L’amore e i suoi frutti

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Jonathan Edwards

L’AMORE E I SUOI FRUTTI

Collana “Sentieri Antichi”


ISBN 88-88747-06-0 Titolo originale: Charity and Its Fruits Per l’edizione inglese: Charity and Its Fruits, in Works of Jonathan Edwards, 8, Ethical Writings, a cura di PAUL RAMSEY, New Haven, Yale University Press, 1989 Per l’edizione italiana: © Alfa & Omega, 2004 C. P. Aperta, Succ. 2, 93100 Caltanissetta, IT e-mail: info@alfaeomega.org - www.alfaeomega.org Pubblicato con permesso concesso dalla Yale University Press Tutti i diritti riservati. È vietata la riproduzione, anche parziale, con qualsiasi mezzo effettuata, non autorizzata Traduzione e adattamento: Lucia Pugliese Revisione: Pawel Gajewski, Andrea Ferrari, Ivana Ferrari, Carla Castronovo Impaginazione e copertina: Giovanni Marino Tutte le citazioni bibliche, salvo diversamente indicato, sono tratte dalla versione “Nuova Riveduta”


INDICE GENERALE

Prefazione all’edizione italiana ................................... 7 Introduzione ............................................................. 9

PRIMO SERMONE

L’amore: somma di tutte le virtù ............................. 29 SECONDO SERMONE

L’amore è più eccellente dei doni straordinari dello Spirito ................................................................... 51 TERZO SERMONE

Nulla può compensare la mancanza di un cuore sincero ................................................................... 77 QUARTO SERMONE

Pazienza e benevolenza ........................................... 89 QUINTO SERMONE

L’amore è contrario ad uno spirito invidioso ............ 125 SESTO SERMONE

Lo spirito cristiano è umile .................................... 139 SETTIMO SERMONE

L’amore è contrario ad uno spirito egoista ............... 161


OTTAVO SERMONE

L’amore è contrario ad uno spirito irascibile ............ 183 NONO SERMONE

L’amore è contrario ad uno spirito ipercritico .......... 197 DECIMO SERMONE

La grazia tende alla pratica della santità ................. 209 UNDICESIMO SERMONE

La sopportazione delle sofferenze è un dovere verso Cristo ................................................................... 233 DODICESIMO SERMONE

La concatenazione delle grazie cristiane .................. 249 TREDICESIMO SERMONE

La grazia non sarà mai sconfitta............................. 263 QUATTORDICESIMO SERMONE

Solo l’amore divino dura per l’eternità .................... 275 QUINDICESIMO SERMONE

Il cielo è un mondo d’amore ................................... 291 Indice dei riferimenti biblici .................................. 327 Indice analitico ..................................................... 333


INTRODUZIONE Non sarebbe certo, allora, che tutti aspirano alla felicità, poiché quelli che non cercano in Te, unica vera beatitudine, il loro godimento non vogliono nel vero senso la felicità. O, forse, sì la vogliono, ma siccome «i desideri della carne si oppongono a quelli dello spirito e i desideri dello spirito si oppongono a quelli della carne», sicché non fanno quello che vogliono, si ripiegano su quello che possono e ne stanno contenti, perché quello che non possono non lo vogliono con la intensità necessaria perché diventi loro possibile? (AGOSTINO, Confessioni, X.23)1.

CENNI

STORICI

Come raggiungere la felicità piena e duratura? Nell’anno 398, Agostino d’Ippona (354-430) rispondeva al quesito apparentemente irrisolvibile con un’affermazione precisa: solo Dio è l’unica vera beatitudine e quindi solo in lui è da ricercare la vera felicità. Non sappiamo con esattezza se nel 1738 i membri della chiesa congregazionalista di Northampton, Massachussetts, si ponessero lo stesso interrogativo. Da alcune tracce riscontrabili nella predicazione di Jonathan Edwards si potrebbe dedurre che i credenti di Northampton, sotto quest’aspetto, non si discostassero molto dagli esseri umani di tutti i tempi. Jonathan Edwards svolse in questa chiesa la maggior parte del suo ministero pastorale2. Nell’agosto del 1726 Edwards 1 Trad. it. SANT’AGOSTINO, Le Confessioni, a cura di CHRISTINE MOHRMANN, Milano, Rizzoli, 1998, pp. 485-486. 2 Il ministero di Jonathan Edwards a Northampton si concluse nel 1750. Dopo il suo allontanamento, Edwards divenne pastore di una piccola comunità a Stockbridge, Massachussetts, e missionario presso gli indiani Mohawk e Housatonic presenti in quell’area. Nel 1757 Edwards accettò l’invito a diventare il rettore del College del New Jersey, adesso noto come Università di

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divenne assistente del pastore Solomon Stoddard. Aveva meno di ventitré anni (era nato il 5 ottobre 1703), si presentava a Northampton con un Master in teologia conseguito a Yale e con una breve esperienza pastorale compiuta in una piccola chiesa presbiteriana a New York. Nel 1721 un’altra esperienza però aveva segnato profondamente la sua vita: «A partire da quel momento – scriveva Edwards nelle sue memorie – iniziai ad avere una comprensione nuova intorno a Cristo, alla sua opera di redenzione e alla gloriosa via della salvezza per mezzo suo»1. Il giovane Edwards quindi ha davvero sperimentato la felicità di cui parlava Agostino, ma tale esperienza doveva essere condivisa e trasmessa agli altri. Nel 1729 morì Solomon Stoddard, lasciando al nipote l’incarico pastorale di una delle più importanti congregazioni del Connecticut. Per quanto la chiesa fosse solida e ben organizzata, la sua vita spirituale non andava particolarmente bene. Jonathan Edwards descrive lo stato della chiesa negli anni 1729-30 in questi termini: La maggior parte della congregazione sembrava essere, in quel periodo, estremamente insensibile alle cose della religione, ed impegnata a perseguire altre faccende e pensieri. […] La dissolutezza prevalse per alcuni anni tra i giovani della città. […] Inoltre, in città si erano creati dei contrasti tra due frazioni, divise ormai da molti anni, in cui i gruppi rivaleggiavano tra loro ed erano disposti a ostacolarsi in ogni questione di interesse pubblico2.

Sotto l’influenza della predicazione di Edwards si sviluppò una crescente sensibilità verso il peccato e un desiderio di ascoltare l’ammaPrinceton. Quest’incarico durò fino alla sua morte avvenuta il 22 marzo 1758 (cfr. MICHAEL HAYKIN, Un profilo biografico di Jonathan Edwards, in «Studi di teologia», 29 [2003/1], pp. 3-17). 1 Cfr. ibid., pp. 4-5. 2 JONATHAN EDWARDS, A Faithful Narrative of the Surprising Work of God in the Conversion of Many Hundred Souls in Northampton and the Neighbouring Towns and Villages, in The Great Awakening, a cura di C. C. GOEN, p. 146, in The Works of Jonathan Edwards, 4, New Haven, Yale University Press, 1972. Questa narrazione del risveglio fu pubblicata per la prima volta a Londra nel 1737. Il libro ha avuto un notevole influsso sul Grande Risveglio evangelico su entrambe le sponde dell’Atlantico (cfr. M. HAYKIN, Un profilo biografico, cit., p. 8).

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Introduzione

estramento della Scrittura. L’annuncio della dottrina cristiana, specialmente quella riferita alla giustificazione tramite la sola fede, fu determinante per l’inizio del risveglio nel dicembre del 1734, la cui prima fase è durata cinque mesi, mentre la sua conclusione potrebbe essere fissata intorno al 1736. Nel 1738, mentre la fiamma del risveglio cominciava a diffondersi su entrambe le sponde dell’Atlantico, nella congregazione di Northampton aleggiava uno strano spirito. I frutti del risveglio erano lì, a portata di mano. Lo stato generale delle comunità era notevolmente migliorato, rispetto a dieci anni prima. Ciò nonostante, non mancavano né polemiche intorno alla persona di Edwards, né alcuni segni di una certa stasi anche nelle persone convertite e rigenerate. La situazione richiedeva dunque una predicazione in grado di spiegare il valore di esperienze eccezionali da un lato e di costruire le basi di una solida etica biblica dall’altro. La prima, e forse la più importante di queste grandi predicazioni, è stata appunto quella basata su I Corinzi 131. Per quale ragione fu scelto questo brano biblico? La risposta di Edwards è contenuta già nel primo sermone: «L’essenza della virtù salvifica che caratterizza i veri cristiani, distinguendoli dagli altri, è l’amore cristiano»2. Questa tesi è la base di tutta la predicazione di Edwards sull’amore cristiano. Anche Giovanni Calvino (1509-64) sostiene qualcosa di molto simile. In una sua riflessione di carattere etico, contenuto nel terzo libro dell’Istituzione della religione cristiana (1559), il riformatore afferma: Quanto al compimento del proprio dovere in vista di procacciare il vantaggio del nostro prossimo, quante sono le difficoltà? Se non tralasciamo la considerazione di noi stessi e non ci spogliamo di ogni inclinazione che è secondo la carne, non faremo nulla in questo senso. Chi infatti adempirà ai compiti che san Paolo richiede siano compiuti con amore, se 1

In seguito Edwards predicò un lungo ciclo di sermoni dedicati al testo Isaia 51:8. Questo materiale è stato rivisto e pubblicato come A History of the Work of Redemption. La terza grande predicazione fu basata su I Pietro 1:8. Anche questa serie di sermoni fu rielaborata da Edwards e pubblicata sotto il titolo A Treatise Concerning Religious Affections (cfr. PAUL RAMSEY, Editor’s Introduction, in Ethical Writings, in The Works of Jonathan Edwards, 8, New Haven, Yale University Press, 1989, p. 2). 2 Infra, p. 31.

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non ha rinunciato a sé, al fine di darsi interamente al suo prossimo? «La carità» dice «è paziente e benevola; non offende, non è insolente; non ha orgoglio, non prova invidia, non ricerca quel che le conviene, ecc.» ( I Corinzi 13:4ss.). Se anche ci fosse soltanto richiesto di non cercare il nostro vantaggio, dovremmo forzare parecchio la nostra natura, la quale ci spinge talmente all’amore di noi stessi da non tollerare facilmente che rimaniamo indifferenti a quel che è bene per noi, per vegliare su quel che giova agli altri, o piuttosto che abbandoniamo quel che ci spetta come diritto, per cederlo al nostro prossimo1.

I TRATTI CARATTERISTICI EDWARDS

DELLA PREDICAZIONE DI

JONATHAN

Abbozzato il quadro storico dei sermoni su I Corinzi 13, bisogna aprire una breve parentesi dedicata ai tratti caratteristici della predicazione di Edwards. John Gerstner sostiene che «Jonathan Edwards è stato il più grande predicatore dai tempi apostolici»2. Lo studioso statunitense esprime questo parere, tenendo conto soprattutto del contenuto dei sermoni predicati da Edwards. Indubbiamente, la solida esegesi del testo biblico è la base di questa predicazione dai contenuti ben articolati e sempre con una penetrante articolazione evangelistica. Lo stesso Gerstner afferma però, con notevole franchezza, che dal punto di vista dello stile omiletico «è stato invece uno dei più mediocri che la chiesa abbia avuto»3. Può sorprendere tale descrizione; tuttavia le testimonianze conservate attestano abbastanza chiaramente che la sua predicazione era quasi priva di gestualità e consisteva nella lettura solenne di un manoscritto. In questi sermoni dedicati a I Corinzi 13 ritroveremo quindi questo stile sobrio e argomentato, tipicamente puritano4. In ciascuno dei quindici sermoni si possono individuare molto facilmente tre sezioni: esegetica, dottrinale e applicativa. Non mancano ripetizioni che servono a fissare 1 GIOVANNI CALVINO, Istituzione della religione cristiana, 1, a cura di GIORGIO TOURN, Torino, UTET, 1971, pp. 839-840. 2 JOHN GERSTNER, Edwards e la Bibbia, in «Studi di teologia», 29 (2003/1), p. 23. 3 Ibid. 4 Cfr. ERROLL HULSE, Who are the Puritans?, Darlington, Evangelical Press, 2000, pp. 167-168.

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Introduzione

bene i concetti fondamentali dell’esposizione. A prima vista tale struttura, organizzata abbastanza rigidamente in paragrafi e punti, appare piuttosto lontana dalla sensibilità omiletica contemporanea, assomigliando piuttosto ad una lezione universitaria o ad uno studio bilico particolarmente impegnativo. Questa è però solo un’impressione. Il fervore evangelistico di Edwards, la sua passione per l’annuncio della Parola di Dio, la capacità di coinvolgimento, tutto questo diventa più che evidente già dopo la lettura delle prime pagine dell’opera. Infatti vi possiamo trovare diversi esempi di grande sensibilità umana, come attesta il seguente brano, tratto dal quinto sermone: E poi, come state vivendo oggi? Siate onesti e rigorosi nel guardare dentro i vostri cuori! Davvero non serbate alcun antico risentimento causato dall’invidia verso qualcuno? Davvero non avete alcun rancore verso coloro che incontrate ogni domenica, che si siede con voi nel luogo del culto e che, di quando in quando, partecipa con voi alla Cena del Signore? La prosperità di cui godono oggi i vostri vicini è forse qualcosa che vi disturba? Non sareste più felici se accadesse qualcosa a danno di qualcuno che invidiate? Una cosa del genere non gratificherebbe le vostre inclinazioni e i vostri desideri1?

Così parla un pastore seriamente preoccupato per le persone affidategli da Dio; così parla anche un profondo conoscitore della natura umana, un osservatore attento anche alle piccole cose di tutti i giorni. È quindi indubbio l’alto valore pastorale di questa predicazione. Il predicatore stesso, tuttavia, potrebbe apparire eccessivamente austero e quasi privo di sentimenti, incapace di sperimentare emozioni forti sul piano personale. Il principale dato che smentisce tale ipotesi è la vita personale di Edwards. Il suo matrimonio con Sarah Pierrepont è stato un legame forte e duraturo, sorgente di felicità e di pieno appagamento. L’impressione di eccessiva austerità è smentita dalle testimonianze della sua grande dolcezza di marito e di padre; i suoi undici figli sembravano amarlo in modo veramente genuino2. Tale situazione esistenziale trova numerosi riflessi nella 1 2

Infra, pp. 134-139. Cfr. M. HAYKIN, Un profilo biografico, cit., p. 5.

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sua opera. Sono riflessi carichi di poesia, densi di emozioni ma anche apprezzabili dal punto di vista formale. In uno dei più incantevoli passi del quindicesimo sermone, Edwards descrive la perfezione dell’amore raggiunta nel paradiso celeste con espressioni degne di John Milton1: Qui si gode una gioia davvero indescrivibile! Si tratta di una gioia umile, santa e divina nella sua perfezione. L’amore è un principio soave, specialmente l’amore cristiano. È una sorgente di dolcezza. In cielo, però, la sorgente diventerà un fiume, poi un mare ed un oceano! Tutti saranno attorno al Dio di gloria, la fonte dell’amore, come se volessero aprire i loro cuori per essere ricolmati delle effusioni d’amore che sono riversate dalla fonte, nello stesso modo in cui i fiori, in una piacevole giornata primaverile, si schiudono al sole per essere colmati di luce e calore per fiorire, bellissimi e profumatissimi, in virtù dei suoi raggi. Ogni santo è come un fiore nel giardino di Dio e l’amore è il profumo, il soave aroma che tutti emanano e che pervade i cieli. Là ogni santo è come la nota di un concerto, la quale si accorda dolcemente con tutte le altre e insieme formano un’armonia di lode a Dio e all’Agnello. I santi si aiutano tutti, l’un l’altro, con estremo impegno, per esprimere l’amore dell’intera chiesa dei redenti al Padre della gloria e al suo grande Capo. Così l’amore ritorna alla sorgente da cui ha avuto origine, per essere poi nuovamente riversato e sparso sui santi2.

LE BASI ESEGETICHE EDWARDS

E TEOLOGICHE DELLA PREDICAZIONE DI

Chiusa la parentesi riguardante gli aspetti formali della predicazione di Edwards, ritorniamo ai contenuti dei sermoni dedicati a I Corinzi 13. Edwards è particolarmente attento alla corretta esegesi del testo. A questo scopo egli usa magistralmente gli strumenti della filologia. Nel primo sermone, infatti, si trova quasi subito una spiegazione di carattere linguistico: In tutto il Nuovo Testamento, Cristo e i suoi apostoli insistono molto sul concetto di amore, al punto che non premono su nessun’altra virtù come 1

John Milton (1608-1674), poeta e teologo inglese, autore del capolavoro Paradiso perduto (1667). 2 Infra, pp. 311-312.

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Introduzione su questa. Tuttavia, il significato della parola “amore”, così come viene utilizzata nel Nuovo Testamento, è molto più ampio di quanto si pensi comunemente. Ciò che la gente solitamente definisce “amore” in una normale conversazione è quella disposizione d’animo che spera e pensa il meglio delle persone, dando un significato positivo alle loro parole o ai loro comportamenti. Talvolta si parla di amore riferendosi alla generosità verso i poveri. Comunque, tutte queste concezioni rappresentano soltanto alcuni particolari rami o frutti della grande virtù dell’amore, così spesso citata nel Nuovo Testamento. Il termine indica, più precisamente, una disposizione o un sentimento che rende una persona cara ad un’altra. La parola greca agàpe, che incontriamo nel testo originale, che è tradotta anche “carità”, è correttamente resa con “amore”. Pertanto, nel Nuovo Testamento agàpe significa “amore cristiano” e, sebbene si riferisca più spesso all’amore verso gli uomini, alle volte indica anche l’amore verso Dio1.

Le conseguenze etiche di queste osservazioni filologiche sono piuttosto significative. Le lingue moderne non sono in grado di esprimere tutto il significato del sostantivo agàpe. È inoltre piuttosto difficile per una persona poco esperta in filologia classica la distinzione tra agàpe, eros e philia che costituisce la base dell’etica di Platone e quindi di tutta la riflessione filosofica sull’agire umano2. Edwards non colloca però la sua riflessione sul piano meramente filologico né filosofico. L’agire umano non può essere scisso dalla relazione con Dio. La base della riflessione etica è quindi per Edwards sempre la teologia o, ancora più concretamente, il riconoscimento dell’azione trasformatrice e rigeneratrice di Dio. Nel secondo sermone Edwards afferma: La benedizione della grazia salvifica di Dio è una qualità inerente alla natura di colui che la riceve. Questo dono dello Spirito, risultando in un atteggiamento davvero cristiano e incoraggiando la pratica della grazia, reca una benedizione la cui sede è nel cuore: è una benedizione che nobilita il cuore e la natura dell’uomo3.

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Infra, pp. 29-30. Cfr. JEAN-PIERRE VERNANT, L’individuo, la morte, l’amore, Milano, Raffaello Cortina Editore, 2000, pp. 133-150. 3 Infra, pp. 60-61. 2

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Non basta dunque parlare di amore, distinguendo la sua proiezione verso il prossimo da quella verso Dio; la prospettiva corretta è quella di ricondurre l’amore-agàpe alla sua sorgente, cioè a Dio stesso per affermare con l’apostolo Giovanni: Dio è agàpe (I Giovanni 4:8b). A questo punto vale la pena di soffermarsi sul concetto della natura umana che sta alla base della predicazione di Edwards. In una sola battuta, la sua impostazione di base potrebbe essere collegata al pessimismo antropologico1, che tuttavia non ha nulla a che vedere con il cosiddetto pessimismo cosmico, legato alla visione tragica dell’esistenza umana. È una visione teologica strettamente legata alle conseguenze del peccato originale. La Confessione di Westminster (1647) esprime tale dottrina molto chiaramente: Da questa corruzione originaria, dalla quale siamo completamente sviati, resi incapaci e nemici di ogni bene e totalmente inclini ad ogni sorte di male, procedono tutte le trasgressioni attuali2.

Edwards affronta questo argomento in maniera particolarmente esplicita nel settimo sermone. Il sermone è dedicato all’amore di sé, vale a dire al netto contrasto tra l’amore cristiano e l’egoismo. Edwards non condanna tout court l’amore di sé; egli tende piuttosto a sottolineare che l’egoismo, «al quale si oppone lo spirito cristiano, è semplicemente un amore di sé disordinato»3. L’amore di sé è al tempo stesso il massimo limite dell’essere umano. Edwards afferma che «la natura non può andare al di là dell’amore di sé, perciò tutto quello che gli uomini fanno deriva, in un modo o nell’altro, da questa radice»4. La spiegazione di tale asserzione è da ricercare nella condizione dell’uomo prima della caduta originale. L’uomo, prima della caduta originale, amava se stesso e la sua felicità tanto quanto dopo la sua caduta. La differenza sta però nel rapporto con l’amore divino: prima della caduta questo principio superiore go1 Cfr. ANDREA FERRARI, Edwards, il peccato originale e la predicazione nell’età postmoderna, «Studi di teologia», 29 (2003/1), pp. 38-53. 2 Confessioni di fede delle chiese cristiane, a cura di ROMEO FABBRI, Bologna, EDB, 1996, VI.4, p. 949 (cfr. E. HULSE, Who are the Puritans?, cit., pp. 117-128). 3 Infra, p. 163. 4 Infra, p. 173.

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Introduzione

vernava l’amore di sé al punto tale di essere in grado di indirizzarlo e regolarlo totalmente. Dopo la caduta, l’uomo ha rifiutato questo principio superiore, esponendosi a tutti i pericoli derivanti da un amore di sé sregolato e disordinato. Nella prospettiva teologica l’amore divino, identificato da Edwards con la carità cristiana, è qualcosa che trascende l’amore di sé e, poiché è soprannaturale, supera e oltrepassa tutto ciò che è naturale. Tale amore nasce altrove: la sua radice è in Gesù Cristo, quindi è divina e celeste. Il suo punto più alto è il sacrificio perfetto e unico di Cristo il cui nodo centrale Edwards spiega con le seguenti parole: Cristo ha speso la sua vita per noi. Sebbene noi fossimo nemici, egli ci ha amato così tanto che dall’amore per noi egli ebbe cuore non solo di considerare il nostro interesse ma di sacrificare i suoi interessi per noi, anteponendolo al proprio vantaggio, al proprio benessere e al proprio onore nel mondo, fino al punto di diventare povero per noi: «Infatti anche Cristo non compiacque a se stesso; ma come è scritto: “Gli insulti di quelli che ti oltraggiano sono caduti sopra di me”» (Romani 15:3). E non solo questo: egli spese se stesso per noi, spese il suo sangue per offrire se stesso alla giustizia di Dio per amor nostro1.

Questo pensiero riporta il concetto di agàpe alla sua dimensione cristologica. È appunto l’amore di Cristo che rivela l’agàpe di Dio: è Cristo che concretamente «mi ha amato e ha dato se stesso per me» (Galati 2:20). Il soggetto dei quindici verbi di I Corinzi 13:4-7, invece dell’amore personificato, potrebbe essere Cristo stesso: egli è paziente, non è invidioso, non si vanta, ecc., e ne ha dato la dimostrazione soprattutto nella storia della passione. Da questo suo amore nulla potrà separarci (cfr. Romani 8:35), poiché esso ci tiene in suo potere (cfr. II Corinzi 5:14), sorpassando ogni conoscenza e ogni logica umana (cfr. Efesini 3:19)2. La teologia dell’agàpe non si esaurisce però nella cristologia. La sua continuazione è soprattutto una teologia dell’agire umano. Tocchiamo qui una questione centrale della dottrina cristiana: quella delle opere. Una lettura errata o superficiale del testo di I Corinzi 1

Infra, pp. 177-178. Cfr. ROMANO PENNA, L’apostolo Paolo. Studi di esegesi e teologia, Cinisello Balsamo, Edizioni Paoline, 1991, p. 235. 2

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13 potrebbe indurre a pensare che nel rapporto con Dio l’agire umano debba assumere il ruolo determinante per il destino ultimo dell’individuo. Nel terzo libro dell’Istituzione della religione cristiana, Calvino mette in guardia contro tale rischio: I nostri farisei citano anche queste affermazioni di san Paolo: «Se avessi tutta la fede del mondo, fino a trasportare le montagne, e mancassi di carità, non sarei nulla»: «Ora queste tre cose durano, fede, speranza e carità; ma la più grande è la carità»1.

L’accusa che Calvino rivolge ai «nostri farisei» è abbastanza grave: essi sostengono che nella tensione tra fede e carità, quest’ultima è senz’altro superiore e quindi la salvezza deve essere necessariamente legata alle opere della carità. Ai tempi di Edwards tale convinzione non era venuta meno, anzi in alcuni casi ha trovato spazio anche nelle chiese della Riforma2. Il pastore di Northampton risolve la questione in maniera molto chiara: La pratica non è il fondamento dell’elezione come ritengono gli arminiani, i quali pensano che Dio scelga gli uomini in base ad una prescienza delle loro opere buone. La pratica della virtù cristiana è lo scopo o il fine dell’elezione. Dio non elegge gli uomini perché prevede che vivranno santamente, ma li elegge affinché vivano santamente. Nel decreto dell’elezione, Dio ordinò che l’uomo camminasse compiendo buone opere3. 1

G. CALVINO, Istituzione della religione cristiana, cit., 2, p. 992. Questa teoria risale al monaco irlandese Pelagio, il quale all’inizio del V secolo, a Roma, con la sua dottrina riduceva il cristianesimo ad un impegno etico, negando gli effetti ereditari del peccato originale e credendo nella possibilità dell’uomo di salvarsi con le proprie forze. La dottrina di Pelagio cadde sotto i colpi di Agostino, che rivendicava il primato assoluto della grazia divina per il destino ultimo dell’uomo. In una forma più sottile e notevolmente ridotta, il pelagianesimo ritornò nell’arminianesimo che trae il suo nome da Jakob Arminius (1560-1609). Secondo Arminius, Cristo era morto per tutti e non solo per gli eletti e l’elezione stessa deve essere collocata dopo la caduta di Adamo. I discepoli di Arminius trassero da questa dottrina la conseguenza che la volontà e l’agire dell’uomo andavano rivalutate anche per quando concerne la sua salvezza. Il Sinodo delle chiese riformate (calviniste) europee di Dordrecht (1618-19), respingendo la dottrina di Arminius, ha gettato le basi per la cosiddetta ortodossia riformata (cfr. ALISTER E. MCGRATH, Teologia cristiana, Torino, Claudiana, 1999, pp. 427-432; 455-456). 3 Infra, p. 211. 2

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La pratica delle opere buone è dunque legata all’eterno decreto di elezione. Edwards si ritrova in piena sintonia con l’ortodossia riformata. Più volte, nel corso del decimo sermone, il predicatore afferma che «la vera grazia tende alla pratica della santità». Tale pratica non deve essere però intesa esclusivamente come conseguenza di una decisione umana; è l’esatto contrario: Dio stesso rigenera l’uomo con l’effusione del suo Spirito. Solo così l’uomo è in grado di portare i frutti della conversione operata esclusivamente da Dio. I canoni del Sinodo di Dordrecht (1619) hanno riassunto questa dottrina, dando risalto all’azione salvifica di Dio e alle sue conseguenze per l’agire umano: Del resto, quando Dio esegue questo suo beneplacito sugli eletti o quando li converte, egli non fa solo in modo che il Vangelo sia predicato esteriormente e non illumina solo potentemente la loro intelligenza mediante lo Spirito Santo perché comprendano e discernano rettamente le cose che sono dello Spirito di Dio, ma, mediante l’efficacia dello stesso Spirito di rigenerazione, penetra fin nelle profondità dell’uomo, apre il cuore che è chiuso, smuove il cuore duro, circoncide il prepuzio del cuore, espande nuove qualità nella volontà e fa sì che da morta essa diventi viva, da cattiva buona, da non volente volente, da scontrosa obbediente, agisce in essa e la fortifica in modo che, come l’albero buono, possa produrre buoni frutti1.

Edwards si riferisce molto chiaramente a questa dottrina, parlando anche del ruolo della volontà umana. La capacità di prendere decisioni, discernere e agire di conseguenza, è ovviamente una delle più nobili facoltà umane. In una prospettiva teologica, però, questa facoltà deve essere messa in relazione con la sovranità assoluta di Dio. La questione non è di facile risoluzione; tuttavia Edwards propone una formula che salvaguarda perfettamente la volontà umana, ricollocandola correttamente rispetto alla grazia salvifica: Pertanto, la vera grazia inclina l’uomo alla pratica della santità in quanto nessuna azione può essere parte della condotta umana a prescindere da una determinazione della volontà. Quando parliamo di “pratica” ci riferiamo a ciò che si compie liberamente come agenti vo1 Confessioni di fede delle chiese cristiane, a cura di R. FABBRI, cit., il terzo e quarto punto di dottrina, art. XI, pp. 904-905.

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lontari; oppure, ed è la stessa cosa, a ciò che compiamo in base ad una determinazione della volontà. Vedete quindi che ogni aspetto della vita pratica dell’uomo è diretto dalla facoltà della volontà. Il potere esecutivo dell’uomo, sia rispetto al corpo sia rispetto alla mente, è sempre soggetto alla facoltà della volontà, e questo per il modo in cui il Creatore ha predisposto la nostra natura1.

L’Autore della nostra natura agisce quindi sovranamente all’interno di essa, trasformando non la natura in sé, ma la volontà, la facoltà propria della natura umana, la stessa volontà che, rivolta contro Dio, è stata la causa della caduta originale dell’uomo. I criteri dell’etica teologica costruita su tali presupposti non sono altro che obbedienza e dovere. Questi due termini potrebbero sembrare restrittivi e duri. La tendenza naturale dell’uomo è sempre quella di esaltare la libertà assoluta e i propri diritti. Nell’ambito della rigenerazione, però, l’obbedienza a Dio diventa libertà e il dovere si trasforma in una garanzia dell’equità e della giustizia. Solo tenendo costantemente conto dei propri doveri verso Dio e verso il prossimo, l’uomo è capace di manifestare il suo amore cristiano. In altre parole, e molto paradossalmente, si potrebbe affermare che il dovere è un altro nome dell’amore. Nella parte applicativa del sermone 10 Edwards evidenzia inequivocabilmente tale affermazione: Come la gara è il grande impegno di un corridore, così la condotta santa è la grande opera in cui il credente è ingaggiato. È così per voi? Il vostro desiderio più grande è quello di osservare tutti i comandamenti di Dio senza rifiutarne alcuno? […]. L’obbedienza ai comandamenti di Dio è il vostro grande obiettivo2?

La pratica cristiana deve essere vista in una prospettiva tesa verso la meta ultima dell’esistenza umana. In parole più appropriate si può asserire che l’etica cristiana non è scissa dall’escatologia. La morte, intesa come termine dell’esistenza terrena, e il mistero del senso ultimo della vita hanno sempre influenzato l’agire umano. La visione più semplice, ma abbastanza diffusa nella religiosità popo1 2

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Infra, p. 214. Infra, pp. 230-231.


Introduzione

lare, vuole vedere nel paradiso celeste un particolare premio per una vita moralmente impeccabile, o, almeno, priva di grandi trasgressioni. Edwards, saldamente radicato nella teologia riformata, mette in guardia contro le semplificazioni di questo tipo. Nel quindicesimo sermone egli prospetta un’eccezionale visione del cielo, per la quale è difficile trovare paragoni in tutta la letteratura cristiana. Non è una visione irreale né utopistica; in essa si concentra piuttosto tutta la teologia dell’agàpe sviluppata da Edwards. Il paradiso celeste è la vera dimora di Dio, la quale non è identificata con un determinato luogo fisico. Questa è una differenza sostanziale rispetto al paradiso terrestre descritto nel libro della Genesi e identificato con il giardino dell’Eden (cfr. Genesi 2:8ss.; 3:23). La felicità sperimentata dagli eletti consiste nella perfetta comunione con Dio, fonte inesauribile dell’amore: In cielo questa fonte d’amore, il Dio uno e trino, dona se stesso senza che ci sia nulla che impedisca la comunicazione del suo amore. Là il Dio della gloria si manifesta pienamente, irradiando in modo perfetto il suo amore. Là la fonte trabocca dando origine a torrenti e a fiumi d’amore e delizia, le cui acque soddisfano pienamente la sete di tutti; anzi, sono tanto abbondanti da inondare il mondo come un diluvio d’amore1!

Edwards, quindi, in sintonia con Agostino e Calvino, vede nella piena conoscenza di Dio lo scopo ultimo e definitivo dell’esistenza umana2. Ogni essere umano, infatti, partecipa pienamente a questa conoscenza perché «in cielo l’amore risiede e regna in ogni cuore»3. Un altro elemento fondamentale per la comprensione del paradiso nella teologia di Edwards è la trasformazione della natura dell’amore umano. Nella dimensione terrestre dell’esistenza, l’azione rigeneratrice di Dio non muta sostanzialmente la natura umana, né 1

Infra, pp. 294-295. Si confronti cosa afferma Agostino: «Signore, io ti cercherò invocandoti, e ti invocherò credendo in Te, poiché Tu ti ci sei fatto conoscere» (SANT’AGOSTINO, Le Confessioni, cit., I, 1, p. 53) e cosa sostiene Calvino: «Quasi tutta la somma della nostra sapienza, quella che tutto considerato merita di essere reputata vera e completa sapienza, si compone di due elementi e consiste nel fatto che conoscendo Dio ciascuno di noi conosca anche se stesso» (G. CALVINO, Istituzione della religione cristiana, 1, cit., p. 137). 3 Infra, pp. 297. 2

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L’AMORE

E I SUOI FRUTTI

le sue inclinazioni naturali. Nella dimensione escatologica tale trasformazione viene invece attuata pienamente: Per quanto riguarda la sua natura, l’amore è assolutamente santo e divino. In generale, in gran parte, l’amore nel presente secolo è empio, tuttavia l’amore che dimora in cielo non è carnale ma spirituale. Esso non deriva da principî corrotti, né da motivazioni egoistiche che mirano a propositi meschini e abietti. Al contrario, lì l’amore è una fiamma pura1.

L’escatologia di Edwards non si esaurisce in queste considerazioni di carattere ontologico; il suo centro è sempre la cristologia. Un vero rimedio a tutte le teorie del merito umano è dunque la dimensione cristologica del nesso tra etica ed escatologia. Gesù Cristo è il nostro precursore, l’esempio e l’unico mediatore. La sua opera di salvezza è l’unica garanzia per raggiungere il paradiso celeste. In lui si compie anche l’eterno decreto di Dio e il suo piano di salvezza. L’unica strada che porta al cielo non è quella delle opere e dei meriti umani, ma quella della fede cristocentrica: Durante tutto il cammino mantenete lo sguardo fisso su Gesù, il quale è entrato nel cielo come vostro Precursore. Guardatelo: ammirate la sua gloria celeste per sentirvi spronati a impegnarvi con ardore affinché possiate essere là anche voi. Osservatelo e considerate il suo esempio. Pensate in che modo, con paziente perseveranza nel fare il bene e sopportando con mansuetudine immani sofferenze, egli vi abbia preceduto in paradiso. Miratelo e riponete fede nella sua mediazione, nel suo sangue, in virtù del quale è entrato nel luogo santissimo del tabernacolo celeste. Abbiate fede nella sua intercessione in cielo davanti a Dio. Abbiate fede nella sua forza che opera mediante lo Spirito che è stato mandato dal cielo per farci perseverare superando le difficoltà che incontriamo lungo la via che conduce al cielo. Abbiate fede nelle sue promesse, fatte a coloro che lo amano e lo seguono e che egli stesso ha confermato entrando nel regno celeste come nostro Duce, Rappresentante e Precursore2.

La persona di Gesù diventa in quest’ottica la massima espressione dell’amore divino. Quest’amore non rimane rinchiuso in una sfera astratta e irraggiungibile: è un amore che ha preso car1 2

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Infra, p. 299. Infra, pp. 323-324.


Introduzione

ne, condividendo pienamente la condizione umana. Il paradiso celeste è dunque una prospettiva futura, ma è anche una realtà concreta che si manifesta ora e qui. Tale realtà può essere sperimentata già durante la vita terrestre. Proprio con un’esortazione legata a questo pensiero, Edwards chiude la sua predicazione su I Corinzi 13: Vivendo una vita d’amore camminerete sulla via che conduce al cielo. Poiché il cielo è un mondo d’amore, la via che vi conduce sarà quella dell’amore. L’amore vi preparerà meglio per il regno celeste rendendovi idonei a godere l’eredità divina insieme a tutti i santi, in quella terra di luce e d’amore. E se mai giungeremo al cielo, la fede e l’amore saranno le ali che ci avranno fatto volare lassù1.

ATTUALITÀ

DELLA PREDICAZIONE DI

EDWARDS

«Ama et fac quod vis» (ama e fa’ quel che vuoi): la famosa frase di Agostino d’Ippona2 ha assunto nella corrente prassi etica un significato alquanto problematico, anzi spesso questo adagio è pronunciato senza alcuna consapevolezza della sua origine, nonché proposto come formula della felicità immediata e pienamente gratificante. Si tratta purtroppo non solo di superficialità, ma, piuttosto, di un soggettivismo morale che è pronto a giustificare qualsiasi tipo di comportamento, legandolo appunto al concetto dell’amore. Non è questa la sede adatta per aprire un dibattito sulle possibili conseguenze di tale atteggiamento; d’altro canto una riflessione del genere rischierebbe di sfociare in un superficiale moralismo. Il problema principale si riduce prima di tutto a due parametri: filologico e psicologico. Il parametro filologico è decisamente più semplice da circoscrivere: al livello popolare ci sono così tante definizioni dell’amore che, in ultima analisi, nessuna di esse è in grado di diventare un riferimento etico. La questione psicologica è più complessa, ma strettamente legata a quella filologica. Non di rado una sensa1

Infra, p. 325. La frase è contenuta nell’omelia 7 sulla Prima Lettera di Giovanni (I Giovanni 4:4-12), in In Joann., 7,8 (cfr. AGOSTINO D’IPPONA, Pensieri: Ama e fa’ quel che vuoi, a cura di CARLO CREMONA, Milano, Rusconi, 1994). 2

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L’AMORE

E I SUOI FRUTTI

zione soggettiva di simpatia e/o di attrazione verso l’altro diventa una giustificazione per un agire completamente svincolato da qualsiasi tipo di riferimento morale e oggettivamente trasgressivo. A questi due parametri se ne aggiunge un terzo, quello teologico. In questo caso il problema è veramente complesso. L’amore umano sembra mettere da parte Dio e la sua volontà. La percezione del Dio d’amore e dell’amore divino agli occhi dei più pare impossibile. Il pensiero di Edwards espresso in questi sermoni assume in questo quadro una notevole importanza. Prima di tutto per il suo rigore filologico. Le sue definizioni e precisazioni linguistiche sono strumenti utili per ricostruire precisamente il campo semantico del termine amore. Sul piano psicologico Edwards dimostra una profonda conoscenza della natura umana. La descrizione della psiche umana, con tutta la complessità dei desideri e delle passioni, rimane straordinariamente attuale. Alla fine ciò che rende il pensiero di Edwards particolarmente solido è la sua base teologica. La filologia non è mai scissa dal testo biblico, la psicologia è radicata nell’antropologia teologica e l’applicazione della parola di Dio all’esistenza umana crea una serie di riferimenti precisi e affidabili. Il paradigma dell’amore che ne consegue è stato magistralmente riassunto da Tyron Edwards: L’amore è il primo atteggiamento dell’anima rigenerata verso Dio: «Noi amiamo perché egli ci ha amati per primo». È la certa evidenza dell’opera salvifica che la grazia compie nell’anima: «Il frutto dello Spirito invece è amore». Esso è posto come la vera base del carattere cristiano; siamo «radicati e fondati nell’amore». È il sentiero sul quale si ritrovano i veri figli di Dio, coloro che «[camminano] nell’amore» che è il vincolo della loro reciproca unione; i loro cuori sono «uniti mediante l’amore» che è la loro protezione nella lotta spirituale; essi indossano la «corazza […] dell’amore» che è la pienezza e la completezza del loro carattere cristiano, sono stati “resi perfetti nell’amore”, che è lo Spirito, per mezzo del quale possono compiere tutti i precetti divini; perché «l’amore è […] l’adempimento della legge» e quindi essi possono diventare come il loro Padre nei cieli nonché idonei a sperimentare la sua presenza, poiché «Dio è amore» e «il cielo è un mondo d’amore»1.

1 TYRON EDWARDS, Introduction, in JONATHAN EDWARDS, Charity and its Fruits, Edinburgh, The Banner of Truth Trust, 1998, p. v.

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Introduzione

NOTE

EDITORIALI

Il testo dei sermoni di Jonathan Edwards su I Corinzi 13 ha avuto una storia editoriale abbastanza complessa. Sembra che il materiale fosse stato organizzato dal predicatore stesso in vista di una possibile futura pubblicazione a stampa. Durante la vita di Edwards tale progetto non è stato realizzato, tuttavia ne è stata ritrovata traccia intorno l’anno 1764 in una lettera di Samuel Hopkins indirizzata a Joseph Bellamy. Sembra che i due editori degli scritti di Edwards avessero iniziato i preparativi per la pubblicazione dei sermoni sull’amore. La loro prima edizione a stampa è apparsa però solo nel 1852 a cura di Tyron Edwards. Tale edizione, con le sue numerose ristampe, ha contribuito notevolmente all’ampia diffusione di questi sermoni. Nell’edizione del 1852 il materiale è organizzato in sedici capitoli. Il termine usato dall’editore è lecture, ovvero “lezione”. Il curatore parla di numerosi manoscritti consultati per la stesura definitiva dell’opera; in realtà è impossibile ricostruire il percorso di ricerca. Lo stile della pubblicazione è abbastanza scorrevole, tendente talvolta alla prolissità; tuttavia la sostanza del pensiero di Jonathan Edwards è trasmessa fedelmente. Per la presente traduzione italiana è stata usata l’edizione della Yale Press del 1987, curata da Paul Ramsey. È un’edizione critica corredata di un eccellente apparato scientifico. Ramsey ha raccolto e analizzato il materiale manoscritto, sia quello originale di Edwards che le numerose trascrizioni, nonché le pubblicazioni a stampa contenenti frammenti o allusioni inerenti alla predicazione di Edwards su I Corinzi 13. L’edizione curata da Ramsey è strutturata in quindici sermons, “predicazioni”. Lo stile talvolta è abbastanza ruvido e ripetitivo, la forma talvolta assomiglia ad una serie di appunti e non a una predicazione compiuta. Nell’edizione italiana sono state omesse le note dell’editore; tuttavia, nella traduzione di passi incerti dal punto di vista teologico, si è tenuto conto delle osservazioni di Ramsey. Lo stesso vale per l’edizione di Tyron Edwards, che è stata di grande aiuto per trovare una veste linguistica più vicina alla sensibilità del lettore italiano. PAWEL GAJEWSKI Chiesa Evangelica Valdese Perrero, settembre 2003 25


PRIMO SERMONE

L’amore: somma di tutte le virtù

«Se parlassi le lingue degli uomini e degli angeli, ma non avessi amore, sarei un rame risonante o uno squillante cembalo. Se avessi il dono di profezia e conoscessi tutti i misteri e tutta la scienza e avessi tutta la fede in modo da spostare i monti, ma non avessi amore, non sarei nulla. Se distribuissi tutti i miei beni per nutrire i poveri, se dessi il mio corpo a essere arso, e non avessi amore, non mi gioverebbe a niente» (I Corinzi 13:1-3).

Considerando queste parole, possiamo osservare quanto segue: 1. Si parla di qualcosa che ha una particolare importanza e che è una peculiarità essenziale per i cristiani, vale a dire ciò che l’apostolo chiama amore. In tutto il Nuovo Testamento, Cristo e i suoi apostoli insistono molto sul concetto di amore, al punto che non premono su nessun’altra virtù come su questa. Tuttavia, il significato della parola “amore”, così come viene utilizzata nel Nuovo Testamento, è molto più ampio di quanto si pensi comunemente. Ciò che la gente solitamente definisce “amore” in una normale conversazione è quella disposizione d’animo che spera e pensa il meglio delle persone, dando un significato positivo alle loro parole o ai loro comportamenti. Talvolta si parla di amore riferendosi alla generosità verso i poveri. Comunque, tutte queste concezioni rappresentano soltanto alcuni particolari rami o frutti della grande virtù dell’amore, così spesso citata nel Nuovo Testamento. Il termine indica, più precisamente, una disposizione o un sentimento che rende una persona cara ad un’altra. La parola greca agàpe, 29


L’AMORE E I

SUOI FRUTTI

che incontriamo nel testo originale, che è tradotta anche “carità”, è correttamente resa con “amore”. Pertanto, nel Nuovo Testamento agàpe significa “amore cristiano” e, sebbene si riferisca più spesso dell’amore verso gli uomini, alle volte indica anche l’amore verso Dio. È secondo tale accezione che l’apostolo utilizza il termine in questa epistola: «Quanto alle carni sacrificate agli idoli, sappiamo che tutti abbiamo conoscenza. La conoscenza gonfia, ma l’amore edifica. Se qualcuno pensa di conoscere qualcosa, non sa ancora come si deve conoscere; ma se qualcuno ama Dio, è conosciuto da lui» (I Corinzi 8:1-3). In questo passo l’apostolo confronta due cose: la conoscenza e l’amore. Nel primo versetto egli dà la preferenza all’amore, in quanto la conoscenza gonfia, mentre l’amore edifica. Nei due versetti successivi spiega, prima, in che modo la conoscenza gonfia e poi il motivo per cui l’amore edifica. Egli afferma: «Se qualcuno ama Dio, è conosciuto da lui»; dunque, ciò che nel primo versetto chiama amore, lo indica nel terzo come amore verso Dio, riferendosi evidentemente allo stesso concetto. Senza dubbio, l’apostolo impiega la parola amore nello stesso modo nell’ottavo come nel tredicesimo capitolo di questa epistola; infatti, in entrambi i casi egli confronta gli stessi due concetti, vale a dire la conoscenza e l’amore. Perciò, si evince che “amore” indica l’amore cristiano nella sua completezza ed è riferito a tutto ciò verso cui si esprime: Dio oppure il prossimo. In questo passo si parla dell’amore come quella realtà che è davvero essenziale e che caratterizza il vero cristianesimo, come comprendiamo meglio da una seconda osservazione. 2. Ciò che Paolo menziona sarebbe vano senza l’amore, nonostante si tratti delle facoltà più eccellenti che l’uomo naturale possa mai possedere. Queste facoltà possono essere distinte in due generi: privilegi e imprese. Il privilegio più eccellente di cui l’uomo naturale sia stato dotato è la grande conoscenza, mentre l’impresa più ammirevole che egli possa compiere è dare tutti i propri averi per nutrire i poveri. L’uomo naturale è particolarmente incline a riporre la propria fiducia in queste cose. Egli è pronto a confidare nei propri privilegi, specialmente in quelli straordinari, ed è ancor più pronto ad affidarsi alla pro30


Primo sermone

pria conoscenza, come osserva l’apostolo stesso quando afferma che «la conoscenza gonfia». Questa era ciò in cui confidavano i farisei, i quali, ritenendosi uomini di senno, si offesero oltremodo quando Cristo sembrò accusarli di cecità: «Siamo ciechi anche noi?» (Giovanni 9:40). Zofar osserva: «L’insensato diventerà saggio, quando un puledro d’onagro diventerà uomo» (Giobbe 11:12). L’uomo naturale, specialmente quando gode di grandi privilegi, quali la capacità di profetizzare e di compiere miracoli, è pronto ad esclamare: «Signore, Signore, non abbiamo noi profetizzato in nome tuo e in nome tuo cacciato demòni e fatto in nome tuo molte opere potenti?» (Matteo 7:22). Gli uomini, dunque, tendono a riporre la propria fiducia nelle loro imprese, specialmente quando si tratta di quelle straordinarie qui menzionate, come il donare tutti i propri averi per nutrire i poveri. Ecco, dunque, qual è la dottrina: l’essenza della virtù salvifica che caratterizza i veri cristiani, distinguendoli dagli altri, è l’amore cristiano, ovvero quello divino. Questo è quanto si evince dalle parole del testo; infatti l’amore non è incluso nelle molte facoltà eccellenti che l’uomo naturale può possedere. Ciò di cui si parla sono i privilegi e le imprese più sublimi per gli uomini, ma è detto che tutto ciò non gioverebbe a nulla senza l’amore. Se questi privilegi e queste imprese avessero una natura salvifica servirebbero a qualcosa, ma l’apostolo parla di realtà così grandi e numerose e afferma che senza amore non valgono nulla; perciò, a prescindere dall’amore, niente è davvero salvifico e utile. Che l’uomo abbia pure tutto ciò che desidera e faccia pure ciò che vuole: nulla vale se non c’è amore. L’implicazione è che l’amore è la realtà fondamentale e tutto ciò che, in qualche modo, non partecipa dell’amore è un nulla. Ciò significa che l’amore è la vita e l’essenza della vera religione e che senza l’amore tutto il resto, benché importante, è inutile e futile. Ad esempio, la fede senza amore, anche se dovesse essere così grande da smuovere i monti, non conta nulla ed è inutile e vana, proprio come un corpo senza lo spirito. 31


L’AMORE E I

SUOI FRUTTI

In riferimento a questa dottrina, vorrei: I. dire qualcosa a proposito della natura dell’amore divino; II. mostrare la veridicità della dottrina e fare un’applicazione pratica. I. Riflettiamo, pertanto, sulla natura del vero amore cristiano. Il vero amore cristiano è uno solo e si basa su uno stesso principio. Esso può essere variegato nelle sue manifestazioni ed esprimersi verso oggetti diversi, Dio o gli uomini, rimanendo però come un unico principio nel cuore a fondamento della pratica del vero amore cristiano, indipendentemente dall’oggetto cui è rivolto. L’amore sacro, insito nel cuore dei cristiani, non è come l’amore degli altri uomini. L’amore umano, infatti, rivolgendosi ad oggetti differenti, può avere principî e motivi diversi, nonché procedere da varie intenzioni. Il vero amore cristiano, invece, non può essere distinto in una varietà di principî, giacché si basa su di un unico principio. Qualunque sia l’oggetto verso cui si esprime, l’origine, ossia la fonte all’interno del cuore è la stessa, anche se fluisce verso oggetti diversi. È dunque appropriato racchiudere il tutto in un unico termine, che nel testo è appunto quello di “amore”. Che l’amore cristiano sia la manifestazione di un unico principio attivo nel cuore, qualunque sia l’oggetto verso cui si esprime, è provato dalle seguenti considerazioni. 1. Nel vero cristiano, tutto procede da un unico Spirito che influenza il cuore. È dal soffio di un medesimo Spirito che nasce l’amore cristiano, sia per Dio sia per gli uomini. Lo Spirito di Dio è uno spirito d’amore; pertanto, quando lo Spirito di Dio dimora nell’anima, vi dimora anche l’amore. Dio è amore e colui nel quale Dio dimora mediante il suo Spirito avrà l’amore nel cuore. La natura dello Spirito Santo è amore ed è manifestando se stesso, ossia la sua natura, che i cuori dei santi sono colmati d’amore e carità. Questa è la ragione per cui si afferma che i santi sono «partecipi della natura divina» (II Pietro 1:4) e l’amore cristiano viene definito «amore dello Spirito»: «Ora, fratelli, vi esorto, per il Signore nostro Gesù Cristo e per l’amore dello Spirito […]» (Romani 15:30). In Filippesi 2:1 sembra che 32


Primo sermone

avere tenerezza di affetto e compassione non sia diverso dall’essere in comunione di Spirito: «Se dunque v’è qualche incoraggiamento in Cristo, se vi è qualche conforto d’amore, se vi è qualche comunione di Spirito, se vi è qualche tenerezza di affetto e qualche compassione […]». È lo Spirito che infonde nel cuore l’amore di Dio: «L’amore di Dio è stato sparso nei nostri cuori mediante lo Spirito Santo che ci è stato dato» (Romani 5:5). L’amore verso gli uomini dimora in quell’anima dove dimora lo Spirito: «[…] Se ci amiamo gli uni gli altri, Dio rimane in noi e il suo amore diventa perfetto in noi. Da questo conosciamo che rimaniamo in lui ed egli in noi: dal fatto che ci ha dato del suo Spirito» (I Giovanni 4:12-13). E ancora: «Questo è il suo comandamento: che crediamo nel nome del Figlio suo, Gesù Cristo, e ci amiamo gli uni gli altri secondo il comandamento che ci ha dato. Chi osserva i suoi comandamenti rimane in Dio e Dio in lui. Da questo conosciamo che egli rimane in noi: dallo Spirito che ci ha dato» (I Giovanni 3:23-24). 2. L’amore cristiano, sia verso Dio sia verso gli uomini, è prodotto nel cuore mediante una medesima opera dello Spirito. Lo Spirito di Dio non compie due opere distinte, infondendo, da un lato, amore verso Dio e, dall’altro, amore verso gli uomini. Si tratta di un’unica opera che si compie quando lo Spirito di Dio, nella conversione, rinnova il cuore, conferendogli una disposizione divina: «A essere invece rinnovati nello spirito della vostra mente» (Efesini 4:23). Questa disposizione divina prodotta nel cuore è quella da cui fluisce sia l’amore verso Dio sia quello verso gli uomini. 3. Quando Dio e gli uomini sono amati con vero amore cristiano, le motivazioni sono identiche. Si ama Dio per la sua eccellenza e per la bellezza della sua natura, specialmente per la santità della sua natura. I santi sono amati per lo stesso motivo, ossia per amore della santità. Tutto ciò che viene amato con amore santo e sincero, lo si ama per una qualche relazione con Dio. L’amore verso gli uomini si fonda sull’amore verso Dio. Si ama l’uomo perché, in qualche modo, assomiglia a Dio, nel senso che partecipa della natura o dell’immagine spirituale di Dio, oppure perché si considera la sua relazione con Dio, in qualità di sua creatura o di figlio suo prediletto, ossia un indi33


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SUOI FRUTTI

viduo cui è elargita la misericordia divina. Dunque, si ama qualcuno perché, sempre, in qualche modo, è legato a Dio. Ma andiamo avanti. II. Voglio mostrare la veridicità della dottrina. Primo. Possiamo riflettere basandoci su ciò che la ragione insegna sulla natura dell’amore. Se si considera adeguatamente la natura dell’amore, due cose appariranno chiare: 1. L’amore predisporrà ai giusti atti di rispetto verso Dio e verso gli uomini, e ciò è ovvio in quanto il vero rispetto, in ogni caso, consiste nell’amore. Se un individuo ama sinceramente Dio sarà disposto a offrirgli tutto il rispetto dovuto. Gli uomini, se sono stimolati dall’amore, non avranno bisogno di nient’altro per mostrarsi rispettosi. L’amore verso Dio predisporrà l’uomo ad onorare Dio: grazie all’amore, egli lo venererà e lo adorerà con grande entusiasmo, per conoscerne la grandezza, la gloria e la potenza. Sarà dunque l’amore a predisporci a tutti gli atti di obbedienza verso Dio. Il servo che ama il suo padrone e il suddito che ama il suo principe saranno pronti a servirli ed obbedire loro. L’amore renderà l’uomo incline a comportarsi con Dio come un figlio fa con il padre, a chiedere il suo aiuto nelle difficoltà e a confidare in lui. È naturale che le persone, in caso di bisogno o nei momenti di dolore, si rivolgano a chi le ama per ricevere pietà e conforto; perciò, chi ama Dio sarà propenso a prestare fede alla sua opera e ad avere fiducia in lui. Gli uomini non dubitano della sincerità di coloro per i quali nutrono un sentimento di amicizia totale, quindi l’amore predisporrà gli uomini a lodare Dio per le grazie che concede loro. Gli uomini sono grati per le gentilezze che ricevono da coloro che amano. L’amore predisporrà il cuore a sottomettersi alla volontà divina, in quanto le persone sono più disponibili alla realizzazione della volontà di coloro che amano, piuttosto che quella degli altri e, ovviamente, desiderano per loro tutto il bene e le cose migliori. L’amore vero e la stima verso Dio predisporranno il cuore a riconoscerne la legittimità del governo e, dunque, a sottomettersi a lui. L’amore verso Dio indurrà l’uomo a camminare con lui in umiltà, perché l’uomo che ama Dio sarà incline a riconoscere la distanza che inter34


Primo sermone

corre tra sé e Dio e proverà gioia nell’esaltarlo e nel prostrarsi dinanzi a lui, innalzandolo sopra ogni cosa. Un vero cristiano gioisce nell’esaltare Dio abbassando se stesso, proprio perché lo ama ed è disposto a riconoscere che egli è degno di ricevere tutto l’onore, ed è per lo stesso motivo che con gioia si prostra nella polvere davanti a lui. Inoltre, una debita considerazione della natura dell’amore dimostrerà che esso predispone gli uomini a compiere il proprio dovere nei confronti del prossimo. L’amore sincero di un uomo verso il prossimo lo predisporrà ad agire secondo giustizia. Gli uomini non sono inclini a far torto a coloro che amano sinceramente. L’amore e l’amicizia, quando sono veri, predisporranno le persone a dare agli altri ciò che è dovuto: «L’amore non fa nessun male al prossimo» (Romani 13:10). L’amore rende sinceri nei confronti del prossimo e fa evitare menzogne, frodi e inganni, perché le persone non desiderano trattare slealmente coloro che amano davvero. Trattare gli uomini in questo modo significa trattarli da nemici, ma l’amore distrugge l’inimicizia. Di conseguenza, l’apostolo, per indurre i cristiani alla sincerità reciproca, li esorta sulla base dell’unione che deve esserci tra loro: «Perciò, bandita la menzogna, ognuno dica la verità al suo prossimo perché siamo membra gli uni degli altri» (Efesini 4:25). L’amore rende umili verso gli altri. L’amore vero, infatti, predisporrà gli uomini a pensieri elevati e l’amore cristiano li indurrà a considerare gli altri migliori di se stessi, nonché ad onorarsi l’un l’altro. Ecco dei precetti colmi d’amore: «Onorate tutti» (I Pietro 2:17) e ancora: «Ciascuno, con umiltà, stimi gli altri superiori a se stesso» (Filippesi 2:3). L’amore predisporrà gli uomini a sentirsi appagati di ciò che Dio ha concesso loro e a non desiderare ciò che gli altri possiedono, invidiando ciò che di buono gli altri godono. L’amore li farà essere mansueti e gentili nei confronti del prossimo e a non trattare gli altri con impeto o violenza, bensì con calma e moderazione. L’amore controlla e tiene a freno uno spirito aspro perché nell’amore non vi è asprezza, ma un atteggiamento mite e affettuoso dell’anima, che si oppone a risse e litigi, predisponendo alla pace e a dimenticare le offese ricevute: «L’odio provoca liti ma l’amore copre ogni colpa» (Proverbi 10:12). L’amore 35


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SUOI FRUTTI

indurrà anche ad atti di misericordia verso coloro che soffrono dolori o calamità. La natura umana è, infatti, incline alla pietà verso i sofferenti e predispone gli uomini a donare ai poveri e a farsi carico dei fardelli altrui, a piangere insieme con chi piange e a gioire insieme con chi gioisce. L’amore ci predispone a svolgere i nostri doveri verso gli altri, in àmbiti diversi e secondo le varie relazioni che si hanno, nonché a compiere i doveri che si hanno nei confronti dei governanti, in modo da onorarli ed essere loro sottomessi come si conviene. Quest’atteggiamento incoraggerà i governanti ad operare con giustizia, ossia ricercando sinceramente il bene di coloro che governano. L’amore predispone le persone a fare il proprio dovere verso i ministri del Vangelo, a prestare attenzione alle loro istruzioni e ai loro consigli ed a sottomettersi a loro nella casa di Dio, con la volontà di sostenerli. L’amore rende poi i pastori propensi a ricercare in modo onesto il bene dei fedeli; induce a comportarsi convenientemente tra marito e moglie; dispone i figli all’obbedienza verso i genitori; spinge i genitori a non irritare i figli fino a esasperarli; porta i servi ad essere obbedienti ai loro padroni, non per convenienza ma per lealtà, e fa essere i padroni gentili e benevoli con i loro servi. Infine, l’amore predispone gli uomini a fare agli altri quello che vorrebbero fosse fatto a loro, come se essi fossero nei panni del prossimo e il prossimo fosse nei loro. L’amore, quindi, induce ad un’obbedienza totale verso Dio e verso gli uomini e, di conseguenza, è la radice e la fonte e, per così dire, la somma di tutte le virtù. L’amore è un principio che, se alberga nel cuore, è sufficiente a produrre tutte le migliori inclinazioni verso Dio e verso gli uomini, come se le racchiudesse tutte in sé. 2. La ragione insegna che qualsiasi azione o virtù apparente, ma avulsa dall’amore, è falsa ed ipocrita. Se in ciò che gli uomini fanno non c’è amore, allora non ci sarà neppure vero rispetto verso Dio o verso il prossimo nelle azioni che essi compiono e, di conseguenza, mancherà la sincerità. Che cos’è la religione senza il rispetto verso Dio? Il vero significato della religione, o dell’adorazione, sta nell’esprimere e nel dimostrare rispetto verso il Creatore; tuttavia, se manca il vero rispetto che è amore, allora la religione è solo apparente, non è reale e, 36


Primo sermone

dunque, è vana. Se la nostra fede è di questo tipo, ossia se non è animata da un vero rispetto per Dio, la ragione c’insegna che essa è vana. A che serve una fede che non dimostra alcun rispetto verso Dio? Se non c’è amore per Dio, non ci sarà neppure vera riverenza per Dio! Da ciò si evince che l’amore è incentrato su una fede sincera e viva, animata e vivificata da quest’amore e che, senza di esso, la fede muore proprio come il corpo senza lo spirito: è questa la grande differenza tra la fede salvifica e altri tipi di fede. Tale argomento verrà trattato in modo più particolareggiato in seguito. Chi non ama veramente Dio non saprà neppure onorarlo. L’uomo non è mai sincero se onora qualcuno che non ama, pertanto l’onore e l’adorazione sono azioni ipocrite se prive d’amore. Allo stesso modo, la ragione insegna che l’obbedienza non è sincera senza amore. In questo caso, nulla è fatto spontaneamente, bensì tutto è necessariamente forzato. Senza amore non può esserci una sottomissione sincera alla volontà di Dio e neppure vera fiducia in lui. Colui che non ama Dio non confiderà in lui; la sua anima non sarà mai completamente disposta ad affidarsi alle mani di Dio, gettandosi tra le braccia della sua misericordia. Inoltre, per quanto i rapporti con il prossimo possano sembrare idilliaci, la ragione insegna che, se nel cuore non alberga anche il rispetto per il prossimo, si tratta solo d’ipocrisia. Dunque, considerando questi due concetti, vale a dire che la natura dell’amore è in grado di produrre tutte le virtù, predisponendo al compimento di tutti i doveri verso Dio e verso gli uomini, e che senza amore non esistono una vera virtù e dei doveri compiuti con sincerità, ne consegue la veridicità della nostra dottrina, ossia che ogni sincera virtù cristiana e ogni vera grazia sono un’espressione dell’amore. Questa è la prima prova della veridicità della dottrina. Secondo. La Scrittura c’insegna che l’amore è la somma di tutto ciò che è contenuto nella legge di Dio, come anche di tutti i doveri richiesti dalla Parola. Questo è l’insegnamento generale della Scrittura e di ciascuna delle tavole della legge in particolare. 1. La legge e la Parola di Dio nel suo complesso insegnano 37


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che l’amore è la somma di tutto ciò che è contenuto nella legge di Dio, come anche di tutti i doveri richiesti dalla Parola. Il termine «legge» a volte indica la Parola di Dio nel suo complesso. Così, in Giovanni 10:34 è scritto: «Gesù rispose loro: “Non sta scritto nella vostra legge: Io ho detto: voi siete dèi?”», ma in questo caso il passo citato è tratto dal libro dei Salmi. Talvolta il riferimento è ai cinque libri di Mosè, come, ad esempio, quando incontriamo la distinzione tra legge e profeti: «Credendo in tutte le cose che sono scritte nella legge e nei profeti» (Atti 24:14). Altre volte, l’espressione indica i dieci comandamenti, in quanto questi contengono la somma dei doveri del genere umano e tutto quello che Dio esige come obbligo universale e perpetuo. Eppure, sia che il termine indichi i dieci comandamenti, sia che si riferisca a tutta la Parola di Dio scritta, la Scrittura c’insegna che la somma di tutto quanto Dio richiede è l’amore. Dunque, quando la parola «legge» indica i dieci comandamenti, come nel seguente versetto: «Chi ama il prossimo ha adempiuto la legge» (Romani 13:8), essa riassume alcuni comandamenti. Poco dopo l’apostolo ripete la stessa cosa: «L’amore quindi è l’adempimento della legge» (Romani 13:10). Quindi, se l’amore non fosse la somma di quanto la legge richiede, la legge non potrebbe adempiersi completamente nell’amore, infatti non si può adempiere una legge se non obbedendo in tutto a ciò che essa contiene. Lo stesso apostolo afferma: «Lo scopo di questo incarico è l’amore» (I Timoteo 1:5). Oppure, considerando il termine «legge» in modo più ampio, volendo indicare l’intera Parola di Dio scritta, ancora una volta la Scrittura c’insegna che l’amore è la somma di ciò che la legge richiede. In Matteo 22:40 Cristo insegna che dai due comandamenti, che ordinano di amare Dio con tutto il cuore e il prossimo come noi stessi, dipendono tutta la legge e i profeti, vale a dire tutta la Parola di Dio, poiché ciò che allora veniva definito «legge e profeti» era l’intera Parola di Dio esistente a quel tempo. 2. Ciascuna tavola della legge insegna che l’amore è la somma di tutto ciò che è contenuto nella legge di Dio, come anche di tutti i doveri richiesti dalla Parola. Al dottore della legge che gli chiese: «Maestro, qual è, nella 38


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legge, il gran comandamento?», Cristo rispose col comandamento: «Ama il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta la tua mente e con tutta la tua anima», quale essenza della prima tavola della legge (Matteo 22:36-38). Nel versetto successivo, l’amore per il prossimo corrisponde all’essenza della seconda tavola, proprio come in Romani 13:9, dove sono enumerati i precetti della seconda tavola: «Infatti il “non commettere adulterio”, “non uccidere”, “non rubare”, “non concupire” e qualsiasi altro comandamento si riassumono in questa parola: “Ama il tuo prossimo come te stesso”». E ancora: «Poiché tutta la legge è adempiuta in quest’unica parola: “Ama il tuo prossimo come te stesso”» (Galati 5:14). Anche l’apostolo Giacomo sembra insegnare la stessa cosa: «Certo, se adempite la legge come dice la Scrittura: “Ama il tuo prossimo come te stesso”, fate bene» (Giacomo 2:8). Dunque, l’amore sembra essere la somma di tutte le virtù e di tutti i doveri che Dio esige da noi, per cui, senza alcun dubbio, si tratta della caratteristica essenziale, ovvero della somma di tutta quella virtù che è fondamentale e peculiare del vero cristianesimo. La somma di tutti i doveri è la somma della vera virtù. 3. La veridicità della dottrina appare da ciò che l’apostolo insegna ai Galati: «Quello che vale è la fede che opera per mezzo dell’amore» (Galati 5:6). La vera fede cristiana è quella che produce opere buone e tutte le opere buone procedono dall’amore. A questo riguardo, due cose sono evidenti ai fini del discorso: (1) L’amore è un elemento della fede vera e salvifica; anzi, ne costituisce l’aspetto più essenziale e peculiare. L’amore non partecipa di una fede che sia soltanto speculativa, ma è la vita e l’anima di una fede pratica. Una fede di questo tipo, salvifica e pratica, è luce e calore insieme, ossia luce e amore. Una fede speculativa, invece, è soltanto luce, senza calore e, mancando di calore spirituale o di amore divino, è vacua e inutile. La fede speculativa consiste solo nell’assenso, mentre nella fede salvifica vi sono assenso della mente e consenso del cuore insieme. La fede che ha solo l’assenso dell’intelletto non è migliore della fede dei demòni, se tale si può definire una fede senza amore; infatti i demòni credono e tremano. Ora, il vero consenso spiri39


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tuale del cuore non può essere separato dall’amore: colui il cui cuore acconsente a Cristo come Salvatore, ama Cristo sotto questo aspetto, vale a dire come Salvatore. Infatti, acconsentire alla via della salvezza in Cristo non può esimere dall’amare la via della salvezza in Cristo. Vi è un atto di scelta o di elezione nella fede vera e salvifica tramite il quale l’anima sceglie Cristo come suo Salvatore, accettandolo e accogliendolo come tale. Nondimeno, come osservato in precedenza, l’elezione tramite cui l’anima sceglie Dio e Cristo è un atto d’amore: è amore per scelta. L’abbraccio che lega il peccatore al Salvatore è amore. La fede è un dovere che Dio comanda all’anima, in quanto ci è richiesto di credere, e lo scetticismo è un peccato che Dio proibisce. La fede è un dovere richiesto nella prima tavola della legge, nel primo comandamento, pertanto è compresa in quel grande comandamento: «Ama il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta la tua mente e con tutta la tua anima» (Matteo 22:37). Deduciamo, dunque, che l’amore è l’elemento essenziale di una fede vera. Che l’amore sia vita e anima della vera fede è evidente specialmente confrontando il passo dell’apostolo Paolo già citato (cfr. Galati 5:6), con queste parole: «Infatti, come il corpo senza lo spirito è morto, così anche la fede senza le opere è morta» (Giacomo 2:26). La natura operante e attiva delle cose è la loro stessa vita. Gli uomini definiscono vive le cose quando osservano in esse una natura attiva. Tale natura operante ed attiva, nell’uomo, è lo spirito che egli ha dentro di sé. Per questo, come il corpo senza lo spirito è morto, anche la fede senza una natura operante è morta. Che cosa sia questo tipo di natura, tale da costituire la fede vera, l’apostolo Paolo lo spiega in Galati 5:6, dove è scritto che la fede opera per mezzo dell’amore. È l’amore lo spirito attivo, operante, che è presente nella vera fede e ne rappresenta l’anima più vera, senza la quale la fede è morta. Ecco perché il nostro passo afferma che la fede senza l’amore è nulla, anche se si tratta di una fede tanto grande da spostare le montagne. E quando nel settimo versetto di questo capitolo l’apostolo afferma che l’amore crede ogni cosa e spera ogni cosa, è probabile che egli pensi a queste grandi virtù del credere 40


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e dello sperare, ossia della fede e della speranza in Dio, delle quali parla in altre parti del capitolo, specialmente nell’ultimo versetto: «Ora dunque queste tre cose durano: fede, speranza, amore». Nel settimo versetto, l’apostolo dà la preferenza alla carità, ovvero all’amore rispetto alla fede e alla speranza, giacché, sostenendo che l’amore crede ogni cosa e spera ogni cosa, include la fede e la speranza nell’amore. Probabilmente è questo ciò che intende l’apostolo e non il credere e lo sperare il meglio rispetto al nostro prossimo, come si ritiene comunemente. A Dio piacendo, in seguito parlerò di più riguardo a questo argomento. Che l’amore per Dio sia la caratteristica principale della fede che giustifica, risulta altresì dal fatto che Cristo, parlando con i Giudei, afferma: «Eppure non volete venire a me per aver la vita! Io non prendo gloria dagli uomini; ma so che non avete l’amore di Dio in voi. Io sono venuto nel nome del Padre mio, e voi non mi ricevete; se un altro verrà nel suo proprio nome, quello lo riceverete» (Giovanni 5:40-43). (2) Il principio enunciato in Galati 5:6, secondo cui la fede opera per mezzo dell’amore, mostra, ancora, che tutti i sentimenti del cuore e tutte le azioni di un cristiano provengono dall’amore. Infatti, nel Nuovo Testamento ci viene ripetuto spesso che la santità dei credenti ha avuto origine dalla fede in Gesù Cristo. L’obbedienza di tutti i cristiani è chiamata nella Scrittura “obbedienza alla fede”: «È reso noto mediante le Scritture profetiche, per ordine dell’eterno Dio, a tutte le nazioni perché ubbidiscano alla fede» (Romani 16:26). L’obbedienza di cui sopra è senza dubbio la stessa menzionata nel capitolo precedente: «Non oserei, infatti, parlare di cose che Cristo non avesse operato per mio mezzo allo scopo di condurre i pagani all’ubbidienza, con parole e opere» (Romani 15:18). L’apostolo afferma che la vita che vive ora nella carne, la vive «nella fede del Figlio di Dio» (cfr. Galati 2:20). Infatti, spesso leggiamo che i cristiani vivono «per fede», il che implica, per lo meno, che tutte le grazie, i sentimenti spirituali e le buone opere provengono dalla fede. Ma, in che modo la fede opera queste cose? Ebbene, in questo passo di Galati è detto che la fede opera tutte queste cose mediante l’amore. Ecco, dunque, attestata un’altra volta la veridicità della dottrina secondo cui tutto ciò 41


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che è salvifico e autentico nel cristianesimo consiste esclusivamente nell’amore ed è in esso totalmente contenuto. Applicazioni. La dottrina può essere utilizzata, innanzitutto, per esaminare noi stessi e, in secondo luogo, come istruzione rispetto a diverse circostanze. La terza applicazione può essere quella dell’esortazione. I. Alla luce di quanto affermato su questa dottrina, esaminiamo noi stessi per vedere se in noi è presente lo spirito che essa comanda. Dall’amore per Dio ha origine l’amore per l’uomo, come dice l’apostolo: «Chiunque crede che Gesù è il Cristo, è nato da Dio; e chiunque ama colui che ha generato, ama anche chi è stato da lui generato» (I Giovanni 5:1). Nutriamo questo amore nei confronti di tutti coloro che sono figli di Dio? Questo amore conduce chi lo possiede a rallegrarsi in Dio, ad adorarlo e magnificarlo. Queste sono le persone che saranno presenti nel cielo: «E vidi come un mare di vetro mescolato con fuoco e sul mare di vetro quelli che avevano ottenuto vittoria sulla bestia e sulla sua immagine e sul numero del suo nome. Essi stavano in piedi, avevano delle arpe di Dio, e cantavano il cantico di Mosè, servo di Dio, e il cantico dell’Agnello, dicendo: “Grandi e meravigliose sono le tue opere, o Signore, Dio onnipotente; giuste e veritiere sono le tue vie, o Re delle nazioni. Chi non temerà, o Signore, e chi non glorificherà il tuo nome? Poiché tu solo sei santo; e tutte le nazioni verranno e adoreranno davanti a te, perché i tuoi giudizi sono stati manifestati”» (Apocalisse 15:2-4). E noi, ci rallegriamo in Dio, gioiamo nel pregarlo e nel magnificare il suo santo nome? Questo amore fa sì che coloro che lo possiedono desiderino sinceramente il bene del prossimo e si sforzino seriamente affinché si realizzi? Sta scritto: «Da questo abbiamo conosciuto l’amore: egli ha dato la sua vita per noi; anche noi dobbiamo dare la nostra vita per i fratelli. Ma se qualcuno possiede dei beni di questo mondo e vede suo fratello nel bisogno e non ha pietà di lui, come potrebbe l’amore di Dio essere in lui? Figlioli, non amiamo a parole né con la lingua, ma con i fatti e in verità. Da questo conosceremo che siamo della verità e renderemo sicuri i 42


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nostri cuori davanti a lui» (I Giovanni 3:16-19). Domandiamoci: È questo sentimento lo stesso che fu anche in Cristo Gesù, quello che regna nei nostri cuori e che manifestiamo nella vita quotidiana? II. Il nostro discorso serve anche ad istruirci. Primo. La dottrina c’insegna quale sia il giusto spirito cristiano. Quando i discepoli, animati da un risentimento orgoglioso e vendicativo, desideravano che Cristo facesse scendere fuoco dal cielo per consumare i Samaritani, colpevoli di non averli trattati bene, Cristo li riprese perché essi non sapevano di quale spirito erano animati (cfr. Luca 9:55). Questo rimprovero ci deve far capire non tanto il fatto che i discepoli non conoscessero i propri cuori, ma che non avevano compreso quale tipo di spirito era consono alla loro professione di fede e al loro essere discepoli di Cristo, né alla dispensazione evangelica sotto la quale vivevano. Potrebbe anche essere, e certamente per molti versi era così, che essi non conoscessero i propri cuori, ma ciò che interessava a Cristo era il desiderio che essi avevano espresso, ossia che del fuoco scendesse dal cielo per consumare i Samaritani. Ciò che le loro parole palesano non è tanto il fatto che essi non conoscessero i propri cuori e i moti della propria anima, quanto che ignorassero la disposizione d’animo e il tipo di spirito che si addicono alla religione fondata da Cristo, di cui loro erano chiamati ad essere i primi frutti. I discepoli dimostrarono la loro ignoranza sulla natura del regno di Cristo, regno di amore e di pace, e non si resero conto che uno spirito vendicativo non è un atteggiamento che si addice ai suoi seguaci. Questo è il motivo per cui Cristo li rimprovera. Senza dubbio, sono molti quelli che, anche oggi, dovrebbero essere rimproverati, poiché, nonostante siano stati così a lungo alla scuola di Cristo e abbiano seguito gli insegnamenti del Vangelo, sono ancora molto ignoranti riguardo al tipo di spirito che contraddistingue un vero cristiano e che si addice ai discepoli di Cristo, nonché alla dispensazione del Vangelo nella quale viviamo. Tuttavia, prestando attenzione al nostro testo e alla dottrina che ne abbiamo tratto, impareremo di quale spirito si tratta. La dottrina, infatti, ci mostra la pura essenza e la sostanza 43


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di quello spirito, ossia l’amore divino e cristiano, che potrebbe essere definito col titolo privilegiato di “spirito cristiano”. Il Nuovo Testamento insiste molto di più su tale spirito che su qualsiasi altro aspetto concernente il nostro dovere o lo stato morale. Le parole di Cristo, con cui egli insegnava agli uomini il loro dovere, impartiva comandamenti e consigli ai discepoli e molto altro ancora, riguardavano in gran parte precetti d’amore. Le parole provenienti dalla sua bocca erano piene di questa dolce virtù divina e, quindi, anche il suo palato «era tutto dolcezza» (cfr. Cantico dei Cantici 5:16). Gli apostoli, dopo l’ascensione di Cristo, erano pieni di questo sentimento e nelle loro epistole raccomandavano continuamente amore, pace, gentilezza, prudenza, misericordia e bontà con cui esprimere l’amore verso Dio, verso Cristo e verso tutti gli uomini. Questo spirito d’amore è lo spirito verso il quale Dio, mediante le sue grandi opere che il Vangelo ci fa conoscere, ci spinge più di qualsiasi altra cosa. L’opera della redenzione, dichiarata dal Vangelo, ci offre, sopra tutte le altre cose, dei motivi per amare, in quanto si tratta della più gloriosa e meravigliosa opera d’amore mai vista o concepita! Il Vangelo ci mostra che l’amore è la virtù principale di Dio e di Cristo: esso parla dell’amore tra il Padre e il Figlio, dichiara come quell’amore si è manifestato mediante la misericordia e insegna che Cristo è il Figlio diletto di Dio, nel quale egli si è compiaciuto. Possiamo contemplare gli effetti dell’amore del Padre per il Figlio: lo ha eletto mediatore e sovrano di un regno fondato su tale ufficio, lo ha costituito Signore e Giudice di tutti ed ha stabilito che tutti onorassero il Figlio come onorano lui. Vediamo anche l’amore che Cristo nutre verso il Padre e i suoi meravigliosi frutti, soprattutto in ciò che egli ha compiuto mediante le sofferenze patite per obbedire al Padre e onorare la sua giustizia, la sua autorità e i suoi comandamenti. Il Vangelo rivela altresì come il Padre e il Figlio siano una cosa sola nell’amore, affinché noi possiamo essere indotti ad essere, allo stesso modo, uno con loro e uno tra noi, conformemente alla preghiera di Cristo: «Che siano tutti uno; e come tu, o Padre, sei in me e io sono in te, anch’essi siano in noi: affinché il mondo creda che tu mi hai mandato. Io ho dato loro 44


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la gloria che tu hai data a me, affinché siano uno come noi siamo uno; io in loro e tu in me; affinché siano perfetti nell’unità, e affinché il mondo conosca che tu mi hai mandato, e che li ami come hai amato me» (Giovanni 17:21-23). Il Vangelo c’insegna la dottrina dell’elezione eterna fondata sull’amore di Dio, il quale ha amato coloro che vengono redenti da Cristo prima della fondazione del mondo; costoro sono quelli che il Padre ha dato al Figlio e che il Figlio ha amato. Il Vangelo dichiara il meraviglioso amore di Dio Padre verso uomini peccatori e miserabili nel dono di Cristo, che non solo ha amati quando era nel mondo, ma fino alla fine. Questo è l’amore elargito a coloro che erano smarriti, reietti, indegni, colpevoli e, addirittura, nemici! Il Vangelo non è altro che una rivelazione di tale amore: «Nessuno ha amore più grande di quello di dar la sua vita per i suoi amici» (Giovanni 15:13), e ancora: «Difficilmente uno morirebbe per un giusto; ma forse per una persona buona qualcuno avrebbe il coraggio di morire; Dio invece mostra la grandezza del proprio amore per noi in questo: che, mentre eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi» (Romani 5:7-8). Dio e Cristo appaiono nel Vangelo ammantati d’amore e seduti su di un trono di misericordia e di grazia, un trono dal quale emanano i gradevoli raggi della benevolenza. L’amore è quella luce e quella gloria che circondano il trono sul quale siede Dio. La visione di Dio, come la descrive l’apostolo Giovanni (cfr. Apocalisse 4:3), il discepolo amato, è rappresentata proprio da un arcobaleno intorno al trono, che, a vederlo, era simile allo smeraldo. Dio è assiso sul suo trono ed è circondato da un alone di luce di estrema soavità e bellezza, proprio come gli stupendi colori dell’arcobaleno e come lo smeraldo. Lo smeraldo è una pietra preziosa dal colore meraviglioso e sta a significare che la luce e la gloria, da cui, nel Vangelo, Dio è circondato, sono specialmente quelle del suo amore e della grazia del patto. L’arcobaleno, come è noto, è stato dato a Noè come prova dell’amore di Dio e della grazia del suo patto. Dunque questo spirito, che è spirito d’amore, è quello spirito verso il quale il Vangelo ci spinge e nei confronti del quale ci stimola. Questo è lo spirito davvero cristiano, il vero spirito evangelico. 45


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Secondo. Se le cose stanno così, se ogni esperienza spirituale autentica e salvifica e il vero cristianesimo constano, nella loro essenza, di amore, allora i cristiani possono verificare se ciò che vivono è reale e genuino. In caso di esito positivo, in loro sarà presente l’amore e la loro esperienza sarà causata dall’amore o avrà come conseguenza l’amore. Quando le persone hanno, come si è detto, una vera luce nell’anima tale luce non può essere priva di calore. Le vere esperienze spirituali generano amore nell’anima, riempiono d’amore il cuore, predisponendolo all’amore verso Dio, in quanto egli è ritenuto il sommo bene; in esse il cuore si unisce a Cristo in un vincolo d’amore e mediante esse si è indotti ad amare il popolo di Dio, come anche tutto il genere umano. Quando un individuo scopre realmente la pienezza e l’eccellenza di Cristo, la conseguenza è l’amore. Quando l’uomo crede sinceramente alla verità del Vangelo, la fede è sempre accompagnata dall’amore. I veri cristiani amano colui che considerano il Cristo, il Figlio del Dio vivente. Quando gli occhi vedono la verità delle dottrine gloriose del Vangelo e delle sue promesse, tali dottrine e tali promesse divengono come cordami che tengono stretto il cuore e lo attirano all’amore per Dio e per Cristo. Coloro che hanno una vera fede in Cristo, si affidano a lui con amore e lo fanno con gioia e con animo mansueto. La sposa siede all’ombra di Cristo con grande diletto e riposa dolcemente sotto la sua protezione perché lo ama (cfr. Cantico dei Cantici 2:3). Quando le persone sentono vero conforto e giubilano nello spirito, esprimono così l’amore presente nel loro cuore. La loro gioia è la gioia della fede e dell’amore. Costoro non gioiscono in loro stessi, ma in Dio, che è la loro gioia suprema. Quando si ha una speranza vera, tale speranza è accompagnata dall’amore di Dio sparso doviziosamente nel cuore. Questa è la prova che si tratta di una speranza vera che non delude: «Or la speranza non delude, perché l’amore di Dio è stato sparso nei nostri cuori mediante lo Spirito Santo che ci è stato dato» (Romani 5:5). Terzo. Questa dottrina mostra l’amabilità e la bellezza dello spirito cristiano: si tratta di uno spirito sublime e celestiale. Quarto. Questa dottrina dimostra la bellezza della vita cristiana. 46


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Quinto. Le cose che abbiamo considerato c’insegnano la ragione per cui la contesa è tanto dannosa per il cristianesimo. Questo è quanto affermano le Scritture: «Infatti dove c’è invidia e contesa, c’è disordine e ogni cattiva azione» (Giacomo 3:16). La verità di tale affermazione è confermata abbondantemente dall’esperienza. Dove giunge la contesa non rimane più posto per il bene. Un tale spirito soffoca il cristianesimo e, anche se questo prima prosperava, lo fa appassire, favorendo nel contempo il fiorire del male. Il motivo che spiega tale circostanza è quello addotto nella dottrina stabilita al principio del discorso: le contese sono diametralmente opposte a ciò che è la somma di tutto ciò che è essenziale e peculiare del vero cristianesimo, ossia uno spirito d’amore e di pace. Non c’è quindi da meravigliarsi che il cristianesimo non prosperi in mezzo a contese e conflitti e, di conseguenza, che la vera religione e uno spirito contenzioso siano incompatibili tra loro. Sesto. Stando così le cose, si può ben capire quanta attenzione e cura siano necessarie per opporsi all’invidia, alla malignità o a qualsiasi altro risentimento dello spirito nei confronti del prossimo, in quanto tali sentimenti sono l’esatto contrario di quel grande principio peculiare del vero cristianesimo, del quale, come si è detto, l’amore costituisce l’essenza. Poiché i cristiani non dovrebbero contraddire con la condotta la loro professione di fede, è appropriato che essi badino a loro stessi rispetto a tale questione. Essi dovrebbero mortificare le prime avvisaglie di malanimo, di rancore e d’invidia; dovrebbero anche vegliare rigorosamente su se stessi in quelle occasioni che potrebbero favorire tali sentimenti, combattendo strenuamente contro di essi ed evitando, quanto più possibile, le tentazioni che potrebbero provocarli. Un cristiano deve sempre stare in guardia di fronte a tutto ciò che tende a sovvertire, corrompere o minacciare l’amore verso il prossimo, perché ciò che ostacola l’amore verso gli uomini ostacolerà anche l’amore verso Dio; infatti, come si è osservato in precedenza, il principio del vero amore cristiano è unico. Se l’amore è la somma del cristianesimo, allora tutto ciò che lo danneggia è disdicevole per un cristiano. Niente, infatti, è più assurdo e contraddittorio di un 47


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cristiano invidioso, malevolo e insensibile. Sarebbe come parlare di una luce “buia” o di una verità “falsa”! Settimo. Ne consegue che non deve sembrarci strano che dal cristiano si esiga di amare i nemici, anche quelli peggiori, come leggiamo in Matteo 5:44; infatti l’amore è la caratteristica fondamentale dell’atteggiamento dei cristiani e l’essenza del cristianesimo. Se riflettiamo sull’incoraggiamento che riceviamo ad amare i nostri nemici e da quanto il Vangelo ci rivela sull’amore di Dio e di Cristo verso i loro nemici, non ci potremo meravigliare della richiesta di amare i nemici, di benedirli, di far loro del bene e di pregare per loro: «Affinché siate figli del Padre vostro che è nei cieli; poiché egli fa levare il suo sole sopra i malvagi e sopra i buoni, e fa piovere sui giusti e sugli ingiusti» (Matteo 5:45). III. Queste riflessioni ci esortano a coltivare uno spirito d’amore e ad abbondare nelle opere caritatevoli. Se l’amore è una realtà così fondamentale e importante del cristianesimo, se è l’essenza e la peculiarità dello spirito cristiano, nonché la somma di tutte le virtù cristiane, dunque, sicuramente, coloro che si dicono cristiani devono vivere nell’amore e compiere azioni buone, perché niente vale più di esse. Se ti definisci cristiano, dove sono le tue opere d’amore? Ne hai compiute molte nel passato? Ne stai compiendo molte? Se questo principio divino e santo regna in te, non si manifesterà mediante azioni amorevoli? Rifletti: quali sono le opere misericordiose che hai compiuto? Ami Dio? Che cosa hai fatto per lui, per la sua gloria, per far progredire il suo regno nel mondo? Quanto hai rinnegato te stesso per promuovere l’interesse degli uomini per il Redentore? Ami i tuoi fratelli nella fede? Che cosa hai fatto per loro? Considera le tue carenze su questo punto e la verità secondo cui, in quanto cristiano, d’ora in poi, dovrai compiere una grande quantità di opere d’amore. Non addurre scuse sul fatto che non hai l’opportunità di fare qualcosa per la gloria di Dio, per l’interesse del Regno del Redentore e per il bene del prossimo. Se riempie il tuo cuore, l’amore troverà uno spiraglio e riuscirai ad amare attraverso le tue azioni. Da una fontana abbondante, l’acqua sgorga a fiotti; perciò, considera che come l’amore è il principio fondamentale nel cuore di un vero 48


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cristiano, così le opere d’amore sono il principio fondamentale nella vita di un vero cristiano. Ogni credente rifletta su queste verità e possa il Signore darvi intendimento, facendovi rendere conto di quale sia lo spirito che vi si addice. Che Dio disponga i vostri cuori a vivere con amore e in modo eccellente, come si conviene a chi dovrebbe possedere questo spirito, affinché possiate amare non solo a parole, ma a fatti e in verità.

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