misura ordinaria. Tale interpretazione ministeriale sembrerebbe far definitivamente chiarezza su alcuni interrogativi121 sorti a seguito della precedente risoluzione 28 marzo 2007, n. 63, generalizzando, di fatto, a nostro avviso il principio della congrua tassazione all’estero, indipendentemente dalla effettiva localizzazione all’estero della CFC. In tale ultima risoluzione122, infatti, l’Agenzia delle Entrate aveva ritenuto, in maniera non del tutto condivisibile, che la disciplina CFC non dovesse trovare applicazione qualora l’utile pro-
120 Cfr. circ. 16 giugno 2004, n. 26/E, par. 3.2; ris. 29 gennaio 2003, n. 18. 121 Cfr. per un commento in dottrina, D. Stevanato, R. Lupi, Regole CFC, Controllo indiretto ed esimenti, in Dialoghi di Diritto tributario, n. 4/2007, pp. 527 e ss. 122 Nella fattispecie oggetto di interpello, una società italiana controlla una sub-holding residente negli Stati Uniti che a sua volta detiene la totalità delle partecipazioni di una società residente in Cipro (black-listed).
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dotto da quest’ultima fosse stato assoggettato ad imposizione ordinaria una volta distribuito ad una società intermedia collocata in un Paese a fiscalità ordinaria; in tal modo, essendoci congrua tassazione all’estero su tali utili, veniva soddisfatta la seconda esimente in parola, ossia che dalla partecipazione nella CFC non conseguiva l’effetto di localizzare i redditi in Paesi black list. In particolare, in tale occasione, il riconoscimento dell’esimente era subordinato alla circostanza che l’istante dimostrasse, anno per anno, l’effettiva distribuzione degli utili prodotti dalla società black-listed alla sub-holding residente nello Stato a fiscalità ordinaria, in modo tale che l’imposta complessiva gravante su tali utili fosse almeno pari, per ciascun anno, al 27% dell’utile lordo della società black-listed (livello di tassazione parametrato all’aliquota minima prevista ai fini della tassazione nel nostro ordinamento del reddito della CFC). Quello che ci si era chiesto è se alle medesime conclusioni si sarebbe potuti giungere anche qualora fosse stata la società black-listed ad occupare una posizione intermedia nella catena partecipativa. La dottrina123 aveva risposto positivamente a tale quesito, osservando come sotto un profilo sia logico sia sistematico non vi era ragione di trattare in maniera differenziata una struttura partecipativa a seconda della posizione della CFC124; tuttavia, vanno comunque segnalate alcune interpretazioni ministeriali che muovendo da una lettura molto restrittiva del comma 3 dell’art. 5 del D.M. 21 novembre 2001, n. 429 (decreto attuativo della disciplina CFC) avevano chiarito che ai fini del riconoscimento dell’esimente di cui alla lett. b) del comma 5 dell’art. 167 del TUIR rileva «in particolare» la circostanza che i redditi conseguiti dalle società black-listed siano prodotti in misura non inferiore al 75% in Paesi a fiscalità non privilegiata e ivi siano sottoposti integralmente a tassazione ordinaria. Sul punto, si deve fare anche riferimento a quanto chiarito nella circolare del 16 giugno 2004, n. 26/E (che riprende in buona sostanza le interpretazioni fornite con la risoluzione del 29 gennaio 2003, n. 18), ossia alla circostanza che qualora i redditi della società black-listed «sono formati, anche totalmente, da utili da partecipazione ad essa attribuiti da una partecipata residente in un paese a fiscalità non privilegiata, non può essere invocata l’esimente prevista dalla norma». Secondo l’Amministrazione finanziaria, tale orientamento trovava giustificazione nel fatto che detti redditi, in quanto derivanti da una fonte produttiva – il capitale – situata in un Paese a fiscalità privilegiata, dovevano considerarsi prodotti in tale Paese, non rilevando la circostanza che
123 Cfr. nota 137 [?]. 124 Cfr., sul punto, anche circolare Assonime 17 luglio 2007, n. 38; D. Stevanato, Valutazione del carico fiscale gravante sul gruppo per disapplicare la normativa CFC, in Corr. trib., n. 21/2007, pp. 1740 e ss.; F. Vitale, Disapplicazione della normativa CFC e localizzazione del reddito in Paesi a fiscalità privilegiata in una recente Risoluzione della Agenzia delle Entrate, in Riv. dir. trib., n. 5/2007, Parte II, pp. 320 e ss.
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essi fossero indirettamente riconducibili alla attività propria della partecipata non black-listed. L’incertezza che si era generata su tale interpretazione ministeriale sembrerebbe essere stata risolta, come accennato, dalla stessa Amministrazione finanziaria con la ris. n. 191/2007, la quale non può che essere apprezzata sotto un duplice ordine di motivi. In primo luogo, sembrerebbero state opportunamente ridimensionate le citate precedenti interpretazioni, in quanto è stato esplicitamente confermato che nel riconoscimento dell’esimente di cui alla lett. b) del comma 5 dell’art. 167 del TUIR è possibile tener conto della tassazione subita dai redditi prima che questi transitino presso la sub-holding black-listed riprendendo, di conseguenza, i medesimi criteri enunciati nella ris. n. 63/2007125. In particolare, l’Agenzia delle Entrate ha chiarito che sebbene i redditi della CFC formati da utili di partecipazioni provenienti da una partecipata non blacklisted devono considerarsi – in linea con interpretazioni fornite nella circ. n. 26/2004 e con la ris. n. 18/2003 – prodotti nel Paese di residenza della CFC, «non è preclusa la possibilità di apprezzare in sede di interpello le peculiarità della posizione della società controllante – così come nella fattispecie di cui alla ris. n. 63/E/2007 – in coerenza con la ratio antielusiva della disciplina in esame». Ed è proprio la coerenza con la ratio della normativa CFC, nonché il riconoscimento del c.d. principio della substance over form, che sembravano mancare nelle interpretazioni dell’Agenzia delle Entrate in precedenza commentate; infatti ci si poteva chiedere che senso avrebbe avuto non riconoscere la disapplicazione della normativa CFC qualora fosse stato dimostrato che non vi era nel complesso alcun risparmio d’imposta. Inoltre, se l’intento della normativa CFC è quello di andare oltre l’autonomia giuridica dei singoli soggetti, seguendo quindi un’ottica di gruppo e non di singola società, non si comprende perché lo stesso approccio non debba essere adottato nel riconoscimento delle relative esimenti, a prescindere dall’organizzazione societaria utilizzata126. Del resto, sembrerebbe ancor più semplice per il contribuente poter dimostrare il requisito della congrua tassazione all’estero qualora la società non black-listed si trovi a valle della catena parte-
125 Nelle parole dell’Amministrazione finanziaria, infatti, in sede di interpello «potranno valutarsi i presupposti della eventuale delocalizzazione del reddito in un Paese a fiscalità ordinaria anche – ricorrendone i presupposti – alla stregua di criteri analoghi a quelli indicati nella risoluzione 63/E del 28 marzo 2007». 126 Cfr. R. Lupi, Principi generali in tema di C.F.C. e radicamento territoriale delle imprese, in Rass. trib., n. 6/2000, pp. 1730 e ss., nel quale l’Autore evidenzia che il regime CFC permette di superare «il mito della personalità giuridica», sottolineando, altresì, l’esigenza di poter superare quegli schermi attuati al fine di «assoggettare i frutti di una determinata ricchezza al regime fiscale più conveniente». Al riguardo, è ragionevole ritenere che se tali schermi devono essere superati ai fini dell’applicazione della normativa CFC allo stesso modo dovrebbero essere superati nel riconoscimento della disapplicazione della stessa.
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cipativa, in quanto in tale ipotesi gli utili sono tassati in misura ordinaria in uno Stato o territorio non black list prima di essere distribuiti alla CFC. È altresì opportuno osservare che nell’interpretazione fornita nella ris. n. 191/2007 il raggiungimento di una tassazione congrua a livello di gruppo non dipende, come invece avveniva nella fattispecie indicata nella ris. n. 63/2007, dalla circostanza che la CFC distribuisca, o meno, i dividendi in misura tale da avere una tassazione a livello di gruppo almeno pari al 27%; la CFC potrà, pertanto, seguire le proprie necessità finanziarie ed economiche nella destinazione degli utili valutando liberamente e senza essere influenzata da motivazioni di natura fiscale l’opportunità di deliberarne la distribuzione, ovvero l’imputazione a patrimonio. Superando tali precedenti interpretazioni, l’Agenzia delle Entrate in tale ultima risoluzione ha altresì fornito a nostro avviso una corretta lettura del comma 3 dell’art. 5 del decreto n. 429/2001 (ossia che, ai fini della disapplicazione della disciplina in esame, rileva «in particolare» la circostanza che i redditi conseguiti dalla CFC siano prodotti in misura non inferiore al 75% in un Paese a fiscalità non privilegiata e ivi siano sottoposti integralmente a tassazione ordinaria) che, pertanto, deve essere interpretata – come, peraltro, sembra emergere dall’inciso «in particolare» – a titolo esemplificativo e non esaustivo. Inoltre, va osservato che, alla luce di quanto chiarito nella ris. n. 191/2007, sembra essere stato restituito un equilibrio sistematico nell’applicazione o, meglio, nella disapplicazione della disciplina CFC; infatti, qualora l’Amministrazione finanziaria non fosse intervenuta in tal senso, avremmo presumibilmente avuto un differente risultato in termini di applicazione, ovvero disapplicazione, della normativa CFC a seconda che la questa controlli una società non black-listed, ovvero ne sia controllata; nel primo caso, infatti, non si sarebbero disapplicate le CFC rules (circ. n. 26/2004), nel secondo caso, invece, avrebbe potuto trovare essere applicazione l’esimente di cui alla lett. b) del comma 5 dell’art. 167 del TUIR. Ciò tra l’altro avrebbe comportato la mancanza di neutralità del fattore fiscale nei confronti delle riorganizzazioni dei gruppi di imprese che sarebbero state indotte ad assumere una struttura partecipativa piuttosto che un’altra esclusivamente in funzione del riconoscimento, o meno, della disapplicazione della normativa CFC; in altri termini, forzando tale interpretazione ministeriale, sarebbe stata la stessa Amministrazione finanziaria ad indurre i gruppi societari a strutturarsi in un determinato modo, senza alcuna valida ragione economica ma esclusivamente per motivazioni di carattere fiscale.