William_Tyndale

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ISBN 978-88-88747-94-1 Titolo originale: William Tyndale: a Biography Per l’edizione inglese: Copyright © 1994 di Yale University Press London, England Per l’edizione italiana: Copyright © 2011 Alfa & Omega Casella Postale 77 (via Leone XIII), 93100 Caltanissetta, IT e-mail: info@alfaeomega.org - www.alfaeomega.org Tutti i diritti riservati. È vietata la riproduzione, anche parziale, con qualsiasi mezzo effettuata, non autorizzata Traduzione e adattamento: Antonio Morlino Revisione: Andrea Ferrari Impaginazione: Giovanni Marino Copertina: Andrea Stelluti Tutte le citazioni bibliche, salvo diversamente indicato, sono tratte dalla versione “Nuova Riveduta”


DAVID DANIELL

William Tyndale Una biografia del traduttore della Bibbia, puritano e martire



Indice

Encomio a William Tyndale. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 7 Prefazione all’edizione italiana. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 11 Abbreviazioni. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 23 Ringraziamenti. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 27 Introduzione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 29 Prima parte: La formazione del traduttore 1. Il Gloucestershire. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 39 2. La Oxford di Tyndale. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 59 3. Cambridge, e di nuovo Gloucestershire. . . . . . . . . . . . . . . . . . 97 Seconda parte: Dal greco in inglese 4. A Londra . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 139 5. Colonia 1525. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 173 6. Worms 1526. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 209 Terza parte: Persecuzione e polemiche 7. L’iniquo Mammona. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 237 8. Tyndale e la politica inglese. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 261 9. L’obbedienza di un cristiano. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 329 10. Tommaso Moro . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 363


Quarta parte: L’ebraico e l’Antico e il Nuovo Testamento 11 Il Pentateuco di Tyndale. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 407 12 Il Nuovo Testamento del 1534. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 453 13 “La Bibbia di Matthew” . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 475 Quinta parte: Martire 14 Entra in scena Henry Phillips. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 515 15 Processo ed esecuzione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 533 Appendice A

Lo schema de La parabola dell’Iniquo Mammona, 1528. . . . . . . . . . . . . . . 549

Appendice B

La struttura de L’obbedienza di un cristiano. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 551

Appendice C

Una frase dal Panegirico di Isocrate ������������������555

Bibliografia ������������������������������������������������������������������������������������557


Illustrazioni

La torre del Magdalen College a Oxford . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 42 Valle di Berkeley . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 42 Ritratto di William Tyndale. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 58 Ritratto di Desiderio Erasmo. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 144 Pianta di Anversa. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 174 Porto di Anversa. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 174 Prima pagina del Nuovo Testamento di Colonia del 1525. . . . . . . 184 Pagina del Nuovo Testamento di Worms del 1526. . . . . . . . . . . . . 221 Frontespizio de L’obbedienza di un cristiano . . . . . . . . . . . . . . . . . 328 Ritratto di Tommaso Moro. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 387 Due pagine dall’Esodo di Tyndale del 1530. . . . . . . . . . . . . . . . . . 415 Due pagine dal Pentateuco di Tyndale del 1530 . . . . . . . . . . . . . . 428 La fine dell’Antico Testamento della “Bibbia di Matthew” del 1537. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 485 L’incipit di II Samuele nella “Bibbia di Matthew” del 1537. . . . . . 506 Tyndale nella cella del castello di Vilvorde.. . . . . . . . . . . . . . . . . . 518



«L’opera di Daniell non è una mera biografia, quanto piuttosto un’edizione magistrale degli scarni dettagli della vita di Tyndale e un’analisi profonda delle sue numerose imprese letterarie. Arricchito da appendici, note, e da un’eccellente bibliografia, nonché da numerose illustrazioni in bianco e nero, questo libro occuperà per molti anni a venire un posto specialissimo negli scaffali degli studiosi». Larry W. Usilton, «History» «Questo libro è la migliore introduzione alla vita e all’opera di uno dei maggiori eroi e benefattori dell’umanità». Warren Hope, «Elizabethan Review» «Un’apologia autorevole, pressante e appassionante di William Tyndale, un personaggio smarrito da tempo a causa del rilievo accordato agli intrighi politici e coniugali della Riforma inglese. […] Un libro di gran pregio, brillante». «Choice» «Se nei prossimi sei mesi avete intenzione di leggere una biografia, leggete questa, che non si sofferma tanto sull’individuo, quanto sul suo tempo e sull’impatto che questi ebbe su di esso, rimanendo sempre una lettura avvincente. Alla fine arriverete ad apprezzare tanto Daniell quanto Tyndale». «Chronique» «Si tratta di una vita splendida, da leggere e da gustare». Manuela Cardosa, «Expository Times» «Uno studio eccellente, leggibile e accademico al tempo stesso. Un consono tributo allo studioso che omaggia». Rudolph Heinze, «Theology»



Prefazione all’edizione italiana

C’è una favola, incredibilmente diffusa in tutti gli ambienti (quasi come Il Codice da Vinci), che suona più o meno così: c’era una volta un re libidinoso e violento (Enrico VIII), che voleva scacciare Caterina, la sua vecchia moglie dignitosa e fedele, per sposare la bella e giovane Anna Bolena. A questo scopo, Enrico VIII inventò la Chiesa anglicana, rovinando la razionale opera di riforma intrapresa da uomini come Tommaso Moro e John Fisher, e mandando per giunta al patibolo questi due nobili esponenti della cultura erasmiana. Come se questo non bastasse, sull’opera infame di Enrico si inserì poi quella genìa di fanatici che vanno sotto il nome di “puritani”, che trascinò l’Inghilterra in un secolo di lotte civili, e coprì di noia l’allegra (!) nazione di William Shakespeare ed Elisabetta I (figlia, peraltro, di Anna Bolena). Nasceva così quella bizzarra realtà che va sotto il nome di “protestantesimo anglosassone”, che oscilla tra un razionalismo teologico intriso di relativismo morale, e un fondamentalismo aggressivo, nemico del progresso e delle scienze, sempre guerrafondaio (Jimmy Carter compreso!), e sicuramente al servizio dell’imperialismo americano, soprattutto in Brasile, Cile, Cina, Corea e Italia meridionale. Il tutto accompagnato da una straordinaria (anzi, ordinaria) banalità culturale che si esprime in una lingua priva di profondità, capace al massimo di esprimere qualche concetto scientifico e di consentire facili transazioni commerciali: la lingua dell’imperialismo, appunto. Questa favola viene demolita alla radice da questo libro di David Daniell, pubblicato (come altre opere dello stesso autore) dalla Yale University Press. Non si tratta dunque di un pamphlet: è il frutto di un’accurata ricerca durata molti anni. Anzitutto, Daniell ricorda a chi l’avesse dimenticato (o male appreso) che, prima della Riforma, l’Inghilterra era stata la patria di grandi movimenti “evangelici”: nel Tre11


William Tyndale: una biografia

cento John Wycliff, teologo di statura europea, involontario ispiratore della Riforma hussita; nel Quattrocento il movimento popolare dei Lollardi, ferocemente perseguitati per oltre un secolo. Non solo: la penetrazione delle idee “luterane” in Inghilterra è cominciata quindici anni prima dello scisma di Enrico VIII, ed è stata preceduta dall’influenza dell’umanesimo cristiano di Erasmo da Rotterdam. La pubblicazione del suo Nuovo Testamento greco (1516) aveva spinto alcuni intellettuali inglesi (come quelli tedeschi e francesi) ad abbandonare la Vulgata e a tentare l’impresa di una traduzione della Bibbia dall’ebraico e dal greco nella lingua del popolo (come dal 1521 al 1546 farà Martin Lutero). A questa impresa Tyndale dedica tutta la sua vita, troppo presto stroncata dal tradimento e dal rogo: va in Germania a studiare l’ebraico e a perfezionare il suo greco, poi traduce tutto il Nuovo Testamento e metà dell’Antico. Un capolavoro, come la Bibbia di Lutero! E, come quella, realizzata in costante contatto con l’alta cultura e la vita del popolo. È con questa traduzione che nasce veramente la lingua inglese: tant’è vero che gli autori della celebre “King James Version” del 1611 hanno ripreso tale e quale quasi tutto il testo di Tyndale, traducendo ex novo (e in modo solo parzialmente efficace) soltanto le parti che il martire non aveva potuto curare. Certo, in Germania Tyndale era venuto in contatto con le idee di Lutero, e ne era stato conquistato: l’Introduzione (Vorrhede) alla Lettera ai Romani ha avuto per lui la stessa importanza che, nel 1738, avrà per John Wesley, l’autore del più grande Risveglio dei tempi moderni. Tyndale venne dunque accusato (non del tutto a torto) di essere un “luterano”. Pochi sanno che il suo massimo accusatore fu Tommaso Moro, uso a bruciare Bibbie e predicatori luterani: Moro è però innocente della sua morte, dovuta forse a intrighi interni alla Chiesa inglese. La Chiesa anglicana commemora Tyndale ogni anno, il 6 ottobre; e credo che abbia ragione a farlo. La cristianità anglosassone e la cultura di lingua inglese sono state largamente forgiate dalla “King James Bible”. Dopo aver letto questo libro, però, non potremo mai più dimenticare che quasi due terzi di quella traduzione sono dovuti all’opera di questo studioso evangelico, che sapeva ascoltare il Signore e parlare col popolo. Vale la pena di ricordarcene, quando leggiamo i capolavori di John Milton e di John Bunyan, due grande scrittori puritani, ma anche le opere di poeti più recenti, come Blake o Eliot. Tracce della “King James” si trovano anche nel diario spirituale dello svedese Dag 12


Prefazione all’edizione italiana

Hammarskioeld, Segretario delle Nazioni Unite, premio Nobel per la pace (1905-1961)1. Ed è grazie a Tyndale che la “King James” è praticamente insuperabile: può essere rivista, e forse dovrebbe esserlo, ma tutti i tentativi di sostituirla con traduzioni “moderne” sono sinora falliti. Molte di queste traduzioni, infatti, non sono solo teologicamente deboli, ma anche letterariamente pallide e umanamente tiepide (e non solo quelle redatte in Inghilterra)2. Ahi serva Italia… Se dalla brumosa Inghilterra passiamo alla (climaticamente) solare Italia, il panorama cambia completamente: la Bibbia non è più la protagonista della cultura nazionale; anzi, non lo è mai stata3. Per tutto il Medioevo, infatti, la Bibbia è stata conosciuta a fondo solo dagli intellettuali e dai principi della Chiesa: i teologi l’hanno usata come fonte inesauribile di dicta probantia, vale a dire di citazioni da inserire come puntelli in una costruzione teologica predeterminata. Per quanto riguarda i gerarchi della Chiesa, valga per tutti l’esempio di Gregorio VII, il quale, mentre a Canossa mette il piede sul collo dell’imperatore, non ha nessun ritegno ad applicare a se stesso il Salmo 91:5, «super aspidem et basiliscum ambulabis». La Bibbia non è per il popolo, che dovrà accontentarsi di quella Biblia pauperum che sono gli affreschi delle cattedrali, i quali, seppur riescono a raccontare abbastanza bene la storia di Abramo e quella di Gesù, come potrebbero illustrare le epistole di Paolo? E infatti non ne parlano. Certo, Dante conosce bene le Scritture: il canto XIX dell’Inferno (molto caro agli evangelici italiani dell’Ottocento) è una libera parafrasi di Apocalisse 17 (la Grande Meretrice). Ma bisogna tener conto che Dante usa la Bibbia come strumento nella lotta per la renovatio spirituale e morale della Chiesa. Lo stesso farà, con minore fortuna, Dag Hammarskioeld, Tracce di cammino, Magnano, Edizioni Qiqajon, 2005; Franco Giampiccoli, Dag Hammarskioeld, un credente alla guida dell’ ONU, Torino, Claudiana, 2005. 2 È però anche giusto notare che, proprio dal mondo anglosassone, ci è venuta nel Novecento la migliore rivalutazione letteraria della Bibbia (dopo quella settecentesca di Gottfried Herder in Germania): Il grande codice di Northop Frye (Einaudi, Torino, 1986). Dello stesso autore si veda anche Words with power, New York, Harvest/HBY Books, 1990. Pochi sanno che Frye, celebre docente universitario, era un pastore protestante. 3 Aa.Vv, La Bibbia in Italia, Torino, Claudiana, 2004. 1

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William Tyndale: una biografia

Girolamo Savonarola, che prima di morire sul rogo dedicherà ventidue sermoni al commento dell’Esodo, il libro della liberazione. Intanto, l’Umanesimo e il Rinascimento hanno aperto nuove prospettive: affiora la speranza di poter tradurre le Scritture partendo dai testi originali. Il caso più interessante è forse quello di Antonio Brucioli, un evangelico costretto all’abiura1; la sua Bibbia messa all’Indice (1559), però, potrà essere utilizzata solo dagli italiani esuli a Ginevra. Su tutto questo è ormai calata la scure del Concilio di Trento: nel 1546 viene canonizzata la Vulgata e nel 1564 vengono proibite le traduzioni in lingua volgare. Chi sarà trovato in possesso di tali Bibbie verrà processato e tutte le copie del “libro proibito” verranno arse in roghi appositamente organizzati2. Michele Ranchetti ha scritto: «La Bibbia, consentita in una lingua morta, sarebbe rimasta lettera morta in Italia […] sino alla seconda metà del Settecento»3. E infatti le cose cominciano a cambiare con la bella traduzione (dalla Vulgata) realizzata dall’abate Martini (1761); il processo, però, sarà lento e aspro. Quando il secondo risveglio evangelico produrrà una larga fioritura di società bibliche (fra le quali spicca la British and Foreign Bible Society), la reazione cattolica sarà molto dura: la repressione comincia col Congresso di Vienna (1814-1815), che ha il compito di “restaurare” l’equilibrio europeo sconvolto dalla Rivoluzione francese. Per Metternich le Società Bibliche sono un fattore di “disordine”; per il cardinale Consalvi, dietro di loro c’è un disegno “diabolico”. Tutti i papi dell’Ottocento (Pio VII, Leone XII, Gregorio XVI, Pio IX e Leone XIII) faranno a gara nel condannare le Società Bibliche e le loro traduzioni. Forse questa durezza è anche dovuta al fatto che, fin dal 1808, la Società Biblica aveva pubblicato (e poi diffuso in Italia) la Bibbia del calvinista Giovanni Diodati, che ritroveremo più avanti. 1 Giorgio Spini, Tra Rinascimento e Riforma. Antonio Brucioli, Firenze, La Nuova Italia, 1940. 2 A quanto mi risulta, gli ultimi roghi sono stati organizzati nel 1844 (nella già valdese alta Val Chisone) e nel 1849, dopo la sconfitta della Repubblica Romana. Su questo argomento sono di massima importanza gli studi di Gigliola Fragnito: La Bibbia al rogo. La censura ecclesiastica e i volgarizzamenti della Scrittura (1471-1605), Bologna, Il Mulino, 1997; e Proibito capire. La Chiesa e il volgare nella prima età moderna, Bologna, Il Mulino, 2005. 3 Cfr. la “Introduzione” a La Bibbia di Diodati, a cura di Michele Ranchetti e Milka Ventura Avanzinelli, Milano, Mondatori, 1999, p. XXIV.

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Prefazione all’edizione italiana

Paradossalmente, invece, è proprio la Diodatina la traduzione preferita da molti intellettuali: l’aveva letta Vittorio Alfieri, la leggono il filosofo Antonio Rosmini (oggi rivalutato), Giuseppe Garibaldi e il laico Francesco De Sanctis, maestro di letteratura e grande patriota. Molti anni più tardi, al termine della sua breve vita, Piero Gobetti avrà con sé una copia della Diodati nel treno che lo porta verso l’esilio parigino. Col Novecento le cose cambiano. Da una parte, c’è un vasto “movimento di base” tra gli intellettuali e i teologi. Nascono efficaci iniziative come la Pia Società di San Girolamo e le Edizioni Paoline, che avviano una diffusione di massa quantomeno dei vangeli. Nascono anche centri di ricerca biblica di prim’ordine: l’Ecole Biblique de Jerusalem (1890), animata dai domenicani francesi e soprattutto dal celebre padre Lagrange; sempre a Gerusalemme nasce lo Studium Biblicum Franciscanum (1901); nel 1902 Leone XIII crea la Pontificia Commissione Biblica; nel 1909 viene creato e affidato ai gesuiti il Biblicum (Pontificio Istituto Biblico), e così via. Fatalmente, in questo fervore di studi si fa sentire l’influenza del metodo storico-critico, cresciuto in terra protestante e spesso condito da una discutibile teologia liberale1. Da questa influenza, e dal bisogno di dialogare col mondo moderno, nasce, appunto, il Modernismo. Pio X stronca però questo movimento con l’enciclica Pascendi (1906), accompagnata da severe misure repressive: un colpo quasi mortale per la ricerca biblica in Italia. La ricerca biblica sopravvivrà soprattutto all’estero (Francia) e sarà uno dei fermenti alla base del Concilio Vaticano II. Col Vaticano II (1962-1965) in effetti l’atmosfera cambia: la Costituzione sulla Divina Rivelazione (Dei Verbum) è fonte di incoraggiamento per chi vuole studiare o diffondere la Bibbia, anche in collaborazione con i protestanti e gli ortodossi. Pochi anni dopo (1968), infatti, viene siglato il primo accordo ufficiale: da una Per “teologia liberale” si intendono quelle correnti razionaliste che nell’Ottocento si fecero strada nelle facoltà teologiche tedesche, inglesi e americane, e che riducevano il Vangelo a poco più di un’etica condita di una qualche speranza ultraterrena. Uno dei suoi maggiori esponenti, Adolf von Harnack, scrisse ne L’essenza del cristianesimo che questa consisteva nella paternità di Dio e nel valore infinito dell’anima umana. Ciò non gli impedì di firmare l’appello alla guerra di Guglielmo II (1914). Era, però, “liberale” anche il grande medico missionario Albert Schweitzer, le cui parole sul Cristo risorto, scritte a conclusione della Storia della ricerca sulla vita di Gesù (Brescia, Paideia, 1986) sono molto toccanti. Schweitzer fu anche premio Nobel per la pace. 1

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William Tyndale: una biografia

parte c’è l’Alleanza Biblica Universale (ABU), di cui la Società Biblica Britannica e i Forestiera sono parte integrante, ma dall’altra non ci sono le associazioni bibliche cattoliche: c’è il Segretariato per l’Unità dei Cristiani. È evidente che il Vaticano intende tenere saldamente in mano questa operazione. In un certo senso, la Bibbia è ancora un “sorvegliato speciale”. La strada è però aperta alle traduzioni ecumeniche: tra il 1976 e il 1985 viene portata a termine la TILC, Traduzione Interconfessionale in Lingua Corrente1: in trent’anni ne verranno diffusi 10 milioni di copie (o di porzioni). Circa un terzo dei traduttori sono protestanti (soprattutto valdesi). Felice nelle parti narrative, la TILC è meno efficace nelle parti teologiche, che stanno a cuore a molti evangelici, soprattutto a quelli che, Dio sa perché, vengono indicati col termine spregiativo di “fondamentalisti”2. Degno di attenzione è il lavoro di un laico cattolico, il professor Piero Stefani, che tiene conto di Northrop Frye ed è molto attento agli effetti della Bibbia nel mondo protestante (compresa la sua influenza su John Locke, il grande maestro del liberalismo, da molti ritenuto, a torto, un secolarizzato)3. Un “popolo della Bibbia”, e le sue dodici tribù… È giunta l’ora di dire due parole sugli evangelici italiani, questa minoranza misconosciuta4, che da otto secoli fa parte della storia d’ Italia e di quell’ansia di discepolato cristiano che non è mai morta in seno al nostro popolo. Pubblicata insieme all’Alleanza Biblica Universale e dall’editrice cattolica LDC col titolo La Parola del Signore. 2 Il movimento fondamentalista è nato nel 1905 in una grande università statunitense (Princeton), come reazione al protestantesimo liberale, che metteva tra parentesi articoli di fede fondamentali come la creazione, il peccato, la morte redentrice di Cristo, la risurrezione, il regno di Dio e, naturalmente, l’autorità suprema della Bibbia come rivelazione e guida spirituale e morale. Oggi la parola “fondamentalismo” è sinonimo di “integralismo”, ma si tratta in realtà di un abuso lessicale. Sono stati fondamentalisti uomini come William J. Bryan, leader della protesta contadina negli Stati Uniti, lo é Jimmy Carter, premio Nobel per la pace, come anche alcuni italiani che ritroveremo più avanti. Ho espresso più ampiamente le mie valutazioni sul fondamentalismo in Chiese e movimenti evangelici del nostro tempo, la cui terza edizione è in fase di stampa presso l’editrice Claudiana di Torino. 3 Piero Stefani, La radice biblica, Milano, Mondadori, 2003. 4 Non ������������������������������������������������������������������������������������� a caso Giorgio Spini ha utilizzato l’espressione “Gli invisibili” come sottotitolo al suo volume Italia liberale e protestanti, Torino, Claudiana, 2002. 1

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Prefazione all’edizione italiana

Gli antenati spirituali degli evangelici italiani sono sicuramente i valdesi medievali1. Movimento europeo, il valdismo nasce a Lione intorno al 1174, quando un ricco mercante decide di dividere il suo patrimonio in tre parti: una va alla moglie e alle figlie, un’altra viene distribuita ai poveri, e una terza, fatto inaudito, viene investita nella traduzione di alcune parti della Bibbia. Ottenuta la traduzione, Valdo scende in piazza e si mette a predicare, povero tra i poveri. Dopo pochi anni, questo “irregolare della fede” si trova emarginato dalla Chiesa, ma continua a predicare al popolo sulla base delle Scritture tradotte in francese. Il movimento valdese2 trova presto in Milano il suo centro propulsore: di lì si diffonde in varie nazioni d’Europa. Ci è facile trovare le sue tracce nella storia, e queste tracce inoppugnabili sono i verbali dei processi inquisitoriali, che spesso si concludevano con il rogo! Il movimento valdese mantiene sempre il suo biblicismo originario e, anche in Italia, provvede a traduzioni in lingua volgare3. Sarà proprio questo biblicismo a portare i valdesi nel grande alveo della Riforma protestante (Sinodo di Cianforan, 1532), ed è caratteristico della loro spiritualità che questi quattro “contadini stracciati”4 trovino il modo di finanziare direttamente la grande traduzione (in francese) che sarà condotta a termine nel 1535 da Roberto Olivetano. Intorno al 1555 i valdesi entrano nell’orbita calvinista (e grazie Dio non ne usciranno per almeno 450 anni), e nel 1619 firmeranno persino le delibere del Sinodo di Dordrecht5. Intanto, però, un altro fenomeno, ancora troppo sconosciuto, aveva visto la luce: la Riforma italiana. Il siciliano Giulio Cesare Pascali 1 I valdesi medievali sono stati spesso considerati come precursori della Riforma. Così la pensava perfino, nella lontana America, Jonathan Edwards, come si evince dalla lettura della sua History of the Work of Redemption, che è stata da poco pubblicata in italiano col titolo Una storia dell’opera della redenzione, Caltanissetta, Alfa e Omega, 2006 (il riferimento ai valdesi è alle pp. 302-303). 2 Essi preferivano però definirsi “poveri in Cristo”, “poveri nello Spirito” o “poveri di Lione”. 3 Carlo Papini, Valdo di Lione e i poveri nello Spirito, Torino, Claudiana, 2000. 4 Mi scuso per la licenza poetica. Il numero dei valdesi del Cinquecento viene stimato in 50/100.000, di cui 15.000 nelle Valli piemontesi, altrettanti nella Francia meridionale e 5/10.000 in Puglia, Irpinia e Calabria. 5 A Dordrecht le chiese riformate d’ Europa si trovarono d’ accordo nel confermare la dottrina (agostiniana) della predestinazione, contro il razionalismo di Harmensen (il cosiddetto arminianesimo).

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William Tyndale: una biografia

traduce l’Istituzione Cristiana di Calvino. Forti nuclei di riformati si organizzano nel Marchesato di Saluzzo (saranno costretti all’esilio nel 1601), in Valtellina (saranno massacrati nel 1620), e soprattutto nella Repubblica di Lucca. Tuttavia, l’implacabile repressione della Controriforma li costringerà all’esilio: daranno un enorme contributo alla vita civile e religiosa della Repubblica di Ginevra. Tra di loro c’è anche una famiglia da cui uscirà colui che rimane a tutt’oggi il più grande traduttore italiano della Bibbia: Giovanni Diodati. Come Lutero e come Tyndale, egli lavora per tutta la vita alla sua traduzione, e il risultato è un vero capolavoro1. Diodati conosce a fondo il greco e l’ebraico, ma ha letto anche la grande letteratura italiana, da Dante fino ai contemporanei: il suo italiano è perfetto, insieme semplice e solenne (come accade con tutti i grandi classici). Certo, si sente che Diodati è un calvinista, e proprio per questo eccelle nella traduzione della Lettera ai Romani. Ma non vedo perché questo dovrebbe essere considerato un difetto. La “Diodati” è rimasta per tre secoli un libro proibito, e per un secolo un libro trascurato: solo una recente, bellissima pubblicazione lo ha rimesso in circolazione (ad alto livello)2. Intanto, però, l’Italia aveva perso una grande occasione: quella di avere una Bibbia capace di scatenare una rivoluzione morale e spirituale di massa, prima che arrivasse la televisione ad affogarci tutti nella banalità. Certo, sin dall’inizio dell’Ottocento gli evangelici hanno molto amato la “Diodatina”: l’hanno usata i valdesi che, usciti dal ghetto (1848), cominciavano faticosamente a re-imparare l’italiano, ma soprattutto i “nuovi evangelici”, nati durante l’età del Risorgimento: i “liberi”, i “fratelli”, i metodisti, i battisti, e poi, a livello di massa, i pentecostali del Novecento. Questo amore era (ed è) sostenuto dal lavoro infaticabile delle Società bibliche, e di quegli umili eroi del Vangelo che sono stati i nostri “col portori”. Ma anche le scuole di teologia hanno avuto la loro parte3: in questo campo la figura più nota è quella del professor Giovanni 1 Per l’esattezza, la prima edizione della Diodati è del 1607, e la seconda del 1641. Cfr. Renato Coisson, Giovanni Diodati, Torino, Claudiana, 2002; Andrea Ferrari, John Diodati’s Doctrine of Holy Scripture, Grand Rapids, Reformation Heritage Books, 2006. 2 La Bibbia di Diodati, a cura di M. Ranchetti e M. V. Avanzinelli, cit. 3 Può essere interessante notare che Piero Jahier (1884-1966), scrittore valdese staccato dalla Chiesa, memore dei suoi giovanili studi di teologia, citi sempre la Bibbia nella versione Diodati. Cfr. Aa.Vv., Piero Jahier uno scrittore protestante?, Collana della Società di Studi Valdesi, Torino, Claudiana, 2006.

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Prefazione all’edizione italiana

Luzzi1, valdese ma originario della Svizzera romancia. Da una parte Luzzi presiede il comitato che dal 1906 al 1924 lavora ad una revisione della Diodatina; dall’altra simpatizza e solidarizza con i modernisti cattolici, e finirà per pubblicare una propria personale traduzione della Bibbia2, molto bella ma troppo “liberale” per i gusti di molti di noi3. La “Riveduta” è invece diventata una sorta di Vulgata per le cosiddette “chiese storiche” (valdesi, metodisti, battisti, ma anche apostolici), ed è stata nuovamente sottoposta a revisione nel 1980. Uno dei motivi della revisione è stato il numero eccessivo di toscanismi, probabilmente dovuti allo stesso Luzzi. C’è solo da rammaricarsi che i testi profetici non siano riprodotti in versi, come nella prima Riveduta. Anche i fondamentalisti mettono mano a una felice revisione della Diodati, che continua ad essere la Bibbia del popolo evangelico nell’Italia povera4. Tenendo conto che la Diodati è anche un testo di alta cultura, non vedo proprio perché bisognerebbe rammaricarsene. All’estremo opposto stanno le traduzioni ecumeniche delle Scritture, di cui abbiamo già parlato. A loro va associato il notevolissimo lavoro della Società Biblica Italiana (SBI), figlia della “Britannica” e diretta da un comitato in cui sono rappresentate le più varie confessioni cristiane. Talvolta criticato dai fondamentalisti (e non solo da loro), a questo lavoro si può serenamente applicare il versetto di Isaia 55:11: «La mia Parola non torna […] a vuoto». Ma c’è un altro caso (del tutto ignorato) in cui la Parola non è tornata indietro invano. Si tratta del caso dei numerosi evangelici che, tra il 1943 e il 1945, hanno affrontato la morte per amore di libertà e di giustizia. Va alla fucilazione con la Bibbia in mano l’eroe valdese della Resistenza, la medaglia d’oro Guglielmo Jervis5; se la fa mandare nel lager il metodista Ferdinando Visco Gilardi6; a Mauthausen il

Hans-Peter Dür, Giovanni Luzzi, Torino, Claudiana, 1996. Presso la Società Fides et Amor di Roma. 3 Tale è il giudizio di Giuseppe Gangale, Revival, Palermo, Piero Sellerio, 1990. Gangale è stato l’alfiere del neocalvinismo in Italia tra 1920 e il 1935, lasciando una traccia profonda del suo operato. Cfr. Aa.Vv., Giuseppe Gangale profeta delle minoranze, Bollettino della Società di Studi Valdesi (190), Torino, Claudiana, 2003. 4 Cfr. supra, nota 9. 5 Un filo tenace: lettere e memorie, 1944-1969: Willy Jervis, Lucilla Jervis Rochat, Giorgio Agosti, a cura di Luciano Boccalatte, Scandicci, La Nuova Italia, 1998. 6 Giorgio Bouchard e Aldo Visco Gilardi, Un evangelico nel Lager, Torino, Claudiana, 2005. 1 2

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William Tyndale: una biografia

metodista Jacopo Lombardini1 non può portare nulla con sé, ma cita la Bibbia a memoria (come cita anche Dante) per far coraggio ai suoi compagni di sventura. Ettore Serafino, noto comandante partigiano, fratello di una medaglia d’oro, e poi membro della Tavola Valdese, ha costellato di riferimenti biblici la sua autobiografia2, che si conclude con una significativa citazione di Salmi 37:7. Un altro comandante valdese, Roberto Malan, polemico con la Chiesa ma attento lettore della Bibbia, ha scelto per il proprio funerale Salmi 23:43. Con la Bibbia in mano affrontano il plotone d’esecuzione Antonio Banfo (animatore delle Squadre d’Azione Patriottica – SAP – alla FIAT Grandi Motori) e suo genero Salvatore Melis4, ambedue membri di un’Assemblea dei Fratelli di Torino. Alla Chiesa dei Fratelli di Savona appartiene anche il diciassettenne Elia Sola, che muore nella certezza assoluta della comunione con Cristo5. Scampa alla fucilazione, ma diventa commissario politico di una brigata Garibaldi, Giuseppe Cavallera, evangelico legato alla chiesa battista di Cuneo: conosceva i Salmi a memoria e girava sempre con la Bibbia in mano. Ma non erano tutti reazionari questi fondamentalisti? Pare proprio di no6. Ripensando a questo passato, l’evangelismo italiano affronta le (difficili) prove della storia con “timore e tremore”, ma anche nella serena consapevolezza di essere «circondati da un così un gran nuvolo di testimoni» (Ebrei 12:1). Con questo, siamo apparentemente arrivati molto lontani da Tyndale. In realtà, siamo sulla stessa linea. Anzitutto, dal punto di vista della fede, perché riteniamo che, fuori dal sicuro fondamento biblico, 1 Salvatore Mastrogiovanni, Un protestante nella Resistenza, Torino, Claudiana, 1985. 2 Ettore Serafino, Quando il vento le pagine sfoglia, Collegno, Edizioni Chiaramonte, 1999. 3 Roberto Malan, Amici, fratelli, compagni, memorie di un valdese del XX secolo, Cuneo, L’arciere, 1997; cfr. Piera Egidi Bouchard, Frida e i suoi fratelli, Torino, Claudiana, 2002. 4 Antonio Banfo, a cura di Emanuela Banfo e Asio Ristori, Torino, Ananke, 1998. 5 Ferruccio Iebole, Partigiani, martiri liguri, piemontesi e cacciatori degli Appennini, Mondovì, Edizione AeC, 2005. 6 Per la verità devo precisare che io non sono un fondamentalista, ma un neocalvinista discepolo di Karl Barth, teologo moderno cristocentrico e fortemente biblico (cfr. Sergio Rostagno, Karl Barth, Brescia, Morcelliana, 2003). Nondimeno, quando si vedono dei fratelli sommariamente squalificati, non posso reprimere un moto d’indignazione.

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Prefazione all’edizione italiana

la nostra fede sarebbe esposta a «ogni vento di dottrina per la frode degli uomini», come dice l’Apostolo (Efesini 4:14). In secondo luogo, dal punto di vista della storia: l’Inghilterra del primo Cinquecento non è anzitutto il teatro degli amori di Enrico VIII e Anna Bolena! È piuttosto una terra in cui i Lollardi erano ancora perseguitati, e le idee “luterane” penetravano gradualmente, esponendo chi le accoglieva al pericolo di morte sul rogo, magari per decisione del tanto lodato Tommaso Moro. Anche Tyndale morì sul rogo, ma «benché morto, egli parla ancora» (Ebrei 11:4), e parla soprattutto con la sua traduzione, che è alla base di quella “King James Bible” del 1611, che tanta influenza ha avuto sulla cultura e sulla spiritualità del mondo di lingua inglese1. Infine, siamo vicini a Tyndale dal punto di vista morale: ben certo della “beata speranza”, egli ha saputo morire con dignità e, prima, vivere con grande consacrazione il dono che gli era stato elargito dall’Alto. Voglia il Signore che questo esempio possa essere seguito anche da noi, che cerchiamo di leggere e insegnare fedelmente le Scritture, mentre attendiamo «la città che ha le vere fondamenta e il cui architetto e costruttore è Dio» (Ebrei 11:10). Giorgio Bouchard Torino, settembre 2006

1

Cfr. David Daniell, The Bible in English, New Haven, Yale University Press,

2003.

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CAPITOLO 4

A Londra

È Tyndale stesso a continuare il racconto nella prima prefazione al suo Pentateuco. Egli aveva riconosciuto la necessità che le Scritture fossero nella lingua madre. Le sue stesse cattive esperienze erano riconducibili al fatto che «i preti del paese [erano] incolti», incapaci di esporre le Scritture ai laici, i quali ne avevano un disperato bisogno. Chiunque dovrebbe essere in grado di vedere «l’andamento, l’ordine ed il significato» della Bibbia. Mentre pensavo a questo, mi sovvenni del vescovo di Londra, che, fra l’altro, Erasmo (la cui lingua trasforma i moscerini in grossi elefanti e che innalza al di sopra delle stelle chiunque gli conceda di mettersi minimamente in mostra) loda eccessivamente nelle sue annotazioni al Nuovo Testamento per la cultura. […] Ed avrei voluto farlo perfino stando presso il vescovo di Londra […]1.

Fin dal 1522, il vescovo di Londra era Cuthbert Tunstall. Come aveva ben capito Tyndale, Erasmo si serviva dell’adulazione, spingendosi talvolta all’eccesso. Aveva bisogno di un posto tranquillo per vivere, di cibo e di amicizie dalle idee simili alle sue, come vorrebbero tutti. Raramente, però, percepì un regolare stipendio: adulare i potenti avrebbe reso più facile trovare un mecenate. Quest’encomio tradizionale di Tunstall da parte di Erasmo, volutamente eccessivo (e non nelle Adnotationes), non andava preso troppo sul serio: sembra facesse parte di un gioco ironico che egli fece con i buoni e i grandi. Erasmo loda davvero quest’uomo, ma non nelle Adnotationes2. Tyndale’s Old Testament, a cura di D. Daniell, cit., p. 4. Si tratta di un celebre rompicapo. Ad ogni modo, Tyndale loda davvero Tunstall nella sua prima Apology against Lee del marzo del 1520: «Cuthbertus Tunstallus unum exemplar sat emendatum», ovvero che Cuthbert Tunstall aveva fornito un modello 1 2

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William Tyndale: una biografia

Non fu per ingenuità che, probabilmente nell’estate del 1523, Tyndale, nelle vesti di accademico e borsista dei “Greci”, accostò Tunstall, il quale era stato ad Oxford con Moro, Colet e Linacre una dozzina d’anni prima di Tyndale, andando poi a Cambridge. Questi aveva studiato a Padova, dove erano stati Linacre e Grocyn, dal 1499 circa al 1505 o 1506. Fra i suoi amici in Italia, oltre ad Aldo Manuzio (il fondatore dell’influente tipografia Aldina a Venezia), c’era lo studioso classicista William Latimer1. Se Latimer è davvero l’anziano dottore che ricevette una visita da Tyndale nel Gloucestershire venti anni dopo, nel 1522 circa, allora forse fu lui a far sovvenire il nome di Cuthbert Tunstall a Tyndale, il quale potrebbe aver saputo (forse ancora da Latimer) che questi aveva aiutato Erasmo con la seconda edizione del suo Nuovo Testamento in greco, lavorandoci insieme a Bruxelles, Gand e Bruges, negli ultimi mesi del 1516 e nella prima metà del 1517. Tunstall aveva prestato ad Erasmo un manoscritto del Nuovo Testamento greco, per lui aveva consultato i codici greci ed aveva suggerito numerosi emendamenti2. Per William Tyndale, Tunstall sarebbe stato il mecenate ideale: un importante grecista, all’avanguardia nella realizzazione di edizioni del Nuovo Testamento, la cui carica avrebbe fornito a Tyndale l’autorità necessaria per infrangere le Costituzioni di Oxford. Per di più, Londra era la città dei tipografi e la metropoli al centro della rete di comunicazioni della Gran Bretagna, ed avrebbe reso più agevole la diffusione della sua traduzione, quando fosse stata ultimata. Adesso è abbastanza difficile cogliere l’autentica natura di Tunstall, un uomo misurato e colto. Quasi un santo dal punto di vista degli umanisti cattolici, quasi un orco per i pii riformati, Tunstall è un uomo che non ammette etichette. In generale, fu un ecclesiastico rispettato e rispettoso, e un uomo politico che evitò le certezze portate ad entrambi gli estremi, che si mosse in modo assennato tra le difficoltà che incontrò nel cammino della sua lunga esistenza. Aveva undici anni quando venne combattuta la battaglia di Bosworth sufficientemente esente da errori (cfr. Erika Rummel, Erasmus’ Annotations on the New Testament: From Philologist to Theologian, Toronto, University of Toronto Press, 1986). Le lettere di Erasmo contengono molte considerazioni lusinghiere, inclusa la frase che mette Tunstall fra «due dei migliori studiosi di tutta l’Inghilterra» (Epistola 332 a Pieter Gillis). 1 Cfr. C. Sturge, Cuthbert Tunstall, cit., pp. 8-14. 2 Ibid., p. 55.

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e venne incoronato Enrico VII, e terminò i suoi giorni sotto Elisabetta, all’età di ottantacinque anni, dopo aver assistito a cinque regni. Rispettato in Europa come matematico e classicista; emissario diplomatico; consigliere di generali e governatori; vescovo di Londra, e poi di Durham, in un tempo di particolari conflitti religiosi; nominato sui frontespizi della quarta e sesta edizione della Grande Bibbia (anche questa in gran parte opera di Tyndale), era elogiato per l’eloquenza e l’arguzia e, va notato, per l’umanità. Negli otto anni in cui fu vescovo di Londra, nessun eretico venne messo al rogo (per i libri il discorso era diverso). Fu il suo successore, Stokesley, che ricominciò a mettere al rogo le persone ancora in vita da quando gli subentrò nel vescovato nel 1530: come vedremo in seguito, sia Bayfield che Tewkesbury, i quali avevano abiurato sotto Tunstall, ricaddero nell’eresia sotto Stokesley, e da lui furono giustiziati: «Dal 1530 la contea di Durham, mentre egli [Tunstall] era vescovo, non assistette ai roghi come durante le persecuzioni che imperversarono in tutta la nazione sotto Maria»1. Egli è ricordato con apprezzamento perfino sulla tomba di Tommaso Moro, dove di lui è detto: «Tunstall […] rispetto a cui il mondo contiene oggi difficilmente qualcuno più colto, sagace e buono»2. Il libro di Tunstall sull’aritmetica era dedicato a Moro. Nel paragrafo che apre Utopia, nientemeno, dopo accenni superficiali ad Enrico VIII e al principe Carlo di Castiglia, il resto è dedicato a Tunstall: Un’eccellente persona […] la sua erudizione e il suo carattere morale […] sono troppo straordinari perché io possa descriverli adeguatamente, e fin troppo noti perché vi sia affatto bisogno di descriverli3.

L’ambiguità è tipica del libro: la lode è vacua, giacché il merito di Tunstall non viene accuratamente espresso. Questo atteggiamento rispecchia quello della lettera burlesca indirizzata a Busleiden di poche pagine prima, che riferisce di «Tommaso Moro, che è, sono certo ne converrete, una delle glorie della nostra epoca»4. Erasmo in testa, gli autori giocano ad insaporire l’usuale adulazione dei protettori con J. F. Mozley, William Tyndale, cit., p. 43. C. Sturge, Cuthbert Tunstall, cit., p. 25. 3 Tommaso Moro, Utopia, a cura di Luigi Firpo, Napoli, Guida, 20002, p. 52. 4 Ibid., p. 43. 1 2

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un pizzico d’ironia: ciononostante, Tunstall ne esce come un Inglese d’insolita cultura in un tempo in cui questa era rara. Non fu stolto da parte di Tyndale, in quanto studioso, accostarsi a Tunstall. Fu comunque ingenuo da parte sua, politicamente parlando, non aspettarsi che le notizie su di lui – che lo dipingevano come un sobillatore proveniente dal Gloucestershire con proposte radicali – l’avessero preceduto. È probabile che William Latimer avesse scritto dal Gloucestershire al suo vecchio amico Tunstall mosso dalle migliori intenzioni. Qualunque membro anziano del clero avrebbe potuto «scambiare una parola», come ancora recita una frase di uso comune nel sistema, con uno degli emissari del vescovo in carica. Stokesley stesso, che l’avrebbe ben presto sostituito nell’incarico, ed aveva accesso alle vicende della valle di Berkeley, avrebbe potuto mettere la pulce nell’orecchio a Tunstall. Poi pensai che, se fossi riuscito a mettermi al servizio di quest’uomo, sarei stato felice. E così mi recai a Londra e, tramite le conoscenze del mio signore [sir John Walsh], giunsi a sir Harry Gilford, il sovrintendente al vitalizio regio, e gli portai un’orazione di Isocrate che avevo tradotta dal greco all’inglese, pregandolo di parlare con il mio signore di Londra [Tunstall] per me, cosa che fece, come mi mostrò, e volle che io scrivessi un’epistola al mio signore e che mi recassi da lui, come feci, per consegnare la mia epistola ad un suo servitore, tale William Hebilthwayte, una mia vecchia conoscenza. Ma Dio, che sa cosa c’è negli ipocriti, vide che io venivo ingannato e che quel consiglio non era la via più immediata per raggiungere il mio scopo. Così, non mi concesse favore agli occhi del mio signore [Tunstall]. Dopodiché il mio signore mi rispose che casa sua era occupata, che egli aveva più di quanto necessitasse, e mi consigliò di cercare a Londra, dove disse che non mi sarebbe mancato qualcuno al quale offrire i miei servigi […] Io […] infine compresi […] che non c’era posto nel palazzo vescovile del mio signore di Londra per tradurre il Nuovo Testamento […]1.

Non sarà l’ultima volta che Tyndale si fiderà troppo. L’altrimenti ignoto William Hebilthwayte, la «vecchia conoscenza» (probabilmente dai tempi di Oxford), non gli fece affatto bene e potrebbe avergli nuociuto. Dal racconto di Tyndale emergono due cose: primo, si per1

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Tyndale’s Old Testament, a cura di D. Daniell, cit., p. 5.


A Londra

cepisce il fare ambiguo delle persone influenti attorno al palazzo vescovile, al quale Tyndale era completamente impreparato; e secondo, si evince che, per quanto lo stesse respingendo, Tunstall non trattò Tyndale in maniera scortese. Non è chiaro se Tunstall concesse un’udienza a Tyndale, gli scrisse una lettera o gli inviò un messaggio, ma il tono della sua risposta è cauto: non sbraitò contro di lui, accusandolo o proibendogli di lavorare a Londra, ma gli consigliò garbatamente una linea da seguire, dando ad intendere di aver compreso il valore delle intenzioni di Tyndale («non mi sarebbe mancato qualcuno al quale offrire i miei servigi»). In seguito, Tyndale definirà Tunstall come un «silenzioso Saturno, che parla assai di rado, ma che cammina avanti e indietro tutto il giorno meditabondo, un ipocrita piaggiatore fatto per dissimulare»1. Questo ha il sapore dei ricordi personali e potrebbe darsi che, quando Tyndale si recò al grande palazzo vescovile londinese di Tunstall – il quale terminava all’estremo nord-occidentale della Old St. Paul’s2 –, il vescovo gli avesse dato ad intendere la propria importanza, essendo un uomo implicato in alcune faccende di notevole rilevanza. Tyndale si trovò nei pressi del palazzo di Tunstall probabilmente non molto dopo il 15 aprile 1523, quando il vescovo aveva tenuto un discorso all’apertura del solo Parlamento convocato sotto la supremazia di Wolsey (il Parlamento precedente si era riunito nel 1515, quello successivo solo nel 1529). In quell’occasione, Tunstall aveva parlato per un’ora abbondante sulla natura del potere regale e del Parlamento. Il re Enrico, che vi aveva presenziato, lo elogiò per il discorso. Alcune settimane dopo, secondo un ambasciatore veneziano, Tunstall fu «costantemente occupato da mane a sera a causa di questo Parlamento»3, il che spiegherebbe perché il palazzo vescovile fosse “occupato”. Tyndale aveva scelto forse il momento sbagliato. La convocazione del Parlamento era stata una mossa disperata da parte di Wolsey per chiedere fondi, così da attuare i propri progetti d’avanzamento. La sessione durò quattro mesi, finiti i quali aveva ottenuto soltanto la metà di quanto aveva sperato. A detta di Mozley, Wolsey era «l’uomo più odiato del reame»4. Practice of Prelates, PS, p. 337. J. F. Mozley, William Tyndale, cit., p. 41, osserva che George Constantine parla della «silenziosità, sobrietà e sagacia» di Tunstall. 2 C. Sturge, Cuthbert Tunstall, cit., p. 79. 3 Ibid., p. 84. 4 J. F. Mozley, William Tyndale, cit., pp. 37-38. 1

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Ritratto di Desiderio Erasmo

Desiderio Erasmo. Ritratto di Hans Holbein il Giovane (1523).


A Londra

Tunstall, essendo un uomo di chiesa, era invischiato nella politica ai più alti livelli. Fu lui ad inaugurare ufficialmente la sessione di questo contrastato Parlamento, essendo egli stesso già Lord Depositario del Sigillo Privato, costretto a muoversi con cautela in un campo minato politico. È sorprendente, pertanto, che, sebbene avesse respinto Tyndale, almeno in questa fase non fosse andato oltre: a quanto pare era più aperto allora, all’idea di un Nuovo Testamento stampato e in volgare, tradotto dal greco, di quanto non lo sarà pochi anni dopo. In quel periodo, naturalmente, l’impresa della Bibbia stampata era messa in pessima luce dal nome e dall’opera di Lutero, e, per compiacere il papa, Wolsey organizzò l’opposizione radicale a tutto ciò che fosse affine a questa “eresia”. Sir Henry Guildford, al quale Tyndale si rivolse per primo, era un cortigiano trentenne vicino al re, vivace ed attivo, nonché ufficiale di cavalleria e sovrintendente della Casa Reale. All’incoronazione di Enrico, Guildford aveva vent’anni, ed era tra i favoriti del nuovo giovane re, con l’incarico di allestire elaborate rappresentazioni per la corte. Il contatto con Tyndale sarà stato opera di sir John Walsh che, all’incirca alla stessa età, era stato un altro degli stretti compagni del re appena incoronato che gozzovigliavano a corte. (Fu Guildford ad organizzare il celebre arrivo improvviso di Robin Hood e dei suoi compagni nella camera della regina il 18 gennaio 1510, la quale, buon per lei, dopo un iniziale sussulto, ebbe il sangue freddo di soffocare lo spavento ed essere gentilmente accogliente, in quanto quel “Robin Hood” si rivelò essere – sorpresa, sorpresa – il re)1. Nel racconto fatto da Tyndale del proprio arrivo a Londra, bisognerebbe notare comunque cosa egli portò con sé per dimostrare la propria abilità di traduttore dal greco, vale a dire «un’orazione di Isocrate», che sarebbe stata consegnata al cortigiano Guildford, il quale era anche uno studioso classicista e, certamente, era in contatto epistolare con Erasmo e, probabilmente, con Cuthbert Tunstall. La portata di tutto questo non è stata ancora pienamente valutata. Una traduzione del genere indica diverse cose importanti, come segnalato innanzi, non ultimo che la sua conoscenza del greco classico era ottima. 1 Cfr. B. Hall, Biblical Scholarship: Editions and Commentary, in The Cambridge History of the Bible: The West from the Reformation to the Present Day, Cambridge, 1963, p. 580, possibilmente, e A. Fraser, Le sei mogli di Enrico VIII, cit., pp. 66-67.

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«Un’orazione di Isocrate» Gorgia (485-375 a.C.), oratore collega di Isocrate, affinò le proprie tecniche di persuasione al punto da poter insegnare ai suoi allievi come discutere tutti gli aspetti di un argomento, anche in modo da far apparire le motivazioni più deboli o peggiori come se fossero quelle più forti o migliori1. Isocrate si oppose a tale irresponsabilità morale e rivendicò per la retorica un ruolo assai più elevato e nobile. Egli fece della retorica la base educativa del mondo greco, quindi del mondo romano e, pertanto, col tempo anche dell’“Occidente”. Isocrate scrisse ad Alessandro Magno esponendogli le proprie aspirazioni più nobili, che comprendevano l’«arte del discorso» – utilizzando, per quest’ultimo termine, la parola «logos». In proposito egli aveva delle aspirazioni eccezionali: che lo studio di quest’arte, scriveva, producesse la virtù, ampliasse la mente, creasse dei filosofi o degli statisti pieni di eloquente saggezza. Si vede immediatamente il fascino esercitato dal pensiero di Isocrate su qualcuno come Tyndale, che aveva in mente il primo capitolo del Vangelo di Giovanni, con la sua meditazione sull’incarnazione del logos. Isocrate avviò la sua opera d’integrazione nella scuola che aprì poco prima che Platone fondasse la propria Accademia, intorno al 385 a.C.2. Quest’integrazione fra retorica e nobili ideali venne poi annullata da Socrate, come documenta Platone. L’analisi e la critica che Socrate fece di Isocrate presero corpo in un libro influente sulla retorica, scritto da un allievo dello stesso Socrate: Aristotele. A Roma fu Cicerone a ripristinare le nobilissime caratteristiche necessarie per l’opera di un oratore. In questo modo, offrendo un’opera di Isocrate, Tyndale intendeva mostrare di rifarsi alla sorgente di un sistema di pensiero retorico quale fonte principale della virtù. È interessante che, vent’anni dopo il viaggio a Londra di Tyndale, il grecista ed umanista di Cambridge, Roger Ascham, precettore della principessa Elisabetta, si dedicasse con particolare attenzione ad Isocrate. Il greco che egli insegnava alla sua allieva regale, la futura regina, sembra si limitasse ad Isocrate e al Nuovo Testamento: ecco di nuovo l’alto livello di conoscenza del greco e la congiunzione dei due testi che Tyndale aveva in mente quando andò a Londra. Peter Dixon, Rhetoric, London, Methuen, 1971, pp. 8-9. Questa è la primissima data, generalmente accettata, per l’istituzione della scuola nei pressi di Atene, che continuò ad esistere fino al suo scioglimento, ad opera di Giustiniano, nel 529 a.C. 1 2

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La più importante orazione di Isocrate, tanto per struttura quanto per espressione, è il Panegirico – ovvero l’“orazione per una solennità” – scritto intorno al 380 a.C. Non sappiamo quale orazione Tyndale si portò dietro, ma questa merita un’attenzione speciale, e a giusta causa. Il suo messaggio è che tutti i Greci si uniscano contro i barbari, il che avrà avuto, forse, qualche rilevanza per Tyndale, vista la sua militanza tra le file degli alquanto tormentati “Greci” inglesi. Per di più, dice Isocrate, la supremazia spetta ad Atene. Si potrebbe pensare che la sua affermazione – secondo cui soltanto Atene riuniva tutte le diffuse tradizioni e culture greche – abbia riscaldato il cuore del vescovo di Londra, alle prese con l’interferenza di Wolsey a nord e di Roma. In quest’orazione, Isocrate rivendica stentoreamente la grandezza della lingua ateniese, il che calzerebbe con la speranza dichiarata da Tyndale di unire l’intera nazione, il clero come i laici, mediante la conoscenza delle Scritture in inglese, nella lingua di Londra, e non in latino, la lingua di Roma. Per quanto riguarda la struttura, il Panegirico mostra un’unità dalla tematica e dal metodo elevati, e la cosa migliore è considerarlo nel suo insieme. Il brano appena menzionato a proposito della grandezza della lingua di Atene, però, merita ulteriore attenzione. Isocrate era famoso per le lunghe frasi: un’occhiata ad un testo del suo collega oratore Demostene basterà a fare il confronto. Il brano di Isocrate sulla lingua di Atene consta di un’unica lunga frase, la quale è nondimeno magnificamente chiara. Per rendere tale chiarezza, egli si serve di un sistema di affermazioni e di subordinate, in cui svolge un ruolo speciale la sistemazione schematica dei verbi. È possibile disporre questa frase (tradotta) a forma di diagramma, mettendone subito in evidenza lo schema logico: tale diagramma è fornito alla fine di questo libro nell’Appendice C. Inoltre, nelle appendici A e B vi sono diagrammi simili: in B è presentato lo schema mentale di una parte del libro più originale ed importante di Tyndale, L’obbedienza di un cristiano (1530), mentre in A lo schema dell’intera Parable of the Wicked Mammon (Parabola dell’iniquo Mammona). Le frasi di Tyndale non sono lunghe quanto quelle di Isocrate, e non stiamo pretendendo qui che quest’ultimo sia una sua fonte. Ciononostante, il metodo di quel particolare tipo di sviluppo logico, appreso nelle linee generali ad Oxford, praticato nella predicazione, e che raggiunse una ricca fruizione nell’Obbedienza, più di una dozzina d’anni dopo aver lasciato Oxford, sicuramente doveva qualcosa ad Isocrate, al 147


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Panegirico, ed anche a quella lunga frase che ne lodava la lingua madre1. La traduzione di Tyndale è andata perduta, ed è quantomai improbabile che venga mai alla luce fra le carte ignote di Guildford (o Tunstall). Bisogna supporre che egli la realizzò nel Gloucestershire. Isocrate era stato stampato in greco in un’edizione delle Orazioni, pubblicata a Milano nel 1493, la quale comprendeva il Panegirico. Fu incluso, inoltre, in una raccolta in tre volumi di oratori greci stampata da Aldo Manuzio a Venezia nel 1513, che comprendeva anche il Panegirico. (Non sembra che il Panegirico sia stato stampato a parte, in greco, fino al 1786, e nemmeno in un volume a sé in inglese, fino al 1848). In altre parole, da un lato Tyndale ricorda di aver effettuato una traduzione, e dall’altro abbiamo due edizioni stampate disponibili: ancora una volta, non c’è modo di armonizzare le due affermazioni. Nella stanza dell’attico di Little Sodbury, aveva con sé una copia dell’edizione milanese o veneziana? Oppure Tyndale rimase ad Oxford per consultare la biblioteca universitaria, che possedeva l’edizione milanese del 1493 e la collana aldina degli oratori (o almeno la possedeva nel 1843, come mostra il catalogo stampato di quell’anno)? La biblioteca universitaria custodiva anche una copia manoscritta di Isocrate in latino, sebbene pare che questa non comprendesse il Panegirico, che venne donata all’università dal duca Humphrey fra il 1435 ed il 1444. Sia il New College che il Queen’s possedevano l’edizione milanese greca del 1493. Nel 1494, il New College aveva anche un manoscritto composto da Ioannes Serbopoulos nell’abbazia di Reading, che conteneva due orazioni (ma, ancora una volta, non il Panegirico)2. Al momento è quasi impossibile appurare quando i vari manoscritti e i libri a stampa di Isocrate giunsero ad Oxford, e da quale fonte. La maggior parte dei manoscritti e dei libri stampati in greco del New College confluì nel lascito del cardinale Pole, che morì nel 1558; non si sa se questo comprendesse quello specifico manoscritto di Serbopoulos; anche altri accademici di Oxford (Grocyn e Linacre) ebbero dei manoscritti da lui3. 1 Mi sorprende che Tyndale sia stato solitamente accusato di scrittura priva di struttura organizzata, e che le sue opere originali siano state definite «disorganiche» (cfr. n. 2 a pag. 242). 2 Me lo ha comunicato in forma privata il dr. Martin Kauffmann, vicebibliotecario della Bodleian Library. 3 Me lo ha comunicato in forma privata il dr. B. C. Barker-Benfield della Bodleian

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A Londra

È tutta una congettura. Non conosciamo nessun dettaglio preciso e, è assai probabile, mai ne conosceremo. Ciò malgrado, possiamo attenerci alle prove in nostro possesso: la traduzione di Isocrate ci dice che la conoscenza che Tyndale aveva del greco prima di giungere a Londra era buona, e che nessuno avrebbe potuto tradurre Isocrate continuando ad ignorare i tropi e le figure retoriche, oppure trascurare che in quel testo la retorica era il veicolo di nobili scopi ideali, il tutto espresso mediante il potere persuasivo del consueto e complesso sviluppo logico. Per giunta, perfino se Tyndale non avesse tradotto quello specifico Panegirico, la traduzione di qualunque orazione di Isocrate rappresenterebbe una formidabile mole di lavoro. Nell’edizione milanese del 1493, il Panegirico occupa trentanove grandi pagine in folio in greco, e le altre non sono da meno. Tanto per fare un confronto: supera di gran lunga la lunghezza del Vangelo di Marco, e comprende una buona metà di Luca; oppure equivale all’Epistola ai Romani con le due epistole ai Corinzi. Così Tyndale avrà dimostrato anche la sua bravura di traduttore in inglese. Il Cinquecento fu la grande epoca della comparsa dei testi antichi in inglese, un’epoca dai risultati assai fecondi. Dall’Eneide di Douglas, passando per l’Ovidio di Golding, fino al Plutarco di North, all’Omero di Chapman e al Livio di Holland – per nominare le prime opere che vengono in mente –, non ci si prefiggeva semplicemente di rendere disponibile in inglese il testo classico, ma anche di dimostrare che l’inglese poteva essere sufficientemente nobile e flessibile da reggerne il carico. Il fatto che l’Ovidio di Golding, il Plutarco di North e l’Omero di Chapman abbiano contribuito alla creazione di opere inglesi in grado di rivaleggiare perfino con le grandi opere originali, come fanno i drammi shakespeariani, indica cosa stava accadendo alla lingua. Tale “anglicizzazione” non era il risultato di plagi dal latino e dal greco. Proprio come Erasmo stava facendo conoscere ai suoi studenti un latino non imbarbarito, così i traduttori stavano contribuendo alla creazione di un inglese nobile. Essi stavano dimostrando, scientemente ed accuratamente, cosa l’inglese fosse in grado di fare. Si trattava di un’arte nella quale Tyndale Library (cfr. R. W. Hunt, The Medieval Library, in New College Oxford 1379-1979, a cura di J. Buxton–P. Williams, Oxford, 1979, pp. 317-345 e I. Hutter, Cardinal Pole’s Greek Manuscripts in Oxford, in Manuscripts at Oxford: An Exhibition in Memory of Richard William Hunt (1908-1979), a cura di A. C. de la Mare–B. C. BarkerBenfield, Oxford, 1980, pp. 108-113).

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