La causa dei popoli 12-13-14

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CINA Popoli sacrificati nel nome del profitto 1


la causa dei popoli problemi delle minoranze, dei popoli indigeni e delle nazioni senza stato anno V/nuova serie

numero 12-13-14

ISSN: 2532-4063 Direttore responsabile: Riccardo Michelucci Direttore: Alessandro Michelucci Redazione: Katerina Sestakova Novotna, Giovanni Ragni, Marco Stolfo, Maurizio Torretti, Davide Torri Via Trieste 11, 50139 Firenze, 055-485927, 327-0453975 E-mail: a.michelucci@tim.it https://issuu.com/lacausadeipopoli

Comitato scientifico Valerie Alia Leeds Metropolitan University, José Luis Alonso Marchante storico indipendente, James Anaya University of Arizona, Aureli Argemí CIEMEN, Laurent Aubert Archives internationales de musique populaire, Claus Biegert Nuclear Free Future Award, Guglielmo Cevolin Università di Udine, Duane Champagne UCLA, Naila Clerici Soconas Incomindios, Walker Connor Middlebury College (†), Myrddin ap Dafydd Gwasg Carreg Gwalch, Alain de Benoist Krisis, Zohl dé Ishtar Kapululangu Aboriginal Women's Association, Philip J. Deloria Harvard University, Toyin Falola University of Texas at Austin, Jacques Fusina Università di Corsica Pasquale Paoli, Edward Goldsmith The Ecologist (†), Barbara Glowczewski Collège de France, Ted Robert Gurr Center for International Development and Conflict Management (†), Mahdi Abdul Hadi PASSIA, Debra Harry Indigenous Peoples Council on Biocolonialism, Elina Helander-Renvall University of Lapland, Ruby Hembrom Adivaani, Alan Heusaff Celtic League (†), Amjad Jaimoukha International Centre for Circassian Studies, Asafa Jalata University of Tennessee, René Kuppe Universität Wien, Robert Lafont Université Paul Valéry (†), Colin Mackerras Griffith University, Luisa Maffi Terralingua, Saleha Mahmood Institute of Muslim Minority Affairs, Jean Malaurie CNRS, David Maybury-Lewis Cultural Survival (†), Matthew McDaniel Akha Heritage Foundation, Antonio Melis Università di Siena (†), Fadila Memisevic Gesellschaft für bedrohte Völker, Garth Nettheim University of New South Wales (†), Kendal Nezan Institut Kurde, Helena Nyberg Incomindios, Massimo Olmi giornalista (†), Nicholas Ostler Foundation for Endangered Languages, Anna Paini Università di Verona, Alessandro Pelizzon Southern Cross University, Norbert Rouland Universitè d'Aix-Marseille III, Rudolph Rÿser Center for World Indigenous Studies, Ryūichi Sakamoto compositore, Edmond Simeoni Corsica Diaspora (†), Ruedi Suter Media-Space, Parshuram Tamang Nepal Tamang Ghedung, Colin Tatz Australian Institute of Holocaust and Genocide Studies (†), Victoria Tauli-Corpuz Tebtebba Foundation, Ned Thomas Literatures Across Frontiers, Inja Trinkuniene Romuva, Fernand de Varennes Murdoch University, Michael van Walt van Praag Kreddha, Joseph Yacoub Université Catholique de Lyon, Antonina Zhelyazkova International Centre for Minority Studies and Intercultural Relations In copertina: Palden Gyatso (1933-2018), monaco tibetano, Parigi, luglio 2000

gennaio-dicembre 2020

EDITORIALE L'equazione sbagliata Alessandro Michelucci

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DOSSIER L'ascesa del colonialismo cinese Giovanna Marconi

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Il genocidio silenzioso degli Uiguri Intervista a Dolkun Isa

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I gulag del ventunesimo secolo Anthony Gordon

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L'altra faccia della questione tibetana Jarmila Ptáčková

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La prima "regione autonoma" della Cina Enghebatu Togochog

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Decolonizzazione senza libertà Alessandro Michelucci

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Spiragli europei per Taiwan Owen Howells

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Un piano per cancellare le minoranze Bertil Lintner

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Imperialismo culturale 2.0 Antonella Visconti

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Bibliografia

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INTERVENTI Nuovi spazi politici per i popoli indigeni Antonella Visconti

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Prigionieri dell'ultima dittatura europea Alessandro Michelucci

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Per un futuro libero dall'incubo nucleare Setsuko Thurlow

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LO SCAFFALE Biblioteca Le minoranze e i popoli indigeni davanti alla pandemia Cresce l'interesse italiano per la cultura maori Storia, cultura e politica dell'isola verde Nuvole di carta Cineteca Musiche

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IL RITRATTO Una vita contro il colonialismo americano Anthony Gordon

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L'equazione sbagliata Negli ultimi anni del secolo scorso, in seguito alla fine della guerra fredda, si era diffuso un ottimismo basato su un'equazione molto semplice: caduto il comunismo, la definitiva affermazione mondiale del sistema liberaldemocratico orbitante attorno agli Stati Uniti avrebbe portato prosperità economica e diritti politici per tutti. Certo, non sarebbe stato un processo breve né indolore, ma alla fine questo traguardo sarebbe stato raggiunto. Lo sviluppo delle attività commerciali avrebbe portato con sé il cambiamento politico, "come se ci fosse un po' di democrazia nascosta in ogni iPhone o Audi A8", ha scritto acutamente Philipp Mattheis (Der Standard, 23 marzo 2021). Oggi, dopo trent'anni, possiamo toccare con mano che si trattava di un'equazione sbagliata. Non solo, ma è successo proprio l'inverso di quello che era stato previsto. Il predominio planetario del sistema capitalista non ha diffuso la prosperità economica, ma ha inasprito le differenze: molti ricchi sono diventati ancora più ricchi, mentre molti poveri sono sprofondati in condizioni disumane. Le conseguenze ambientali sono state pesanti e i mutamenti politici previsti non si sono verificati. Nel nome del profitto sono stati rotti tutti i vincoli morali e politici, peraltro già molto esigui. Un esempio plastico, anche se non certo l'unico, è quello che viene dalla Cina. Nel nome degli affari, di una visione del mondo che antepone l'accumulazione della ricchezza a qualunque altro obiettivo, (quasi) tutti hanno chiuso gli occhi davanti alla repressione spietata che il governo cinese opera nei confronti delle minoranze e dei dissidenti in genere. Non soltanto i liberisti, com'era prevedibile, ma anche coloro che avrebbero dovuto difendere quello che Pechino calpesta: l'ambiente, le minoranze, la giustizia sociale. Quello che era il modello di tanti comunisti si è trasformato radicalmente. Col celebre slogan "Arricchirsi è glorioso" Deng Hsiao Ping ha archiviato l'eredità maoista abbracciando la logica capitalistica, potenziando al tempo stesso i campi di concentramento e le altre strutture repressive. Tutte queste pratiche sono comprovate da documenti accessibili a chiunque. Negli ultimi tempi anche la stampa meno sensibile a questi temi ha cominciato a parlarne. La reductio ad oeconomicum planetaria è confermata dal fatto che oggi si parla di paesi come la Cina, la Corea del Nord e la Turchia misurandoli con la logica dei costi e dei ricavi, pur sapendo che gli affari conclusi con questi paesi finanziano la repressione delle minoranze e degli altri dissidenti. Al tempo stesso, le grandi e medie potenze –in particolare Cina, Russia, Stati Uniti e Turchia– hanno trasformato ogni nemico in terrorista, arrogandosi il diritto di reprimere ogni forma di dissenso, sia questo pacifico o armato. La "lotta al terrorismo" lanciata da George Bush dopo l'attacco alle Torri Gemelle si è rivelata una licenza di uccidere che molti stati hanno applicato con la massima solerzia. Questo ha cancellato, o comunque ha ridotto a livelli insignificanti, la possibilità che un paese contestasse la politica di un altro per gli effetti di una lotta al terrorismo che era diventata lingua comune. Tanto più se si trattava di un partner commerciale appetibile. Avversare la logica del profitto non significa coltivare il pauperismo o auspicare il ritorno a un utopistico Eden preindustriale. Il profitto è un elemento necessario di ogni società, ma non dovrebbe mai diventarne la pietra angolare. Lo strapotere acquistato dal mondo bancario e finanziario negli ultimi vent'anni sta avendo conseguenze devastanti. Non solo in termini politici ed economici, ma anche ambientali. I ghiacciai si sciolgono, la temperatura terrestre sale, l'innalzamento dei mari sommerge alcune isole. La devastazione che colpisce l'ambiente è simmetrica a quella che travolge molti popoli: come il ghiaccio si scioglie la libertà politica e religiosa, come il mare sale la repressione, la sete di profitto è pronta a sacrificare interi popoli per ottenere guadagni sempre maggiori, secondo la logica spietata di una crescita infinita. Il dogma del profitto che avvelena l'ambiente è lo stesso che soffoca molti popoli. Entrambi sono ostacoli da rimuovere per consentire l'avanzata implacabile di una logica mondialista basata sul culto del denaro, dove la monetizzazione è il metro di ogni attività umana. Soltanto un mutamento culturale e politico radicale, per ora utopistico, potrebbe salvarli. Ventun anni fa, il 31 marzo 2000, la nostra associazione organizzò a Firenze il convegno Tibet: Cinquant'anni di colonialismo cinese. Fu la prima iniziativa realizzata con la nuova denominazione, Centro di documentazione sui popoli minacciati, che sostituiva il precedente Associazione per i popoli minacciati. Fra i relatori spiccavano Fosco Maraini e Michael van Walt van Praag, ex consulente legale del Dalai Lama. Naturalmente speravamo che dopo vent'anni la situazione delle minoranze che vivono in Cina sarebbe stata migliore. Ma anche noi ci illudevamo, perché sarebbe addirittura peggiorata. A loro dedichiamo questo numero. Oggi più che mai, siamo dalla loro parte. Alessandro Michelucci 3


L'ascesa del colonialismo cinese Giovanna Marconi

Il colonialismo sarà anche morto, ma lo si può vedere ovunque. Nicholas B. Dirks, Castes of Mind: Colonialism and the Making of Modern India (2001) "Qualsiasi crimine scompare davanti al colonialismo": queste parole sono state pronunciate da Moni Ovadia, celebre attore e musicista di religione ebraica, ben conscio che nella sua affermazione rientra anche una tragedia epocale come la Shoah. Eppure il colonialismo, che è durato molti secoli e ha segnato in modo indelebile la storia del pianeta, non ha mai suscitato un moto di ripulsa e di avversione diffuso. Al contrario, è stato frettolosamente archiviato in seguito alla decolonizzazione, uno dei più colossali inganni del secolo scorso, che in realtà è stata soltanto un passaggio di mano: alle potenze coloniali si sono sostituiti i nuovi poteri locali, spesso oppressivi e corrotti, formalmente indipendenti ma in pratica controllati dai vecchi colonialisti. Col passare del tempo il colonialismo degli ultimi secoli ha subito mutamenti profondi: sono cambiati gli attori, i metodi, la percezione collettiva. Il diciannovesimo secolo ha segnato la massima espansione del colonialismo europeo. All'inizio del secolo successivo un quarto degli abitanti della Terra era suddito dell'impero britannico, sul quale "non tramontava mai il sole". Nel ventesimo secolo, segnato dalla Seconda guerra mondiale, il fenomeno si è incamminato verso il tramonto, ma non senza traumi: la guerra d'Algeria è durata quasi ottoe anni (1954-1962) e ha lasciato una ferita profonda nella società francese. La decolonizzazione non ha sortito l'effetto sperato, tanto è vero che molte ex colonie si sono riconvertite a loro volta in potenze coloniali. Giusto per fare qualche esempio, l'Etiopia ha annesso l'Eritrea (1962); l'Indonesia ha annesso Papua Occidentale con un referendum truccato (1969) e ha invaso Timor Est (1975); il Marocco ha invaso l'ex Sahara spagnolo subito dopo che le truppe franchiste avevano lasciato il territorio (1975). A livello mondiale, come sappiamo, si sono affermate due potenze: URSS e Stati Uniti. La prima controllava il 60% dell'Europa e aveva molti stati satelliti, seppur in vari modi, in diverse parti del mondo. Gli Stati Uniti, oltre a controllare gran parte dell'Europa occidentale, la Grecia e la Turchia, hanno ampliato la propria estensione territoriale del 21% annettendo come stati federati due ex colonie, Alaska e Hawai'i. Senza contare le varie isole del Pacifico, legate a Washington da accordi di "libera associazione", un termine pudico che maschera un nuovo legame coloniale, tanto che perfino gli atlanti le definiscono "territori esterni degli Stati Uniti". Nel frattempo stava arrivando, silenzioso ma deciso, un altro attore mondiale: la Cina. Mentre le potenze europee cominciavano a perdere le proprie colonie asiatiche e africane, il grande paese si muoveva nella direzione opposta. Agli albori della dittatura maoista, dopo aver annesso la cosiddetta Manciuria interna (800.000 kmq) in seguito alla Seconda guerra mondiale, Pechino realizzò in pochi anni le tre tappe fondamentali della sua espansione territoriale: l'annessione della Mongolia meridionale, ribattezzata Mongolia Interna (1947), del Xinjiang (1949) e del Tibet (1951). Questi tre territori erano destinati a giocare un ruolo economico importante. Il Xinjiang, oltre a possedere grandi riserve petrolifere e minerarie, sarebbe stato utilizzato per gli esperimenti nucleari (1964-1996). La Mongolia Interna avrebbe fornito il 30% delle cosiddette "terre rare" (metalli come erbio, lutezio, samario, etc.) reperibili sul pianeta. Il Tibet, infine, contiene grandi riserve di ferro, piombo, zinco e altri minerali. Il successivo reintegro territoriale di Hong-Kong (1997), all'epoca colonia britannica, e di Macao (1999), colonia portoghese, ha aggiunto una superificie territoriale minima. Parlando di numeri, questo significa che la Cina è cresciuta del 75% fra il 1947 e il 1951. Nel ventesimo secolo, ma pro4


babilmente anche nella storia, nessun altro paese ha realizzato un ampliamento territoriale di questa portata così velocemente. Membro del Consiglio di sicurezza dell'ONU dal 1971, la potenza asiatica si è servita più volte di questo ruolo privilegiato per contrastare le risoluzioni che condannavano la sua politica repressiva. Rare voci, comunque: davanti a un fenomeno di queste dimensioni viene da chiedersi perché la ferocia della dittatura cinese sia stata contestata così poco. I motivi sono chiari. Nella logica della guerra fredda, il nemico non era il comunismo, ma l'URSS. Inoltre la Cina maoista poteva contare su un buon numero di ammiratori e seguaci europei, soprattutto in Francia e Italia. La Germania Ovest, dal canto suo, era troppo condizionata dalla fedeltà atlantica per mettersi in aperto contrasto con Pechino, cosa che Washington non avrebbe approvato. Un diffuso sentimento sinofobo è emerso soltanto nel 2020, quando è scoppiata la pandemia che ha segnato l'ultimo anno. Ma anche in questo caso la brutale repressione del dissenso non ha ricevuto nessuna attenzione: la Cina è stata ritenuta colpevole di avere diffuso il virus, mentre i suoi campi di concentramento, ormai documentati in modo incontestabile, sono stati liquidati con qualche articolo. Il fatto che questa emergenza sanitaria sia derivata dalla Cina ha stimolato una confusa sinofobia che comunque appare insignificante. Gran parte di coloro che oggi sparano a zero sul paese asiatico per questo sono gli stessi che non hanno mai fatto una piega davanti alla sostanziale replica del sistema sovietico che Pechino ha realizzato da molti anni. La persecuzione delle minoranze e dei dissidenti in genere, attuata con i metodi più spietati ed efficienti, non ha mai trovato spazio nelle nostre trasmissioni televisive di "approfondimento politico", che hanno preferito darlo alle volgari piazzate di Vittorio Sgarbi e alle bravate estive di Matteo Salvini. L'ossessiva concentrazione su pochi temi di politica interna ha finito per allontanare lo spettatore medio da una prospettiva più ampia. Nemmeno i mutamenti climatici, se si esclude qualche accenno vago e confuso, riescono a scalfire questa coltre di egoismo e di apatia.

La trasformazione territoriale della Cina Anno

Territorio annesso

Estensione/crescita della Cina

1946

-

1947

Mongolia meridionale

1.183.000 6.627.941

1949

Xinjiang

1.665.000 8.292.941

1951

Tibet

1.228.000 9.520.941

1997

Hong Kong

1999

Macao

2011*

-

5.444.941

1.106 9.522.047 33 9.522.080 9.596.960*

* La dimensione ufficiale della Cina include Taiwan (35.980 kmq), che Pechino rivendica come propria, e 38.900 kmq derivati da piccole modifiche territoriali avvenute fra il 1950 e il 2011.

La Cina del ventunesimo secolo rappresenta una novità storica assoluta. Per la prima volta una dittatura dispone di un potere economico planetario, unito ai mezzi diplomatici e tecnologici più moderni, grazie ai quali può controllare una buona parte del pianeta in modo silenzioso e indolore. I mezzi suddetti consentono a Pechino di soffocare il dissenso con precisione chirurgica e di ridurre al minimo le voci che cercano di evidenziare questa repressione spietata. Quindi è molto difficile, per non dire impossibile, combattere il colonialismo cinese con i metodi di ieri. I sit-in, le proteste oceaniche, le inchieste dei giornalisti famosi sarebbero armi spuntate. Oggi la Cina si presenta come un partner commerciale molto appetibile, quindi il fatto che sia una dittatura viene percepito sempre meno. L'uomo della strada è interessato ai cellulari Huawei, ma certo non agli Uiguri che languiscono e muoiono nei "campi di rieducazione", o per meglio dire campi di concentramento. Perfino la causa tibetana, che fino a una decina d'anni fa conservava una certa presa, ha perso gran parte dei sostenitori che aveva. Non solo, ma l'acquiescenza nei con5


fronti della Cina ha assunto accenti rivoltanti anche a livello locale. Basti pensare al Comune di Milano, che nel 2016 aveva deciso di conferire la cittadinanza onoraria al Dalai Lama, ma poi è tornato sui propri passi in seguito alle proteste di Pechino. Non si tratta di un episodio isolato. Nell'agosto del 2020 Nathan Law, uno dei dissidenti che guidavano le rivolte popolari di Hong Kong, è venuto in Italia. Il suo obiettivo era quello di parlare col Ministro degli Esteri Di Maio per evidenziare la grave situazione del territorio "autonomo", dove questo termine era ormai privo di significato. Il periodo scelto da Law per la sua visita non era casuale: negli stessi giorni Di Maio avrebbe incontrato il proprio omologo cinese. Il dissidente ha chiesto di poter incontrare il titolare della Farnesina, ma questo non si è neanche degnato di rispondere. Finché questa sudditanza non verrà abbandonata i popoli della Cina continueranno a essere sacrificati nel nome del profitto. Certo, continueranno a ricevere dei riconoscimenti ufficiali, ma che senso ha premiare chi si batte contro l'oppressione se poi si fa di tutto perché la sua battaglia fallisca?

Per favore, non disturbate gli affari Alcuni anni fa, a Vienna, un gruppo di studenti mi fece questa domanda: "Dato che la Cina è così oppressiva, perché si sente parlare sempre delle ribellioni organizzate dalle minoranze – Tibetani, Uiguri, etc. – mentre gli Han (la maggioranza, i cinesi propriamente detti) si ribellano molto di rado?". A me, che conosco bene la Cina e ci ho vissuto per 25 anni, una domanda del genere parve perfettamente comprensibile. Al tempo stesso, però, confermò una cosa che sapevo già: le informazioni sull'opposizione al regime cinese che circolano in Occidente, salvo casi rarissimi, sono quelle diffuse o comunque approvate dalla Cina stessa. Sarebbe assurdo che un paese così potente non avesse i mezzi per farlo: del resto, è la stessa cosa che per lungo tempo era accaduta nell'Unione Sovietica e nei paesi satelliti. Certo, ci sono alcune eccezioni lodevoli, sia sulla carta stampata che su Internet, ma i grandi mezzi d'informazione sono condizionati da Pechino con un ricatto molto semplice: "o diffondete le notizie che vogliamo noi o mettiamo in discussione gli accordi commerciali coi vostri paesi". È la stesso ricatto che ha indotto molti sindaci italiani ad annullare le visite ufficiali del Dalai Lama o a non dargli la cittadinanza onoraria. Oltre a questo motivo ne esiste un altro. Il fiume di notizie che circola su Internet genera un'ipertrofia ingannevole: si legge qualcosa qua e là e si crede di aver capito tutto. La Cina lo sa e usa questi mezzi con molta cura. Ecco perché gli studenti si erano fatti l'idea che aveva generato la loro domanda. Per rispondere, quindi, utilizzai un'altra domanda: "Dove leggete le informazioni sulla Cina?". La loro risposta confermò che la loro unica fonte d'informazione era la stampa compiacente, per non dire filocinese, legata ai grandi gruppi finanziari e quindi preoccupata di non "disturbare gli affari". Gli studenti cambiarono idea e mi chiesero dove potessero trovare informazioni attendibili sulla Cina. Anton Keuter

L'ALTRA FACCIA DEL RAZZISMO AMERICANO Le notizie sulla violenza razzista che arrivano dagli Stati Uniti riguardano soltanto quella che colpisce le comunità afroamericane, ignorando quella che minaccia le comunità di origine asiatica. Il fenomeno si è acuito con l’esplosione della pandemia, che ha costituito un pretesto ideale per attaccare queste minoranze, in particolare quella cinese. Negli Stati Uniti, quindi, questo è un problema molto sentito. Il settimanale Time gli ha dedicato una copertina (29 marzo-5 aprile 2021); le associazioni asiatiche hanno protestato in molte città; il jazzista coreano-americano Jordan Van Hemert ha pubblicato il CD I Am Not A Virus; è uscito il libro Not Yo' Butterfly: My Long Song of Relocation, Race, Love, and Revolution (University of California Press, 2021), scritto da Nobuko Miyamoto, attrice militante nippo-americana.

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Il genocidio silenzioso degli Uiguri Intervista a Dolkun Isa

Negli ultimi anni, dopo un lungo disinteresse, i media hanno finalmente messo in evidenza la grave situazione degli Uiguri, la minoranza turcomanna di fede islamica che vive prevalentemente nello Xinjiang, la provincia nordoccidentale della Cina. Per avere un quadro chiaro e aggiornato della questione abbiamo intervistato Dolkun Isa, presidente del World Uyghur Congress (WUC), l'organismo nato per dare respiro internazionale alle rivendicazioni di questo popolo. Dolkun Isa è fuggito dalla Cina nel 1994. Dal 2006 è cittadino tedesco. La sua famiglia è stata colpita duramente dalla repressione di Pechino: la madre è morta in un campo di concentramento, il fratello maggiore è stato condannato a 17 anni di prigione, non sa se altri parenti siano ancora vivi. I media sottolineano spesso che la Cina comprende alcune regioni autonome, fra le quali lo Xinjiang. Ma si tratta di una vera autonomia? Lo Xinjiang viene definito una regione autonoma fin dal 1949, anno in cui fu occupato e annesso dalla Cina. Aveva una certa autonomia da Pechino, ma col tempo questa è stata erosa quasi completamente. Negli ultimi decenni tutti gli spazi decisionali sono stati occupati da Pechino per costruire una Cina monoculturale. Sotto l'attuale presidente Xi Jinping questa politica è diventata ancora più aggressiva. Oggi la regione è sotto il pieno controllo delle autorità centrali, che portano avanti una repressione spietata. Un tema che non possiamo trascurare è quello dei campi di concentramento... Di cosa si tratta? Sebbene la Cina opprimesse gli Uiguri da lungo tempo, da quando Xi Jinping è diventato presidente del PCC (2012) e presidente della Repubblica Popolare Cinese (2013), questa oppressione ha assunto i caratteri del genocidio. Nell'unità nazionale perseguita da Xi Jinping non c'è spazio per nessuna diversità culturale, linguistica o religiosa. Nel 2017 la repressione dell'identità uigura è stata perfezionata con l'apertura dei campi di concentramento, dove gli Uiguri vengono costretti a rinnegare la proprie radici culturali e religiose, costretti a giurare fedeltà al PCC e a imparare il cinese mandarino. In questi campi i detenuti sono malnutriti e soggetti a pratiche mostruose, come lo stupro e altre forme di abuso sessuale, la tortura fisica e mentale. Si stima che oggi circa 2-3 milioni di persone - uiguri e altri musulmani turcomanni - siano detenuti in questi campi. Il WUC ha cercato di denunciare i campi di concentramento davanti all'UE, all'ONU, etc. Il WUC si è rivolto all'UE, all'ONU e ad altre istituzioni per denunciare i campi e sollecitare la comunità internazionale ad agire affinché la Cina li chiudesse e rilasciasse i detenuti. Molti stati e molti organismi hanno condannato queste pratiche, ma un'azione concreta - come un'inchiesta indipendente - non si è ancora vista. Comunque la nostra organizzazione non si arrende e continua a sensibilizzare tutte queste istituzioni. Qual è la situazione attuale della lingua uigura? La lingua uigura è gravemente minacciata, sia all'interno dello Xinjiang che all'estero. Nella "regione autonoma" l'insegnamento è stato vietato e gli uiguri internati non possono parlare la propria lingua. Gli uiguri della diaspora stanno cercando di mantenere viva la propria cultura, ma le giovani generazioni che crescono in altri paesi faticano a restare in contatto con la madrelingua. Gli esuli uiguri possono rimanere in contatto con le loro famiglie in Cina? Dal 2017 quasi tutti gli uiguri della diaspora hanno perso i contatti con le loro famiglie e i loro ami7


ci che vivono in Cina. Non possono parlare con loro liberamente, perché le autorità esercitano un controllo spietato. Molti uiguri della diaspora non sanno dove si trovino o come stiano le loro famiglie. Avere dei familiari all'estero e cercare di restare in contatto con loro è un crimine punito con la detenzione nei campi. Quindi molti esuli devono evitare i contatti per proteggere i propri cari. Tu vivi in Germania da molti anni. Sei stato perseguito come "terrorista". Lo sei ancora? Una delle principali tattiche del governo cinese per mettere a tacere i dissidenti e gli attivisti che vivono all'estero è quella di molestarli, minacciarli e intimidirli in vari modi. Gli attivisti vengono considerati "terroristi", come è stato fatto con quelli di Hong Kong. Hanno cercato di farlo anche con me. Ma il governo cinese non è mai stato in grado di presentare alcuna prova a sostegno di queste accuse, tanto è vero che ho ottenuto asilo politico in Germania e ho potuto partecipare a varie iniziative delle Nazioni Unite, nonostante Pechino avesse cercato in ogni modo di impedirmelo. Non sono mai stato perseguito legalmente come "terrorista", e tutti gli sforzi del governo cinese per screditarmi sono stati rigettati dagli organismi internazionali. Ma questa repressione continua a colpire molti uiguri, tibetani, mongoli, hongkonghesi e attivisti cinesi per i diritti umani in esilio, che rischiano l'estradizione o talvolta addirittura la vita. La Cina ha messo il mio nome sulla lista dei ricercati dell'Interpol, così ho avuto vari problemi in Corea, in Italia e in altri paesi. Ma nel febbraio del 2018, finalmente, l'Interpol ha cancellato il mio nome dalla sua lista. Gli uiguri sono stati sostenuti dalla Turchia? Storicamente la Turchia è un paese con stretti legami linguistici e culturali con il popolo uiguro, e di conseguenza è stata una meta sicura per gli uiguri in fuga dalla repressione cinese. Negli ultimi decenni la Turchia ha dato un sostegno importante agli uiguri, concedendo loro asilo e fornendo un rifugio sicuro. Negli ultimi anni, però, la Cina ha fatto forti pressioni politiche ed economiche su Ankara affinché li rimpatriasse in Cina. L'accordo di estradizione fra i due paesi - per ora ratificato dalla sola Cina – ha generato un forte disagio nella comunità uigura della Turchia. Naturalmente il WUC spera che la Turchia non ratifichi l'accordo di estradizione. Il WUC ha qualche contatto con l'Italia? Il WUC ha un collaboratore volontario che vive in Italia, dove sostiene le nostre iniziative. In questo paese cerchiamo di sensibilizzare l'opinione pubblica sui crimini commessi dalle autorità cinesi affinché l'Italia intraprenda azioni concrete in stretta collaborazione con gli alleati internazionali. Nel 2020 ho fornito alcune testimonianze in Parlamento. Il WUC collabora strettamente col Partito Radicale della Nonviolenza e con Società Libera. Il governo italiano può svolgere un ruolo importante nella difesa dei diritti umani; l'opinione pubblica italiana dovrebbe continuare a sollecitare i propri esponenti politici ad assumere una posizione ferma nei confronti della Cina. Quali sono le prossime iniziative del WUC? Uno dei principali obiettivi del World Uyghur Congress nell'immediato futuro è quello di lavorare insieme alla comunità internazionale per assicurare che la tragedia uigura sia riconosciuta come genocidio. A questo proposito diversi riconoscimenti importanti sono già venuti dagli Stati Uniti, dal Parlamento canadese e da quello britanico. Si spera che entro la fine di quest'anno (2021) il Tribunale Uiguro, promosso dal WUC e presieduto da un giurista prestigioso come Geoffrey Nice, esprima un giudizio legale indipendente sul tema. Questo dimostra che il mondo è sempre più consapevole del fatto che le atrocità commesse contro gli Uiguri costituiscono un genocidio, in quanto corrispondono a molti dei criteri fissati dalla Convenzione dell'ONU. Ci sono molte altre iniziative importanti che continueremo a portare avanti, come la lotta per la chiusura dei campi di concentramento, la difesa del patrimonio culturale e religioso uiguro nella "regione autonoma", il sostegno degli uiguri della diaspora minacciati dalla repressione transnazionale della Cina. C'è ancora molto che la comunità internazionale e gli stessi cittadini possono fare, e il WUC vuole svolgere un ruolo sempre più attivo in questo contesto. La nostra battaglia, nonviolenta ma decisa, continua. 8


Le minoranze musulmane della Cina Le minoranze musulmane riconosciute ufficialmente dalla Cina sono dieci. Hui (20.000.000). Musulmani di lingua cinese dispersi in tutto il paese. Uiguri (11.000.000). Turcomanni che vivono principalmente nello Xinjiang. Kazaki (1.400.000). Turcomanni che vivono principalmente nello Xinjiang. Dongxiang (600.000). Strettamente imparentati con i Mongoli. Kirghisi (160.000). Un altro gruppo turcomanno che vive nello Xinjiang. Salari (130.000). Turcomanni con una propria lingua. Tagiki (51.000). Gruppo di lingua farsi (persiano) che vive nella Cina occidentale. Uzbeki (21.000). Sebbene vivano principalmente in Uzbekistan, gli uzbeki sono anche un gruppo minoritario in diversi altri paesi, tra cui la Cina. Bonan (17.000). Un piccolo gruppo di circa 17.000 persone, che comprende mongoli, hui, cinesi han e tibetani. Tartari (5.000). Sono circa 5000 e hanno una propria lingua. Khalka (numero non disponibile). Una piccola minoranza che vive nella Mongolia interna, nel Qinghai e nel Jehol. Etnicamente sono mongoli, e come tali non vengono contati tra le etnie musulmane cinesi.

Dall'alto in senso orario: Dolkun Isa durante una manifestazione di protesta; il genocidio degli Uiguri denunciato dal quotidiano francese Libération; l'avvocato Geoffrey Nice, presidente del Tribunale Uiguro.

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I gulag del ventunesimo secolo Anthony Gordon

Strettamente legata alla minoranza uigura è quella kazaka, costituita da 1.500.000 di persone, l'85% delle quali vive nello Xinjiang. Musulmani come gli Uiguri, i Kazaki condividono con loro e con altre minoranze la tragica esperienza dei campi di concentramento, dove si trova rinchiuso un numero imprecisato di persone, uomini e donne, stimato complessivamente attorno ai due milioni. Quindi non è un caso se recentemente sono usciti due libri, uno scritto da un'uigura e l'altro da una kazaka che sono state rinchiuse nei campi, ma fortunatamente sono riuscite a emigrare. Rescapée du goulag chinois: Premier témoignage d’une survivante ouïghoure (Editions des Equateurs, 2020), curato dalla giornalista francese Rozenn Morgat, contiene la preziosa testimonianza di Gulbahar Haitiwaji. Nata nel Xinjiang, la donna era emigrata in Francia con la famiglia nel 2006. Dieci anni dopo ha ricevuto una lettera che le chiedeva di tornare in Cina per firmare alcuni documenti necessari per ottenere la pensione. Ma era una trappola: la donna fu arrestata e rinchiusa in un campo di concentramento, dove è rimasta per due anni (2017-2019). Con la struttura di un diario, il libro racconta una vita quotidiana fatta di stenti, terrore, fame, umiliazioni: "Convinti che fossimo nemici da abbattere, traditori, terroristi, ci hanno privati della libertà". Sobria e orgogliosa, mai vittimistica, la testimonianza di Gulbahar Haitiwaji ci riporta ai tempi bui di Arcipelago Gulag. È uscita da poco la versione italiana ( Sopravvissuta a un gulag cinese. La prima testimonianza di una donna uigura, ADD, 2021). La storia della kazaka Sayragul Sauytbay, autrice di The Chief Witness: Escape from China's Modern-Day Concentration Camps (Scribe, 2021), è molto simile. La donna, prima dottoressa, poi insegnante e infine impiegata statale, racconta la vita dei campi: stupri di massa, finti processi, esperimenti medici, torture con la sedia elettrica. L'autrice, che oggi vive in Svezia, ha scritto il libro insieme ad Alexandra Cavelius, una prestigiosa giornalista tedesca che aveva già collaborato con un'altra dissidente, l'uigura Rebiya Kadeer, per il libro La guerriera gentile (Corbaccio, 2007). L'opera di Sauytbay, uscita originariamente in tedesco, è stata tradotta in inglese, francese e neerlandese. Rescapée du goulag chinois e The Chief Witness, asciutti ma spaventosi, dovrebbero scuotere dal torpore i milioni di persone che pur conoscendo questa tragedia si voltano dall'altra parte. Oggi la persecuzione operata dalla dittatura cinese nei confronti delle minoranze e dei dissidenti in genere è sostanzialmente analoga a quella che veniva praticata nell'URSS. I segni ci sono tutti. Riemergono i campi di concentramento, anche se molti media li definiscono pudicamente "campi di rieducazione". Riemerge la classica reazione stizzita della dittatura all'"interferenza nelle questioni interne". Come ai tempi dell'URSS, riemergono anche i coriacei difensori del sistema repressivo, che negano l'evidenza con fiera ostinazione. Uno di questi è il giornalista francese Maxime Vivas, autore del libro Ouïghours, pour en finir avec les fake news (La Route de la Soie, 2020). Un catalogo di falsità redatto sotto lo sguardo vigile delle massime autorità cinesi. La Cina post-maoista ha realizzato una sintesi inedita di capitalismo e comunismo, ma questo non ha cambiato la sostanza: la sua macchina repressiva è ancora più potente e continuerà a manipolare la realtà per occultare i propri crimini. 10


L'altra faccia della questione tibetana Jarmila Ptáčková

L'immagine del Tibet più diffusa in Occidente è certamente quella del Dalai Lama, ma anche i nomadi con le loro grandi mandrie di yak sono piuttosto noti. Non solo, ma per gli intellettuali tibetani questi sono l'espressione più autentica e più profonda della cultura locale. Da quando il governo cinese ha deciso di sviluppare la periferia occidentale del paese e di "civilizzarla" le comunità nomadi con un stile di vita legato alla natura, le più lontane dai cinesi sedentarizzati moderni, sono diventate il prototipo del vero tibetano. L'intervento statale ha stravolto le strutture economiche, sociali e culturali dell'intera società tibetana, sacrificando i nomadi sull'altare della "modernità" e scardinando le basi di un'identità culturale antichissima. Queste comunità sono parte integrante della società tibetana da almeno 1000 anni. Inizialmente abitavano le regioni più alte, inadatte alla coltivazione, e vivevano delle loro mandrie, composte soprattutto da yak e pecore, che fornivano latticini, carne e lana, così come sterco per il riscaldamento. Per integrare la loro dieta con grano e tsampa (piatto a base di orzo e burro di yak, ndt), o per acquistare altri oggetti necessari, commerciavano con i contadini che vivevano in zone più basse coltivabili. Prima della costituzione della Repubblica Popolare Cinese (1949) e dell'annessione del Tibet i nomadi si spostavano secondo regole precise. La terra era suddivisa fra le famiglie secondo la consistenza del bestiame e la qualità dei pascoli disponibili. Ogni tre anni questa divisione veniva aggiornata secondo le nuove dimensioni delle mandrie. Negli anni Cinquanta, con le riforme agrarie, la Cina iniziò ad alterare questo sistema consolidato e ben funzionante. I nomadi tibetani furono chiamati a partecipare alla gestione collettiva della terra: gli animali e i pascoli divennero proprietà collettiva. Il tradizionale sistema di pastorizia, che prevedeva l'uso dei pascoli all'interno di una comunità e la loro ridistribuzione periodica in base al numero di animali posseduti da una famiglia, fu sostituito da una nuova politica che imponeva un aumento della produzione zootecnica. Così vennero introdotti nuovi metodi di recinzione, incroci, servizi veterinari e produzione di foraggio artificiale che favorirono la crescita delle mandrie. Il numero del bestiame non era più naturalmente controllato dall'aumento dei tassi di mortalità durante il clima rigido o dalle malattie, generando così la necessità di pascoli più grandi. Inoltre, nell'ambito della campagna statale per aumentare la produzione generale di grano, ai comuni fu imposto di trasformare una parte dei pascoli in campi. Neanche l'entusiasmo comunista, tuttavia, fu in grado di superare la natura, e nella maggior parte dei casi dimostrò che le praterie d'alta quota erano davvero inadatte all'agricoltura. Al contrario, la terra arata divenne vulnerabile all'erosione e le praterie iniziarono a soffrire di degrado e desertificazione. All'inizio degli anni Ottanta il sistema basato sui comuni del popolo fu sostituito da un programma intitolato Sistema di responsabilità delle famiglie. La terra e le mandrie collettivizzate furono ridistribuite tra le singole famiglie in base al numero dei membri. La terra rimase di proprietà statale, ma i nomadi ottennero il diritto d'uso per un periodo da venti a cinquant'anni. La nazionalizzazione della terra, tuttavia, aveva già sconvolto un equiibrio secolare, modificando la relazione dei pastori con la terra e col bestiame. La gente non aveva più la stessa motivazione al lavoro e cominciava a prestare meno cura all'uso sostenibile delle praterie. Il nuovo sistema di gestione sembrava essere quasi un ritorno a quello vecchio, ma con una differenza importante. Nella maggior parte dei casi la terra assegnata a una famiglia rimaneva la stessa anche se la dimensione della mandria o della famiglia era cambiata. Inoltre l'assegnazione per11


mamente dei pascoli generava molte dispute per il foraggio, perché quando il bestiame di una famiglia superava il limite pascolava sulla terra assegnata a qualcun altro. Per ovviare a questo problema il governo incoraggiò la recinzione dei singoli pascoli, limitando ulteriormente la flessibilità dell'allevamento tradizionale. Per promuovere la sedentarizzazione dei nomadi costruì delle stalle dove gli animali avrebbero passato la maggior parte dell'anno. All'inizio fu necessario cercare dei volontari - impiegati del governo locale o ex prigionieri - che provassero a vivere nelle nuove case, ma presto i nomadi impararono ad apprezzare le comodità delle abitazioni, soprattutto durante i rigidi mesi invernali. La vita dei nomadi tibetani divenne così più stabile. Il bestiame, comunque, rimaneva il bene più prezioso delle famiglie, quindi ciascuna doveva mantenere mandrie molto numerose. Ma la dimensione fissa dei pascoli non si conciliava con l'aumento del bestiame, che richiedeva pascoli più ampi. Il fatto che questi non venissero utilizzati secondo le regole previste generava spesso il loro deterioramento, così le autorità incolpavano i nomadi.

L'unico paese che non tradì il Tibet Il Tibet viene invaso dalla Cina il 7 ottobre 1950. Il solo paese che si schiera nettamente dalla sua parte è El Salvador, che il 15 novembre propone all'Assemblea generale dell'ONU una discussione sul tema, ma questa viene rinviata sine die. Nel mese successivo Hector David Castro (nella foto), capo della delegazione salvadoregna, rinnova la proposta. Stavolta il Tibet cerca il sostegno della Gran Bretagna, ma invano. Gli Stati Uniti, già impegnati nella guerra di Corea, rifiutano di intervenire, anche se la CIA sostiene in modo occulto la resistenza. Alcuni paesi buddisti, come Birmania e Thailandia, sembrano meno restii, ma in pratica non fanno nulla per aiutare il paese invaso. Castro muore nel 1973. Nel 2013 la comunità tibetana in esilio a Dharamsala (India) ricorda con un premio alla memoria il coraggio di questo diplomatico, l'unico che non ha tradito il paese delle nevi. Giovanna Marconi Dopo il periodo sperimentale di attuazione dell'ideologia maoista, che raggiunse il culmine con la Rivoluzione culturale (1966-1976), la Cina iniziò una rinascita economica e adottò una politica di riforma e apertura che permise ai soggetti stranieri di investire. Il paese era troppo grande per uno sviluppo simultaneo dell'intero territorio, quindi si pensò che fosse meglio concentrare gli investimenti in certe regioni: la zona costiera orientale fu la prima a sperimentare la modernizzazione durante gli anni Ottanta e Novanta. In questo periodo il resto del paese, e in particolare l'estremo ovest, rimase quasi intatto. Così i nomadi tibetani entrarono nel nuovo millennio allevando il bestiame nelle praterie senza aver accesso alle grandi infrastrutture e al mercato globale dei consumi, senza elettricità e senza strutture di telecomunicazione eccettuati i pochi centri amministrativi responsabili dei pascoli. La situazione cambiò soltanto quando Pechino decise di sviluppare le regioni occidentali per ridurre le grandi differenze sociali ed economiche che si erano prodotte tra le città della zona costiera orientale e la periferia rurale occidentale. Grazie al programma pomposamente definito Grande apertura dell'ovest il denaro cominciò a scorrere come un fiume anche nelle regioni tibetane, determinando una forte modernizzazione, o almeno un processo inteso come tale dal governo cinese. Nelle praterie si verificò un rapido sviluppo delle reti infrastrutturali, e in soli dieci anni vennero costruiti molti aeroporti, autostrade e ferrovie per collegare strettamente il tetto del mondo al resto della Cina. In questo modo gli abitanti dell'altopiano poterono cominciare a viaggiare più facilmente e avere scambi commerciali più regolari col resto del paese. Questo stimolò il turismo e facilitò il controllo politico e militare di quest'area incline alla ribellione, o comunque insofferente nei confronti del regime. La modernizzazione si rivelò quindi vantaggiosa sia per i giovani tibetani, che potevano accedere facilmente al mercato dei consumi, sia al governo cinese, che poteva sfruttare meglio le ricche 12


risorse naturali dell'area e rafforzare il suo controllo sui popoli della periferia. Per i nomadi tibetani, quindi, l'apertura all'Occidente significò un cambiamento radicale dello stile di vita e di sostentamento, che nonostante le varie riforme era rimasto basato sull'allevamento. La nuova politica di sviluppo, lanciata nel 1999 da Jiang Zemin, decise di superare gli ultimi resti di "arretratezza" che la società cinese vedeva nella pastorizia stagionale. I nomadi "civilizzati" non dovevano vivere più nelle case dei pascoli invernali, ma in insediamenti simili a quelli urbani, lavorando in settori legati all'industria. Questa nuova politica, però, non tardò a manifestare i propri limiti. I nomadi tibetani nel nuovo millennio Con l'inizio del ventunesimo secolo i nomadi sono diventati l'obiettivo privilegiato della nuova logica di sviluppo. Appartenendo ai settori più poveri del paese, il loro reddito doveva essere aumentato, sia per il loro benessere che per accrescere il reddito medio nazionale. Nel 2006 circa il 90% delle praterie cinesi utilizzate per l'allevamento era affetto da un degrado più o meno accentuato. Per risolvere il problema le mandrie dovevano essere ridotte e i nomadi dovevano essere allontanati dalle praterie. In questo modo le terre sarebbero state aperte alla costruzione di infrastrutture e alle imprese minerarie. Inoltre, cosa tutt'altro che secondaria, i nomadi venivano considerati soggetti statali difficili da controllare. Tutti questi problemi potevano essere risolti concentrandoli in insediamenti collegati alle infrastrutture in costruzione. Per ridurre la povertà, migliorare l'ambiente e consolidare il controllo della popolazione, lo stato ha iniziato a costruire nuovi insediamenti e a distribuire case ai nomadi. Queste abitazioni sono state date gratuitamente o a prezzi molto bassi, privilegiando le famiglie più povere. Più tardi, durante la prima decade del ventunesimo secolo, la distribuzione delle case ha interessato una popolazione più ampia. L'ultimo programma, lanciato nel 2015, dovrebbe garantire la sedentarizzazione di tutte le famiglie nomadi. Queste misure governative, comunque, sono state attuate male. Le politiche di sviluppo, compresa la sedentarizzazione, sono state realizzate troppo velocemente. Le famiglie non sono state preparate al nuovo modo di vivere, ma sono state semplicemente messe davanti ai suoi vantaggi. Le famiglie selezionate vengono trasferite in pochi giorni in un nuovo villaggio, un trasferimento che in molti casi è condizionato alla vendita del bestiame e alla cessione dei diritti d'uso della terra. I nomadi si ritrovano così in un ambiente estraneo, senza accesso ai pascoli e ai nuovi mezzi di sussistenza. Ai più poveri e a quelli che hanno dovuto rinunciare alle loro mandrie il governo offre un certo aiuto finanziario, comunque insufficiente per coprire l'aumento delle spese quotidiane per il cibo e le necessità di base che venivano fornite in parte dal bestiame. Soprattutto i nomadi anziani, che hanno un'istruzione scarsa, non parlano il cinese e non hanno mezzi finanziari per avviare un' attività, faticano ad adattarsi a questi cambiamenti. Anche la cosiddetta urbanizzazione della prateria, che interessa anche i nuovi insediamenti per i nomadi, va intesa con riserva. I villaggi uniformi, spesso privi di infrastrutture urbane, hanno poco a che fare con la vita moderna. L'elettricità e l'acqua arrivano con grande ritardo, così come i bagni pubblici (di solito non ci sono bagni nelle case costruite prima del 2015). Le strade si riempiono di sporcizia perché lo smaltimento dei rifiuti funziona male. La formazione professionale offerte dallo stato per riqualificare i nomadi non tiene conto dei loro bisogni effettivi, come si può vedere dai corsi di cucina cinese, che durano un mese e vengono realizzati nella lingua maggioritaria. Oltre a questi limiti temporali e linguistici, ai nomadi non viene offerta nessuna formazione manageriale che permetta loro di gestire un ristorante, senza contare che trattandosi di zone senza turisti di passaggio la domanda di ristoranti è abbastanza limitata. Per la maggior parte dei nomadi, quindi, la principale fonte di reddito rimane il pascolo. Alcuni riescono in modo più o meno legale a mantenere le mandrie o ad affittare i pascoli, mentre altri riescono a ricevere sussidi che consenzono loro di sopravvivere senza utilizzarli. Altri ancora, i più fortunati, hanno dei pascoli dove cresce il fungo-bruco, una sostanza medica molto apprezzata in Cina. Dato che lo stato controlla in modo poliziesco i pascoli della Cina occidentale e tollera sempre meno le peculiarità delle minoranze, l'accesso dei nomadi ai pascoli è sempre più limitato. Ormai 13


possono sopravvivere soltanto grazie alle magre sovvenzioni del governo. Gran parte dei nuovi insediamenti somiglia a dei ghetti, e i loro abitanti, anziché entrare a far parte della moderna società cinese, devono affrontare un'emarginazione economica e sociale ancora più grave di prima. I fondi che il governo ha erogato ai tibetani e alle altre minoranze per rafforzare l'economia nazionale e realizzare l'unità dei cittadini cinesi, quindi, creano pesanti oneri finanziari per lo stato e promuovono forti contrasti sociali fra i popoli della Cina.

Il Tibet negli anni del terrore maoista La Rivoluzione Culturale cinese inizia nel 1966, quando il Partito comunista adotta la "circolare del 16 maggio" redatta da Mao Zedong. Ma in Tibet il clima del nuovo corso è già presente dal 1959, quando l'esercito cinese ha occupato il paese delle nevi soggiogandolo nel modo più violento e spietato, fomentando la lotta di classe e stravolgendo la sua struttura sociale. Secondo la petizione del 10° Panchen Lama, presentata al governo cinese nel 1962, "oltre il 97% dei monasteri e dei conventi è stato distrutto, mentre il numero dei religiosi che vivono nei monasteri è stato ridotto del 93%." La lingua, il modo di vestire, gli usi e i costumi tibetani vengono considerati arretrati, sporchi e inutili, e chiunque sfidi le autorità viene sottoposto a thamzing (sessioni pubbliche di lotta). Qualche mese prima dell'inizio effettivo della Rivoluzione culturale le autorità cinesi hanno vietato la celebrazione della cerimonia del Monlam a Lhasa considerandola uno spreco di risorse. Il culto non può più essere espresso pubblicamente: chiunque lo faccia viene considerato un nostalgico della vecchia società e sottoposto a una sessione di lotta. Nei dieci anni della Rivoluzione culturale l'attacco alla religione, alla cultura, all'identità e allo stile di vita dei popoli tibetani viene intensificato. Tutte le pratiche religiose vengono proibite, mentre i monaci e le monache vengono costretti a sposarsi o rinchiusi nei campi di lavoro. I testi e i libri religiosi vengono definiti "erbacce velenose" e bruciati, gettati nei fiumi o mescolati al letame. L'unico libro che può circolare è il Libretto Rosso con i dogmi di Mao. In molte case le copie superano il numero dei membri della famiglia. Chi vince un premio riceve una copia del libro al posto della normale attestazione. Uomini e donne lo ricevono come regalo di nozze. Lo stesso accade agli studenti che si diplomano. La maggior parte delle scuole viene chiusa e gli studenti vengono intruppati in formazioni punitive che attaccano i "quattro vecchi" (vecchi pensieri, vecchi costumi, vecchie abitudini e vecchie culture). Il tempio Jokhang, sacro ai buddisti, viene saccheggiato e distrutto perché i comunisti credono che incarni appieno questi "quattro vecchi". Insegnanti e accademici vengono diffamati come "intellettuali" e sottoposti a sessioni di lotta. Anche se la Rivoluzione culturale è stata scatenata da Mao per eliminare i suoi nemici e ridefinire gli equilibri all'interno del partito, in Tibet ha un'altra funzione, quella di distruggere l'identità culturale e religiosa locale. Nel settembre 1976, quando la morte del dittatore segna la fine della Rivoluzione, sono stati distrutti oltre 6.000 monasteri e istituzioni religiose. Milioni di antichi e inestimabili manoscritti sono stati bruciati. Statue d'oro, d'argento e di bronzo sono state rimosse dai templi e spedite in Cina. Le torture fisiche e i traumi psicologici subiti dai tibetani superano qualsiasi immaginazione. Almeno 92.000 di quelli sottoposti alle sessioni di lotta sono morti o si sono suicidati, mentre 173.000 sono morti in prigione o nei cosidetti "campi di riforma attraverso il lavoro" (Laogai, versione cinese dei gulag sovietici). Oggi, a quasi mezzo secolo dalla fine della Rivoluzione Culturale, l'attacco alla religione, alla cultura, alla lingua e allo stile di vita dei popoli tibetani continua attraverso campagne per mantenere le istituzioni religiose sotto il controllo di Pechino. Ancora oggi, decenni dopo la Rivoluzione culturale, le politiche della linea dura di Pechino hanno portato a esecuzioni, distruzione di istituzioni religiose, indottrinamento politico, espulsione di monaci e suore, imprigionamento, divieto di cerimonie religiose, limitazione del numero di monaci nei monasteri e imposizione della fedeltà al partito. La repressione politica, l'emarginazione economica, la discriminazione sociale, l'assimilazione culturale e la distruzione ambientale hanno generato una nuova ondata di proteste pacifiche, dalle semplici manifestazioni alle persone che si bruciano vive. Dal febbraio 2009 al marzo 2016, 144 tibetani si sono immolati per protestare contro la dominazione cinese. Di questi, 125 sono morti, mentre il luogo e le condizioni di coloro che sono sopravvissuti rimangono sconosciuti. Anche se si dice che la Rivoluzione culturale è finita quarant'anni fa, l'obiettivo della Cina rimane quello di cancellare il passato, il presente e il futuro del Tibet. Tashi Phuntsok

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La prima "regione autonoma" della Cina Enghebatu Togochog

La Mongolia meridionale è nota col nome di "Mongolia Interna", traduzione letterale del cinese Nei Meng Gu, che esprime la rivendicazione territoriale di Pechino su questa regione. Nella nostra lingua, invece, si chiama Uvur Mongol, che significa semplicemente "Mongolia meridionale". Il suo territorio, che si estende per quasi 2 milioni di chilometri quadrati, coincide con la cosiddetta "Regione Autonoma della Mongolia Interna" e con alcuni territori limitrofi storicamente mongoli. La sua popolazione tocca i 6 milioni, cioè il doppio della Mongolia indipendente. La Mongolia meridionale venne occupata e annessa dalla Cina nel 1947, due anni prima che nascesse la dittatura maoista, e divenne la prima "regione autonoma di una minoranza nazionale" della repubblica. Quindi è stata il banco di prova di tutte le pratiche repressive che Pechino ha sperimentato contro le minoranze: dall'assimilazione culturale al genocidio, dallo sfruttamento economico alla distruzione ambientale. Fra la fine degli anni Sessanta e i primi anni Settanta oltre 100.000 persone sono state uccise e mezzo milione ha subito una persecuzione spietata. Negli anni Ottanta il governo cinese ha intensificato l'assimilazione culturale: milioni di contadini cinesi si sono trasferiti in questa regione cacciando gli autoctoni dalle loro terre ancestrali. Il degrado ambientale causato dall'agricoltura su larga scala è stato addebitato al nomadismo mongolo. Le nuove politiche varate nel 2000 hanno cercato quindi di sradicarlo. I programmi per "recuperare l'ecosistema delle praterie" includono la "migrazione ecologica" e il "divieto totale di pascolo del bestiame" per trasferire forzatamente l'intera popolazione di pastori mongoli dalle loro terre ancestrali alle aree urbane e agricole a maggioranza cinese. Far pascolare il bestiame è considerato un crimine. Quelli che lo fanno vengono multati e incarcerati, e naturalmente privati del bestiame, che viene confiscato. Un caso esemplare di neocolonialismo Il processo che ha trasformato la Mongolia meridionale in una colonia cinese è un caso esemplare della sinergia fra imperialismo e neocolonialismo: in questo modo il regime comunista ha distrutto una terra, la sua cultura e la sua economia. La Cina ha invaso la Mongolia meridionale nel nome della "liberazione", dopodiché ne ha scardinato il tessuto sociale ed economico nel nome dello "sviluppo". L'espansionismo di Pechino è già stato ben documentato: basti pensare al Tibet, al Turkestan Orientale (Xinjiang, la regione nordoccidentale dove si concentra la minoranza uigura), mentre il suo neocolonialismo è un fenomeno meno conosciuto. Quindi è necessario parlarne per mettere in guardia quei paesi che rischiano di essere travolti dall'imperialismo cinese. Il neocolonialismo che Pechino ha applicato nella Mongolia meridionale può essere sintetizzato in quattro fasi: sviluppo economico, trasferimento forzato della popolazione, sinizzazione (assimilazione culturale) e saccheggio delle risorse naturali. Lo sviluppo economico Negli ultimi settant'anni la Cina ha coltivato i pascoli della Mongolia meridionale con l'obiettivo di "sostenere l'economia rurale" e "aiutare i mongoli ad adottare uno stile di vita avanzato" che ovviamente era quello della maggioranza han. Quando l'orizzonte superiore dell'altopiano mongolo è stato distrutto dall'aratro cinese Pechino ha incolpato il "nomadismo arretrato" di questo degrado ambientale. Grazie allo "sviluppo" imposto dal governo centrale l'economia della Mongolia Interna è crollata e le risorse derivanti dalla pastorizia sono venute meno. Il trasferimento forzato della popolazione Il trasferimento di milioni di persone dalle altre regioni alla Mongolia Interna ha giocato un ruolo determinante nella distruzione della nostra terra. Le prime ondate erano composte in prevalenza 15


da contadini delle regioni confinanti che fuggivano dalla povertà e dalle calamità naturali. La nostra gente li accoglieva, dava loro da mangiare, bestiame e terra per nutrire le loro famiglie. Ma in pochi decenni i cinesi sono aumentati a dismisura e hanno cacciato i mongoli dalla loro terra. Quelli che opponevano resistenza venivano torturati o uccisi: un vero e proprio genocidio, anche se lento e ignorato dal resto del mondo. Le ondate successive di cinesi sono state realizzate in modo più scientifico con il sostegno del governo. L'ultima è stata organizzata con l'obiettivo di realizzare lo "sviluppo", l'urbanizzazione, il recupero dell'ecosistema e "attrarre gli investitori". Prima dell'annessione il rapporto numerico fra mongoli e cinesi era di 1 a 5, mentre dopo queste migrazioni la proporzione si è invertita, cioè 1 mongolo contro 5 cinesi.

Popoli divisi, paesi duplicati Territorio *

Samoa Tirolo (Austria)* Irlanda (Gran Bretagna)# Germania~ Corea~ Mongolia* Cina Vietnam~ Yemen# Bengala (India)# Cipro* Timor# Sudan#

Periodo 1899 1919 1921 1945-1989 1945 1947 1949 1954-1976 1967-1990 1971 1974 2002 2011

Risultato della divisione Samoa Occidentali e Samoa Americane (St.Uniti) Tirolo austriaco e Sudtirolo/Alto Adige (Italia) Irlanda e Irlanda del Nord (Gran Bretagna) Rep. Federale Tedesca e Rep. Dem. Tedesca Corea del Nord e Corea del Sud Mongolia e Mongolia Interna (Cina) Repubblica Popolare Cinese e Taiwan Vietnam del Nord e Vietnam del Sud Yemen del Nord e Yemen del Sud Bangladesh e Bengala Occidentale (India) Cipro e Repubblica turca di Cipro Nord Timor Est e Timor Ovest (Indonesia) Sudan e Sudan del Sud

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per annessione # per secessione ~per divisione imposta da altri Se si eccettuano pochi casi, dove esistono due entità geografiche – due paesi o un paese e una regione - con lo stesso nome esistono o sono esistiti dei popoli divisi. Nella maggior parte dei casi queste divisioni sono ormai consolidate e la riunificazione non rappresenta un obiettivo. La tabella riporta soltanto alcuni esempi.

Sinizzazione graduale La crescita della popolazione cinese ha consentito al governo centrale di accelerare la sinizzazione della popolazione indigena. Uno dei metodi più efficienti che il governo cinese ha adottato per assimilare la minoranza mongola è stato quello di soffocare la sua lingua madre, realizzando un vero e proprio genocidio culturale. Negli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso tutte le scuole mongole sono state chiuse. Successivamente alcune sono state riaperte, ma con programmi didattici molto limitati. All'inizio del nuovo millenio la maggior parte delle scuole rimaste sono state chiuse o convertite in scuole cinesi nell'ambito delle politiche di "migrazione ecologica" e "urbanizzazione". Secondo le statistiche, dagli anni Ottanta a oggi il numero di studenti che imparano nella lingua madre è stato ridotto dell'80%. Quindi oggi quello che ci rimane è appena 1/5 di quello che avevamo 40 anni fa. Ora, mentre scriviamo, il governo di Pechino sta progettando una tappa ulteriore, che prevede la cancellazione definitivate del mongolo dalle scuole e la sua sostitituzione con il cinese come unica lingua di insegnamento. È quello che viene chiamato il "secondo tipo di educazione bilingue", in vigore dal 1o settembre 2021. Il saccheggio delle risorse naturali Nel 2009 il governo cinese ha annunciato che la Mongolia meridionale era diventata "la base energetica della Cina". Questo ha permesso a tutte le industrie estrattive cinesi di venire nella regione. 16


La Cina è diventata una superpotenza economica grazie alle risorse naturali rubate alla Mongolia Interna e ad altre regioni occupate, ma anche grazie alla manodopera a basso costo sfruttata da 1 miliardo e mezzo di persone. Le sue ambizioni economiche sono sempre più grandi. La famigerata Belt and Road Initiative (nota in Italia come Nuova via della seta, l'iniziativa cinese per l'espansione nell'area eurasiatica, ndt) è la manifestazione più recente del suo disegno neocolonialista. Qualsiasi paese, per quanto sovrano e indipendente, dovrebbe valutare con molta attenzione gli "aiuti" e la "collaborazione" che gli vengono offerti dalla Cina, se non vuole diventare una sua colonia de facto come è accaduto alla nostra terra.

La realtà politica e culturale della Mongolia Interna ha ispirato numerosi film, alcuni dei quali sono stati tradotti in italiano. Da sinistra: Urga – Territorio d'amore (1991), Il matrimonio di Tuya (2006), Behemoth (2015), L'ultimo lupo (2015), ispirato al romanzo di Jiang Rong Il totem del lupo (2004).

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Decolonizzazione senza libertà Alessandro Michelucci

La decolonizzazione, secondo l'Enciclopedia Treccani, è il "processo attraverso cui un territorio sottoposto a regime coloniale acquista l'indipendenza politica, economica e tecnologica dal paese excolonizzatore. In particolare, il processo storico, iniziato con la Seconda guerra mondiale e proseguito negli anni 1970, che ha portato alla dissoluzione dell'assetto coloniale imposto alla quasi totalità dell'Africa, a buona parte dell'Asia e a territori delle Americhe". La definizione è sostanzialmente corretta, ma oggi appare incompleta, perché i profondi mutamenti geopolitici che sono avvenuti successivamente hanno trasformato radicalmente la sostanza della decolonizzazione. Da una parte, molti paesi hanno conservato colonie sparse in varie parti del mondo, tanto è vero che esistono ancora la Polinesia "francese", le Samoa "americane", etc. Dall'altra, lo stesso termine colonia è caduto in disuso, dato che la sostanza è stata occultata dietro espressioni pudiche come "territorio fiduciario" e "territorio d'oltremare". Nel 1946 la Nuova Caledonia era iscritta nella lista dei territori da decolonizzare, ma bastò che la nuova Costituzione la definisse appunto "territorio d'oltremare" perché l'arcipelago melanesiano fosse tolto da quell'elenco. In tempi più recenti è stata la Cina a realizzare una versione inedita del fenomeno: la decolonizzazione senza libertà. Due ex colonie, Hong Kong e Macao, sono state riunite al paese asiatico, del quale avevano fatto parte in precedenza. Hong Kong si compone di tre parti distinte: l'isola di Lantau, scarsamente popolata; la penisola di Kowloon, dove vive la maggior parte della popolazione; l'isola di Hong Kong propriamente detta, sede del potere politico e finanziario. Cinese dal 220 a. C., poi britannico dal 1841, il territorio viene occupato dal Giappone durante la Seconda guerra mondiale. Dopo la fine del conflitto torna sotto il dominio di Londra, dove rimane per oltre mezzo secolo, senza essere interessato dalla decolonizzazione postbellica. Dopo la nascita della Repubblica Popolare Cinese (1949) Hong Kong diventa il rifugio di molti dissidenti che cercano di sfuggire alla repressione maoista. Al tempo stesso molte aziende cinesi spostano quì la propria attività. Fra gli anni Cinquanta e Sessanta l'espansione del settore manifatturiero innesca una rapida industrializzazione. Crescono la popolazione e il tenore di vita. Progrediscono poi altri settori, in particolare il terziario. Il sistema sanitario, ispirato a quello britannico, si dota di strutture moderne ed efficienti. Il ritorno alla Cina "Arricchirsi è glorioso": con queste parole, pronunciate nel 1979, il leader cinese Deng Xiao Ping inaugura la svolta radicale che conferirà al paese asiatico un prestigio economico di livello planetario. Intanto Hong Kong si è affermata come una delle potenze economiche asiatiche più dinamiche insieme a Corea del Sud, Singapore e Taiwan (le cosiddette "tigri asiatiche"). Il suo ritorno alla madrepatria occupa quindi un posto centrale nella nuova strategia economica di Pechino. Nel 1984 Cina e Gran Bretagna firmano un'intesa che fissa il trasferimento della sovranità alla prima. L'accordo, che entra in vigore il 1o luglio 1997, stabilisce che Hong Kong diventi una regione amministrativa speciale, conservando le proprie leggi e un'autonomia per almeno 50 anni. Resterà in vigore anche l'economia di mercato, secondo la formula "un paese, due sistemi". Autonomia, ma soltanto sulla carta Due anni dopo, nel 1999, torna alla Cina anche Macao, colonia portoghese. La minuscola penisola (33 kmq) viene dotata di un'autonomia analoga a quella dell'ex colonia britannica, ma si diffe18


renzia nettamente per un minor rilievo economico e per una linea politica molto più allineata a Pechino. Questa differenza si manifesta fin dall'inizio. Anson Chan, Primo segretario di Hong Kong (di fatto il numero due del potere locale), si mette in luce per la sua strenua difesa della libertà di espressione, rivendicando al tempo stesso una vera autonomia da Pechino. Osteggiata dal potere centrale, la donna è costretta a dimettersi nel 2001. La vexata quaestio dell'autonomia torna d'attualità due anni dopo, quando viene discussa la legge per attuare l'articolo 23 dello statuto regionale, che prevede una forte limitazione della libertà di espressione. La grande contestazione popolare induce le autorità ad accantonare la legge. Negli ultimi anni le proteste riprendono conquistando ampia visibilità mediatica. Il 2011 segna l'avvio di nuove proteste, dove giocano un ruolo decisivo i giovani. Emerge la figura di Joshua Wong, appena quindicenne, fondatore insieme ad altri del movimento Scholarism. Questo guida le proteste popolari dell'anno successivo, dirette contro l'adozione di un nuovo curriculum scolastico che riafferma il ruolo centrale del partito unico cinese. Fra i manifestanti si notano anche esponenti delle minoranze oppresse dal regime cinese, come gli Uiguri dello Xinjiang. Le nuove proteste popolari Fra il 2019 e il 2020 hanno luogo nuove proteste popolari. Stavolta i dissidenti avanzano cinque richieste precise, fra le quali il suffragio universale, l'amnistia per i dimostranti arrestati e il ritiro della legge che permette l'estradizione dei latitanti nella Cina continentale. Questa è l'unica richiesta che viene soddisfatta. La situazione rimane incerta e tesa per la crescente militarizzazione disposta da Pechino. La situazione si complica all'inizio del 2020, quando scoppia la pandemia di COVID-19. Ma l'impatto è molto contenuto. L'esperienza maturata nel 2003 con la SARS costituisce un vantaggio notevole. Tanto è vero che la popolazione si dimostra particolarmente disciplinata e adotta le precauzioni necessarie prima ancora che queste vengano imposte ufficialmente. Il crepuscolo dell'autonomia Poco dopo il governo cinese decide di adottare la maniera forte: il 30 giugno 2020 Xi Jinping firma la legge sulla "sicurezza nazionale", che ha lo scopo di "controllare attività sediziose e secessioniste". Il concetto "un paese, due sistemi", e quindi l’autonomia, sembra condannato a tramontare. Ma la resistenza non si arrende. Nelle prime settimane del 2021 otto attivisti che hanno optato per l'esilio lanciano un documento, la Carta di Hong Kong del 2021, per mobilitare tutti gli hongkonghesi, compresi quella della diaspora, sparsi in varie parti del mondo.

Ombrelli e girasoli Negli ultimi anni i movimenti che si battono contro la logica repressiva di Pechino hanno cercato di unire le forze. Un'alleanza importante è quella fra i ribelli di Hong Kong, che spesso hanno usato gli ombrelli per difendersi dalla polizia, e il movimento dei girasoli di Taiwan. Dopo varie iniziative comuni, nel 2020 l'alleanza è venuta meno in seguito alla linea dura che la Cina ha adottato contro i ribelli di Hong Kong. Altre proteste comuni sono state promosse da tibetani, uiguri e mongoli. Anthony Gordon

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Spiragli europei per Taiwan Owen Howells

Nel marzo del 2021 la Lituania si è aggiunta al gruppo di stati europei che si stanno inserendo nel lungo contrasto politico fra la Cina e Taiwan, schierandosi più o meno nettamente a favore del secondo paese. Questo potrebbe significare che l'influenza cinese è destinata a diminuire, quindi Pechino ha reagito con molta irritazione. Tutto è nato quando il paese baltico ha annunciato l'intenzione di aprire un ufficio di rappresentanza a Taipei, gemellata con Vilnius dal 1998, per contrastare la crescente infuenza cinese nella regione. Non solo, ma nel testo dell'accordo si legge che uno degli obiettivi del governo lituano è quello di difendere "tutti coloro che si battono per la libertà, dalla Bielorussia a Taiwan". La Lituania ha assunto questa posizione proprio mentre molti altri paesi iniziavano a criticare apertamente il regime di Pechino, accusandolo di realizzare un genocidio nello Xinjiang, di soffocare i moti democratici a Hong Kong e di assumere un ruolo politico ed economico pericoloso. Può sorprendere che un paese come la Lituania sfidi un gigante come la Cina, dimostrando un coraggio che i potenti paesi occidentali non hanno mai avuto, anche se la sua ricerca di legami più stretti con Taiwan non era del tutto immprevedibile. Questa è una storia che ha radici molto profonde. La nascita della Repubblica Popolare Cinese ha oscurato gradualmente il rilievo politico dell'isola, ma questo non le ha impedito di usare le proprie armi diplomatiche, culturali ed economiche per farsi degli alleati in varie parti del mondo. Soprattutto in quei paesi che diffidano dei regimi comunisti perché hanno vissuto mezzo secolo sotto il giogo sovietico. La Lettonia, per esempio, ha stabilito relazioni semidiplomatiche con Taiwan, ospitando a Riga l'ufficio di rappresentanza economica e culturale di Taipei nonostante le proteste cinesi. In effetti, è stato solo il congelamento delle relazioni di quest'ultima con la Lettonia nel 1994 a convincere il governo dell'epoca a riconoscere entrambi i paesi. Taiwan ha ripagato questa apertura inviando in Lettonia 70.000 mascherine all'inizio della pandemia. Anche in quei paesi che non hanno una rappresentanza ufficiale taiwanese si possono vedere i frutti degli sforzi di Taipei per migliorare le relazioni economiche con quei paesi dove non ha una rappresentanza ufficiale. Uno di questi è l'Estonia, dove è attivo un gruppo parlamentare che all'inizio del 2021 ha chiesto a Pechino di non interferire nei rapporti fra i due paesi, sottolineando i loro "legami culturali, scientifici ed economici" e descrivendo Taiwan come una "società altamente sviluppata e progressista". Anche se manca un riconoscimento ufficiale, sembra evidente che l'Estonia voglia fare di Taiwan un vero e proprio partner privilegiato, come rilevano numerosi osservatori. Nei Balcani si è combattuta a suo tempo la battaglia fra Cina e Taiwan per il seggio all'ONU, con l'Albania di Enver Hoxha che ha perorato strenuamente la causa di Pechino. Nel 1999 Taipei ha offerto a Tirana aiuti per un miliardo di dollari in cambio del riconoscimento reciproco, un'offerta rifiutata soltanto perché Pechino ha garantito a Tirana alcuni investimenti legati alla Belt and Road Initiative. Anche la Macedonia del Nord e il Kosovo hanno ricevuto aiuti taiwanesi. La prima ha mantenuto relazioni diplomatiche con Taipei dal 1999 al 2005 sperando di ottenerne altri. Anche in questo caso le relazioni sono cessate perché la Cina ha proposto investimenti più allettanti. Diverso è il legame col Kosovo. A questo paese Taiwan non ha offerto soltanto consistenti aiuti economici, ma è stato anche il primo paese asiatico a offrire il riconoscimento. La Cina, al contrario, ha sempre rifiutato di riconoscere il Kosovo per rafforzare le proprie relazioni con la Serbia, più importante in termini strategici. Così il piccolo stato balcanico è rimasto una delle poche aree europee veramente libere dall'influenza di Pechino. Questo ha aperto la porta agli investimenti taiwanesi, ma finora la speranza di futuri accordi commerciali con l'altro paesei ha impedito il riconoscimento reciproco. Mentre paesi come la Serbia hanno visto in Pechino un partner commerciale 20


indispensabile, raccogliendo i frutti degli investimenti cinesi e più recentemente quelli derivanti dalla "diplomazia dei vaccini", molti altri sono ancora liberi dalla sua influenza. La Romania non solo ha impedito che il paese si inserisse nei suoi settori economici fondamentali, ma ha anche rifiutato di inviare una delegazione all'iniziativa 17+1, il progetto di Xi Jinping per l'espansione nell'Europa centro-orientale. Bucarest non è stata l'unica a disertare il vertice del 2021, perché anche gli stati baltici, la Bulgaria e la Slovacchia hanno declinato l'invito. Anche se la pandemia può aver influito sul suo comportamento, il governo romeno non ha nascosto la propria insofferenza per il tentativo cinese di imporsi nella regione, paragonando il paese asiatico alla vecchia URSS.

Né con Mao né con Chiang: la terza via di Peng Ming-min Nel 1949 Mao annuncia la nascita della Repubblica Popolare Cinese, che soppianta la repubblica guidata da Chiang-Kai Shek. Quest'ultimo, leader degli anticomunisti, lascia il paese e si stabilisce su Taiwan coi suoi sostenitori. Qui instaura un regime dispotico e corrotto che durerà quarant'anni (il cosiddetto Terrore bianco). La repressione degli oppositori è spietata. Fra questi emerge la figura di Peng Ming-min. Nato nel 1923, Peng compie gli studi accademici all'Università di Tokyo. Alla fine della guerra, mentre si reca a Nagasaki per visitare il fratello, viene ferito e perde il braccio sinistro. Poco dopo assiste al bombardamento atomico che distrugge la città. Docente accademico, esperto autorevole di diritto aeronautico, nel 1964 Peng elabora con altri due dissidenti un manifesto politico dove espone le proprie idee politiche: il rovesciamento del regime militare e l'instaurazione di un governo democratico. I tre vengono arrestati prima di riuscire a diffonderlo. Peng viene processato e condannato a otto anni di prigione, ma l'eco internazionale del suo caso induce il regime a scarcerarlo mettendolo agli arresti domiciliari. Il sistema di controllo è così oppressivo che nel 1970 la sezione svedese di Amnesty International lo aiuta a lasciare l'isola. Il dissidente ottiene un passaporto falso che gli permette di raggiungere la Svezia, dove riceve asilo politico. Successivamente emigra negli Stati Uniti e riprende l'insegnamento universitario. In questo periodo scrive la propria autobiografia, A Taste of Freedom. Il suo pensiero politico si oppone alla dittatura maoista come al nazionalismo del Kuomintang, il partito di Chiang-Kai Shek, che rivendica l'intera Cina: un obiettivo assurdo. Peng Ming-min propone un'alternativa intelligente: l'esistenza di due paesi distinti, Cina e Taiwan, senza che nessuno avanzi rivendicazioni territoriali nei confronti dell'altro. Nel 1988, con la fine della dittatura, il paese si incammina verso la democrazia. Alcuni anni dopo il dissidente ritorna in patria, dove viene accolto trionfalmente da una folla di sostenitori. Negli anni successivi milita attivamente nel Democratic Progressive Party, sostanzialmente affine alle sue idee politiche. Antonella Visconti

Naturalmente Taiwan continua ad avere spazi di manovra molto ridotti. La Lettonia e la Lituania sono gli unici paesi a mantenere relazioni semidiplomatiche con Taipei. Ma molti governi cercano di liberarsi gradualmente dal controllo politico e economico della Repubblica Popolare Cinese, quindi Taiwan potrebbe essere un partner commerciale alternativo. In cambio, la regione potrebbe essere il biglietto di Taipei verso il riconoscimento internazionale. 21


La sindrome austriaca Il termine tedesco Anschluss (connessione, collegamento) è entrato nel vocabolario corrente di molte lingue, compreso l’italiano, per indicare un evento storico preciso: l’annessione dell'Austria da parte della Germania nazionalsocialista, che avvenne il 12 marzo 1938. L’obiettivo di Adolf Hitler era quello di riunire i due popoli germanofoni in una "Grande Germania", in ossequio al motto Ein Volk, ein Reich, ein Führer: "Un popolo, un impero, un capo". La Cina persegue un obiettivo analogo nei confronti di Taiwan, anche se data la sua astuzia diplomatica non si è mai espressa con toni così minacciosi. Inoltre la sua affermazione come potenza economica di livello mondiale ha indotto il resto del mondo a chiudere entrambi gli occhi per non compromettere i proficui rapporti economici con Pechino. Ma la sua logica imperialista è evidente. Dopo aver annesso la Mongolia meridionale, lo Xinjiang e il Tibet, Pechino ha acquistato la sovranità su territori che non avevano mai fatto parte della Repubblica Popolare Cinese: Hong Kong e Macao. Oggi, potenza economica di livello planetario, può puntare alla tappa successiva: Taiwan. La Cina rivendica il piccolo arcipelago con motivazioni storiche inconsistenti: Taiwan, ex colonia giapponese (1895-1945), ha fatto parte dell'ONU dal 1945 al 1971, anno in cui ne è stata estromessa per essere sostituita dalla Cina maoista, della quale non aveva mai fatto parte. Sarebbe come se l'Austria rivendicasse i territori dell'ex impero asburgico o come se i Paesi Bassi volessero annettere il Belgio. A conferma di tutto questo, la potenza asiatica ha sempre trattato il caso di Taiwan come una "questione interna", perché non esiste nessun documento al quale può appellarsi per far valere la propria pretesa territoriale. Il fatto che la pandemia abbia monopolizzato l'attenzione dei media e della politica ha ridotto ulteriormente la possibilità che Taiwan ricevesse l'attenzione che meritava: "Don't let Taiwan fight for democracy alone" (Non lasciate che Taiwan combatta per la democrazia da sola), si legge spesso nelle proteste dei taiwanesi che rifiutano di vivere sotto la costante minaccia dell'annessione cinese. Ma in questa contesa che oppone una grande dittatura a una piccola democrazia la "comunità internazionale" ha già deciso da che parte stare. In ogni caso lo status internazionale di Taiwan resta unico al mondo: il paese ha rapporti diplomatici con vari stati, puntualmente criticati da Pechino per questi legami. Ma soprattutto, il veto cinese gli impedisce di aderire alle Nazioni Uniti e ad altri consessi internazionali. Alessandro Michelucci

Manifestazione taiwanese contro le pretese territoriali cinesi.

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Un piano per cancellare le minoranze Bertil Lintner

L'obiettivo ufficiale di Pechino è quello di sradicare la povertà nelle aree abitate dalle minoranze, dando alla popolazione nuove competenze professionali affinché possa svolgere lavori più remunerativi e migliorare il proprio tenore di vita. Questi "programmi di formazione professionale", già attuati nei campi di concentramento per uiguri situati nello Xinjiang occidentale, sono stati recentemente applicati anche in Tibet. Ma le dichiarazioni ufficiali dimostrano chiaramente che non si tratta soltanto di educare i "lavoratori rurali in esubero" nelle aree abitate delle minoranze che Pechino considera "arretrate". I documenti governativi sulla "riduzione della povertà", ampiamente citati dalla Jamestown Foundation di Washington, dicono che la Cina deve "smettere di allevare persone pigre", e questo può essere fatto solo con una "rigorosa gestione in stile militare" del processo di formazione professionale. Secondo questi documenti, il programma mira anche a "ridurre l'influenza negativa della religione". Coloro che vengono reclutati - spesso con la forza, secondo i parenti espatriati intervistati da Asia Times - vengono indottrinati affinché rifuggano il "pensiero arretrato" e costretti a imparare la "disciplina del lavoro". Inoltre devono migliorare la conoscenza del cinese e imparare le leggi statali. In Tibet come nello Xinjiang la campagna di "alleviamento della povertà" di Xi Jinping mira a trasformare la Cina in un "unico stato-nazione", una spinta che secondo sinologi e altri osservatori contrasta nettamente con la relativa tolleranza della diversità culturale applicata fino a poco tempo fa. Accanto alla maggioranza han, che costituisce il 92% della popolazione, la Costituzione riconosce 55 minoranze etniche. Il governo cerca di affermare una giacobina identità pancinese conosciuta come zhonghua, mentre la lingua han, o mandarino, prima nota come hanyu, è diventata guoyu, la "lingua nazionale". Il banco di prova di questa nuova politica centralista è stata la regione autonoma dello Xinjiang, abitata da circa 25 milioni di persone, tra cui uiguri, kazaki, tagiki e altri gruppi turcomanni e nota per la sua ostilità nei confronti del governo centrale. Nel luglio del 2019 il Consiglio di Stato ha pubblicato un libro bianco intitolato Questioni storiche sullo Xinjiang, dove si legge che questa provincia è stata "a lungo una parte inseparabile del territorio cinese" e che gli uiguri della regione "si sono formati attraverso un lungo processo di migrazione e integrazione". Sono "parte della civiltà cinese" e "l'Islam non è né la religione autoctona né l'unica", si legge sul libro. Nei campi professionali gli uiguri vengono sinizzati e costretti a mangiare carne di maiale e a bere alcol contro il loro credo religioso per celebrare il nuovo anno lunare cinese. Ora l'attenzione di Pechino si è rivolta ai tibetani, in prevalenza buddisti, che secondo la linea politica ufficiale devono diventare parte della grande famiglia cinese e lasciare il tradizionale stile di vita seminomade basato sul pascolo. I "lavoratori" tibetani rinchiusi nei campi vengono costretti a rinnegare la propria identità culturale "arretrata". Inoltre, l'educazione bilingue è stata sostituita da scuole che insegnano soltanto in cinese moderno. Come ha scritto lo studioso James Millward sul New York Times, "coloro che si battono per l'insegnamento della lingua uigura e tibetana sono stati perseguitati" con arresti e minacce. Nel frattempo, i programmi in lingue diverse dal cinese stanno scomparendo dai canali televisivi ufficiali, a dimostrazione che c'è solo una lingua, una nazione e un'identità nella Cina di Xi. Tibet e Xinjiang sono tradizionalmente le regioni più combattive della repubblica, con vari movimenti che chiedono l'indipendenza da Pechino. Le nuove direttive vengono quindi introdotte con più forza in quelle regioni, con campi di internamento e trasferimenti di popolazione in altre par-ti del paese. La prima vittima di questa nuova politica centralista è stata la regione "autonoma" dello Xinjiang. 23


Abitata da circa 25 milioni di persone tra cui uiguri, kazaki e altre minoranze turcomanne, questa regione è nota per la sua insofferenza nei confronti del governo centrale. Nel luglio 2019 il Consiglio di Stato cinese ha pubblicato un libro bianco intitolato Questioni storiche riguardanti lo Xinjiang, dove si legge che lo Xinjiang è "una parte inseparabile del territorio cinese" e che gli uiguri della regione "si sono formati attraverso un lungo processo di migrazione e integrazione". Sun Yat-sen, il fondatore della repubblica cinese, cercò senza successo di realizzare una "unione di nazionalità" che comprendesse Han (i cinesi propriamente detti), Manciù, Mongoli, Tibetani e Uiguri. All'inizio i comunisti di Mao Zedong erano ancora più indulgenti quando si trattava della questione delle minoranze etniche. La "costituzione statale" del Partito Comunista Cinese (PCC) del 1931 stabiliva "il diritto all'autodeterminazione delle minoranze nazionali in Cina, il loro diritto alla completa separazione dalla Cina e alla formazione di uno stato indipendente per ogni minoranza nazionale". "Tutti i mongoli, i tibetani, i Miao, gli Yao, i coreani e gli altri che vivono sul territorio della Cina godranno del pieno diritto all'autodeterminazione, cioè potranno unirsi all'Unione dei Soviet cinesi o secedere da essa e formare un proprio stato come preferiranno", diceva la Costituzione del 1931. Questa politica fu abbandonata appena i comunisti presero il potere e venne proclamata la Repubblica Popolare Cinese (1° ottobre 1949). Ma i diritti delle minoranze venivano ancora riconosciuti e il paese consisteva di diverse regioni e contee autonome. Secondo molti studiosi gli Han mantenevano una posizione dominante, pur lasciando spazio all'apprendimento delle lingue minoritarie e alla conservazione delle culture locali. Il concetto di zhonghua promosso da Xi Jinping modifica radicalmente tutto questo, ma al tempo stesso innesca forti resistenze, come hanno dimostrato le recenti proteste che si sono verificate in varie regioni abitate dalle minoranze. Queste potrebbero a loro volta minacciare l'unità nazionale e la stabilità dell'intera Cina. In occasione delle proteste popolari che hanno scosso la Mongolia Interna nell'estate del 2020 sono state arrestate molte persone, quasi sicuramente più di quelle dichiarate ufficialmente. Secondo il Southern Mongolian Human Rights Information Center, la principale organizzazione di dissidenti mongoli con sede a New York, "si stima che 8.000-10.000 mongoli siano stati posti sotto qualche forma di custodia dalla polizia". Il centro ha tradotto un video prodotto da Elbegdorj Tsakhia, presidente della Mongolia indipendente dal 2009 al 2017, in cui ha detto: "Non importa dove vivi, ma sei mongolo dovresti unirti a questo movimento. Senza la lingua mongola non può esistere una nazione mongola". Il numero esatto di uiguri detenuti nei campi di concentramento non è noto, ma la BBC, sulla base di alcune immagini satellitari, ha affermato che potrebbero essere centinaia di migliaia. Le associazioni per per i diritti umani come Amnesty International e Human Rights Watch hanno stimato che potrebbero essere oltre un milione. Anche per quanto riguarda il numero dei tibetani imprigionati i dati sono ignoti. Ma la questione deve essere stata sollevata il 20 novembre 2020 da Lobsang Sangay, presidente del governo tibetano in esilio con sede in India, quando è stato ricevuto alla Casa Bianca da Donald Trump. Alcuni esperti hanno interpretato questo incontro come un sostegno degli Stati Uniti al movimento per l'indipendenza del Tibet. L'ultimo incontro fra un capo di stato americano e un presidente americano e un leader tibetano era avvenuto nel 1959, ben prima che Washington avesse riconosciuto la Repubblica Popolare Cinese (1o gennaio 1979). Il Global Times, quotidiano controllato dal Partito Comunista, ha criticato duramente l'incontro, scrivendo che "l'organizzazione dell'incontro da parte di Washington rappresenta una grave interferenza negli affari interni della Cina e mina gli interessi nazionali della Cina". Un successivo articolo del 22 novembre ha collegato l'incontro ad altre iniziative "anticinesi" di Washington. Xi Jinping si sta affermando come il leader più potente che la Cina abbia avuto dai tempi di Mao Zedong, il fondatore del PCC, e del defunto riformatore Deng Xiaoping, che ha lanciato il paese sulla strada del capitalismo. Ma potrebbe anche giocare con il fuoco nel suo tentativo di creare una Cina uniforme, senza il minimo spazio per le minoranze. "Il suo sogno di egemonia politica e culturale non solo è contrario al tradizionale rispetto cinese per la diversità", ha scritto lo storico James Millward. "Il suo assimilazionismo rischia anche di innescare l'instabilità che il PCC ha sempre cercato di scongiurare". 24


Se il lupo guarda le pecore Secondo un'idea radicata che ha resistito a lungo, l'ONU sarebbe nata per garantire la pace mondiale. Oggi, al contrario, nessuna persona in buona fede può restare attaccata a uno stereotipo che è stato largamente contraddetto dai fatti. Del resto, il massimo organismo sovranazionale ha un vizio d'origine. Essendo stato fondato da due grandi potenze – Gran Bretagna e Stati Uniti – l'ONU non poteva che garantire i loro interessi e quelli dei paesi allineati, definiti a seconda dei casi "occidentali" o addirittura "comunità internazionale". A questo si è aggiunta l'inerzia più o meno colpevole di molti segretari generali. Durante la guerra del Biafra (1967-1970) il funzionario dell'epoca, U Thant, si distinse per l'indifferenza con la quale affrontò una tragedia umanitaria che aveva coinvolto gran parte del pianeta: perfino il dittatore portoghese Antonio Salazar era intervenuto per aiutare gli igbo massacrati dall'esercito nigeriano e dai suoi alleati. Nello stesso periodo l'ONU accettò senza fare una piega il risultato del referendum truccato (1969) col quale l'Indonesia si era impadronita di Papua Occidentale: un migliaio di persone erano state costrette a "votare" con la pistola alla tempia. Kofi Annan, responsabile di numerosi fallimenti (Bosnia, Ruanda, Timor Est) è stato perfino insignito del Premio Nobel per la pace... Ma dato che al peggio non c'è mai fine, in tempi più recenti le Nazioni Unite sono riuscite a superare se stesse con una mossa che è rimasta sommersa dalla (troppa) attenzione mediatica per la pandemia. Il 13 ottobre 2020 il Consiglio dei diritti umani dell'ONU ha accolto fra i nuovi membri la Cina, che secondo il comunicato ufficiale del Palazzo di Vetro possiede "i più alti standard nella promozione e protezione dei diritti umani". Non sappiamo davvero come commentare parole simili. Fra i 47 membri dello stesso organismo troviamo stati universalmente noti per il loro rispetto dei diritti umani, come Indonesia, Russia e Venezuela. Ma… se ci sbagliassimo noi? Se la Cina, che fra l'altro ospiterà le Olimpiadi invernali del 2022, fosse davvero il paradiso della tolleranza e del rispetto? Del resto, è quanto si legge in un libro recente, La Cina e la protezione mondiale dei diritti umani. Sforzo propositivo e impegno sinergico per un XXI secolo dei diritti (Anteo, 2021), di Zhang Yonghe. Con esemplare coerenza, lo stesso editore ha pubblicato due libri che inneggiano alla Bielorussia, ultimo relitto del sistema sovietico, e altri due che dipingono lo Xinjiang come una sorta di paradiso terrestre. Giovanna Marconi

Protesta organizzata a Ulan Bator, capitale della Mongolia, per difendere i diritti linguistici della minoranza mongola della Cina. Foto: EPA-EFE

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Imperialismo culturale 2.0 Antonella Visconti

Parlando della Cina nel 2021 è quasi obbligatorio accennare alla pandemia. Naturalmente non possiamo scendere nei dettagli epidemiologici della questione, che voci molto più autorevoli della nostra trattano quotidianamente sui media. Quello che ci sembra necessario rimarcare, invece, è l'assurdità della sinofobia innescata dalla pandemia, mentre si trascura un fenomeno molto più aggressivo e preoccupante: l'espansionismo politico-culturale della Cina. Il paese asiatico, cogliendo le opportunità offerte dal declino degli Stati Uniti, si sta attrezzando ormai da tempo per creare nuovi spazi di egemonia. Uno dei più importanti, ma finora poco noti, è quello costituito dall'Istituto Confucius, una rete di organismi che ovviamente non ha niente a che fare con lo studio del confucianesimo. Gestita dall'ufficio governativo per l'insegnamento del cinese come lingua straniera (Hanban), in teoria questa ha come obiettivo quello di "promuovere la lingua e la cultura cinese attraverso la collaborazione fra strutture cinesi e strutture locali". Alcuni frutti sono già visibili, dato che nel mondo sono oltre 100 milioni le persone che imparano questa lingua. Il primo di questi organismi non è nato in Cina, ma a Seul. Oggi ne esistono 154 sparsi in tutto il mondo (tutti i dati sono dell'aprile 2020). Il paese dove questa istituzione si è radicata maggiormente sono gli Stati Uniti. Nella federazione nordamericana sono attive 103 sedi, molte delle quali sono nate all'interno dei campus universitari. Numerosi atenei hanno sottoscritto accordi di collaborazione con omologhi cinesi perché questo "arricchisce la loro offerta accademica nel secondo paese più grande del mondo e una delle civiltà più antiche del mondo". Ma la cooperazione non è sempre agevole. Gli atenei cinesi impongono ai docenti di evitare ogni riferimento alle cosiddette "3 T" (Taiwan, Tibet e Tienanmen), mettendo di fatto la museruola alla tanto celebrata "libertà americana". Comunque non tutti accettano questa limitazione: l'Università di Chicago ha già chiuso l'istituto a causa della "mancanza di libertà accademica e trasparenza". Anche in Europa l'iniziativa riscuote grande successo: 29 istituti i Gran Bretagna, 19 in Germania, 17 in Francia, 13 in Italia. Molti docenti, comunque, hanno contestato i limiti imposti dagli accordi. Allo stesso modo, varie università hanno evidenziato che dietro la "promozione della cultura cinese" si nascondono i progetti politici del regime. Anche l'Africa e l'Europa centro-orien-tale sono aree dove Pechino cerca di estendere la propria influenza. Nel continente nero vengono allevati dei quadri dirigenti "afrocinesi" con generose borse di studio: nel 2003 gli studenti erano 1600, nel 2018 erano diventati quasi 82000. La Cina non potrà mai imporre all'Europa l'egemonia culturale che le hanno imposto gli Stati Uniti. La sua lingua e la sua musica, per esempio, non diverranno mai parte del nostro immaginario collettivo. Quindi deve usare altri strumenti per poter realizzare la propria egemonia economica. Ed è proprio quello che sta facendo, aiutata dal silenzio dei media e dalla condiscendenza colpevole di molte università. Ma tornando alla pandemia, potrebbero essere proprio le responsabilità cinesi nella diffusione del contagio a compromettere questa strategia imperialista del ventunesimo secolo. 26


Bibliografia CINA Laogai Research Foundation Italia, I Laogai cinesi. I lager del terzo millennio, 2011. Li X., Shan P. F. (a cura di), Ethnic China: Identity, Assimilation, and Resistance, Lexington Books, Lanham (MD) 2015. HONG KONG Dapiran A., City on Fire: The Fight for Hong Kong, Scribe UK, Melbourne-London 2020. Ho M., Challenging Beijing's Mandate of Heaven: Taiwan's Sunflower Movement Kong's Umbrella Movement, Temple University Press, Philadelhia (PA) 2019. Wong J., Noi siamo la rivoluzione. Perché la piazza può salvare la democrazia, Feltrinelli, Milano 2020. MONGOLIA INTERNA Haiying Y., Genocide on the Mongolian Steppe: First-Hand Accounts of Genocide in Southern Mongolia during the Chinese Cultural Revolution, Volume I, Xlibris, Bloomington (IN) 2017. Sneath D., Changing Inner Mongolia: Pastoral Mongolian Society and the Chinese State, Oxford University Press, Oxford 2000. TAIWAN AA. VV., Formosana. Histoires de démocratie à Taiwan, L’Asiathèque, Paris 2021. Sarcletti D., Taiwan nella politica internazionale, Booksprint, Romagnano al Monte (Salerno) 2019. TIBET Bucciarelli F., Operazione Shadow Circus: La resistenza armata in Tibet 1952-1972, Mattioli 1885, Fidenza (Parma) 2013. Buldrini C., Lontano dal Tibet. Storie da una nazione in esilio, Lindau, Torino 2006. Dalai Lama, Il mio Tibet libero. Un appello di umanità e tolleranza, Urra, Milano 2008. Maraini F., Segreto Tibet, Corbaccio, Milano 1998. Norbu N., Viaggio nella cultura dei nomadi tibetani, Shang Shung, Arcidosso (Grosseto) 1995. Pföstl E., La questione tibetana. Autonomia non indipendenza: una proposta realista, Marsilio, Venezia 2009. Woeser T., Forbidden Memory: Tibet during the Cultural Revolution, Potomac Books, Lincoln (NE) 2020. XINJANG AA. VV., Voiced and Voiceless in Xinjiang: Minorities, elites, and narrative constructions across the centuries, "Asian Ethnicity", XXII, 1, 2021. Haitiwaji G., Morgat R., Sopravvissuta a un gulag cinese. La prima testimonianza di una donna uigura, ADD, Torino 2021. Kadeer R., Cavelius A., La guerriera gentile. Una donna in lotta contro il regime cinese, Corbaccio, Milano 2009. Roberts S. R., The War on the Uyghurs: China's Internal Campaign Against a Muslim Minority, Princeton University Press, Princeton (NJ) 2020. Sauytbay S., The Chief Witness: Escape from China's Modern-Day Concentration Camps, Scribe UK, MelbourneLondon 2021. a

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Nuovi spazi politici per i popoli indigeni Giovanna Marconi

Fra il 2020 e il 2021 l'attenzione dei media si è concentrata sulla pandemia. Una scelta comprensibile, anche se in Italia si è trasformata in una monomania, oscurando molti avvenimenti di rilievo. Fra questi merita attenzione il successo politico che i popoli indigeni hanno conseguito in cinque paesi – Bolivia, Canada, Cile, Nuova Zelanda e Stati Uniti - dove altrettante donne hanno raggiunto posizioni politiche molto importanti. Questa novità appare ancora più importante se la si osserva con attenzione. Nanaia Mahuta è la prima esponente del popolo maori a diventare Ministro degli Esteri: un primato assoluto per gli indigeni del pianeta. La donna ha assunto questa carica il 2 novembre 2020, ma non si tratta del suo primo mandato politico: parlamentare in varie legislature a partire dal 1999, la donna aveva già ricoperto numerose cariche governative, fra le quali quella di Ministro degli Affari Maori nel primo governo guidato dalla laburista Jacinta Ardern (2017-2000). Il suo secondo governo, nato in seguito al successo elettorale del 17 ottobre 2020, comprende 4 maori, fra i quali Nanaia Mahuta. La sua nomina è stata accolta da reazioni contrastanti: da una parte l'ovvio entusiasmo della minoranza indigena, dall'altra le dure critiche di certi ambienti conservatori. La più esplicita è stata quella di Olivia Pierson, autrice del libro Western Values Defended: A Primer, che ha criticato aspramente il moko kauae, il tradizionale tatuaggio del mento femminile esibito dal neoministro, definendolo "rozzo e incivile per un ministro del ventunesimo secolo". Dietro tali parole si nasconde un razzismo radicato. Non è questa la sede adatta per dilungarsi sulla Nuova Zelanda, ma bisogna comunque sottolineare che il remoto arcipelago, pur essendo un frutto del colonialismo britannico, si differenzia dagli altri (Australia, Canada e Stati Uniti) per vari aspetti. Nata nel 1840, la Nuova Zelanda è il solo paese anglofono dove il documento fondativo, il Trattato di Waitangi, definisce i rapporti della Corona con la popolazione indigena. Questo non significa che le relazioni fra le due parti siano idilliache, ma nessun trattato analogo esiste negli altri paesi nati dall'espansione coloniale britannica. Gli Aborigeni australiani reclamano tuttora un trattato che definisca i loro diritti, mentre gran parte delle centinaia di trattati statunitensi e canadesi sono diventati carta straccia. Inoltre i Maori, che non hanno mai conosciuto gli orrori del genocidio, sono molto più numerosi degli indigeni che vivono negli altri paesi anglofoni: la percentuale odierna sfiora il 17%. Grazie a questo possono avere una visibilità politica ignota agli indigeni degli altri stati suddetti. Percorrendo circa 11000 km verso nordest arriviamo in Bolivia, dove gli indigeni raggiungono il 60% della popolazione. Nel 2005 era stato eletto il primo presidente indigeno, il sindacalista aymara Evo Morales. Confermato varie volte, rimasto in carica fino al 2016, Morales ha varato alcune misure che hanno ridotto drasticamente la povertà e l'analfabetismo. Negli ultimi anni della sua presidenza è stato duramente contestato, ma in ogni caso ha lasciato una Costituzione esemplare che enfatizza il carattere plurinazionale del paese, riconoscendo 36 lingue indigene accanto allo spagnolo. È grazie a questo quadro sociale che si è affermata Sabina Orellana Cruz, la sindacalista quecha che il 20 novembre scorso è diventata ministra delle Culture, della Decolonizzazione e della Depatriarcalizzazione. Il dicastero è nato con lei, che ha sottolineato l'intenzione di impegnarsi anche a favore delle donne, penalizzate da un maschilismo istituzionale plurisecolare. Debra Anne (Deb) Haaland, appartenente al popolo pueblo, è stata eletta Ministro degli Interni nel nuovo governo guidato da Joe Biden. Anche questa è una novità importante, ma Deb Haaland dovrà operare in un contesto sociale e politico molto più ostile. Diversamente da quello che accade in Bolivia e Nuova Zelanda, negli Stati Uniti i popoli indigeni – quasi unicamente indiani - godono di diritti molto limitati e costituiscono una percentuale minima della popolazione (2,1%). Di conseguenza 28


hanno un peso politico insignificante. Questo limita il loro potere di contrastare l'aggressione delle multinazionali che cercano di sfruttare i loro territori senza il minimo rispetto per le loro credenze religiose e per l'ambiente. Ma esiste anche un altro aspetto che non deve essere trascurato. Mentre in Nuova Zelanda e in Bolivia il concetto dell'indigeno che ricopre cariche istituzionali di rilievo è molto familiare, lo stesso non può dirsi negli Stati Uniti. In sostanza, il fatto che i popoli indigeni si affermino a livello istituzionale rappresenta una novità molto importante, un progresso notevole che merita di essere sottolineato. Per contro, purtroppo, Deb Haaland sembra avere davanti a sé una strada in salita che non si profila alle altre due ministre. Nell'estremo sud del continente americano è emersa Elisa Loncón, docente universitaria mapuche, che il 4 luglio 2021 è stata eletta presidente della Commissione costituzionale. In Cile, dove i Mapuche rappresentano il 10% della popolazione, è ancora in vigore la Costituzione del 1980. Questa è stata approvata con voto popolare l'11 settembre 1980, quando era ancora in vigore la dittatura militare di Augusto Pinochet. La nuova Costituzione che verrà elaborata nei prossimi mesi sarà sottoposta a referendum nel 2022. La notizia più recente è quella che riguarda Mary Simon, figura storica del popolo inuit, che il 6 luglio 2021 è stata nominata Governor General del Canada. Questa carica indica il rappresentante della regina britannica nella federazione nordamericana (il Canada, ex colonia britannica, fa parte del Commonwealth). Anche in questo caso è la prima volta che la carica viene conferita a un rappresentante indigeno. Ningiukudluk, meglio nota come Mary Simon, nata nel 1947, è una delle esponenti più importanti della minoranza artica. Ha ricoperto numerosi ruoli, sia a livello locale che internazionale. Ne ricordamo alcuni. Dal 1986 al 1992 ha presieduto la Inuit Circumpolar Conference (ICC), la principale organizzazione politica eschimese. Ha fatto parte della commissione governativa che ha definito l'autonomia di Nunavut, il territorio a maggioranza inuit che nel 1999 ha modificato la struttura federale del paese nordamericano. Ha ricoperto molte altre cariche, inclusa quella di ambasciatrice canadese in Danimarca (1999-2002).

In senso orario: Deb Haaland; Nanaia Mahuta con alcuni militanti mapuche in Cile; il quotidiano peruviano La Razón dedica la prima pagina a Sabina Orellana Cruz; Mary Simon; Elisa Loncón.

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Neville Bonner, il primo parlamentare aborigeno Dei quattro paesi nati in seguito all’espansione coloniale britannica, l'Australia è il più arretrato per quanto riguarda i diritti dei popoli indigeni. Questi vengono discriminati fin dai primi dell'Ottocento con il concetto di terra nullius: il diritto coloniale afferma che prima dell'arrivo dei britannici il paese non apparteneva a nessuno. Nei primi anni Sessanta, con varie differenze dovute alla struttura federale del paese, gli Aborigeni ottengono il diritto di voto. Alcuni anni dopo (1967) viene indetto un referendum che conferisce agli autoctoni la cittadinanza australiana: il 90% dei votanti risponde positivamente. Questi progressi creano il terreno favorevole per Neville Bonner, il primo parlamentare aborigeno, che nel 1971 viene chiamato a ricoprire un seggio vacante del Partito liberale. Nominato Australiano dell'Anno nel 1979, viene rieletto varie volte fino al 1983. Bonner è fiero delle proprie origini, ma mantiene sempre un comportamento equilibrato e non scade mai nella faziosità. In molte occasioni vota senza seguire la linea imposta dal Partito liberale. Segue con particolare attenzione la questione di Timor Est, invasa dall'Indonesia nel 1975.. Dopo aver lasciato la politica occupa varie posizioni di rilievo, entrando fra l'altro nel direttivo dell'Australian Broadcasting Corporation (la rete televisiva nazionale). Morto nel 1999 a 76 anni, viene ricordato come uno dei principali esponenti politici australiani. Antonella Visconti

Un tema di grande attualità, un'opera autorevole, un titolo che parla da solo

INDIGENOUS RESURGENCE Decolonialization and Movements for Environmental Justice a cura di Jaskiran Dhillon In molte parti del mondo i problemi dei popoli indigeni sono strettamente connessi all'ambiente. Dall'Amazzonia alla Siberia, dal Nordamerica all'Oceania, le loro battaglie costituiscono un fermento sociale e culturale che non può più essere ignorato. www.berghahnbooks.com 30


Prigionieri dell'ultima dittatura europea Alessandro Michelucci

In termini storici e culturali, Bielorussia e Polonia sono gemelli siamesi. Piotra Rudkouski, 2007 Il 23 maggio 2021 alcuni aerei militari bielorussi hanno dirottato un volo Ryanair su Minsk per arrestare il giornalista Roman Protasevich, un oppositore del regime che stava viaggiando da Atene a Vilnius. L'Unione Europea e gli Stati Uniti hanno risposto con varie sanzioni, ma al tempo stesso si sono dichiarati disponibili a sostenere economicamente una transizione democratica. Negli anni precedenti la Bielorussia aveva guadagnato più volte una certa visibilità mediatica grazie alle imponenti proteste popolari contro il governo di Aljaksandr Ryhoravič Lukašėnka, che il 9 agosto 2020 era stato eletto presidente per la sesta volta consecutiva. Le ultime votazioni, come alcune delle precedenti, hanno generato accuse di brogli. La gente è scesa in piazza per protestare, come aveva già fatto più volte negli anni scorsi. Al potere dal 1994, Lukašėnka incarna un potere autocratico, tanto che molti l'hanno definito "l'ultimo dittatore europeo". Il suo stretto legame con la Russia, sancito da un accordo del 1996, rafforza ulteriormente l'avversione dei media occidentali e dell'Unione Europea. La sistematica violazione dei diritti umani, che comprende fra l'altro la tortura e la persecuzione dei dissidenti, è stata accertata in modo incontestabile da Amnesty International e da altri organismi internazionali. Secondo l'ultimo Indice della libertà di stampa elaborato da Reporters Sans Frontières (2021) la Bielorussia è l'ultimo paese europeo e occupa il 158o posto su 180, perfino dopo Birmania/Myanmar, Russia e Turchia. Unico paese europeo dove rimane in vigore la pena di morte, la Bielorussia non è stata ancora accettata nel Consiglio d'Europa. La stampa straniera ha sottolineato più volte i tratti dittatoriali del regime di Minsk, ma ha dedicato poco spazio ai problemi delle minoranze, che si sono inserite nella protesta popolare con modalità autonome. La minoranza più numerosa del paese è quella russa (quasi 800.000 persone), ma il suo stretto legame con Mosca la pone su un piano privilegiato. Anche in termini linguistici: il russo è ufficiale accanto al bielorusso. Le due lingue, parlate dall'87% della popolazione, formano un blocco unitario che utilizza i caratteri cirillici. Questo determina un certo isolamento della minoranza polacca, la seconda del paese (circa 300.000 persone, 3,2% della popolazione), che usa l'alfabeto latino. Inoltre, diversamente dalle altre minoranze, questa è legata a un paese confinante che fa parte dell'UE. Lo stesso si può dire della piccola comunità lituana (0,1%), ma questa non esprime strutture associative capaci di creare contrasti col potere centrale. Una relazione contrastata Bielorussia e Polonia sono legate da una lunga storia comune e da un confine di 400 Km. In ciascuno dei due paesi vive una comunità legata alla maggioranza dell'altro. Nel 1991 l'URSS cessa di esistere e viene sciolto il Patto di Varsavia. In seguito a questi mutamenti epocali vengono stabilite relazioni diplomatiche fra le nuove repubbliche aderenti ai due organismi disciolti. Polonia e Bielorussia firmano un trattato di amicizia caldeggiato dal presidente polacco Wałęsa, ma i due stati si stanno già incamminando su due strade diverse. La Bielorussia, insieme alla Russia e all'Ucraina, dà vita alla Comunità degli Stati Indipendenti, che riunisce varie repubbliche ex sovietiche. La Polonia, al contrario, firma un accordo con la CEE in vista dell'adesione. In seguito alla Costituzione approvata nel 1994 la Bielorussia diventa una repubblica presidenziale. Nel luglio dello stesso anno Lukašėnka viene eletto presidente per la prima volta. 31


L'utopia sovietica del ventunesimo secolo Il nuovo capo dello Stato ha un passato che lo differenzia dagli altri presidenti delle nuove repubbliche dell'Europa centro-orientale. Nato nel 1954, Lukašėnka ha ricoperto numerosi incarichi che attestano la sua sua fedeltà verso il sistema sovietico: prima militare nelle truppe di frontiera, poi dirigente dell'Unione della Gioventù Comunista, quindi inquadrato nell'esercito e successivamente responsabile di un kolchoz (cooperativa agricola). Nel 1990 è entrato nel Consiglio supremo (Parlamento) bielorusso. L'anno successivo, quando è stato votato il trattato che segnava la dissoluzione dell'Unione Sovietica, è stato l'unico parlamentare bielorusso a esprimere un voto contrario. Oggi, nonostante siano passati trent'anni, la Bielorussia è l'unico paese europeo dove le lancette della storia sembrano essersi fermate ai tempi della guerra fredda. Ogni anno, il 9 maggio, viene organizzata nella piazza centrale di Minsk la cerimonia che ricorda la vittoria dell'URSS nella Seconda guerra mondiale. La stessa ricorrenza viene tuttora celebrata in altri paesi dell'ex URSS e dell'ex Jugoslavia, ma nessuno lo fa in modo così enfatico e imponente come la Bielorussia, che ogni cinque anni realizza anche una grande parata identica a quella che veniva organizzata nell'Unione Sovietica. Le cerimonie commemorative che si svolgono ogni anno nella capitale bielorussa non sono un'innocua espressione di folklore politico, ma si inseriscono in una precisa lettura della storia, che è rimasta sostanzialmente legata ai dogmi sovietici.

Popoli e religioni della Bielorussia RELIGIONI

POPOLI Bielorussi Russi Polacchi Ucraini Armeni Tartari Rom Lituani Azeri Altri

7.911.000 785.000 293.000 161.000 94.000 94.000 94.000 94.000 94.000 274.000

79,96 7,93 2,96 1,6 0,95 0,95 0,95 0,95 0,95 2,8

Ortodossi ortodossi Cattolici romani Protestanti Altri cristiani Atei Musulmani Buddisti Ebrei Altri

8.242.000 73.000 663.000 663.0633.000 50.000 100.000 770.000 20.000 10.000 10.000 29.000

83,3 6,7 0,5 1 7,8 0,2 0,1 0,1 0,3

Certo, i tempi dell'internazionalismo comunista sono lontani, quindi Lukašėnka sa bene che deve fare i conti con un contesto geopolitico e culturale radicalmente diverso. Ma l'eredità sovietica non è soltanto formale. Dopo un primo tentativo fallito nel 1993, Lukašėnka è riuscito a cambiare la bandiera, archiviando il tradizionale emblema bianco-rosso-bianco in uso nella Bielorussia presovietica (1918) e ripresa nel 1990. La nuova bandiera rossa e verde è stata introdotta nel 1995 in seguito a un referendum. La stessa consultazione proponeva lo status paritario per la lingua russa e l'integrazione economica con la Federazione Russa, entrambe largamente approvate dal voto popolare, anche se la validità delle elezioni è stata contestata da più parti, inclusa l'OSCE. Le manifestazioni contro il nuovo regime che iniziano nel 1996 sono l'evoluzione logica delle imponenti proteste popolari che reclamavano la bonifica delle zone colpite dalla tragedia di Chernobyl (26 aprile 1986). L'incidente nucleare ha lasciato in Bielorussia conseguenze gravissime: i radionuclidi come cesio-137, stronzio e plutonio hanno contaminato il 23% del paese, dove è ricaduto il 70% della nube radioattiva. Se il potere bielorusso è rimasto legato ideologicamente al vecchio regime, la Polonia ha fatto proprio l'inverso, perché è stato il primo paese a liberarsi dal comunismo, per giunta grazie a quella "classe operaia" (i lavoratori di Danzica) che il sistema sovietico aveva eretto a simbolo della propria battaglia politica. Ma forse quello che attesta meglio la continuità ideologica fra la vecchia Bielorussia sovietica e il potere dispotico del presidente attuale è la sua retorica antifascista goffa e anacronistica, che affonda le proprie radici nella Seconda guerra mondiale. Come vedremo più avanti, questa incide anche sui suoi rapporti con la minoranza polacca. 32


Bielorussia e Polonia, una lunga storia comune Sintesi cronologica Tredicesimo secolo Le terre dell’odierna Bielorussia si uniscono al Granducato di Lituania. 1386 Matrimonio di Jadwiga, regina di Polonia, e Jogaila, granduca di Lituania. 1569 Nasce la confederazione polacco-lituana, che comprende anche le terre dell'odierna Bielorussia. 1772 Prima spartizione della confederazione: Austria, Prussia e Russia si dividono il 30% del suo territorio. 1773 Seconda spartizione della confederazione: Prussia e Russia annettono altri territori. 1795 Terza spartizione della confederazione polacco-lituana fra Austria, Prussia e Russia. La confederazione viene meno e la Polonia scompare dalle carte geografiche. 1917 Nascita dell’Unione Sovietica. 1918 La Polonia e la Bielorussia riacquistano l’indipendenza. 1919 L'Armata Rossa invade la Bielorussia, che viene annessa dall'URSS. 1921 Il Trattato di Riga divide la Bielorussia fra la Polonia e l'URSS. 1945 Dopo la fine della Seconda guerra mondiale Gran Bretagna, Stati Uniti e Unione Sovietica fissano nuovi confini per la Polonia. La maggior parte della Bielorussia occidentale, che faceva parte della Polonia, viene restituita alla Bielorussia (quindi all'URSS), con la sola eccezione di Białystok (Belostok). La popolazione polacca viene trasferita forzatamente. 1989 Ritorno della democrazia in Polonia. 1990 Viene fondata l'Unione dei Polacchi di Bielorussia (Związek Polaków na Białorusi), che rappresenta la minoranza polacca. L'associazione non viene riconoscoiuta dal governo di Minsk. 1991 Caduta dell’Unione Sovietica. 25 agosto 1991 Nascita della Bielorussia post-sovietica. 1999 La Polonia aderisce alla NATO. 2004 La Polonia aderisce all'Unione Europea. 2005 Due dissidenti bielorussi, Stepan Putilo and Roman Protasevich, fondano Nexta, una rete televisiva con sede a Varsavia che si oppone a Lukašėnka. 7 settembre 2007 Il Parlamento polacco introduce la Karta Polaka, destinata alle persone di origine polacca che non possono ottenere la doppia cittadinanza nei paesi di residenza. Minsk la critica duramente. 10 dicembre 2007 Alcuni giornalisti polacchi e bielorussi fondano Belsat TV, la sola televisiva indipendente bielorussa, che trasmette dalla Polonia come parte della televisione di stato. 9 febbraio 2011 Il governo polacco istituisce una festività nazionale (1o marzo) per commemorare i partigiani che combatterono simultaneamente contro la Germania e contro l'URSS (i cosidetti soldati maledetti). La minoranza polacca della Bielorussia accoglie questa festività con grande soddisfazione. 9 agosto 2020 Svjatlána Tikhanóvskaya, leader dell’opposizione bielorussa, si presenta alle elezioni presidenziali, ma senza successo. 10 agosto 2020 Svjatlána Tychanóvskaja lascia il paese e si rifugia in Lituania, dove viene accolta dal governo locale. La Bielorussia chiede invano la sua estradizione. 9 settembre 2020 Tychanóvskaja incontra a Varsavia il Primo Ministro polacco Mateusz Morawiecki.

A sinistra: Andrzeika Borys, presidente dell'Unione dei Polacchi. Nel marzo del 2021 è stata arrestata e imprigionata con altri attivisti della sua associazione per "incitamento all'odio". A destra: manifesto che commemora i partigiani polacchi, antinazisti e antisovietici.

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Nemici interni Nel 1999 la Polonia diventa membro della NATO. In seguito al massimo allargamento dell'Unione Europea (2004) la Bielorussia viene a dividere i propri confini occidentali anche con i tre paesi baltici (Estonia, Lettonia e Lituania), che poche settimane prima hanno aderito alla NATO. Alla fine dello stesso anno, nella vicina Ucraina, scoppiano i moti popolari filo-occidentali guidati da Julija Tymošenko: il tradizionale legame con la Russia si sta facendo sempre più debole. Lukašėnka si sente accerchiato. In seguito a questi mutamenti i rapporti fra il governo bielorusso e la minoranza polacca subiscono un netto peggioramento. Ormai i membri della comunità polacca vengono considerati dei "nemici interni", quasi come se fossero spie di un paese nemico. Nel 2005 Tadeusz Gawin, presidente dell'Unione dei Polacchi, viene condannato a 15 giorni di carcere per aver organizzato un incontro con Donald Tusk, vicepresidente del Parlamento polacco. Un altro punto di frizione fra la comunità polacca e il governo di Minsk, come si accennava prima, riguarda la diversa valutazione degli eventi bellici. Nel 1939, in seguito al patto MolotovVon Ribbentrop, la Polonia fu invasa simultaneamente dalla Germania e dall'URSS. Diversamente da quello che sarebbe accaduto in Italia, quindi, la resistenza polacca fu al tempo stesso antinazista e anticomunista. Negli anni della Polonia comunista le organizzazioni che hanno combattuto contro i due invasori, fra le quali l'Armia Krajowa (Esercito nazionale), sono state oggetto di una persecuzione spietata. Il potere bielorusso odierno è rimasto legato a questo dogma: chi ha combattuto contro l'URSS viene considerato un nazista. Così quelli che la minoranza polacca e Varsavia considerano eroi sono dei "criminali di guerra" nel paese confinante. La legge "contro la riabilitazione del nazismo" che Lukašėnka emana nel 2021 non è altro che un attacco alla minoranza polacca. La questione della lingua La lingua polacca, discriminata e sostanzialmente rimpiazzata dal russo durante il periodo sovietico, ritrova il proprio spazio soltanto negli anni Novanta, quando il governo di Varsavia finanzia la costruzione di alcune scuole per la minoranza. Ma la sua condizione rimane incerta. La promozione del russo, ufficiale dal 1996, affianca di fatto il bielorusso, lasciando un spazio minimo alle altre lingue. Tanto è vero che molti polacchi, in pratica, usano il russo al posto della lingua madre. Nel 2016 Bielorussia e Polonia concludono un accordo relativo all strutture didattiche delle rispettive minoranze, ma il fatto che Varsavia si schieri sempre più nettamente dalla parte dei dissidenti bielorussi ha già creato una situazione sfavorevole per la minoranza polacca, così Minsk non rispetta l'accordo. Una partita a tre Il grande movimento popolare che oggi scende in piazza per dire no alla dittatura di Lukašėnka è l'erede di Solidarnosc e dei dissidenti baltici attivi alla fine del secolo scorso. Ma rispetto a loro è molto sfavorito, perché oggi non c'è un sistema in agonia come quello sovietico, non ci sono grandi mutamenti politici in atto, quindi la situazione bielorussa non turba granché il resto dell'Europa. Dai tecnocrati di Bruxelles e da gran parte dei governi europei sarebbe utopistico aspettarsi una ferma presa di posizione, ma i media e gli operatori culturali dovrebbero uscire dal loro torpore e sostenere attivamente il movimento popolare che si oppone pacificamente all'ultima dittatura europea. Questa partita a tre che oggi coinvolge soltanto tre attori – Bielorussia, Polonia e minoranza polacca – ha bisogno anche di loro. Bibliografia AA. VV., Macht statt Gewalt: Belarus: Schritte zur Freiheit, "Osteuropa", LII, 10-11, 2020. Boldrini L., Quartapelle L., Le donne di Minsk. La rivolta pacifica per la democrazia in Bielorussia, Infinito, Roma 2021. Cadoppi G., Bielorussia tra Eurasia e tentativi di rivoluzione colorata, Anteo, Cavriago (Reggio Emilia) 2020. Wierzbicki A., Polish-Belarusian Relations: Between a Common Past and the Future , Nomos, Baden-Baden 2018. Wilson A., Belarus: The Last Dictatorship in Europe, Yale University Press, New Haven (CT) 2011, n. ed. 2021.

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LA PRIMAVERA DI MINSK

Dall'alto: Aljaksandr Lukašėnka, presidente della Bielorussia; locandina del film Dangerous Acts, che racconta la storia del Belarus Free Theatre, compagnia teatrale fondata da dissidenti; Svjatlána Tychanóvskaja, candidata dell'opposizione alle elezioni del 2020, Premio Sacharov 2020, viene ricevuta a Varsavia dal Primo Ministro Mateusz Morawiecki; parata ufficiale che ricorda la vittoria dell'URSS nella Seconda guerra mondiale; il libro di Vitoli Alekseenok, direttore d'orchestra dissidente, sulle proteste popolari di Minsk; manifestazione di protesta a Minsk. Negli ultimi anni iniziative di solidarietà con i dissidenti si sono svolte a Berlino, Parigi, Varsavia e in altre città di tutto il mondo.

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Per un futuro libero dall'incubo nucleare Setsuko Thurlow

Il 24 ottobre 2020 l'ONU ha approvato il trattato sul divieto delle armi nucleari. Quello che segue è il discorso pronunciato per l'occasione da Setsuko Thurlow, sopravvissuta al bombardamento atomico di Hiroshima, attivista antinucleare storica. Il trattato è entrato in vigore il 22 gennaio 2021, anche se soltanto per i 50 paesi che l’avevano sottoscritto. In ogni caso si tratta di una conquista storica. Il trattato sulla proibizione delle armi nucleari è entrato in vigore! Questo segna l'inizio della fine dell'incubo nucleare! Quando ho saputo che era stata raggiunta la cinquantesima ratifica ho provato un'emozione fortissima, quasi non riuscivo a stare in piedi. Sono rimasta sulla mia sedia, ho messo la testa tra le mani e ho pianto di gioia. Ho dedicato la mia vita alla lotta per l'abolizione delle armi nucleari. Provo un'immensa gratitudine per coloro che si sono impegnati insieme a me per raggiungere questo obiettivo. Poi ho cominciato a parlare con gli spiriti di tante persone che avevano perso la vita a Hiroshima e Nagasaki: mia sorella, mio nipote Eiji, altri familiari, i miei compagni di classe, tutti i bambini e gli innocenti morti in quella tragedia. Li ho messi al corrente di questa buona notizia, perché dovevano essere loro i primi a conoscerla. Come molti sopravvissuti, avevo promesso che la loro morte non sarebbe stata inutile e che avrei lottato affinché nessun altro soffrisse come avevamo sofferto noi. Avevo promesso che avrei lottato per il disarmo nucleare fino al giorno della mia morte. E ora vediamo che il nostro impegno è stato coronato dal successo: il trattato sulla proibizione delle armi nucleari diventerà legge internazionale! Provo una gioia grandissima e un'enorme gratitudine per coloro che hanno lavorato con me. Non siamo soli. In tutto il mondo ci sono tante persone che condividono queste emozioni. Sono i sopravvissuti di Hiroshima e Nagasaki; quelli del Pacifico meridionale, del Kazakistan, dell'Australia e dell'Algeria; le persone colpite dalle radiazioni dell'uranio in Canada, Stati Uniti e Congo. Sono le vittime innocenti di nove potenze nucleari che continuano a sviluppare armi sempre più letali, pronte a ripetere massacri nucleari molto più devastanti della bomba atomica che ha raso al suolo la mia città natale, Hiroshima. Per tutte queste vittime l'entrata in vigore del trattato che proibisce l'uso delle armi nucleari è fonte di gioia. Celebro questo momento con i miei fratelli e sorelle di tutto il mondo che sono sopravvissuti a queste tragedie e lottano perché non si ripetano. Festeggiamo anche con tutti coloro che riconoscono l'immoralità delle armi nucleari, strumenti di violenza e di morte che hanno tenuto in ostaggio il mondo intero per questi 75 anni. Festeggiamo con la comunità degli attivisti antinucleari che si sono uniti a noi e hanno lavorato per il successo di questo trattato. Sono particolarmente grata ai miei cari amici della Campagna internazionale per l'abolizione delle armi nucleari (ICAN), che ha creato una rete internazionale capace di superare le divisioni politiche e raggiungere questo successo. Mi ha commosso vedere che il preambolo del trattato nomina espressamente gli hibakusha (sopravvissuti). Questa è la prima volta che il diritto internazionale ci riconosce chiaramente. Condividiamo questo riconoscimento con gli altri hibakusha di tutto il mondo. Inoltre, il trattato riconosce che i popoli indigeni sono stati colpiti in modo sproporzionato dalla produzione di armi nucleari. Noi hibakusha e le comunità indigene sappiamo bene che non solo l'uso bellico di armi nucleari, ma anche i test e la produzione di armi nucleari causano morte e sofferenze indicibili attraverso una contaminazione radioattiva invisibile. Il trattato riconosce che le donne e le ragazze sono più esposte agli effetti delle radiazioni, in altre parole che ci sono implicazioni di genere nella violenza radioattiva. Voglio sottolineare anche gli obblighi positivi del trattato - come l'assistenza alle vittime e la bonifica ambientale che rappresemta un dovere preciso nei confronti delle generazioni fu36


ture. Dobbiamo ricordare sempre che l'era nucleare continuerà ben oltre l'era delle armi nucleari. Dovremo contenerne gli effetti per lungo tempo. Ma oggi possiamo gioire per aver raggiunto questo traguardo. Come ho già detto, la mia gratitudine per coloro che ci hanno sostenuto è immensa. Abbiamo continuato la nostra battaglia anche se eravamo circondati dall'indifferenza. Nonostante le potenze nucleari ci ignorassero o ci deridessero. Nonostante tutti questi ostacoli siamo arrivati a questo punto: le armi nucleari sono illegali secondo il diritto internazionale! Gli abolizionisti di tutto il mondo sono incredibilmente incoraggiati e rafforzati da questo successo. Ma dobbiamo andare avanti. Dobbiamo festeggiare, ma non è il momento di rilassarsi. Il mondo continua a vivere sotto l'incubo della minaccia nucleare. Abbiamo ancora una lunga strada da percorrere prima di raggiungere il nostro obiettivo: l'eliminazione totale delle armi nucleari. Molto probabilmente non vedrò quel giorno, né lo vedrà nessuno di coloro che sono sopravvissuti alla tragedia del 1945. Ma oggi possiamo essere certi che quel bel giorno arriverà. E chi lo vivrà parlerà di noi hibakusha e di tutte le altre vittime della follia nucleare. Si ricorderà di tutto quello che abbiamo fatto e anche noi saremo lì accanto a loro, saremo parte di una celebrazione spirituale molto più grande, perché avremo raggiunto tutti, vivi e morti, il nostro obiettivo. Il trattato sulla proibizione delle armi nucleari ha aperto una nuova porta. Un nuovo capitolo della nostra lotta, nel nome di coloro che abbiamo perso e di coloro che devono ancora venire. La strada che ci condurrà alla fine dell'incubo nucleare è qui, davanti a noi. Facciamola insieme.

Le tragedie di Hiroshima e Nagasaki hanno ispirato molti artisti. Dall'alto, da sinistra: Idilio atómico y uránico melancólico (1945), di Salvador Dalí; il compositore polacco Krysztof Penderecki, autore di Threnody for the Victims of Hiroshima (1961); il film Hiroshima mon amour (1959); il romanzo Frattura (2018); il fumetto La bomba (2020); Sadako e le mille gru di carta (2020), CD dei Logos, gruppo progressive veneto.

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Biblioteca

Claus Biegert, Horst Hamm (a cura di), Atlante dell'uranio, Terra Nuova, Firenze 2021, pp. 124, €15. La maggior parte degli esperimenti nucleari realizzati fino ad oggi ha avuto luogo in territori abitati da popoli indigeni. Di conseguenza questi popoli – dalla Micronesia al Sahara, dalla Polinesia agli Stati Uniti – sono stati quelli più gravemente colpiti, come attestano disfuzioni e malattie ereditarie di vario tipo. Si tratta del fenomeno che viene definito colonialismo nucleare. Di conseguenza la lotta costante contro questa logica dovrebbe essere parte integrante dell'impegno indigenista. Purtroppo non è così, ma esistono lodevoli eccezioni che meritano attenzione. Una delle più importanti è quella che ruota attorno al giornalista tedesco Claus Biegert, organizzatore del World Uranium Hearing, lo storico convegno internazionale contro il colonialismo nucleare (Salisburgo, 14-19 settembre 1992). Da questa esperienza è nata la Nuclear Free Future Foundation, che si batte contro il nucleare dando ampio spazio ai popoli indigeni. La sua attività include un premio annuale per coloro che si distinguono nella lotta antinucleare e il recente Uranium Atlas. Versione aggiornata dell'edizione tedesca pubblicata nel 2019, arricchita da una sezione dedicata all'Italia, l'opera mostra il fitto intreccio di legami politici, economici e militari che stanno dietro l'estrazione di uranio, materia prima dell'era nucleare, e le spaventose conseguenze ambientali e umane di questa logica suicida. Oggi più che mai, chi si batte per la difesa dei popoli indigeni e dell'ambiente deve disporre di argomentazioni solide, di cognizioni tecniche e scientifiche superiori alla media, di cifre, dati e altri dettagli che gli permettano di affrontare questi temi in modo credibile e convincente. L'atlante è uno degli strumenti necessari per chi vuole andare in questa direzione. Antonella Visconti

Marianne O. Nielsen, Linda M. Robyn, Colonialism is Crime, Rutgers University Press, New Brunswick (NJ) 2019, pp. 276, $29.95/$120.00. Il colonialismo dei secoli passati, che ha lasciato molti effetti umani, ambientali ed economici devastanti, sembra ormai un fenomeno lontano, tanto che parlarne può sembrare anacronistico. Sbrigativamente archiviato durante gli anni della guerra fredda, da tempo non suscita più un moto di di avversione e di rigetto. Soltanto certi attivisti e certi docenti universitari cercano di stimolare una radicale rilettura critica del fenomeno, ma per ora con scarsi risultati, che comunque non incidono sull'uomo della strada. Varie istituzioni nate col proposito di combattere questa piaga hanno invece costruito un edificio giuridico per difenderla e conservarla: basti pensare all'ONU, che ha spesso affrontato la que38


stione in maniera ambigua, quando non si è schierata apertamente in difesa delle potenze (neo)coloniali. Valga per tutti il caso del Biafra. Ancora più complesso e radicato, se possibile, è il colonialismo che affligge tuttora molti popoli indigeni. A questo proposito, una delle opere più recenti è il libro Colonialism is Crime, scritto da Marianne O. Nielsen e Linda M. Robyn. Un titolo chiaro e definitivo che non lascia spazio agli equivoci. Il volume tratta dei crimini commessi nei confronti dei popoli indigeni, esaminando la relazione fra i crimini stessi e le loro conseguenze, tuttora ben visibili. Le autrici si concentrano sui paesi anglofoni extraeuropei, con particolare attenzione per gli Stati Uniti. Il libro tratta anche delle numerose iniziative legali con le quali i popoli indigeni cercano di difendere i propri interessi politici, territoriali ed economici. Un contributo autorevole e originale. Alessandro Michelucci

Julia Watson, Lo. Tek. Design by Radical Indigenism, Taschen, Köln 2020, pp. 420, €40. Generalmente chi ha una scarsa conoscenza delle culture indigene pensa che il loro legame con la natura riguardi soltanto pratiche di sussistenza come la semina, la coltivazione e la conservazione del territorio. Di conseguenza crede che il loro insegnamento sia limitato a questo ambito. Ma non è così, perché il loro rapporto con la natura va ben oltre, includendo complesse cognizioni tecnologiche e architettoniche. A esplorare questa materia insolita e stimolante è stata l'australiana Julia Watson, che ha raccolto il frutto dei suoi lunghi studi nel libro Lo. Tek. Design by RadicalIndigenism. Designer e ambientalista, l'autrice ci propone di attingere a questa sapienza millenaria per costruire un mondo in armonia con la natura, ribaltando integralmente la logica attuale, basata su un modello di sviluppo che ne prevede il saccheggio. Oggi, mentre il pianeta deve fronteggiare una crisi ambientale mai vista prima, le nostre città dovrebbero adottare materiali e tecniche di costruzione diversi, capaci di conciliare funzionalità e sostenibilità. Il volume, introdotto da Wade Davis, propone un viaggio attraverso varie esperienze che spaziano dalla Tanzania alle Filippine, dall'Iran al Perù. Julia Watson conferma che le culture indigene non sono bizzarri resti del passato, ma che possono insegnarci molto in tema di sostenibilità, sempre che si abbia l'umiltà di voler imparare. Un'opera davvero innovativa, una proposta culturale destinata a lasciare il segno. Giovanna Marconi

Emmanuel Kreike, Scorched Earth: Environmental Warfare as a Crime against Humanity, Princeton University Press, Princeton [NJ] 2021, pp. 538, $39.95. I problemi ecologici sono diventati oggetto di attenzione mediatica negli ultimi 30-40 anni, ma in realtà l'ambiente ha sempre giocato un ruolo politico e sociale di grande rilievo. È stato uno strumento di guerra per secoli, come attestano le carestie, le malattie, le popolazioni sfollate e la devastazione dei mezzi di sussistenza che hanno segnato gran parte del mondo, e che in certi casi lo segnano ancora. Emmanuel Kreike, docente di Storia all’Università di Princeton, ricostruisce la storia della devastazione ambientale che è stata realizzata dal sedicesimo al ventesimo secolo, sostenendo che questa distruzione deliberata costituisce un crimine contro l'umanità e contro la natura. Lo studioso dimostra che le guerre di religione hanno trasformato i Paesi Bassi in una palude desolata dove regnavano la fame e la peste. Descrive come i conquistadores spagnoli abbiano sfruttato le opere di irrigazione costruite dagli Aztechi e dagli Incas, innescando una crisi umanitaria di proporzioni catastrofiche. Questa guerra ambientale è continuata senza sosta nell'era moderna. Il libro disegna un imponente affresco storico che spazia dalle guerre coloniali alla Guerra dei Trent'anni, dalla conquista del Nordamerica agli appetiti territoriali dei re francesi. Facendo luce 39


sulle origini premoderne e le conseguenze durature di questa guerra totale, Scorched Earth dimostra che l'ecocidio e il genocidio non sono fenomeni separati: il diritto internazionale, sostiene l’autore, deve riconoscere la guerra ambientale come una violazione dei diritti umani. Opera di grande valore storico e culturale, il libro ci stimola a prendere atto dei problemi ambientali che incombono sul pianeta e a capire che è venuto il momento di garantire alla natura gli stessi diritti che reclamiamo per gli esseri umani. Con forza e con coraggio radicale, perché non si tratta di piantare un albero in più o di acquistare una macchina che inquina meno. Giovanna Marconi

Joe Duffy, Freya McClements, Children of the Troubles: The Untold Story of the Children Killed in the Northern Ireland Conflict, Hachette Ireland, Dublin 2019, pp. 437, £24.99. Patrick Rooney, ucciso nell'agosto 1969 all’età di nove anni, è tristemente passato alla storia come il primo bambino che ha perso la vita nel conflitto nordirlandese. Fu colpito a morte nella sua casa, nel ghetto cattolico di Falls Road, a Belfast, dai colpi di una mitragliatrice montata su un mezzo blindato della polizia. La sua storia apre Children of the Troubles, il libro in cui due noti giornalisti irlandesi - Joe Duffy di RTE e Freya McClements, dell’Irish Times – hanno ricostruito una per una le brevi vite e le tragiche morti dei 186 bambini uccisi durante il conflitto in Irlanda del Nord. Le loro storie sono raccontate in ordine cronologico, con testimonianze inedite raccolte tra i familiari e gli amici corredate da un ricco apparato iconografico. Nomi, luoghi, episodi che evocano un dolore indicibile. Sorrisi spenti per sempre come quelli dei fratellini Richard, Mark e Jason Quinn (dieci, nove e otto anni), uccisi nella loro casa di Ballymoney da una bomba molotov lanciata dai paramilitari lealisti dell'UVF, nel luglio 1998. O come quello di Carol Ann Kelly, dodici anni, freddata a Belfast da un proiettile di plastica sparato dalla polizia mentre stava tornando a casa con un cartone di latte, nel maggio 1981. Giovani vite spezzate da una violenza gratuita e razionalmente inspiegabile che non ha risparmiato neanche i più piccoli. Angela Gallagher, appena diciotto mesi, si trovava in un negozio di caramelle quando fu uccisa da un proiettile vagante sparato da un membro dell'IRA. Anne Marie e Jacqueline O’Brien, sorelline di cinque e sedici mesi, uccise dalle autobombe dei paramilitari protestanti che devastarono il centro di Dublino il 17 maggio 1974. Carole e Bernadette McCool, tre e nove anni, bruciate vive dall'esplosione della bomba che il padre stava assemblando nella cucina di casa, nel giugno del 1970. L'80% dei bambini uccisi apparteneva alla comunità cattolica, oltre il 10% degli omicidi è avvenuto all'interno delle abitazioni e dei giardini di casa. Riccardo Michelucci

Gabriel Kuhn, Liberating Sápmi: Indigenous Resistance in Europe's Far North, PM Press, Oakland (CA) 2020, pp. 181, $17.00. I Sami (meglio noti come Lapponi) vivono in quattro stati contigui dell’Europa settentrionale: Norvegia, Svezia, Finlandia e Russia (penisola di Kola). Sono circa 100.000, ma nonostante l'esiguità numerica hanno svolto un ruolo decisivo nella costruzione del movimento indigeno internazionale, organizzando numerose iniziative politiche e partecipando ai maggiori consessi mondiali. I diritti dei quali godono i Sami variano notevolmente a seconda degli stati: mentre nei tre paesi scandinavi hanno dei parlamenti autonomi che svolgono una funzione consultiva presso i rispettivi governi, nessun riconoscimento di questo tipo è previsto in Russia. In questo paese, inoltre, hanno strutture meno attive e godono di scarsa visibilità. Il libro Liberating Sápmi: Indigenous Resistance in Europe’s Far North, scritto da Gabriel Kuhn, è uno dei pochi che inquadrano la storia della minoranza subartica in un'ottica apertamente rivendicativa. Il volume si apre con un saggio che ripercorre sinteticamente la sua storia. Il resto del libro 40


è occupato da 12 interviste con esponenti autorevoli della cultura lappone, fra i quali la scrittrice Synnøve Persen, il docente universitario Harald Gaski e la cantante Mari Boine. Quest'ultima, scoperta da Peter Gabriel nel 1990, ha guadagnato un ampio credito internazionale nel campo della world music, collaborando fra l'altro con jazzisti come Jan Garbarek. Le interviste disegnano un pa-norama vivo e aggiornato di questa cultura, che nel 2019 ha ricevuto una certa attenzione al Festi-val del libro di Francoforte e alla Biennale Arte di Venezia. Tutto questo lascia prevedere che gli in-digeni artici possano guadagnare maggiore visibilità nei prossimi anni. Alessandro Michelucci

Israel W. Charny, Israel's Failed Response to the Armenian Genocide: Denial, State Deception, Truth versus Politicization of History, Academic Studies Press, Boston (MA) 2021, pp. 294, $26.95/109.00. La prima conferenza internazionale sull'Olocausto e sul genocidio si tenne a Tel Aviv fra il 20 e il 24 giugno 1982. Era stata organizzata da tre autorevoli studiosi - Israel Charny, Elie Wiesel e Shamai Davidson – e dall'Institute on the Holocaust and Genocide, che i tre avevano fondato alcuni anni prima. Contrariamente al dogma imposto da tutti i governi israeliani, la conferenza non avrebbe parlato soltanto della Shoah, ma anche del genocidio armeno (o meglio, del genocidio delle minoranze cristiane dell'impero ottomano). La reazione della Turchia, che aveva sempre negato il genocidio armeno, fu pronta e decisa: Ankara cercò in ogni modo di far cancellare la conferenza minacciando varie ritorsioni politiche contro Israele. Il governo di Tel Aviv, impaurito da queste minacce, cercò di convincere gli organizzatori ad annullare l'iniziativa. Il Memoriale della Shoah, l’istituto Yad Vashem, e molti partecipanti di alto profilo, incluso Wiesel, si ritirarono dalla conferenza. Ma Charny e gli altri organizzatori si rifiutarono di cedere alle intimidazioni e decisero di realizzare comunque la conferenza. Oggi, dopo tanti anni, esce finalmente il libro che ricostruisce l'intera vicenda. Opera dallo stesso Israel Charny, uno dei massimi esperti della materia, il volume contiene fra l'altro il programma delle conferenza, le reazioni della stampa e dei governi coinvolti, un panorama completo delle posizioni dei vari esponenti culturali e politici. Si tratta quindi di un documento indispensabile. Non soltanto per conoscere una questione dimenticata, ma soprattutto per spazzare via definitivamente lo stereotipo che trasforma tutti gli israeliani in sostenitori acritici del governo di Tel Aviv. Giovanna Marconi

Evelyn C. Rysdik, Bhola Nath Banstola, Sciamanesimo nepalese, Edizioni Mediterranee, Roma 2019, pp. 334, €29,50. Negli ultimi tempi, grazie al rinnovato interesse per le culture indigene e per i fenomeni religiosi che si sposano alle battaglie ambientaliste, anche lo sciamanismo sta conquistando ampi spazi in campo editoriale. A dire il vero, presso un certo pubblico legato ai movimenti New Age lo sciamanismo non ha mai smesso di esercitare un certo fascino. Il libro in questione sembra coniugare questi due filoni in un solo lavoro, confezionato per chi sia interessato da un lato alle forme di sapere tradizionale e alle culture indigene, e dall'altro alle sue applicazioni per così dire globalizzate. Il volume presenta in maniera molto accurata una versione dello sciamanismo nepalese (diciamo "una versione" perché nel paese himalayano tante sono le minoranze etniche quante le tradizioni religiose autoctone), ovvero quella tramandata per linea familiare fino a Bhola Nath Banstola, combinata con l'approccio della neo-sciamana Evelyn C. Rysdik, con tanto di esercizi pratici per coloro che vogliano cimentarsi direttamente in viaggi sciamanici. Il risultato è piuttosto eterogeneo: alle puntuali e interessanti nozioni impartite dallo sciamano nepalese, arricchite da reso41


conti e aneddoti molto personali, seguono istruzioni meccaniche e piuttosto ripetitive di Evelyn Rysdik per aspiranti neo-sciamani, che a nostro avviso indeboliscono un poco la forza delle testimonianze di Bhola Nath Banstola, che anche da sole varrebbero l'intero volume. Davide Torri

Gian Luigi Nicola, Carlo Cerrato, Madri d'Africa. Donna e maternità nell'arte di alcune etnie africane, Scritturapura, Asti 2020, pp. 96, € 20. Gran parte dei media si ostina a osservare l'Africa con la lente deformante delle divisioni territoriali imposte dalla decolonizzazione. Popoli antichissimi vengono cancellati e sostituiti da entità generiche e amorfe: termini come nigeriano, ghanese e kenyota, al di là della loro funzione amministrativa, non significano niente. Merita quindi un plauso Madri d'Africa. Donna e maternità nell'arte di alcune etnie africane, che rifiuta questo conformismo e restituisce alle culture africane la propria specificità. Il volume è il catalogo della mostra omonima (Asti, 11 dicembre 2019-13 aprile 2020), un omaggio intelligente alla donna e alla maternità che ripercorre le fasi della vita femminile. Sculture, vasi, bambole in terracotta e in legno, maschere e altri oggetti sono le tappe di un viaggio che tocca varie regioni del continente, mettendo in evidenza una varietà che spesso viene dimenticata, quando non occultata volontariamente. Antonella Visconti

Alessandro Martire, Spiritualità, saggezza e miti dei Lakota, L'Età dell'Acquario, Torino 2021, pp. 216, € 19. Firenze non rientra fra le città italiane che vengono solitamente associate ai problemi delle minoranze e dei popoli indigeni. Ma anche la città di Dante offre diverse risorse a chi segue questi temi. Per quanto riguarda il passato, basti pensare a Fosco Maraini (1912-2004), profondo conoscitore del Tibet; al grande intellettuale occitano Robert Lafont (1923-2004), vissuto per oltre 20 anni a Firenze, dove è morto; ad Alex Langer (1946-1995), il famoso ecologista e pacifista sudtirolese. Per quanto riguarda invece il presente, la città ospita numerose associazioni, come Kiwani, Transafrica e Wambli Gleska. Quest'ultima associazione, fondata e diretta da Alessandro Martire, si occupa in modo specifico dei Lakota (Sioux). Non soltanto con varie iniziative pubbliche – conferenze e gemellaggi – ma anche con l'intensa attività pubblicistica dello stesso Martire. Il suo ultimo libro, Spiritualità, saggezza e miti dei Lakota, chiarisce alcuni concetti fondamentali della cultura lakota: miti, spiritualità, visioni e leggende. Lo fa grazie a una conoscenza diretta e a una lunga frequentazione che pochi altri studiosi italiani hanno coltivato. Il risultato è un libro prezioso, una sorta di vademecum che permette al lettore di conoscere la vera essenza della cultura lakota, scardinando i luoghi comuni che sono stati diffusi dal cinema e dalla letteratura. Gli Indiani del Nordamerica sono gli indigeni più noti all'uomo della strada, ma hanno pagato questa visibilità con un ricco bagaglio di stereotipi. Il libro ci permette di cancellare questa immagine falsa e di sostituirla con quella vera, viva, palpitante. Come nei suoi lavori precedenti, Martire ci offre una sintesi esemplare di passione e rigore accademico, utilizzando un linguaggio comprensibile e stimolante. Al tempo stesso, ci induce a fare una riflessione. Oggi si parla tanto di rispetto della diversità culturale e religiosa. Ci si preoccupa giustamente laddove questa viene soffocata: basti pensare al Medio Oriente e alla Russia. Quindi appare odioso e inaccettabile il totale disinteresse che circonda la religione (o meglio, la religiosità) degli Indiani nordamericani: anche questo è razzismo. Giovanna Marconi 42


Nicholas Thomas, Océaniens, l’histoire du Pacifique, Anacharsis, Paris 2020, pp. 512, €23. L'Oceania è il continente più piccolo e l'unico composto unicamente da isole. La sua storia è poco nota, se si eccettua quanto è stato diffuso in modo distorto attraverso gli stereotipi. Ma è ricca di pagine interessanti e di episodi insoliti, ferma restando la dolorosa eredità di un colonialismo spietato. Il libro di Nicholas Thomas è il testo ideale per chi voglia conoscere questo "continente invisibile", come lo ha definito Jean-Marie Gustave Le Clézio (Il continente invisibile, Instar, 2006). L'autore propone una storia accessibile e originale della colonizzazione del Pacifico, avvenuta nel diciannovesimo secolo. Ma anziché mettere in evidenza l'avanzata implacabile delle potenze europee, il libro offre il racconto di coloro che l'hanno attraversato. In questo modo emerge il mosaico culturale fatto di tahitiani, hawaiiani, maori, figiani, aborigeni, come anche di balenieri, missionari, avventurieri spietati, militari, etc. Storie tragiche ma anche ricche di umanità, di coraggio, di dignità. La prefazione è firmata da Eric Wittersheim, uno dei massimi esperti della materia. Anthony Gordon

LINDA TUHIWAI SMITH ELETTA MEMBRO DELL'AMERICAN ACADEMY OF ARTS AND SCIENCES Linda Tuhiwai Smith, docente all'Università di Waikato, (Nuova Zelanda), è stata eletta membro onorario dell'American Academy of Arts Sciences. Studiosa maori di livello mondiale, Linda Tuhiwai Smith è l'autrice di molti libri sulle questioni indigene, fra i quali Decolonizing Methodologies: Research and Indigenous Peoples, che ha segnato una tappa decisiva negli studi sul tema. Recentemente è uscita la terza edizione aggiornata di questo lavoro fondamentale (Zed Books, 2021).

UNA NUOVA RIVISTA CORSA, EUROPEA, MEDITERRANEA La rivista è diretta dallo stesso Colonna d'Istria, che vanta una lunga e prestigiosa esperienza editoriale. Fondatore delle edizioni La Marge (1977), poi delle edizioni Colonna (2004) e infine Scudo (2018), ha pubblicato oltre 700 libri e ha partecipato a innumervoli iniziative culturali, sia in Corsica e in Francia che all'estero. Il primo numero (168 pagine, €20) ospita scritti di una cinquantina di autori, fra i quali Claudine Filippi, Amin Khan, Danièle Maoudj e Norbert Paganelli. Ci felicitiamo con l’amico JeanJacques e auguriamo lunga vita alla nuova rivista.

In Corsica si pubblicano numerose riviste storiche, letterarie e scientifiche. Quello che mancava era una rivista culturale generalista, che spaziasse dalla poesia alla musica, dalla letteratura al fumetto. A colmare tale vuoto ha provveduto JeanJacques Colonna d'Istria (nella foto piccola, al centro), che ha lanciato recentemente I Vagabondi, una bella rivista semestrale corsa, europea e mediterranea. Il nome sottolinea il suo approccio interdisciplinare, ma al tempo stesso allude all'Accademia di i vagabondi, fondata nel 1650 da Carlo Fabrizio Giustiniani per rinnovare la cultura locale (la Corsica era ancora colonia genovese).

www.scudoedition.corsica

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Le minoranze e i popoli indigeni davanti alla pandemia Nello scorso numero abbiamo parlato di salute, ma abbiamo evitato di proposito ogni riferimento alla pandemia che ha invaso l'intero pianeta nelle prime settimane del 2020. Si tratta comunque di un tema che non può lasciare indifferente chi segue i problemi delle minoranze e dei popoli indigeni, dato l'impatto che questa emergenza sanitaria ha avuto per molti di loro. Naturalmente questo impatto non è stato uguale per tutti: esiste un abisso fra la condizione dei popoli indigeni brasiliani, già prima minacciati dalla politica scellerata di Bolsonaro, e quella delle minoranze europee. Queste differenze si riflettono sulle risposte che sono state elaborate nei diversi contesti geografici e culturali. In molti casi i popoli indigeni hanno organizzato iniziative proprie di vario tipo – sia un campo medico che informativo – per supplire alle carenze dei rispettivi stati. Gli Stati Uniti e il Brasile, per esempio, hanno confermato la propria ostilità per i popoli indigeni con interventi scarsi e tardivi. La pandemia si è dimostrata un'alleata ideale per Bolsonaro e Trump, nemici mortali dei popoli autoctoni come nessun altro presidente contemporaneo. Anche le associazioni indigeniste si sono mobilitate, sia fornendo sostegno pratico che cercando di sensibilizzare l'opi-nione pubblica. A questo scopo hanno realizzato numerosi documenti, pubblicazioni e altro materiale reperibile sui rispettivi siti: www.iwgia.org, https://minorityrights.org, www.gfbv.de, www.icrainternational.org, www.culturalsurvival.org Native Americans in Philanthropy, associazione attiva dal 1990, si è attivata per coinvolgere il mondo filantropico e ha diffuso un rapporto ad hoc, Indigenous Community Leadership in Response to COVID-19: A Call to Action for the Philanthropic Sector (https://nativephilanthropy.org/covid-report). Sui popoli indigeni del Sudafrica si concentra invece il rapporto della Freedom House, una delle più antiche ONG statunitensi (https://freedomhouse.org/article/impact-covid-19-indigenouspeoples-southern-africa). Gli ambienti accademici che si occupano di questioni indigene non potevano certo trascurare un tema così importante. International Indigenous Policy Journal (XI, 3, 2020), autorevole rivista canadese diretta da Nicholas Spence, ha pubblicato un ampio dossier su "The COVID-19 Pandemic and Indigenous Peoples" (https://ojs.lib.uwo.ca/index.php/iipj/issue/view/1134). Per quanto riguarda le minoranze europee, fra le numerose iniziative segnaliamo The Impact of the COVID Crisis on Democracy and Europe's Stateless Nations, organizzata dalla Coppieters Foundation. Realizzato per via telematica, il dibattito ha riunito esponenti universitari e istituzionali catalani, corsi e sardi (https://ideasforeurope.eu/activity/event/the-impact-ofthe-covid-crisis-on-democracy-and-europes-stateless-nations). 44


Cresce l'interesse italiano per la cultura maori A partire dall'inizio del nuovo secolo la cultura maori, a lungo ignorata nel nostro paese, ha guadagnato un crescente interesse, come attestano varie iniziative culturali ed editoriali. Il merito spetta soprattutto a due persone, ciascuna delle quali ha svolto un ruolo pionieristico per conto proprio, ma con risultati convergenti. Il primo è Claudio Teobaldelli (9 agosto 1964-8 gennaio 2019). Musicista e didatta, Claudio aveva intessuto stretti rapporti con la Nuova Zelanda e in particolare con i Maori. Era riuscito a smuovere l'apatia di alcune amministrazioni locali toscane, e grazie a lui era stato realizzato Maori in Florence (25 maggio-3 giugno 2001), il grande evento culturale che per la prima volta aveva presentato la cultura maori nel capoluogo toscano. A organizzare questa iniziativa aveva contribuito Mario Bernardini, figlio di Sergio Bernardini, fondatore della famosa "Bussola" versiliese. Negli anni successivi aveva proseguito questo impegno meritorio, componendo l'Aoteroa Suite (2002) e le musiche del documentario Kia Ora (2014), ideato da Stefano Fusi con Claudio e diretto da Manuela Critelli. Abbiamo avuto la fortuna di conoscerlo e di collaborare con lui, al quale rivolgiamo un saluto affettuoso e un ringraziamento sincero per quello che ha fatto. In campo editoriale, invece, ha giocato un ruolo centrale Antonella Sarti Evans, una profonda conoscitrice della letteratura maori (e neozelandese in generale), come dimostrano i numerosi libri che ha tradotto e curato. Fra questi ricordiamo due romanzi di Patricia Grace, importante scrittrice maori, Potiki (Joker, 2017) e Tu (Joker, 2019). La studiosa si è concentrata anche sulla poesia: ecco quindi Piccoli buchi nel silenzio, raccolta di Hone Tuwhare (Ensemble 2018), e Matariki, sciame di stelle. Poetesse māori contemporanee (Ensemble, 2020), la prima antologia italiana di questo genere. Antonella Sarti Evans ha insegnato a Firenze e a Wellington, dove vive attualmente. Altri editori, anche se in modo più occasionale, hanno dimostrato interesse per la cultura degli indigeni neozelandesi. Vocifuoriscena ha ristampato Mitologia maori, un saggio storico di Sir George Grey comparso originariamente nel 1854. La nuova edizione è integrale, mentre quelle precedenti erano state censurate in alcune parti. Il romanzo per ragazzi Kahu e la balena (Bompiani, 2020) porta la firma di Witi Ihimaera, già noto per Whale Rider, dal quale è stato tratto il film La ragaza delle balene (2002). Insomma, sembra che i tempi stiano cambiando. Oggi il lettore italiano che vuole conoscere la storia e la cultura dei Maori dispone di numerose opere: poesie, romazi, saggi storici. Speriamo che nei prossimi anni ne vengano pubblicate altre: il materiale da tradurre non manca, basta un po' di coraggio, ma soprattutto la curiosità di esplorare culture poco conosciute. 45


STORIA, CULTURA E POLITICA DELL'ISOLA VERDE

Il nostro direttore responsabile Riccardo Michelucci (nella foto di Angelo Palmieri) è riconosciuto come uno dei autorevoli specialisti di questioni irlandesi: storia, politica, letteratura. Lo attesta una ricca varietà di libri, fra i quali Storia del conflitto anglo-irlandese (Odoya, 2009, seconda ed. 2017), Bobby Sands: Un'utopia irlandese (Clichy, 2017), oltre alla traduzione di due romanzi di Paul Lynch, Cielo rosso al mattino (66thand2nd, 2017) e Neve nera (66thand2nd, 2018). Le opere che ha scritto e quelle che ha tradotto sono un riferimento essenziale per chi vuole conoscere il complesso intreccio culturale, politico e sociale dell'isola verde. La sua ultima fatica è la prima traduzione italiana, curata insieme a Enrico Terrinoni, degli Scritti dal carcere (Pagina Uno, 2020) che Bobby Sands stese durante la sua prigionia, conclusasi con la morte il 5 maggio 1981. Un libro di grande valore politico e culturale. Riccardo Michelucci si occupa di questioni irlandesi anche in varie iniziative pubbliche, sulla stampa, alla televisione e alla radio. Inoltre cura il blog www.riccardomichelucci.it

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Nuvole di carta

Hélène Constanty (sceneggiatura), Benjamin Adès (disegni e colori), Une histoire du nationalisme corse, Dargaud, Paris 2021, pp. 216, €22,50. In Francia, patria indiscussa del fumetto, questa forma espressiva tratta regolarmente le pagine storiche di maggior rilievo nazionale, come la Rivoluzione (Révolution, vol. 1, Actes Sud, 2019) e la guerra d'Algeria (Algériennes 1954-1962, Marabulles, 2018). Nello stesso filone si inserisce questa opera che ripercorre la storia del nazionalismo corso. Una questione lunga e dolorosa che ha segnato profondamente la Francia nell'ultimo mezzo secolo, anche se è scarsamente nota in Italia. L'albo è frutto della collaborazione fra il disegnatore Benjamin Adès e Hélène Constanty, giornalista già nota per due libri sulla storia isolana recente, Corse, l'étreinte mafieuse (Fayard, 2017) e Razzia sur la Corse: Des plasticages à la folie spéculative (Pluriel, 2019). Entrambi efficaci, il testo e i disegni raccontano le tappe principali del nazionalismo locale: l'assassinio del prefetto Erignac, lo scioglimento volontario del FLNC (Front de Libération de la Corse), la vittoria elettorale che ha portato le due maggiori formazioni nazionaliste alla guida della Collettività Territoriale Corsa (equivalente della nostra Regione), etc. Una storia densa, segnata dalla violenza ma anche dal sogno di un'autonomia legittima, come quella che esiste già in altri stati europei. Non a caso il presidente della CTC è figlio di Edmond Simeoni (1934-2018), figura storica dell'autonomismo isolano, animatore delle tante battaglie politiche ed ecologiste dalle quali è nata la situazione attuale. Un albo di grande interesse per chi ama il fumetto, ma ancora di più per chi vuole conoscere la Corsica di oggi senza cadere nei noti luoghi comuni turistici e vacanzieri. Alessandro Michelucci Tim Fielder, Infinitum: An Afrofuturist Tale, Amistad, New York (NY) 2021, pp. 288, $27.99. L'afrofuturismo sta vivendo il proprio periodo d'oro. Nato all'inizio degli anni Novanta, oggi è un movimento sociale, culturale ed estetico in piena regola. Questo lavoro di Tim Fielder è una delle sue espressioni più alte: definirlo una graphic novel è riduttivo, perché si tratta di una speculazione culturale articolata e complessa. Il protagonista, Aja Oba, è un signore della guerra africano che viene condannato all'immortalità da una maga. Fielder evita gli stereotipi secondo i quali gli immortali sono romantici introversi o giovani ridanciani. Al contrario, si serve del protagonista per indagare la storia dei popoli africani, e al tempo stesso ci mostra un futuro possibile. Aja Oba è la lente attraverso la quale vediamo questa storia, ma non diventa mai una maschera. Non perde la propria umanità. È sempre un protagonista, un personaggio pienamente realizzato, mai una caricatura. Il suo viaggio attraversa i millenni, indagando nella storia e nei suoi risvolti. In 47


sostanza, Infinitum si riallaccia idealmente al film Black Panther (2018). Certo, il film aveva dietro di sé la Marvel Comics, quindi il suo successo era ampiamente prevedibile. Ma questo colosso aziendale si è concentrato sugli aspetti familiari piuttosto che sulla lotta vittoriosa dei neri contro il colonialismo. Infinitum, più duro e più violento di Black Panther, pone domande più difficili: cosa significa essere neri? Cos'è l'arroganza quando si è oppressi? Se sei immortale, cosa significa la fedeltà quando nazioni e culture sorgono e cadono davanti ai tuoi occhi? Infinitum è un capolavoro. Scritto in uno stile scarno e disegnato (anzi, dipinto) con maestria, non è soltanto una graphic novel, ma il futuro dell'afrofuturismo. Shawn Taylor Joe Sacco, Tributo alla terra. L'ultima frontiera del colonialismo industriale, Rizzoli Lizard, Milano 2020, pp. 272, € 25. Il disegnatore maltese aveva già dimostrato un forte interesse per i popoli minacciati: pensiamo a Palestina. Una nazione occupata (Mondadori, 2002) e Goražde. Area protetta (Mondadori, 2006). Con Tributo alla terra, già pubblicato in altre lingue, fa rotta verso il Canada per raccontare la storia e la realtà attuale dei Dene. Anche in questo caso Sacco si dimostra apertamente schierato, mettendo in evidenza l'attivismo politico, la pratica mostruosa dei convitti per indiani, i problemi territoriali e ambientali. Non usa sfumature di grigio, ma soltanto bianco e nero, creando un effetto cinematografico che ci avvicina alla realtà. Un lavoro riuscito e stimolante. Giovanna Marconi

Il fumetto denuncia la repressione delle minoranze della Cina AUTORI Giampiero Bigazzi Musicologo, musicista, cofondatore dell'etichetta Materiali Sonori. Teo Bugbee Giornalista americana, specialista di cinema. Lavora per MTV News. Anne T. Donahue Scrittrice e commediografa, collabora a varie testate. Vive a Cambridge (Ontario/Canada). Owen Howells Esperto inglese di geopolitica, con particolare attenzione per i paesi ex comunisti. Fa parte della redazione di Lossi 36 (dal quale è tratto l'articolo). Lo ringraziamo per averci concesso di pubblicarlo. Anton Keuter Giornalista austriaco. Ha vissuto in Cina per 25 anni. Bertil Lintner Giornalista svedese, specialista di questioni asiatiche e corrispondente di varie testate. Fra i suoi numerosi libri ricordiamo The Costliest Pearl: China's Struggle for India's Ocean (Hurst, 2019). Tashi Phuntsok Esule tibetano in India, dirige il Tibet Museum, situato nei pressi di Dharamsala. Jarmila Ptáčková Specialista di cultura cinese e tibetana, con particolare attenzione per la politica cinese relativa alle minoranze. Insegna all'Istituto Orientale dell'Accademia delle Scienze di Praga. Ha pubblicato recentemente Exile from the Grasslands: Tibetan Herders and Chinese Development Projects (University of Washington Press, 2020). Shawn Taylor Giornalista afroamericano, si occupa soprattutto di fantascienza e di culture nere. È uno dei fondatori del Black Comix Arts Festival e del sito The Nerds of Color (dal quale è tratta la recensione). Lo ringraziamo per averci con-cesso di pubblicarla. Setsuko Thurlow Attivista antinucleare giapponese. Enghebatu Togochog Attivista mongolo, presidente del Southern Mongolian Human Rights Information Center.

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Cineteca

Plogoff. Des pierres contre des fusils, regia di Nicole Le Garrec, Francia, 2020, 110'. Nel secolo scorso, soprattutto fra gli anni Sessanta e Settanta, le lotte antinucleari si sono intrecciate con quelle nazionalitarie. Nel 1960 la Francia, ormai destinata a perdere l'Algeria, cercò un nuovo sito per gli esperimenti nucleari che non avrebbe più potuto realizzare nel Sahara. Gli esperti proposero come alternativa la Corsica, ma la rivolta popolare fu tale che il progetto venne cancellato. Venti anni dopo, nel 1980, la cittadina bretone di Plogoff si mobilitò contro l'installazione di una centrale. La lotta, pacifica ma risoluta, coinvolse tutti: giovani, anziani, bambini, contadini, pescatori. A questa battaglia è dedicato il documentario dei coniugi Nicole e Felix Le Garrec, ristampato recentemente in una bella confezione che include un libro e altri documenti visivi. Ricca e dettagliata, l'opera ritrae con fedeltà l'atmosfera militante dell'epoca. Questa testimonianza preziosa riafferma il profondo radicamento sociale dei movimenti espressi dalle minoranze europee, per molti versi affini a quelli progressisti, ma generalmente privi di ipoteche ideologiche e di legami occulti con le superpotenze straniere. Alessandro Michelucci Kuessipan, regia di Myriam Verreault, Canada, 2019, 117'. Durante la crescita l'amicizia gioca un ruolo fondamentale. È come una famiglia, coinvolge ogni aspetto della vita e può essere un'ancora di salvezza. Come in Kuessipan, scritto da Myriam Verreault e Naomi Fontaine, che ci immerge nell'amicizia tra Shaniss (Yamie Grégoire) e Mikuan (Sharon Fontaine-Ishpatao), due giovani donne innu. Un'amicizia lunga e profonda ma travagliata. Da piccole si giurano amicizia eterna, ma crescendo le loro strade si allontanano. Il rapporto si incrina quando Mikuan comincia a desiderare di lasciare la riserva per stabilirsi in città. Questo genera un forte contrasto e una crisi d'identità, così entrambe cercano di adattarsi alla nuova situazione. Il film trasmette le emozioni di questo contrasto in modo molto efficace. La narrazione nervosa si intreccia con l'interpretazione cruda delle protagoniste: lo spettatore si trova davanti un quadro così realistico che gli pare quasi di violare la loro sfera privata. Non capita spesso di vedere un film dove ci si possa immedesimare a tal punto nei personaggi, ed è ancora più raro provare tristezza quando il film finisce e si è costretti a lasciarli. Kuessipan è un lavoro intenso, ammaliante, tragico, ma anche pieno di speranza. Anne T. Donahue 49


In My Blood It Runs, regia di Maya Newell, Australia, 2019, 90'. Il colonialismo è una guerra che è iniziativa molti secoli fa e non è mai finita. Il documentario In My Blood It Runs mette in evidenza le sue tattiche e le sue armi moderne con precisione esemplare. Il lavoro si concentra su una famiglia aborigena (arrernte) di Alice Springs, e in particolare sugli anni della formazione di Dujuan, un ragazzo di dieci anni, affiancato dalla madre Megan. Maya Newell, giovane regista australiana, mette in mostra col massimo verismo come la lingua e la scuola vengano manipolate dal sistema coloniale per piegarle al proprio tornaconto. A casa Dujuan è un abile guaritore che parla tre lingue ed è legato alla madre da un'intesa profonda. Ma a scuola i suoi insegnanti bianchi deridono le credenze spirituali aborigene e insegnano una storia falsificata. Dujuan reagisce dimostrandosi svogliato e frequentando meno la scuola. La madre teme che il figlio possa esserle sottratto e messo in detenzione minorile. Se questo accadesse, come ammonisce la zia di Dujuan, poi lo aspetterebbero la prigione o la morte. Il film esplora entrambi i mondi che Dujuan attraversa - casa e scuola - e la sintonia che la regista costruisce fra i partecipanti contribuisce in modo decisivo alla riuscita dell'opera. Gli attori recitano con la massima naturalezza, come se vivessero la propria vita quotidiana. Le loro voci si alzano raramente, ma il film vibra di rabbia. Negli ultimi minuti Dujuan esprime quello che vorrebbe con poche parole che i suoi insegnanti dovrebbero essere in grado di capire: "Lasciate in pace i bambini neri". "Smettetela di uccidere gli aborigeni". "Voglio essere un aborigeno". Teo Bugbee

LA FERROVIA SOTTERRANEA Se vogliamo stare al passo coi tempi dobbiamo fare attenzione anche a quello che ci viene proposto dalle TV a pagamento (Netflix, Prime Video, Sky, etc.), dove si trovano vari lavori interessanti. Uno di questi è la serie La ferrovia sotterranea (The Underground Railroad), diretta da Barry Jenkins, che viene trasmessa dal 14 maggio 2021 su Amazon Prime Video. Tratta dall'omonimo romanzo di Colson Whitehead, la serie racconta le vicende di due schiavi in fuga dalla Georgia nel periodo dello schiavismo americano ottocentesco. La ferrovia sotterranea mette in piena luce la brutalità del razzismo, disegnando una storia appassionante che ha al centro una tenace eroina. Inoltre ci permette di conoscere la storia della resistenza clandestina organizzata dagli schiavi neri: una pagina sostanzialmente dimenticata dai film che sono stati girati sul tema. Barry Jenkins è il regista di Moonlight, vincitore dell'Oscar e del Golden Globe nel 2017. Il romanzo di Colson Whitehead (edito in Italia da Sur) ha vinto il Premio Pulitzer nello stesso anno.

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Musiche

Marco Lutzu (a cura di), Deus ti salvet Maria. L'Ave Maria sarda tra devozione, identità e popular music, Nota, Udine 2020, CD + libro, pp. 304, € 25. Questo bel lavoro raccoglie sedici versioni di un canto in lingua sarda fra i più affascinanti e più famosi. Il testo, una devozione alla madre di Gesù, è attribuito al gesuita Innocenzo Innocenzi, vissuto nel Seicento. Diffuso dal clero, messo in musica con un chiaro intento divulgativo e pastorale, viene tuttora eseguito durante le celebrazioni religiose e nei riti della Settimana Santa dai solisti, dai gruppi delle confraternite, dai cori polifonici. Marco Lutzu, docente di etnomusicologia all'Università di Cagliari, ha riunito le versioni di artisti isolani come Paolo Fresu, Elena Ledda e Maria Carta (la prima a diffonderlo oltre i confini locali), accanto a quelle di altri, fra i quali Fabrizio De André, che lo consacrò a livello nazionale, Antonella Ruggiero e Savina Yannatou. Il risultato è un vero e proprio viaggio musicale che documenta l'evoluzione storica di un'antica melodia identitaria, capace di contaminarsi e diventare universale. Il libro contiene i risultati della ricerca condotta da Lutzu con altri studiosi. Un lavoro che conferma il valore dell'etichetta udinese, nata da una passione sincera e sostenuta da solide basi etnomusicologiche. Giampiero Bigazzi Zenobia, Halak Halak, CD/LP, Crammed Discs, 2020. In Palestina esiste una scena musicale elettronica che parte da quelle contrade martoriate, senza dimenticarne le radici, ma parla una lingua universale e gira il mondo. È il caso di Nasser Halahlih (esperto produttore) e Isam Elias (virtuoso tastierista), che vivono a Haifa, una delle principali città israeliane, con una forte presenza araba. I due hanno dato vita al progetto Zenobia, nome mutuato dall'antica regina di Palmira, che nel terzo secolo si oppose strenuamente all'impero romano. Il nuovo album si intitola Halak Halak, espressione gergale che significa "benvenuto, benvenuto": una combinazione di potenti beat, ritmi di dabka (antica danza mediorientale) e melodie pop arabe ispirate alle musiche di tutta l'area. Un tessuto sintetico forse un po' datato rispetto alle ultime tendenze della dance europea, ma il duo rappresenta bene l'electropop inserito in un movimento musicale che si sta sviluppando, indipendentemente dai confini politici, tra Haifa e Ramallah, e si estende a Beirut, Amman e alla diaspora. Una musica molto gradevole che invita al ballo. Giampiero Bigazzi 51


GLI ALTRI COLORI DEL DANUBIO Vienna, nota in tutto il mondo per la musica, non si esaurisce con il celebre concerto di Capodanno e con le altre iniziative legate al suo grande patrimonio classico. La capitale austriaca è una fucina di iniziative capaci di soddisfare tutti i cultori della seconda arte. Il retaggio multiculturale asburgico, inoltre, stimola un forte interesse per le espressioni musicali delle minoranze, sia autoctone (Croati, Sloveni, Rom, etc.) che immigrate. Il merito di aver coagulato questo interesse in una serie di iniziative regolari – convegni, pubblicazioni, concerti – spetta a un gruppo di studiosi, fra i quali spicca Ursula Hemetek (nella foto), una prestigiosa etnomusicologa che insegna all'Università di Vienna. Grazie a lei e ai suoi collaboratori è stato accantonato quell'approccio da addetti ai lavori che aveva tenuto l'etnomusicologia lontana dall’uomo della strada. Il 29 novembre 2019 Ursula Hemetek e gli studiosi che lavorano con lei hanno creato il Music and Minorities Research Centre per dare una cornice operativa stabile a questo impegno. Al tempo stesso continuano la propria attività all'interno dell'International Council for Traditional Music, dove curano il gruppo tematico "Music and Minorities". La sua undicesima conferenza si terrà a Uppsala (Svezia) dal 25 al 30 ottobre 2021, a meno che non intervengano limitazioni imposte dalla pandemia. Il centro sta lavorando al primo numero della rivista Music and Minorities, che dovrebbe uscire alla fine del 2021. Per altre informazioni: www.musicandminorities.org La Bretagna, atlantica e celtica, si differenzia nettamente dal resto della Francia. In questa diversità gioca un ruolo centrale la sua musica, che ormai gode di largo seguito in tutto il mondo. A questo universo originale e affascinante è dedicato il nuovo numero speciale della rivista Bretons (47, primavera 2021), intitolato "L’étonnante histoire de la musique bretonne". Qual è la storia di strumenti tipici come l’arpa celtica, il biniou e la bombarda? Cosa sono i fest-noz? Come sono nati i bagadou, le bande tradizionali? A queste e a tante altre domande la rivista dà una risposta precisa senza cadere nella verbosità accademica. Al tempo stesso, dimostra che la musica bretone sa contaminarsi col rock, col jazz, col rap. Perché la tradizione non è un culto sterile del passato, ma un’eredità viva che serve per costruire il futuro. Per altre informazioni: https://bretons.bzh

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UNA VITA CONTRO IL COLONIALISMO AMERICANO Haunani-Kay Trask, sorella indimenticabile

Il 3 luglio 2021, a Honolulu, è morta Haunani-Kay Trask, docente e attivista kanaka maoli (indigena hawaiiana), una delle esponenti più carismatiche del movimento indigeno internazionale. Aveva 71 anni e soffriva da tempo di una malattia incurabile che l'aveva costretta ad abbandonare i propri impegni politici e accademici. Insieme alla sorella minore Mililani ha svolto un ruolo di primo piano, sia a livello locale che internazionale. Con lei aveva fondato l'associazione Ka Lahi Hawai'i, ancora attiva, per- garantire ai Kanaka Maoli uno status analogo a quello degli Indiani nordamericani. Ideale punto di contatto fra impegno accademico e impegno politico, la studiosa ci ha lasciato alcune pubblicazioni, fra le quali spicca From a Native Daughter: Colonialism and Sovereignty in Hawai'i (Common Courage Press, 1993). Opera lucida e radicale, il libro è un compendio preciso della sua lotta incessante contro il colonialismo americano. L'arcipelago hawaiiano, annesso nel 1898 con un colpo di stato, fu poi trasformato in stato federato nel 1959 con un referendum dall'esito scontato. Tanto è vero che il presidente Eisenhower aveva firmato l'atto di annessione alcuni mesi prima del referendum. Nemica irriducibile della discriminazione razziale e di genere, radicale ma contraria all'uso della violenza, Haunani-Kay Trask ha partecipato attivamente alle iniziative sui popoli indigeni organizzate dall'ONU. È stato soprattutto grazie a lei che la questione hawaiiana ha guadagnato una visibilità che non aveva mai avuto. La studiosa-militante ha condiviso l'impegno politico e culturale col compagno, il docente universitario David Stannard, autore del celebre Olocausto americano (Bollati Boringhieri, 2001, n. ed. 2021). 53


la causa dei popoli problemi delle minoranze, dei popoli indigeni e delle nazioni senza stato http://issuu.com/lacausadeipopoli

1-2/ TURCHIA 3/ ALTRI OLOCAUSTI 4/ BIAFRA 5/ CANADA 6/ CORSICA 7-8/ SPAGNA ~9/ LINGUE INDIGENE 10/ 50 ANNI DI RESISTENZA INDIANA 11/ CONTAMINAZIONE PERPETUA 12-13-14/ CINA

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