anno VII/nuova serie numero 17 gennaio-giugno 2022
ISSN: 2532-4063
ISSN: 2532-4063
Direttore: Alessandro Michelucci
Redazione: Katerina Sestakova Novotna, Giovanni Ragni, Marco Stolfo, Maurizio Torretti, Davide Torri Via Trieste 11, 50139 Firenze, 055-485927, 327-0453975
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La storia ci insegna che gran parte delle ingiustizie politiche si legittima col trascorrere del tempo Questo vale in particolar modo per le conquiste territoriali. Quando sono passate un paio di generazioni l'approccio emotivo di chi le ha vissute direttamente svanisce con loro. O magari sopravvive in alcuni eredi, ma con effetti pratici minimi, perché il resto del mondo non fatica ad accettare uno status quo estraneo alla sua vita quotidiana. Coloro che pur vivendo altrove continuano a reclamare giustizia sono pochi e devono fare i conti con gli equilibri politici che si sono consolidati nel frattempo. Non è necessario risalire al colonialismo classico per capire questo fenomeno.
L'Indonesia ha annesso Papua Occidentale nel 1969 e il Marocco ha fatto lo stesso col Sahara Oc-cidentale nel 1975. Questi sono due casi fra i tanti che all'epoca ricevettero un certo rilievo mediatico, ma che ebbero un impatto minimo sulla gente comune. Se si esclude qualche migliaio di attivisti, oggi nessuno li ricorda. Si sono richiusi come una ferita, lasciando una cicatrice che oggi è diventata quasi invisibile. Il 24 febbraio scorso la Russia ha invaso l'Ucraina, o per meglio dire ha ampliato l'invasione che aveva iniziato nel 2014. Questa guerra sta facendo rinascere una divisione manichea simile a quella che aveva caratterizzato la guerra fredda: da una parte i paesi europei aderenti alla NATO, quindi legati agli Stati Uniti, dall'altra la Russia. Con alcune differenze importanti: i primi sono molto più numerosi di allora e la Russia, per quanto erede dell'URSS, non guida un blocco continentale di paesi satelliti. Vladimir Putin è diventato l'ennesimo "nuovo Hitler", come prima di lui erano stati Saddam Hussein, Muhamar Gheddafi e molti altri. Evocare il dittatore tedesco ha un effetto emotivo assicurato, ma serve solo a confondere le idee. Dopo un giudizio così lapidario non rimane più niente da capire, mentre è proprio capire che deve essere il nostro obiettivo. Stranamente gran parte di coloro che oggi vedono in Putin un "nuovo Hitler" non si sono accorti (o meglio, hanno fatto finta di non vedere) che nel 2014, annettendo la Crimea, la Russia aveva realizzato la più grave violazione dei confini europei dalla Seconda guerra mondiale. Sostanzialmente, una replica dell'Anschluss (annessione dell'Austria) che Hitler aveva fatto nel 1938. Erano 76 anni che un paese europeo non annetteva il territorio di uno stato confinante, ma il fatto è stato accolto con le usuali condanne verbali, solenni quanto inutili, dopodiché è stato archiviato. Del resto, allora la Russia era un partner commerciale appetibile e molti esponenti politici europei esprimevano apertamente la propria ammirazione per Putin. È stato proprio a causa di questa complicità – oggi rinnegata o minimizzata – che la Crimea è stata sacrificata dai "paladini del mondo libero". Matteo Salvini, con esemplare malafede, è arrivato a parlare di "autodeterminazione dei popoli" per compiacere il capo del Cremlino, che allora venerava come un nuovo Messia. Da allora sono passati otto anni e nulla è stato fatto per impedire che la Russia mettesse solide basi in Crimea, né è stato dato alcun rilievo mediatico alle conseguenze dell'annessione. Quella che meritava titoli cubitali in prima pagina è stata trattata come una qualunque notizia di politica estera. Tantomeno abbiamo sentito una parola sui Tartari di Crimea, la minoranza autoctona, già ostaggio della politica dissennata di Kyiv, che in seguito all'annessione è passata dalla padella alla brace. La spietatezza di Mosca nei loro confronti è pari al totale disinteresse dell'UE e dei singoli paesi che la compongono. Questo disinteresse è sospetto: come mai, data l'ondata di russofobia innescata dall'invasione del 24 febbraio scorso, la repressione dei Tartari non viene mai presa in considerazione? Come mai la Crimea viene nominata così raramente, ripetendo in modo vuoto e generico che la sua annessione non verrà mai accettata? Parlare così non costa niente perché non significa niente: nessuno ha riconosciuto l'occupazione turca di Cipro Nord, avvenuta nel 1974, eppure questa dura ancora. Il futuro dei Tartari di Crimea è strettamente legato al futuro della penisola. Coloro che nel settembre del 2022 hanno tuonato contro i referendum che si svolgevano nei territori russofoni dell'Ucraina orientale erano gli stessi che non avevano fatto una piega quando consultazioni analoghe si erano tenute in Crimea. Si erano limitati a condannare i referendum e a dire che non li avrebbero mai riconosciuti, come hanno fatto in settembre per i territori russofoni. Parole vuote, mosse inutili. Anziché bandire artisti e atleti russi, in una caccia all'uomo indegna e disgustosa, è necessario un impegno diplomatico serio e costante per restituire la Crimea all'Ucraina. Naturalmente non è facile, ma è necessario muoversi prima che sia troppo tardi.
I media non ne parlano, ma la resistenza tartara esiste. Abitante originario della Crimea, questo popolo turcomanno di religione islamica è stato la prima vittima dell'offensiva russa contro l'Ucraina. Contrariamente a quello che ripete la stampa, infatti, l'aggressione russa dell'Ucraina non è cominciata il 24 febbraio 2022, ma il 20 febbraio 2014, e ha avuto proprio nell'annessione della Crimea il primo effetto concreto. Da allora il popolo tartaro è soggetto a una repressione feroce ma sostanzialmente ignorata dal resto del mondo. Per capire meglio la questione abbiamo intervistato Zarema Bariieva, direttrice del Crimean Tatar Resource Center, la principale ONG nata per difendere i diritti dei Tartari di Crimea.
Nel maggio del 2022 sei stata all'ONU, dove hai parlato della situazione della lingua tartara nella Crimea occupata. Puoi fornirci un aggiornamento su questo tema?
Nonostante le autorità occupanti abbiano riconosciuto "ufficialmente" la nostra lingua, il suo uso è molto limitato. I siti amministrativi e gli uffici pubblici usano soltanto il russo, mentre in tribunale le persone si rifiutano di testimoniare nella loro lingua madre. In certi casi i lavoratori che si esprimono in tartaro vengono minacciati di licenziamento se lo parlano tra di loro.
Prima dell'occupazione la nostra lingua era materia d'insegnamento in 15 scuole e 384 classi. Oggi, secondo i dati dell'amministrazione russa, ce ne sono 7 dove si insegna il tartaro, 3 con russo e tartaro e 6 che hanno ricevuto lo status di scuole comprensive. L'insegnamento in lingua tartara è consentito soltanto fino 15 anni e su richiesta dei genitori. Le amministrazioni degli istituti scolastici, con vari pretesti, creano ostacoli alla presentazione di tali richieste. Sono stati registrati anche casi di rifiuto: costringono i genitori a rifiutare lo studio della lingua o riducono il numero di ore dedicate a questa materia. Inoltre, nel villaggio di Annovka e nella città di Stary Krym hanno cercato di chiudere le scuole dove si insegnava la lingua tartara.
Un indicatore importante è il rapporto tra il numero di bambini che studiano in russo, tartaro e ucraino. Nell'anno accademico 2020-2021 73.900 bambini studiavano in 554 organizzazioni della Crimea che attuavano programmi di educazione prescolare, di cui 72.600 bambini (98,3%) studiavano in russo, 1.200 (1,6%) in tartaro e 93 (0,1%) in ucraino. L'amministrazione scolastica vieta ai bambini di parlare la loro lingua madre e proibisce la circolazione della cosiddetta letteratura "estremista". Gli agenti dell'FSB (servizi segreti, erede del KGB, ndt) vanno nelle scuole per i cosiddetti "colloqui preventivi" con i bambini tartari. Qui vengono condotti sondaggi per verificare il comportamento delle famiglie.
Le autorità russe sono attivamente impegnate nella riscrittura e nella falsificazione della nostra storia, che ovviamente si riflette anche nei testi scolastici. Il libro di storia per la decima classe, per esempio, conteneva dichiarazioni che incitavano all'odio etnico, in particolare contro il nostro popolo. Il testo conteneva anche affermazioni false e xenofobe sulla nostra storia. Per fortuna, grazie alla pressione dell'opinione pubblica, le autorità russe hanno ritirato questo libro di testo dalle scuole, dove comunque era stato utilizzato nel 2020
Queste azioni violano gravemente numerosi articoli della Dichiarazione universale dei diritti umani, della Convenzione europea dei diritti dell'uomo e della Dichiarazione universale dei diritti dei popoli indigeni. Nella regione di Kherson, a Novoaleksiivka, esiste una scuola dove il 70% degli alunni è costituito da bambini tartari. Nel 2016 erano state aperte alcune classi con l'insegnamento della lingua autoctona. Ma dopo l'occupazione dell'Ucraina meridionale la scuola è stata perquisita e tutto il materiale relativo alla lingua tartara e all'ucraino è stato sequestrato. Inoltre, il direttore e il personale docente sono stati costretti a lasciare la scuola.
Esiste una scuola in lingua tartara nell'Ucraina continentale?
Prima dell'invasione su larga scala (24 febbraio 2022, ndt) a Kyiv, capitale del nostro Paese, era stata creata la scuola domenicale Qırım Ailesi, dove venivano istruiti soprattutto i bambini delle famiglie tartare che avevano lasciato la Crimea dopo l'occupazione del 2014. I bambini hanno avuto l'opportunità di imparare la loro lingua madre, la storia e la cultura. Purtroppo i tartari non formavano un gruppo compatto, ma erano sparsi per tutta Kyiv, così non tutti i bambini hanno potuto frequentare questa scuola. Dopo il 24 febbraio 2022 il direttore, gli insegnanti e un gran numero di famiglie sono stati costretti a fuggire dall'Ucraina. Attualmente la scuola è chiusa.
1783 La Crimea viene annessa all'impero russo.
18 ottobre 1853-30 marzo 1856 Guerra di Crimea fra Russia e un'alleanza formata da impero ottomano, Francia, Gran Bretagna e Regno di Sardegna. La guerra finisce con la vittoria della seconda.
28 novembre 1917 Nasce la repubblica popolare di Crimea, presieduta da Noman Çelebicihan, avvocato, poeta e Gran Muftì, autore della poesia Ant etkenmen (Ho promesso), inno nazionale dei Tartari di Crimea.
14 gennaio 1918 I bolscevichi occupano Sebastopoli e arrestano Çelebicihan.
23 febbraio 1918 I bolscevichi uccidono Çelebicihan.
18 ottobre 1921 Lenin istituisce la Crimea come repubblica autonoma all'interno della Federazione Russa.
28 dicembre 1922 Nascita dell'Unione Sovietica.
1941 L'esercito tedesco occupa la Crimea.
1944 Le truppe sovietiche liberano la Crimea.
18 maggio 1944 Inizia la deportazione dei Tartari.
30 giugno 1945 Mosca cancella l'autonomia della Crimea per punire la popolazione tartara della sua collaborazione con la Germania.
19 febbraio 1954 La Crimea diventa parte dell'Ucraina.
10 gennaio 1991 Referendum per riacquistare lo status di repubblica autonoma: il 94,30% si pronuncia a favore.
12 febbraio 1991 L'Ucraina restituisce alla Crimea lo status di repubblica autonoma.
24 agosto 1991 L'Ucraina dichiara l'indipendenza dall'Unione Sovietica.
26 dicembre 1991 Fine ufficiale dell'Unione Sovietica.
5 maggio 1992 La Crimea dichiara l'indipendenza dall'Ucraina.
13 maggio 1992 L'Ucraina invalida la dichiarazione d'independenza della Crimea.
I settembre 2006 Iniziano le trasmissioni della televisione tartara ATR.
16 marzo 2014 Referendum per il ritorno della Crimea alla Russia.
18 marzo 2014 Annessione ufficiale della Crimea alla Russia.
Qual è la situazione attuale della TV in lingua tartara? È stata chiusa o è ancora attiva?
Il 1° aprile 2015 il canale televisivo ATR ha interrotto le trasmissioni perché le autorità russe non avevano rilasciato la licenza. Sono stati perquisiti gli uffici e le abitazioni di molti dipendenti, dopodiché la struttura e molti impiegati sono stati costretti a lasciare la Crimea e a trasferirsi a Kyiv. Oggi, purtroppo, il canale ha grossi problemi finanziari e non può funzionare normalmente. In Crimea può essere visto solo via satellite o via Internet.
Cosa pensi della Piattaforma Crimea, l'iniziativa internazionale promossa recentemente dal governo ucraino per riacquistare la sovranità sulla penisola?
Siamo convinti che questa iniziativa sia molto importante. Oggi la Piattaforma Crimea conta circa 60 membri fra stati e organizzazioni internazionali. La sua utilità viene confermata da diverse cose. Anzitutto, la reazione della Federazione Russa alla sua creazione; il fatto che gli aderenti siano aumentati: nel 2021 erano 46, mentre oggi sono 60; gli intensi lavori che ha svolto nel corso del 2022.
Per poter liberare la nostra penisola dall'occupazione russa e ripristinare l'integrità territoriale dell'Ucraina abbiamo bisogno di un forte sostegno internazionale. Gran parte dei paesi che aderiscono alla Piattaforma Crimea applica le sanzioni contro la Federazione Russa e fornisce aiuti bellici all'Ucraina.
Pensi che la Crimea possa tornare all'Ucraina?
Noi stiamo facendo tutto il possibile per raggiungere questo obiettivo. Possiamo far conto sulla solidarietà dei paesi che partecipano alla Piattaforma Crimea. In particolare, la Turchia, gli Stati baltici, gli Stati Uniti e il Canada.
Qual è l'impatto dell'attuale guerra sui tartari di Crimea?
La persecuzione dell'amministrazione occupante ha costretto molti tartari a lasciare la Crimea. La situazione è peggiorata ulteriormente con la mobilitazione parziale per la partecipazione alla guerra contro l'Ucraina. Attualmente oltre 150 persone si trovano nelle prigioni dell'FSB, sia sul territorio della Crimea che in Russia, dove sono state portate illegalmente. Oltre 30.000 persone hanno lasciato la penisola. Per non dover combattere nell'esercito russo i tartari sono stati costretti a emigrare in paesi come il Kazakistan, la Georgia, la Turchia e in vari stati dell'Unione Europea.
Quanti sono i tartari che combattono in questa guerra?
I tartari combattono nell'esercito ucraino e nei battaglioni di volontari. Il numero esatto non è noto, ma secondo i nostri dati sono almeno 500. Oggi tutto lascia prevedere che la Crimea sarà liberata in modo ibrido, cioè in modo militare-diplomatico. Per questo è importante che l'esercito ucraino disponga delle armi più sofisticate per distruggere le basi militari in Crimea, cosa che accelererà il processo di liberazione per via diplomatica.
Fra il 1942 e il 1943, quando la Crimea era occupata dall'esercito tedesco,SaideArifova(1916-2007)insegnavainunorfanotrofiodiBakhchysarai dove vivevano numerosi bambini, molti dei quali ebrei. La maestra riuscì a salvarne 87 facendoli passare per tartari: falsificò i nomi e i dati biografici, insegnò loro le preghiere islamiche e fece sparire tutto quello che potesse evidenziare la loro origine israelita. In questo modo li salvò dai rastrellamenti dell'esercito occupante. Nel 1944, quando ebbe iniziò la deportazione dei Tartari ordinata da Stalin, la maestra riuscì a salvarli nuovamente dimostrando le loro vere identità. Altrimenti sarebbero stati considerati tartari e deportati. Questa storia singolare viene raccontata nel film Chuzhaya Molitva (La preghiera di un altro, ed. ingl. 87 Children, 2017), diretto da Akhtem Seitablaev. Il presidente ucraino Zelenskyi ha chiesto al premier israeliano Netanyahu che Saide Arifova venisse inclusa fra i Giusti del Memoriale della Shoah.
https://italia-podcast.it/podcast/troubles-una-storia-irlandese
"Le persecuzioni subite oggi dai Tartari in Crimea sono peggiori rispetto a quelle dei tempi sovietici", ha detto Mustafa Abdülcemil Cemilev (russificato in Dzhemilev) a La Repubblica il 30 aprile 2021, sette anni dopo l'annessione russa della penisola ucraina. Per questa minoranza, che conta circa 250.000 persone, Cemilev è una leggenda vivente. Lontano anni luce dallo stereotipo del tartaro fiero e minaccioso, quest'uomo piccolo e minuto è il fondatore del Mejlis, la principale forza politica dei Tartari di Crimea. Amico di Andrei Sakharov, membro del parlamento ucraino dal 1998 al 2014, da oltre mezzo secolo si batte pacificamente per i diritti del suo popolo. Nel 2013 ha lasciato la guida del Mejlis a Refat Chubarov, ma le sue parole conservano tuttora un peso notevole.
Il referendum del 16 marzo 2014 ha sancito l'annessione della Crimea alla Russia: il 95% dei votanti, due terzi dei quali russi, ha votato a favore. Il Mejlis ha boicottato il voto, ma secondo i dati ufficiali il 40% della minoranza tartara (100.000 persone) avrebbe partecipato al referendum, che non ha ottenuto il riconoscimento internazionale. Dopo l'annessione oltre 50.000 persone, in prevalenza tartari, hanno lasciato la penisola per stabilirsi in città ucraine come Kherson, Kyiv e Leopoli.
Turcomanni aderenti all'Islam sunnita, i Tartari della Crimea discendono dai Mongoli dell'Orda d'Oro, che scomparve nella prima metà del quindicesimo secolo. Quindi crearono un khanato indipendente che fu poi annesso dall'impero ottomano e successivamente dalla Russia zarista (1783). Sebastopoli, porto strategico sul Mar Nero, divenne la sede della flotta russa preposta alla difesa del Mar Nero. In questo modo la città acquisì uno status distinto rispetto al resto della penisola, che avrebbe conservato per sempre. Nel 1921 Lenin riconobbe alla Crimea lo status di repubblica autonoma all'interno della repubblica russa. Durante la Seconda Guerra Mondiale la penisola fu occupata dall'esercito tedesco. Alcune migliaia di tartari si arruolarono nelle Krimtatarische Selbstschutzkompanien comandate dagli occupanti. Come altre minoranze, i Tartari non lo fecero per convinta adesione all'ideologia nazionalsocialista, ma perché speravano che la vittoria tedesca avrebbe indebolito il potere centrale e facilitato la conquista dell'indipendenza. Fu proprio da questa scelta che derivò la loro tragedia. Liberati i territori occupati, Stalin decise di "punire" i popoli che avevano collaborato col nemico, o che comunque gli erano invisi per altri motivi. Non solo i Tartari, ma anche altri sette: Balkari, Calmucchi, Ceceni, Ingusci, Karachai, Mescheti e Tedeschi del Volga. Un milione e mezzo di persone furono deportate in varie regioni sovietiche centrasiatiche e siberiane.
La tragedia del popolo tartaro ebbe inizio nella notte del 18 maggio 1944: tutti i membri della minoranza vennero prelevati casa per casa e deportati in Uzbekistan o in remote regioni dell'URSS. Circa la metà morì durante il viaggio o subito dopo. L'anno successivo un decreto cancellò l'autonomia della penisola. Kruscev decise poi di "regalare" la penisola all'Ucraina in occasione del 300º anniversario del Trattato di Perejaslav tra i cosacchi ucraini e la Russia.
Negli anni Sessanta le autorità furono tempestate da appelli che chiedevano il rimpatrio dei Tarta-ri. Molti attivisti furono condannati al carcere duro. Nel 1962, insieme ad altri attivisti, Cemilev fondò un'associazione che reclamava il diritto di rimpatriare. Il 5 settembre 1967 il Soviet Supremo emanò un decreto che riabilitava i Tartari dall'accusa di collaborazionismo, ma non permise loro di tornare in Crimea. Le proteste continuarono. Un atto successivo (14 novembre 1989) condannò le deportazioni del 1944 e permise finalmente il rimpatrio. Nel 1992, caduta l'URSS, la Crimea proclamò l'indipendenza, ma poi accettò di restare parte dell'Ucraina come repubblica autonoma. Nel frattempo il rimpatrio dei tartari aveva portato la loro percentuale al 2%, mentre i russi restavano i 2/3 della popolazione.
Secondo la maggioranza degli studiosi la deportazione dei Tartari che avvenne nel 1944 deve essere considerata un genocidio. Negli ultimi anni, soprattutto dopo l'annessione russa della Crimea, questa tragedia dimenticata sta uscendo dal buio della storia. In realtà il genocidio era già stato riconosciuto nel 2015 dal Parlamento ucraino, che aveva istituito il "giorno del ricordo per le vittime del genocidio dei Tartari di Crimea" (18 maggio). Nello stesso anno era uscito il libro The Crimean Tatars: From Soviet Genocide to Putin’s Conquest (Hurst),scritto da BrianGlyn Williams. Mail temanon era ancoraemerso a livello internazionale. Nel 2019, al contrario, il genocidio è stato riconosciuto da Canada, Lettonia e Lituania. Presto potrebbe farlo anche la Polonia, che nel febbraio del 2022 aveva avanzato la candidatura di Mustafa Cemilev al Premio Nobel per la pace.
La minoranza tartara aveva partecipato attivamente alle proteste che avevano sconvolto l'Ucraina durante le settimane dell'annessione. Non a caso la prima vittima dell'invasione era stata proprio un tartaro, il trentanovenne Reshat Ametov, che aveva manifestato pacificamente prima di essere arrestato e ucciso. "Amico russo, se te lo ordinano, mi sparerai?": questo è il testo dell'ultimo post che aveva diffuso su Facebook. Il 18 marzo 2014 la Russia ha formalmente incorporato la Crimea come due soggetti federali della Federazione Russa (Sebastopoli e Repubblica di Crimea).
Il 21 maggio 2014 l'Ucraina ha firmato la Dichiarazione sui diritti dei popoli indigeni, che non aveva votato al momento dell'approvazione (2007). Due anni dopo (2016) ha riconosciuto i Tartari della Crimea come popolo indigeno. Ignorata a lungo dai media, la minoranza è divenuta oggetto di attenzione mediatica grazie a Jamala, la cantante tartara che ha vinto il Festival della canzone europea nel 2016. La sua canzone, 1944, fa esplicito riferimento alla deportazione che i Tartari subirono in quell'anno. Questo ha generato una forte tensione diplomatica fra Ucraina e Russia. Yelena Drapeko, membro della Duma di Stato (la Camera russa), ha detto che la vittoria di Jamala era parte integrante di una "campagna di propaganda e di disinformazione contro la Russia".
Putin, dal canto suo, non aveva dimenticato la fiera opposizione che i Tartari avevano ma-nifestato all'annessione. In un primo momento si è mostrato benevolo verso di loro, esortandoli ad accettare la nuova situazione e promettendo che Mosca avrebbe garantito loro condizioni migliori. Ma poco dopo ha cominciato a mostrare un atteggiamento ostile: nell'estate del 2014 Cemilev e ChuChubarov sono stati espulsi per cinque anni con l'accusa di "estremismo". Nel 2016 il Mejlis è stato messo fuorilegge. Molte persone sono state malmenate, altre sono scamparse senza lasciare traccia. Numerosi uomini sono stati accusati di militare nell'Hizb ut-Tahrir, un'organizzazione musulmana
fuorilegge, poi processati e condannati. L'ondata repressiva è stata denunciata da Amnesty International, mentre il Consiglio d'Europa e il Parlamento Europeo hanno approvato le usuali risoluzioni di condanna, solenni quanto vane. La Russia ha tagliato le frequenze dell'ATR, il canale televisivo ucraino che trasmette in lingua tartara, e ha oscurato il suo sito. Le ONG sono state costrette a iscriversi in un registro pubblico, ma a molte è stata negata la registrazione.
L'Ucraina non ha mai accettato l'annessione della Crimea, lamentando al tempo stesso lo scarso rilievo internazionale della questione: "Nessuno vuole parlare della Crimea, soprattutto la Russia. Ho sollevato la questione. Ma abbiamo dedicato tutto il tempo al Donbass. La Russia non ne vuole parlare e non ho paura di dirlo" da detto il presidente Zelenskyj in un'intervista concessa a Euronews il 26 agosto 2020. Ma non si è limitato alle parole. Il 23 agosto 2021 Kyiv ha ospitato il primo vertice della Piattaforma Crimea (Crimean Platform), un'ambiziosa iniziativa promossa dal governo per internazionalizzare la questione. In altre parole, per cercare di riconquistare la penisola. All'incontro hanno partecipato i rappresentanti di 44 paesi. Ma ora, dopo l'invasione del 24 febbraio, l'attenzione dei media si concentra sulla guerra impone al mondo di guardare altrove, dimenticando la Crimea. Non solo, ma Putin ha chiarito più volte che il riconoscimento internazionale della sovranità russa sulla penisola è un punto essenziale per qualsiasi accordo di pace.
In molti popoli che lottano per affermare i propri diritti emergono persone che assurgono a simboli viventi. Gli esempi sono tanti: Leyla Zana, la parlamentare kurda che ha passato 10 in prigione per aver usato ufficialmente la propria lingua; Edmond Simeoni, che ha dedicato la vita alla realizzazione di una Corsica autonoma; Mustafa Abdülcemil Cemilev, noto anche come Qirimoğlu (figlio della Crimea), che da oltre mezzo secolo guida la resistenza nonviolenta dei Tartari di Crimea. Natonel 1943,a18anni fondailprimomovimentogiovanile con altri attivisti. Il loro obiettivo principale è quello di poter tornare in patria, dalla quale l'intero popolo è stato deportato nel 1944. Arrestato più volte, Cemilev trascorre 15 anni in prigione.
Nel 1989 ritorna in Crimea. Due anni dopo viene eletto presidente del Mejlis, il massimo organo politico tartaro, che nello stesso anno è fra i fondatori dell'UNPO, la prima organizzazione mondiale dei popoli non riconosciutidall'ONU. Nel2014Cemilevvieneespulsodalla Crimea per essersi opposto all'annessione.
Giovanna MarconiLe difficoltà della guerra si sono ulteriormente aggravate in settembre, quando Putin ha fatto richiamare i riservisti per rinforzare l'offensiva russa. In Crimea la mobilitazione ha interessato 60.000 persone, buona parte delle quali tartari. Il Mejlis si è rivolto a tutti gli abitanti della penisola – che non hanno perduto la cittadinanza ucraina – affinché protestassero e rifiutassero di arruolarsi. Dato che alla resistenza ucraina partecipano circa 500 tartari, quelli della Crimea che si arruolassero nell'esercito russo dovrebbero combattere contro i loro fratelli. Nel frattempo la repressione della minoranza, ma prosegue anche l'attività di Crimean Solidarity, un movimento civico non violento nato per difendere non soltanto i tartari, ma anche gli altri abitanti non russi della penisola.
Fra settembre e ottobre le fonti ufficiali ucraine cominciano a parlare di un piano per riconquistare la Crimea. "Forse non accadrà domani, ma credo che sarà molto più rapido di quanto pensassi un anno fa" ha affermato Tamila Tasheva, alto rappresentante del presidente Zelenskyj per la Crimea. Nessun analista crede che l'Ucraina sia in grado di raggiungere un obiettivo così ambizioso, ma in ogni caso l'idea non sembra più assurda come prima.
Il 17 marzo 1968, a Mosca, alcune organizzazioni tartare della Crimea organizzarono una festa per il compleanno di Aleksei Kosterin (1896-1968), scrittore e dissidente che sosteneva la battaglia dei Tartari per rimpatriare nella loro terra, dalla quale erano stati deportati in massa nel 1944. Kosterin era molto malato e chiese all'ex maggiore generale Petro Grigorenko (1907-1987) di partecipare alla festa in sua vece. Originario dell'Ucraina, Grigorenko era stato arrestato e rinchiuso in manicomio nel 1964 per avere accusato il governo di praticare una politica oppressiva e di aver tradito i principi leninisti. Il discorso che segue, pronunciato in occasione della festa suddetta, mette in evidenza i legami fra i Tartari di Crimea e il movimento dissidente sovietico. Nel 1969 Grigorenko fu arrestato per la seconda volta a Tashkent, dove doveva assistere ai processi contro gli attivisti tartari, e trascorse cinque anni in un ospedale psichiatrico. Nel 1977 gli fu permesso di partire per New York, dove morì nel 1987.
Adesso vorrei esprimere quello che Kostyorin e io pensiamo dei vostri problemi. Ormai sono quasi 25 anni che il vostro popolo è stato cacciato dalle sue case, espulso dalla terra degli avi e costretto a vivere in esilio, in condizioni così spaventose che rischiavano di annientarlo. Ma il popolo tartaro della Crimea, forte e coraggioso, è riuscito a sopravvivere.
Dimezzato da questa tragedia, ha raccolto le forze e ha cominciato a lottare per i propri diritti politici e culturali. Questa battaglia non è stata inutile: lo status di deportati in esilio è stato revocato e il popolo è stato riabilitato ufficialmente. Certo, questa riabilitazione è stata fatta in silenzio... il che l'ha resa in gran parte inutile. La maggioranza del popolo sovietico, che in precedenza era stata ampiamente informata che i Tatari di Crimea avevano venduto la Crimea, non ha mai saputo che questa "vendita" era una stata una montatura. Ma la cosa peggiore è che il decreto sulla riabilitazione politica... ha legalizzato la liquidazione della nazionalità tartara di Crimea. Ora, a quanto pare, non ci sono più tartari di Crimea, ma solo tartari che prima vivevano in Crimea. Questo dimostra che la vostra lotta non solo non ha raggiunto il suo obiettivo, ma ha peggiorato le cose. Siete stati sottoposti alla repressione in quanto tartari di Crimea, ma ora, dopo la "riabilitazione politica", la vostra nazionalità non esiste più, mentre la discriminazione è rimasta. Non avete commesso i crimini per cui siete stati espulsi dalla Crimea, ma non vi è permesso di tornarci. Perché il vostro popolo è stato colpito in questo modo? L'art. 123 della Costituzione sovietica recita: "Qualsiasi limitazione diretta o indiretta dei diritti... dei cittadini a causa della loro appartenenza razziale o nazionale... è punita dalla legge".
Quindi la legge è dalla vostra parte. Ma i vostri diritti vengono violati. Perché? Crediamo che il motivo principale sia la sottovalutazione del nemico. Pensate di avere a che fare con persone oneste, ma non è così! Ciò che ha subito il vostro popolo non è stato fatto solo da Stalin. I suoi complici sono ancora vivi e occupano posizioni di rilievo. Voi vi rivolgete ai vertici del partito e dello Stato con garbo. Ma ciò che vi appartiene di diritto non va chiesto, bensì preteso. Dovete chiedere tutto ciò che vi è stato tolto illegalmente: chiedete la ricostituzione della Repubblica Socialista Sovietica Autonoma di Crimea!
Non limitatevi a scrivere petizioni. Utilizzate tutti i mezzi che la Costituzione mette a vostra disposizione: la libertà di parola e di stampa, le riunioni, le assemblee e le dimostrazioni. A Mosca viene pubblicato un giornale per voi. Ma le persone che stanno dietro a quel giornale non sostengono il vostro movimento. Togliete loro il giornale. Eleggete la vostra redazione. E se qualcuno vi ostacola, boicottate quel giornale e createne un altro, tutto vostro! Un movimento non può svilupparsi normalmente senza una propria stampa.
Non chiudetevi in un ristretto guscio nazionalista. Stabilite contatti con tutti i progressisti dell'URSS. Non considerate la vostra causa una questione interna all'Unione Sovietica. Coinvolgete l'opinione pubblica progressista e le organizzazioni internazionali. Ciò che vi è stato fatto nel 1944 ha un
nome: genocidio. Il trattato approvato dall'ONU il 9 dicembre 1948 si riferisce al genocidio come segue: "... azioni compiute con l'intento di distruggere in tutto o in parte un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso..." con vari mezzi e in particolare con l'instaurazione intenzionale "di condizioni di vita che hanno come scopo lo sterminio fisico totale o parziale". Tali azioni, "secondo il diritto internazionale, sono un crimine che deve essere condannato dal mondo civile e per i quali i colpevoli e i loro complici devono essere puniti".
Come vedete, anche il diritto internazionale è dalla vostra parte. E se non riuscite a risolvere la questione all'interno del Paese, potete appellarvi all'ONU e alla Corte internazionale. Smettete di chiedere! Riprendetevi ciò che vi appartiene di diritto e vi è stato tolto illegalmente! E ricordate: in questa giusta e nobile lotta non dovete permettere al nemico di impadronirsi dei guerrieri che guidano il vostro movimento. In Asia centrale c'è già stata una serie di processi in cui i combattenti per l'uguaglianza dei Tartari di Crimea sono stati condannati con false accuse. Proprio ora a Tashkent si sta preparando un processo contro Enver Mametov, Yuri e Sabri Osmanov e altri. Non lasciate che siano condannati ingiustamente.
Chiedete che il processo sia pubblico, andateci in massa e non permettete che l'aula del tribunale sia piena di gente allineata col potere. I vostri rappresentanti devono essere presenti. Ad Alexei Kostyorin, ai successi del popolo tartaro, alla Repubblica autonoma di Crimea!
I legami fra Tartari della Crimea e Ucraini hanno radici profonde. Attorno alla metà del diciassettesimo secolo, per esempio, i Tartari aiutarono i cosacchi ucraini guidati da Bohdan Khmelnytsky nella lotta per l'indipendenza dalla confederazione polacco-lituana
Nel Novecento la figura centrale di questi legami è Larysa Petrivna Kosač-Kvitka (1871-1913), nota come Lesya Ukrainka, un'importante poetessa ucraina che difende strenuamente l'indipendenza politica e culturale del suo paese, parte dell'impero russo. Lesya Ukrainka è malata di tubercolosi ossea fin dall'adolescenza, così i medici le prescrivono di soggiornare in Crimea, dove il clima allevia gli effetti della malattia. La penisola diventa presto la sua seconda patria. La poetessa descrive città come Yalta, dove risiede, Yevpatoria e Bakhchysara. Tratteggia accuratamente il paesaggio, la natura e i suoi mutamenti stagionali. Animata da una forte voglia di vivere, lotta contro la malattia pur sapendo che la sua situazione è disperata: Contra spem spero (Spero comunque) è il titolo di una delle sue poesie più famose. Durante il soggiorno nella penisola scrive due cicli poetici, Krymski spohady (Memorie di Crimea, 1890-91) e Krymski vidhuky (Echi di Crimea, 1897-98). Qui traspare l'influenza di Adam Mickiewicz (1798-1855), il poetaromanticopolaccochehascritto Sonety krymskie (1826,tradottopiùvolteinitalianocol titolo I sonetti di Crimea).
Nelle opere che Lesya scrive in Crimea trovano un certo spazio i Tartari, che la poetessa osserva con sincero interesse. Parla con loro, studia i loro abiti, la loro storia e il loro folklore orale. Al tempo stesso, denuncia l'oppressionedelregimezarista: "Inquestoterritorio,l'ingiustiziacontinuaancoraoggi".Nellasuaappassionataricercagiocaunruolomoltoimportantelamadre,l'etnografaOlenaPchilka.Lesyaraccoglieilmateriale per un libro sulle tecniche ornamentali tartare, ma non riesce a finirlo perché muore a 42 anni.
Il termine "annessione pacifica" è stato coniato nel 2014 dal professor Anatoly Kapustin, che l'ha utilizzato in una lettera diretta ai membri della International Law Association. Successivamente è stato ripreso da altri, fra i quali il presidente della Duma di Stato russa. L'argomentazione di Mosca è la seguente: il trasferimento della Crimea dalla Russia all'Ucraina, avvenuto nel 1954, è stato fatto in modo incostituzionale e deve essere considerato nullo. Non solo, ma anche se fosse stato costituzionale, si trattava di un semplice accordo amministrativo interno all'URSS, che in quanto tale non avrebbe dovuto creare un confine internazionale.
Il 1o dicembre 1991 il 90,32% della popolazione ucraina ha confermato con un referendum la dichiarazione d'indipendenza che il Parlamento di Kyiv aveva approvato il 24 agosto. In Crimea i voti favorevoli hanno raggiunto soltanto il 54%. Secondo il governo russo, però, la Crimea non sarebbe dovuta passare all'Ucraina per due motivi: in primo luogo, perché il trasferimento fissato da Kruscev nel 1954 era illegale, e in secondo luogo perché gli abitanti della Crimea avevano votato per la conservazione dell'URSS nel referendum sovietico del 1991. Alcuni studiosi russi ritengono che lo stesso ragionamento sia applicabile anche ad altre regioni post-sovietiche.
Con l'indipendenza proclamata da Kyiv la Russia ha accettato la "pacifica annessione" ucraina della Crimea, ma a certe condizioni. Queste includevano almeno la possibilità per la Russia di affittare la base navale di Sebastopoli, ma forse anche ulteriori condizioni politiche. Ad esempio, nel suo "discorso sulla Crimea" del 18 marzo 2014 il Presidente Putin ha affermato che, per evitare che le dispute territoriali rovinassero le buone relazioni fra i due stati, la Russia si aspettava che l'Ucraina proteggesse i diritti dei suoi abitanti russofoni. Questa condizionalità dei rapporti confinari fra alcuni Stati post-sovietici non è una novità, poiché questa posizione si ritrova anche in vari documenti e nelle dichiarazioni ufficiali di Mosca, per esempio in relazione alla Moldavia. Poi, con l'evolversi degli eventi che ha segnato l'inizio del 2014, la Russia ha considerato che l'Ucraina avesse violato il patto che le aveva permesso di conservare la Crimea dopo l'indipendenza e ha reagito rivendicando i propri "diritti storici" sulla penisola. Questa tesi impone varie considerazioni.
Anzitutto, il trasferimento originario del 1954 era stato fatto secondo i requisiti costituzionali dell'URSS. Successivamente era stato codificato nella Costituzione sovietica del 1977, nella Costituzione russa del 1978 e in quella ucraina del 1978. Quindi non ha senso affermare che il trasferimento fosse avvenuto illegalmente. Quando l'URSS si è dissolta, inoltre, tutte le repubbliche hanno accettato di applicare il principio giuridico internazionale chiamato uti possidetis juris, che ha trasformato i precedenti confini interni in confini internazionali. Di conseguenza tutte le 15 repubbliche sono diventate indipendenti all'interno dei vecchi confini amministrativi. Ciò ha lasciato la Crimea indiscutibilmente all'interno dell'Ucraina. Non solo, ma la Russia ha chiesto esplicitamente che i suoi confini con l'Estonia non venissero ridisegnati e quindi si basassero sul principio uti possidetis juris. Oggi, invece, Mosca sta mostrando un'atteggiamento incoerente, non riconoscendo i confini post-sovietici fissati all'epoca.
In terzo luogo, la Russia ha riconosciuto più volte i confini ucraini, in accordi bilaterali e multilaterali, sotto gli auspici della Comunità degli Stati Indipendenti (CSI) e nella legislazione interna russa. La condizionalità dei confini non emerge da nessuno di questi documenti. In quarto luogo, la Crimea aveva effettivamente votato per il mantenimento dell'URSS nel marzo 1991, così come gli ucraini. Tuttavia, la situazione era cambiata radicalmente nel referendum sull'indipendenza ucraina (1991), dove i crimeani si erano espressi a favore dell'indipendenza del nuovo stato.
Infine, i tre accordi che regolavano la locazione di Sebastopoli non contengono alcun riferimento al fatto che la loro violazione avrebbe comportato la perdita della sovranità ucraina sulla città, e tan-
to meno sull'intera penisola. Tutte queste giustificazioni sembrano essere state create per necessità, per giustificare atti che sono contrari alle norme giuridiche internazionali e alla dottrina russa del diritto internazionale, oltre che a numerosi accordi internazionali firmazi dalla Russia. Inoltre sono in linea con le argomentazioni che Putin ha esposto nel suo discorso sulla Crimea. Come ha detto Chris Borgen, "la Russia sta costruendo una concezione revisionista del diritto internazionale per servire le sue esigenze di politica estera".
L'annessione riparatrice della Crimea
Ora che ho spiegato le ragioni addotte dalla la Russia per non rispettare l'integrità territoriale ucraina, passerò al secondo punto, le motivazioni che darebbero alla Russia il diritto di risolvere la situazione attraverso l'annessione. La secessione riparatoria è una dottrina controversa del diritto internazionale, secondo la quale si può secedere da uno Stato esistente in circostanze eccezionali. Queste circostanze possono includere gravi e sistematiche violazioni dei diritti umani o la negazione altrettanto sistematica del loro diritto all'autodeterminazione interna. In entrambi i casi il diritto viene riconosciuto soltanto dopo aver utilizzato tutti i mezzi pacifici disponibili.
Prima del 2008 la Russia era solita opporsi a qualsiasi diritto di secessione in assenza di un accordo con Mosca. La Corte costituzionale russa aveva affermato che l'integrità territoriale è più forte del diritto alla secessione nei casi del Tatarstan (1992) e della Cecenia (1995). Tuttavia, dopo la dichiarazione di indipendenza del Kosovo e, soprattutto, dopo la guerra di Georgia (rispettivamente nel febbraio e nell'agosto 2008), la Russia ha recepito il diritto alla secessione riparatrice. Quando ha riconosciuto l'indipendenza dell'Abkhazia e dell'Ossezia del Sud dalla Georgia, la Russia ha fatto appello al precedente che l'indipendenza del Kosovo aveva creato all'inizio dello stesso anno.
Le argomentazioni russe non sono state convincenti, poiché la tesi che la Georgia fosse colpevole di genocidio sono state successivamente respinte da una commissione indipendente, e l'indipendenza delle due regioni georgiane è stata riconosciuta soltanto da quattro Stati, mentre all'epoca quella del Kosovo era stata riconosciuta da 114. Inoltre, la commissione d'inchiesta ha dichiarato esplicitamente che il Kosovo non aveva creato un precedente legale che si potesse applicare al caso georgiano.
Il principio della secessione riparatoria viene accettato in certi ambienti politici e accademici. Ad esempio, 11 Stati hanno l'hanno sostenuto negli atti del parere consultivo sul Kosovo che hanno rilasciato alla Corte internazionale di giustizia. Il documento russo rifletteva il nuovo orientamento di Mosca sostenendo che, mentre di solito l'autodeterminazione deve essere esercitata all'interno dello stato esistente, in situazioni veramente estreme può essere giustificata la secessione riparatoria, a patto che il comportamento dello stato metta in pericolo l'esistenza stessa del popolo in questione. Tuttavia, la maggioranza degli Stati rifiuta il diritto alla secessione riparatoria. Purtroppo la Corte internazionale di giustizia non ha affrontato questo tema nel parere consultivo del 2010.
Nel 2014 la Russia si è espressa nuovamente a favore della secessione riparatoria. Secondo Mosca la Crimea ha esercitato il suo diritto alla secessione riparatoria, quindi è stata riconosciuta come indipendente dalla Russia, che poi l'ha incorporata come soggetto federale. Ma il requisito addotto, cioè che la popolazione della Crimea fosse minacciata nella sua stessa esistenza, era inaccettabile. Gli stessi studiosi russi erano tutt'altro che concordi nell'individuare questi requisiti. Ad esempio, mentre Kapustin e il presidente della Corte Costituzionale russa sostenevano l'esistenza di minacce fisiche, i professori Tomsinov e Tolstykh si concentravano sul "genocidio culturale" causato dalla discriminazione della lingua russa. Così è stato necessario far ricorso ad altre giustificazioni, in particolare alla volontà di unirsi alla Russia espressa nel referendum del 16 marzo 2014. Inoltre, è stato introdotto il concetto assolutamente nuovo di "annessione pacifica", che la Russia avrebbe accettato nel 1991 a condizione di poter usare la base navale di Sebastopoli.
Molto probabilmente la decisione di annettere - o, secondo la narrazione ufficiale russa, di incorporare - la Crimea, piuttosto che riconoscerla come indipendente, è stata presa per necessità: la sua indipendenza avrebbe ricevuto nella comunità internazionale un sostegno altrettanto scarso di quello dell'Abkhazia e dell'Ossezia del Sud. Inoltre la Russia avrebbe dovuto assicurarsi il diritto di costruire ulteriori difese militari in Crimea in ogni caso, per evitare che l'Ucraina potesse recuperare la penisola.
Conclusioni
Secondo la Russia, quindi, la Crimea è stata annessa due volte nell'arco di 23 anni: la prima volta illegalmente e la seconda legalmente. Si tratta di una tesi molto discutibile: anche se alcuni funzionari russi non l'avevano mai riconosciuta come parte dell'Ucraina, ìl concetto di "annessione pacifica" è stato inventato nel 2014 per legittimare l'azione russa.
In secondo luogo, l'idea che alcune frontiere post-sovietiche siano sottoposte a condizioni esplicite contrasta con il diritto internazionale e può avere conseguenze devastanti. Prima della guerra russo-georgiana dell'agosto 2008 l'inviato speciale russo presso la NATO aveva affermato che se l'Ucraina e la Georgia avessero aderito all'Alleanza avrebbero difficilmente conservato i loro confini. Inoltre, le linee-guida ufficiali della politica estera prevedono che la Moldavia possa mantenere i confini attuali soltanto se resterà neutrale. In effetti, è importante notare che, nonostante tutta la retorica, la Crimea non rappresenta un caso speciale nella politica russa verso gli stati post-sovietici. Prima di annettere la penisola, infatti, la Russia aveva riconosciuto le secessioni riparatrici dell'Abkhazia e dell'Ossezia del Nord, e aveva persino affermato in anticipo che si preparava a farlo. Per concludere, qualsiasi affermazione di "diritti storici" deve essere rigorosamente contrastata se viola il diritto internazionale o gli atti dell'ONU e di organismi analoghi, come nel caso della Crimea. La maggior parte degli stati avrebbe molte ragioni per rivendicare "diritti storici" o correggere "torti storici". Nel contesto contemporaneo, basato sull'uguaglianza sovrana degli stati che rispettano l'integrità territoriale e conducono le loro relazioni in base alla Carta delle Nazioni Unite, i confini internazionali possono essere modificati soltanto con un comune accordo.
UNIONE SOVIETICA Lituania(11/3/1990)-Lettonia(4/5/1990)-Georgia(9/4/1991)-Bielorussia(3/7/1991) Estonia (20/8/1991)-Moldavia(27/8/1991)-Kirghisistan(31/8/1991)-Uzbekistan(1/9/1991)-Tagikistan(9/9/1991) Armenia (21/9/1991) - Ucraina (24/9/1991) - Turkmenistan (27/9/1991) -Azerbaigian (18/10/1991) - Kazakistan (16/12/1991)Russia (25/12/1991)
GERMANIA EST Annessione alla Germania Ovest (3/10/1990)
JUGOSLAVIA Slovenia (25/6/1991) - Croazia (25/6/1991) - Macedonia del Nord* (8/9/1991) - Bosnia-Erzegovina (1/3/1992) - Kosovo# (17/2/1998) - Serbia-Montenegro (4/2/2003) - Serbia (3/6/2006) – Montenegro (3/6/2006)
CECOSLOVACCHIA Repubblica Ceca (1/1/1993) - Slovacchia (1/1/1993)
UCRAINA Crimea** (repubblica autonoma annessa dalla Russia, 18/3/2014) - Donetsk, Luhansk, Kherson e Zaporizhzhia (province annesse dalla Russia, 30/9/2022)
* Diventata indipendente come Repubblica di Macedonia, ha assunto il nome attuale il 12/2/2019.
#Al 31 luglio 2022 è stato riconosciuto da 119 paesi.
** Annessione riconosciuta soltanto dalla Bielorussia.
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Amici! Ormai ci siamo. Stiamo per includere un nuovo soggetto nella Federazione Russa. Stiamo per assistere al tramonto del diritto internazionale, alla nascita del caos economico e della dittatura politica. Siamo in guerra con il popolo ucraino, con i nostri fratelli slavi, mentre assistiamo a un netto deterioramento delle relazioni con l'Europa e l'America. Torna la guerra fredda, o forse una guerra vera e propria contro di loro.
Ma non è una storia nuova. Austria, marzo 1938. I nazisti vogliono completare il loro Reich annettendo un altro stato germanofono. Gli austriaci non lo vogliono: nessuno li opprime, nessuno li discrimina. Ma l'idea di una grande Germania è troppo eccitante per i nazisti locali. Così il cancelliere Kurt Alois von Schuschnigg annuncia che il 13 marzo si terrà un referendum per decidere il futuro del paese. Ma ai nazisti di Berlino e Vienna questo non basta. E se il popolo si pronunciasse contro l'Anschluss? Il 10 marzo Schuschnigg è costretto a dimettersi. Al suo posto il presidente nomina il capo dei nazisti locali, Arthur Seyss-Inquart, mentre le divisioni tedesche stanno già entrando nelle città austriache su invito del nuovo cancelliere. L'esercito capitola. Alcuni accolgono con entusiasmo i nazisti, altri restano a casa impauriti, altri ancora fuggono in Svizzera. Il cardinale Innitzer benedice l'annessione...
Il 13 marzo iniziano gli arresti. Il giorno prima è stato imprigionato il cancelliere Schuschnigg. Il 10 aprile si tiene il plebiscito. In Germania il 99,08% vota per l'unificazione con l'Austria, mentre nel paese confinante, che diventa l'Ostmark dell'impero tedesco, i favorevoli sono il 99,75%. Il 1o ottobre 1938 anche i Sudeti cechi vengono annessi dalla Germania, mentre il 22 marzo 1939 tocca alla regione lituana di Klaipeda, che in poche ore diventa la Memel tedesca. In tutte queste terre ci sono minoranze tedesche più o meno consistenti e molti vogliono unirsi al Reich nazista. Ovunque questa unione viene salutata da folle entusiaste ubriache di sciovinismo, mentre le potenze occidentali osservano conniventi.
"Non dobbiamo ingannare, tanto meno illudere gli stati piccoli e vulnerabili, promettendo loro la nostra protezione o quella della Società delle Nazioni", dice Neville Chamberlain al Parlamento britannico il 22 febbraio 1938, "perché sappiamo che questo sarebbe impossibile." Il 23 marzo 1939, arrivato a Memel appena annessa, Adolf Hitler parla in modo molto diverso: "I tedeschi non faranno niente di male a nessuno, ma non possiamo più tollerare le sofferenze che i tedeschi di tutto il mondo patiscono da 20 anni ... La Germania ha già abbandonato i tedeschi di Memel al loro destino quando si è rassegnata alla vergogna e al disonore. Oggi i tedeschi di Memel... stanno tornando ad essere cittadini del potente Reich, determinati a prendere in mano il proprio destino, anche se a mezzo mondo questo non piacerà." Sembra un trionfo. La gloria di Hitler tocca lo zenith, mentre il mondo trema davanti alla Grande Germania. Regioni e paesi aderiscono al Reich senza che si spari un solo colpo, senza che si versi una sola goccia di sangue: il Führer non è forse uno statista geniale? Ma sei anni dopo la Germania viene sconfitta, milioni di tedeschi sono morti, le sue città sono distrutte, i valori culturali tedeschi, costruiti nei secoli, trasformati in polvere. La Germania ha perso due quinti del proprio territorio, mentre quello che resta viene diviso e occupato dalle potenze vincitrici. I tedeschi sono sommersi dalla vergogna.
Amici! La storia si ripete. I russi vivono in Crimea. Ma qualcuno li ha oppressi lì, erano persone di seconda classe lì, senza diritto a una lingua, alla fede ortodossa? Da chi devono proteggerli i soldati dell'esercito russo? Chi li ha attaccati? L'ingresso di truppe di uno stato straniero nel territorio di un altro stato senza il suo consenso è un'aggressione. L'occupazione del Parlamento da parte di individui in uniforme non contrassegnati è arbitraria. L'adozione di qualsiasi decisione da parte del Parlamento della Crimea in tali circostanze è una farsa.
Al referendum del 16 febbraio 2014 gli osservatori indipendenti non erano stati ammessi. Al loro posto erano stati invitati 12 esponenti politici di vari paesi europei, di cui 4 filorussi o stalinisti, 7 neofascisti o dell'estrema destra e Fabrizio Bertot, parlamentare europeo di Forza Italia. I legami della Russia con i partiti dell'estrema destra europea sono confermati da numerosi libri e dalle prese di posizione di vari esponenti politici.
In seguito al risultato del referendum, la Crimea è stata annessa alla Russia il 20 febbraio 2014 (nella foto Putin firma l'atto ufficiale). L'annessione è stata riconosciuta da tre Consigli regionali a guida leghista: Veneto(18 maggio 2016), Liguria (29 giugno 2016) e Lombardia (5 luglio 2016). Due mozioni analoghe sono state presentate in Toscana e in Emilia-Romagna, ma non sono state approvate. A favore dell'annessione si è pronunciata anche Marine le Pen, presidente del Front National (oggi Rassemblement National).
Il presidente statunitense Donald Trump sembrava fortemente intenzionato a fare lo stesso, ma i suoi consulenti lo hanno convinto a cambiare idea. L'unico stato che ha riconosciuto l'annessione è la Bielorussia.
La stampa estera ha dato ampio spazio all'annessione della Crimea, come attestano Time (Stati Uniti), Polytika (Polonia), Libération (Francia) ed Elsevier (Paesi Bassi). In Italia l'interesse è stato meno marcato.
Prima il Parlamento è stato sequestrato, il Primo Ministro è stato sostituito con uno filorusso, poi quest'ultimo ha chiesto aiuto alla Russia, ma il giorno prima erano già arrivati molti uomini che controllavano la penisola.
Sembra proprio l'Anschluss del 1938. L'annessione dell'Austria e quella della Crimea si somigliano come due gocce d'acqua. E anche un referendum-plebiscito un mese dopo, mentre le strade sono piene di uomini armati. Ieri 10 aprile 1938, oggi 16 marzo 2014. Ma il governo russo ha calcolato tutti i rischi di questa assurda avventura? Credo proprio di no. Come non li aveva calcolati Adolf Hitler. Del resto, se li avesse calcolati, non si sarebbe nascosto nel bunker nell'aprile 1945 mentre l'esercito russo bombardava Berlino e non avrebbe bevuto una fiala di veleno.
E se l'Occidente non si comportasse come fece Chamberlain con Daladier (Primo Ministro francese, ndt) nel 1938, ma introducesse un embargo totale sull'acquisto di risorse energetiche russe e congelasse le partecipazioni russe nelle sue banche? La nostra economia, già agonizzante, crollerebbe in tre mesi. E qui inizierebbero i guai, rispetto ai quali il Maidan (le rivolte popolari ucraine degli anni scorsi, ndt) sembrerebbero un giardino dell'Eden. E se i Tartari della Crimea, che sono categoricamente contrari al governo russo, che ricordano cosa ha fatto loro questo governo nel 1944 e come li ha lasciati rimpatriare soltanto nel 1988, se i Tartari della Crimea chiedessero alla Turchia, affine per cultura e religione, di proteggere i loro interessi? Dopotutto, la Turchia non è molto lontana, ma dall'altra parte dello stesso Mar Nero. E ha posseduto la Crimea più a lungo della Russia: l'ha posseduta per quattro secoli.
I turchi non possono fare nulla: nel luglio 1974, per proteggere la minoranza turca, occuparono il 40% del territorio di Cipro e, ignorando tutte le proteste, sostengono ancora la cosiddetta Repubblica turca di Cipro del Nord, che nessuno riconosce tranne loro. Forse qualcuno vuole che nasca anche la Repubblica turca della Crimea meridionale? Ma se i tartari più impulsivi decidono di combattere, allora i radicali musulmani di tutto il mondo si uniranno volentieri a loro, soprattutto quelli del Caucaso settentrionale e dalla regione del Volga. Lasceremo che una simile tempesta raggiunga anche la nostra casa russa? Cosa faremo se i nostri attacchi non saranno sufficienti? E infine, dopo aver acquisito la Crimea, dilaniata da conflitti interni, perderemo per sempre il popolo ucraino, che non ci perdonerà mai per questo tradimento.
Cosa accadrà? Non fatevi illusioni, cari sciovinisti russi. Alla fine del XIX secolo serbi e croati si consideravano un unico popolo, separato solo dai confini, dalla religione e dall'alfabeto. Hanno lottato per l'unità, ne hanno scritto in tanti libri intelligenti e stimolanti. E ora ci sono pochi popoli che si odiano come serbi e croati. Quanto sangue è stato versato tra loro, e tutto questo soltanto per qualche pezzo di terra, alcune città e valli dove avrebbero potuto vivere insieme prosperi e felici. Avrebbero potuto farlo, ma non l'hanno fatto. L'avidità ha trasformato i fratelli in nemici. Non è quello che succede nella vita di tutti i giorni? Vale la pena perdere per sempre le persone amate per soddisfare questa cupidigia spietata?
A quanto pare sì. Ormai la scissione della Chiesa russa è inevitabile. La sua metà ucraina si staccherà per sempre da quella di Mosca. Ma una sconfitta ancora più terribile sarà il successo del Cremlino nell'annessione della Crimea. Se tutto accadrà facilmente, domani le regioni del Kazakistan popolate da russi saranno reclamate dalla Russia, così come l'Ossezia meridionale, l'Abkhazia e il Kirghizistan settentrionale. L'Austria fu seguita dai Sudeti, i Sudeti da Memel, Memel dalla Polonia, la Polonia dalla Francia, la Francia dalla Russia. Tutto è iniziato in sordina...
Amici! Dobbiamo far prevalere la ragione e fermarci. I nostri politici ci stanno trascinando in un'avventura spaventosa. L'esperienza storica ci dice che tutto questo avrà efetti devastanti. Non dovremmo lasciarci ingannare, perché un tempo i tedeschi si fecero ingannare dalle promesse di Goebbels e Hitler. Se vogliamo la pace, se vogliamo che la Russia si risvegli davvero, se vogliamo che regni l'armonia nella nostra terra, oggi divisa in tanti stati, dobbiamo dire "no" a questa aggressione folle e inutile.
Abbiamo perso così tante vite nel XX secolo che il nostro unico vero obiettivo dovrebbe essere quello proclamato dal grande Solzhenitsyn: la conservazione del popolo. La conservazione del popolo, non la conquista di altre terre, che richiede sangue e lacrime. Ma noi non abbiamo bisogno di altro sangue e di altre lacrime!
La stampa europea non ha dato molto spazio alle voci russe che si sono levate contro l'annessione della Crimea. Il primo a opporsi è stato Ilya Ponomarev, l'unico parlamentare che ha rifiutato di riconoscere l'esito del referendum. Un altro esponente politico che si è schierato apertamente contro l'annessione è Mikhail Kasyanov, Primo Ministro dal 2000 al 2004 e membro di vari governi precedenti fino dai tempi di Boris Yeltsin. Mariėtta Čudakova (1937-2021), scrittrice e docente universitaria, è uno dei 180 esponenti culturali che hanno firmato la lettera aperta intitolata "Non cedete, non credete alle bugie". Il poeta Alexander Byvshev è andato ancora oltre: ha scritto una poesia intitolata "Ai patrioti ucraini", schierandosi contro l'invasione della Crimea ed esortando i "patrioti ucraini" a non cedere neanche un metro della penisola ai "sicari di Putin". Musicisti famosi comela cantante Zemfira eAndrej Makarevic si sono pronunciati chiaramente in varie occasioni. Anche alcuni esuli russi hanno condannato l'annessione della penisola: uno di questi è il dissidente Mikhail Khodorovsky, facoltoso uomo d'affari che vive a Londra da vari anni.
Anthony GordonI media hanno letto la guerra russo-ucraina come un ampio conflitto ideologico fra la Russia e i paesi occidentali, ma non bisogna dimenticare che sono in gioco anche altre questioni importanti, come il futuro dei Tartari della Crimea. Il popolo indigeno della penisola, nonostante la sua consistenza ridotta, ha espresso un proprio stato tra il XV e il XVIII secolo prima di essere inghiottito dall'impero russo. Un tentativo di riconquistare l'indipendenza all'inizio del XX secolo fallì, quindi Stalin deportò l'intera popolazione in Asia centrale, accusandola ingiustamente di aver collaborato con i nazisti durante la Seconda guerra mondiale. La maggior parte ha potuto fare ritorno in patria solo dopo il crollo dell'Unione Sovietica. Il loro sogno di vivere in una repubblica autonoma all'interno di un'Ucraina democratica non è mai morto, anche se l'occupazione russa ha allontanato il raggiungimento di questo obiettivo. Ma alcuni successi recenti dell'esercito ucraino hanno ravvivato le loro speranze.
Nel 2014, quando la Russia si è impadronita della penisola, la popolazione tartara è scesa in piazza per protestare. Il presidente Putin ha ignorato il dissenso, ma dopo le autorità locali si sono accanite contro la minoranza, chiudendo i loro media, liquidando le loro ONG e perseguitando gli attivisti. È ormai chiaro che l'annessione della Crimea era stata pianificata per gettare le basi di una futura offensiva contro il resto dell'Ucraina, con la penisola occupata trasformata in una base militare. Dopo l'annessione i tartari sono stati definiti "islamisti" dai media locali e decine di attivisti sono stati condannati come "terroristi" con accuse assurde. Gli altri sono stati messi a tacere con l'intimidazione e decine di migliaia hanno scelto di emigrare, per lo più nell'Ucraina continentale. Oggi rimangono dietro le sbarre almeno 100 prigionieri politici, il più noto dei quali è il vice presidente del Mejlis, Nariman Dzhelyal, condannato a 17 anni di carcere per "sabotaggio".
Nel febbraio del 2022, quando la Russia ha invaso l'Ucraina, molti tartari si sono uniti all'esercito ucraino. Ma la mobilitazione annunciata a settembre ha innescato un vero e proprio esodo, con oltre 10.000 famiglie che hanno scelto di emigrare in Kazakistan, in Uzbekistan e in Europa per non dover combattere contro i loro compatrioti. La decisione improvvisa di partire ha creato vari problemi. Molti non sapevano neanche dove andare. Altri non sono riusciti a lasciare la Crimea perché erano a corto di denaro o perché non avevano i documenti necessari. Non si conosce il numero esatto di tartari mobilitati da Putin, ma alcuni hanno già raggiunto il fronte. Lo status di quelli arruolati nell'esercito russo e catturati dalle forze ucraine, soprattutto i giovani senza il passaporto ucraino, è un problema di lana caprina, perché non è chiaro se Kyiv li consideri cittadini russi o ucraini.
In altri casi molti tartari arruolati nell'esercito russo aspettano l'occasione per potersi arrendere alle forze ucraine, ma questo non è semplice in un conflitto dominato dall'artiglieria che spara da lunghe distanze. Di conseguenza decine, forse centinaia di loro moriranno a causa delle decisioni del Cremlino, proprio come accadde nel 1918, quando i bolscevichi liquidarono la repubblica popolare di Crimea; come nel 1938, quando l'NKVD giustiziò molti artisti e scienziati su ordine di Stalin; come nel 1944, quando quasi la metà dei deportati morì di fame, di malattie o di stenti.
La Russia non permette alle ONG per i diritti umani di entrare in Crimea, rendendo quasi impossibile la raccolta di materiale per i loro rapporti. In passato l'organizzazione russa per i diritti umani Memorial ha documentato la persecuzione dei tartari e ha riconosciuto molti attivisti incarcerati come prigionieri politici, ma l'organizzazione è stata messa fuorilegge e quindi non potrà più seguire la situazione. Il leader storico dei Tartari, l'ex dissidente Mustafa Cemilev, paragona spesso la Russia contemporanea all'Unione Sovietica, sottolineando che oggi la situazione è perfino peggiore di allora. Anche negli anni Settanta e Ottanta gli attivisti democratici venivano imprigionati, ma non venivano rapiti, né scomparivano senza lasciare traccia, come è successo nel 2015 a Ervin Ibragimov, membro del Mejlis. Naturalmente la repressione colpiva anche gli intellettuali, ma alcuni intoccabili, come Andrei Sakharov, sono stati risparmiati. Nella Russia odierna l'unico vero intoccabile è Putin.
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Il 6 maggio 2021 si sono tenute le votazioni per eleggere i 60 membri del Senedd (parlamento regionale gallese, ndt). Poco prima avevo firmato un contratto per la pubblicazione di un libro sull'indipendenza del Galles (Independent Nation: Should Wales Leave the UK?, Biteback, 2022, ndt). L'obiettivo non era quello di dire alla gente cosa pensare, ma di fornire loro una bussola per farsi un'opinione.
Il dibattito sull'indipendenza del Galles si farà, e in molte parti del Galles si sta già facendo. Dato che un nuovo referendum scozzese sembra ormai molto probabile, la questione non è destinata a scomparire. La cosa più importante è che sia un vero dibattito. Dovrà essere l'espressione di una nazione che sta maturando e riesce a fare delle scelte consapevoli, senza essere influenzata dalle decisioni di Londra o di altri. Tuttavia, abbiamo visto con la Brexit cosa accade quando questo dibattito non si basa sulla ragione e sui fatti. Gli effetti possono essere dannosi come quelli sanciti da un voto. È proprio per elevare il livello di questo dibattito che ho deciso di scrivere il mio libro.
Come la maggior parte delle persone, mi sono inserito in questo dibattito con un orientamento piuttosto favorevole all'indipendenza, ma senza un'opinione precisa. Pensavo ingenuamente che ci fossero due schieramenti ben definiti – favorevoli e contrari – con delle idee che potevano essere criticate, ma non era così. Sebbene alcuni dei primi abbiano fatto ricerche approfondite sulla questione, nel complesso la maggior parte di loro ha considerato gli aspetti pratici dell'ndipendenza in modo piuttosto superficiale. Basta guardare alcuni dei messaggi diffusi sulla Rete da Yes Cymru (la principale associazione indipendentista, ndt). Continuano a sostenere che un Galles indipendente potrebbe risolvere i problemi economici vendendo acqua ed elettricità all'Inghilterra (un'assurdità totale, perché i conti non tornano). Il fatto che molti aspetti importanti vengano trascurati dimostra chiaramente la follia della linea indipendentista adottata dal Plaid Cymru (il principale partito nazionalista gallese, ndt).
Per quanto riguarda la parte contraria all'indipendenza è stato ancora più difficile, perché praticamente non esiste. Mentre in Scozia esiste un'opposizione robusta e ben visibile, anche se frammentata, in Galles non è così. Certo, molti esponenti politici sono contrari all'indipendenza, ma non si è ancora sviluppata un'opposizione coerente, perché questo ambiente non ha ancora capito che si tratta di una questione da prendere sul serio. All'inizio della mia ricerca, quindi, il problema non era trovare le risposte giuste, ma sapere quali fossero le domande giuste da porre. Per i primi sei mesi ho trascorso tutto il mio tempo a parlare con le persone (a volte nei pub, ma più spesso in videoconferenza), indipendentemente dalle loro idee, immergendomi nella questione per cercare di capirla. Quando tutto questo è finito mi sono sentito in grado di fare almeno le domande giuste. Poi, anche dopo mesi di ricerche, la risposta a molte di queste domande è stata "non lo sappiamo" o "dipende". Anche se per certi versi poco soddisfacenti, queste risposte sono indicative. L'indipendenza del Galles è una questione di immensa complessità che farà sembrare i negoziati sulla Brexit un sudoku della rivista Take a Break. C'è molta incertezza, quindi è necessario far capire alla gente che stanno facendo un grande salto nel buio. Ai tempi della Brexit non ci sono state persone che dicevano "dipende" o "non lo sappiamo". Questo dibattito non deve seguire la stessa strada. Richiede realismo. Pensiamo a un Galles indipendente che entri nell'Unione Europea. L'adesione all'UE è uno degli obiettivi principali dei cittadini favorevoli all'indipendenza. In realtà ho pensato di non includere queto tema nel libro: spetta a un Galles indipendente decidere se aderire all'UE. Tuttavia, dal momento che è una motivazione così importante per molti, ritengo che debba essere affrontata. A parte il deficit democratico nell'UE e l'apparente contrasto fra l'obiettivo di liberarsi dal controllo di Londra per poi cedere la ritrovata indipendenza a Bruxelles, guardiamo i tempi previsti. Il Plaid Cymru
aveva detto che se avesse vinto le elezioni avrebbe tenuto un referendum consultivo nel primo mandato e un referendum vero e proprio nel secondo mandato. Se dovessero vincere le prossime elezioni del Senedd, si tratta di 14 anni. Immaginate se nel 2036 si tenesse un referendum e il Galles decisesse di uscire dalla Gran Bretagna. Non sarebbe indipendente il giorno dopo, e francamente sarebbe una follia se tentasse di diventarlo. Dato che la Gran Bretagna ha impiegato quattro anni e mezzo per lasciare l'UE, il Galles probabilmente impiegherebbe più tempo, visto che il suo legame con Londra è ancora più stretto.
Anche se questi negoziati fossero più semplici di quanto si immagina (cosa difficile), sembra comunque probabile che passerebbero almeno cinque anni prima che il Galles diventasse davvero indipendente. Quindi saremmo nel 2041. L'idea che il primo atto politico del Galles indipendente sarebbe un referendum sull'adesione all'UE è assurda. Immaginiamo che passassero altri tre anni e che un referendum la approvasse. Nel 2044, quindi, comincerebbero i negoziati con Bruxelles. A quel punto il Galles sarebbe stato fuori dall'UE per molto tempo e ci vorrebbe del tempo per riallinearsi ai suoi standard. Mettiamo altri quattro anni. E così saremmo arrivati al 2048, cioè a circa 28 anni da quando il Galles aveva lasciato l'UE. Pensate a come è cambiata l'Unione nell'ultimo quarto di secolo. Quindi lo sarebbe anche nel 2048, così come sarebbe molto diverso anche l'intero contesto internazionale.
Se l'adesione all'Unione Europea è uno degli obiettivi principali di coloro che sostengono l'indipendenza, il loro sogno potrebbe rivelarsi irrealizzabile quando il Galles fosse riuscito a raggiungere l'indipendenza. Questo non vuol dire che non ci siano buone ragioni per sostenere l' indipendenza. Il mio libro non dice alle persone che cosa devono pensare, ma parte dalla constatazione che la situazione attuale non è più sostenibile, né per il Galles né per la Scozia, l'Irlanda del Nord e la Scozia. Questo non significa necessariamente che l'indipendenza sia la risposta, ma soltanto che non si può più andare avanti così.
Lo ripeto, il mio libro non vuole schierarsi da una parte o dall'altra. Al di là del fatto che si sia per l'indipendenza o contro, credo che tutti dovrebbero impegnarsi per mettere il Galles nella condizione di diventare indipendente. Questo non è vero solo dal punto di vista economico, ma anche dal punto di vista politico. Una delle cose che mi hanno deluso di più quando ho parlato con molte persone (ma non tutte) che sostengono l'indipendenza è la totale mancanza di spirito critico nei confronti del governo gallese. Per certi versi, lo capisco. Visto che la devolution viene attaccata da più parti, i sostenitori di una maggiore autonomia non vogliono fornire armi al nemico. Tuttavia, questo comportamento danneggia la causa che dicono di sostenere. Non c'è pubblicità migliore per l'indipendenza di un governo gallese funzionante ed efficace. Eppure i suoi errori vengono spesso liquidati dagli indipendentisti con frasi come "Beh, Boris Johnson ha fatto di peggio".
Non è questa la mentalità di una nazione pronta a divenire indipendente. Portare il Galles in una posizione che gli consenta di essere indipendente è vitale per la gente che vive qui, a prescindere dal fatto che diventiamo indipendenti o no. Non si tratta solo di migliorare i progetti economici, che la devolution limita molto, ma anche la gestione politica e (cosa forse più importante) la mentalità.
Molti attori gallesi godono di fama mondiale. Basti pensare a Richard Burton,HughGriffith,AnthonyHopkinseCatherineZeta-Jones.Mauno dei pochi che si è pronunciato per l'indipendenza del Galles è Michael Sheen, noto per film come Diamanti di sangue (2006) e La regola del gioco (2014). Sheen non si è limitato ad affermare questa posizione, collaborando anche a vari libri, ma ha compiuto un gesto molto significativo: nel 2017, per coerenza, ha restituito il titolo di Ufficiale (OBE, Officer of the Order of the British Empire) che aveva ricevuto nel 2008. L'attore, comunque, ha rifiutato di diventare un propagandista del movimento indipendentista per conservare la propria libertà di pensiero.
Antonella ViscontiBibliografia
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Una serie di antologie per conoscere la straordinaria varietà delle lingue minoritarie europee: prosa e poesia dai tempi più antichi a oggi, corredate da traduzioni e commenti in inglese. Dal bretone al frisone, dal gallese all'occitano, un panorama unico e stimolante.
https://francisboutle.co.uk
Yvan Colonna, il separatista corso condannato all'ergastolo per l'omicidio del Prefetto Claude Erignac, è stato ucciso nel carcere di Marsiglia il 21 marzo 2022. La forte reazione della popolazione insulare ha indotto il Ministro dell'Interno Gérald Darmanin a venire in Corsica per dire che l'idea di uno statuto di autonomia per la Corsica non era più un tema da scartare a priori. Affermare una cosa del genere significa anche riconoscere che prima lo era. Questo impone alcune riflessioni.
Perché, nonostante il processo di decentramento avviato nel 1982, Parigi si oppone costantemente al desiderio di autonomia che la Corsica manifesta in modo sempre più evidente? Perché l'idea di una repubblica "unica e indivisibile" sembra più un desiderio di livellamento preventivo piuttosto che un accesso volontario all'unità? E perché coloro che chiedono l'autonomia sono proprio quelli che dubitano di poterla ottenere? Perché gli elettori della Corsica, che hanno dato un'ampia maggioranza agli autonomisti, finiscono per chiedersi se gli accentratori locali non siano in definitiva più pericolosi degli accentratori parigini, e i delinquenti locali più pericolosi dei delinquenti parigini e stranieri? Il dualismo giacobini/girondini, cioè centralisti/federalisti, è la spia di un trauma patologico che segna la Francia fino dalla drammatica esperienza del Terrore.
Un centralismo soffocante
Negli anni Ottanta la Francia ha adottato una linea politica basata su una rigida idealizzazione della repubblica e sulla strenua difesa del centralismo. Numerosi intellettuali si sono schierati in difesa di questo indirizzo conformista. Si tratta di esponenti autorevoli, come Régis Debray, Alain Finkielkraut, Elisabeth Badinter, Elisabeth de Fontenay, Catherine Kintzler e... Fernand Braudel. Il 24 maggio 1985 quest'ultimo ha scritto sul quotidiano Le Monde: "Nell'identità della Francia c'è questo bisogno di concentrazione, di centralizzazione, che è meglio non contrastare. Queste parole vi fanno capire che il decentramento non mi convince affatto… L'identità della Francia risiede in questa influenza più o meno brillante, più o meno giustificata. E questa influenza proviene sempre da Parigi". Si può avere la massima ammirazione per le opere che Fernand Braudel ha scritto sul Mediterraneo e non condividere l'idea che la Francia si riduca a quello che viene dalla capitale. Non è un caso che questi intellettuali si siano mobilitati fra il 1981 e il 1982, quando Mitterrand ha avviato un decentramento che preoccupava l'establishment parigino e un'alta amministrazione formata nella tradizione del centralismo francese, della preminenza di Parigi sulle province, della repubblica una e indivisibile. È a questo punto che Régis Debray ha ritenuto opportuno rinnovare il credo della repubblica. Questo credo si baserebbe su tre idee: il no al comunitarismo, la difesa di una laicità ipoteticamente minacciata e l'idea di una repubblica alla francese di cui riaffermare la specificità e la superiorità. Da allora queste tre idee sono alla base del linguaggio politico francese.
Una repubbica alla francese
Secondo Régis Debray, la repubblica di tipo francese incarnerebbe valori opposti a quelli della democrazia anglosassone. La prima sarebbe "libertà più ragione, Stato di diritto più giustizia, tolleranza più volontà", mentre la seconda sarebbe "quello che resta di una repubblica quando l'illuminismo si estingue" (Le Nouvel Observateur, novembre-dicembre 1995). "In una repubblica lo Stato è libero da qualsiasi influenza religiosa. In una democrazia le chiese sono libere da qualsiasi influenza statale". La nostra repubblica", spiega Régis Debray, "non ha un vero e proprio equivalente in Europa. In altre parole, secondo lui, la democrazia che non faccia propri i valori repubblicani francesi è condannata alla teocrazia, all'egoismo e al particolarismo. "L'idea universale governa la repubblica, l'idea locale governa la democrazia. Infine, e questo ci riporta alla contrapposizione tra giacobini e
girondini, "lo Stato nella repubblica è unitario e per natura centralizzato": così le cose sono perfettamente chiare. E quando Régis Debray vuole dire cosa pensa del decentramento, il suo disprezzo è fin troppo evidente: "Dovremmo parlare di decentramento, del ritorno dei notabili, della nuova gloria delle feudalità provinciali, del ritorno di Maurras, della vita in campagna e del diritto di essere diversi". Queste riflessioni sono state ampiamente diffuse da diversi giornali negli anni Novanta. Da allora, questa idea di "repubblica" è stata alla base di molti discorsi politici.
Il diritto alla differenza
Qualche anno prima, nel 1989, lo stesso Régis Debray, insieme a un gruppo di intellettuali (Alain Finkielkraut, Elisabeth Badinter, Elisabeth de Fontenay e Catherine Kintzler), aveva lanciato un appello agli insegnanti (ancora una volta sul Nouvel Observateur) affinché "non capitolassero" di fronte ad alcune ragazze che volevano andare a scuola con il velo. Ovviamente denunciare i simboli che si celano dietro il velo non è scioccante di per sé, ma l'argomentazione proposta da questi intellettuali lascia perplessi. Innanzitutto, la parola capitolare è forte. Significa che si sta combattendo un tipo di guerra. Questi intellettuali sembrano quindi aderire alla logica della guerra di civiltà teorizzata da Samuel Huntington.In secondo luogo, tollerare il velo a scuola, dicono gli autori del testo, "non è accogliere un essere libero". Quindi ci sarebbero bambini che sono esseri liberi e bambini che non lo sono? La scuola pubblica non è forse destinata ad accogliere tutti i bambini per cercare di dare loro le chiavi di un sapere che li renderà donne e uomini liberi? Ci sono esseri che sono liberi prima di aver imparato, che meritano di andare a scuola, ed esseri che sono schiavizzati, condannati alla schiavitù, che dovrebbero essere respinti?
Non è riunendo nello stesso luogo un bambino cattolico, un bambino musulmano e un bambino ebreo che si costruisce la scuola laica. Dobbiamo capire che è sradicando i bambini diversi, portatori di differenze, gravati dalla storia dei loro genitori, che si costruisce questa scuola? Pensare per sé non sarebbe una conquista su se stessi, ma richiederebbe un requisito indispensabile: dimenticare le proprie radici, rifiutare il vecchio. I bambini dovrebbero ammettere che i loro padri sono sospetti, sospetti per ciò che sono? Quindi la scuola non dovrebbe insegnare ai nostri figli il rispetto delle differenze, ma piuttosto a dimenticarle e a negarle? Questi dogmi sul velo, sulla repubblica, sul diritto di essere diversi e sul comunitarismo sono diventati i punti di riferimento costanti del dibattito politico a partire dagli anni Novanta. Di conseguenza è diventato molto difficile ottenere il riconoscimento delle proprie differenze in una repubblica convinta della superiorità assoluta e universale dei propri principi. Questo riconoscimento si ottiene o attraverso crisi violente e ricorrenti o attraverso la demolizione dei dogmi.
Il dibattito istituzionale
È sulla base di questa ideologia che la Francia ha rifiutato per anni di ratificare la Carta delle lingue minoritarie e ha compiuto progressi istituzionali soltanto in seguito a episodi violenti. Dopo aver compiuto questi progressi ha sempre cercato di creare artificialmente dei limiti che non erano stati concordati. Il contrasto che ne consegue è particolarmente doloroso e sgradevole perché si svolge sotto lo sguardo di interlocutori parigini condiscendenti, se non addirittura sprezzanti.
Di fronte alla richiesta di autonomia che proviene dalla Corsica, per prima cosa, rispondono che sono già stati concessi degli statuti speciali e che prima di chiederne un'estensione dovremmo imparare a padroneggiare ciò che ci è stato concesso. Secondo loro questo significa che non abbiamo ancora capito in cosa consistano questi statuti speciali. Nessuna di queste due argomentazioni regge. Certo, uno statuto speciale è stato concesso alla Corsica quarant'anni fa (1982), grazie a Gaston Defferre, poi rivisto e ampliato da Pierre Joxe (entrambi Ministri degli Interni, ndt). Questi statuti contengono una clausola fondamentale che conferisce alla Corsica il diritto di adattare le leggi e i regolamenti nazionali, ma in pratica questo diritto non può essere esercitato. Nell'arco di 25 anni i rappresentanti eletti dagli isolani hanno rivolto a Parigi oltre 40 richieste di adattamento, ma invano. Nella maggior parte dei casi, infatti, i vari governi non si sono neanche degnati di rispondere. I politici locali hanno quindi cercato di costringere i governi a rispettare questo diritto. Altrimenti che senso ha fare una legge? Trattandosi di una legge garantita dalla Costituzione, l'unico modo per rendere concreto questo diritto è quello di dare alla Corsica uno status di autonomia, come è stato fatto
con la Polinesia francese e con la Nuova Caledonia. Inoltre, sostenere che non sappiamo in cosa consista uno statuto di autonomia è assurdo. Anzitutto, perché tutte le principali isole del Mediterraneo hanno uno statuto di questo tipo e non è difficile informarsi. Poi perché la stessa Francia è stata costretta a concedere a diversi territori d'oltremare statuti di questo tipo, quindi sappiamo perfettamente di cosa si tratta. Queste argomentazioni dimostrano che la Francia rifiuta di evolversi. E questo rifiuto deriva dalla convinzione della superiorità della repubblica giacobina.
L'autonomia è soltanto uno strumento istituzionale che fornisce agli interessati gli strumenti per una gestione decentrata e adattata alle necessità locali, per quanto possibile, senza rompere con il contesto geografico e politico, mentre l'indipendenza comporta una frattura completa e definitiva. Nella prospettiva dell'autonomia, la vera difficoltà non deriverebbe dal diritto concesso, ma dalla capacità di assumerlo. Nelle regioni che erano state soggette a una forte dipendenza dal centro le persone hanno finito per dubitare di se stesse, perdendo la fiducia nella propria capacità di autogestirsi e maturando un certo disagio per la nuova responsabilità che avrebbero potuto ereditare. Di fronte a questa sfida, quindi, vedono molto più chiaramente i propri difetti che le qualità sulle quali potrebbero contare.
Nei nostri stati c'è anche un altro problema. In questo caso la richiesta di autonomia proviene dalla Corsica, una regione del sud, una regione mediterranea. Una delle idee preconcette sui meridionali è la convinzione, confusa ma radicata, che il sud sia sia portatore di una particolare serie di difetti. Il nord è la terra degli uomini alti, biondi e con gli occhi azzurri. Il sud è la terra dei neri, dotati di un cervello troppo esposto al sole. L'Europa della civiltà e dell'illuminismo contro l'Africa delle tribù e dei selvaggi.
La Corsica, scriveva Nicolas Giudici nel 1997, "definisce il Mediterraneo per eccellenza perché è una società faziosa per eccellenza...". Perché "la situazione lì rimane atipica, approssimativa, confusa, insomma, mediterranea... Il mondo anglosassone forgia i popoli. Il Me-diterraneo li dissolve"... Il Mediterraneo sarebbe così la porta dell'Africa per diffondere la civiltà. Ma al tempo stesso sarebbe anche la porta dell'Europa per far entrare i mali peggiori. La gente del nord sarebbe efficiente, laboriosa, adeguata all'economia di mercato e alla democrazia. Il Mediterraneo, invece, sarebbe un'area dedicata alle vacanze, benedetta dagli dei, famosa per il suo clima mite, il suo bel sole e le sue acque trasparenti, ma popolata da mediterranei, cioè da gente simpatica e pit-toresca, nel migliore dei casi oziosa e incapace, nel peggiore maschilista, violenta e mafiosa. I me-diterranei, come gli africani, hanno assorbito questi stereotipi e non riescono a liberarsene. I cam-biamenti concessi derivano sempre da crisi violente.
Per uscire da questa logica "crisi-violenza-riforma" dobbiamo superare questi due stereotipi: l'incapacità del Mediterraneo e la superiorità della concezione francese della repubblica. Finché si accetta l'idea che l'esempio possa venire solo dal Nord, e finché i politici parlano di "Repubblica" con la maiuscola, come se la Francia avesse il monopolio di questo sistema politico, le concessioni verranno ottenute soltanto al prezzo di sacrifici troppo grandi, e saranno viste come un attacco all'ideale repubblicano e una minaccia per l'identità della Francia. Queste concessioni non saranno quindi viste come un progresso, ma come un passo indietro. Il dovere di ogni buon repubblicano sarà quello di tornare ai fondamenti della "repubblica francese una e indivisibile". Non è facile contrastare questo dogma, perché si tratta di un dogma trasversale nel quale si riconoscono tutti i movimenti politici, siano essi di destra o di sinistra.
Il popolo corso dubita della propria capacità di autogestirsi. Di conseguenza i suoi interlocutori cercano di dare un contenuto all'idea di autonomia prima ancora di accettarne il principio. Contenuti di destra o di sinistra, elitari o sociali, individualisti o solidali... L'autogestione dovrebbe essere accettata solo se il terreno fosse stato preparato accuratamente. Anche l'incertezza odierna, in assenza di uno status autonomo, ha il suo peso, ma ci solleva dalla responsabilità di eventuali errori. Il colpevole degli errori, quindi, è lo Stato. È già abbastanza difficile essere una vittima, ma se fossimo anche colpevoli, il peso del disagio sarebbe davvero eccessivo. È un'impresa a lungo termine, ma l'unico modo per favorire un'evoluzione serena delle cose sarebbe quello di smontare questi stereotipi attraverso un ampio dibattito che coinvolgesse l'opinione pubblica.
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A Squadra Robba è un collettivo di artisti e giornalisti corsi che propongono un’idea moderna della propria isola, dove si intrecciano fecondamente identità culturale e linguistica, attenzione ai problemi ecologici e alimentari, artigianato ed economia. Una Corsica capace di proiettarsi nel ventunesimo secolo e di rispondere alla crisi ambientale, di proporre una cultura vivace e originale. Queste idee sono raccolte nell'antologia Habiter la Corse: Campà/Pensà/Produce (Editions Eoliennes, Bastia 2022, pp. 160, € 7), alla quale hanno collaborato alcuni dei principali esponenti culturali isolani, fra i quali Toni Casalonga, Andria Fazi, Nicolas Lacombe, Sampiero Sanguinetti e Dominique Taddei. Un ventaglio di proposte stimolanti che meritano la massima attenzione. Per altre informazioni: www.editionseoliennes.fr
Vendersi per un piatto di lenticchie: questa espressione sembra derivare dal racconto biblico (Genesi 25, 29-34), secondo il quale Esaù, figlio di Isacco e Rebecca, fu convinto dal fratello Giacobbe a cedergli la primogenitura in cambio di un piatto di lenticchie. Recepita col tempo da varie lingue, questa espressione carica di disprezzo si applica a colui che pur di ottenere quello che vuole accetta di barattare una cosa preziosa in cambio di un misero compenso.
È difficile trovare un'espressione più appropriata per la Svezia e la Finlandia, che per aderire alla NATO hanno ceduto al ricatto del presidente turco Erdogan. Quest'ultimo aveva condizionato il proprio assenso all'estradizione di alcuni kurdi emigrati nei due paesi nordici, che in questo modo verranno considerati ipso facto terroristi secondo la volontà di Ankara. Il giornalista Federico Rampini ha commentato il fatto dicendo che la consegna dei kurdi al governo di Ankara è stata un "prezzo doloroso ma accettabile". In realtà si tratta di un baratto rivoltante, ma i sostenitori della NATO si sono ben guardati dal condannarlo. Dato che difenderlo a spada tratta sarebbe stato un po' troppo, hanno preferito astenersi da ogni commento. Ma il loro silenzio è comunque eloquente.
L'adesione dei due paesi nordici si differenzia nettamente da quelle precedenti, perché Svezia e Finlandia, e in particolare la prima, incarnavano una tradizione neutralista che gli Stati Uniti non potevano più tollerare, tanto più che la guerra russo-ucraina aveva conferito ai due paesi un ruolo geopolitico decisivo. A Stoccolma e Helsinki è stata imposta una prova di fedeltà: entrare nell'Alleanza Atlantica significa sposare la logica della "guerra al terrorismo" lanciata da George W. Bush nel 2001, subito dopo l'attacco alle Torri Gemelle. Questa "guerra al terrorismo" è una pistola carica che trasforma qualunque oppositore in un terrorista. Anche i Kurdi, che sono alleati molto preziosi quando si tratta di combattere l'ISIS, mentre si trasformano in "terroristi" quando si tratta di compiacere Ankara.
Senza contare che affidarsi alla Turchia per capire chi sia un terrorista è decisamente tragicomico. Il paese mediorientale ha aderito alla NATO nel 1952. Da allora ha conosciuto tre dittature militari (1960-1961, 1971 e 1980-1983); ha invaso Cipro (1974) e ha esercitato, come tuttora fa, una repressione spietata nei confronti delle minoranze e dei dissidenti in genere. Ma il fatto che fosse un membro della NATO l'ha sempre messa al riparo dalle ritorsioni che sarebbero state attuate contro paesi meno repressivi.
Attenzione però: coloro che difendono i diritti delle minoranze, o che almeno li considerano sacrosanti, non dovrebbero limitarsi a condannare questo patto scellerato. Al tempo stesso, infatti, dovrebbero trarne qualche insegnamento. Nel 1999, quando gli aerei della NATO bombardarono Belgrado e altre città serbe, in molte associazioni per la difesa delle minoranze si creò una spaccatura. Alcuni erano a favore dell'intervento perché pareva concepito per difendere la minoranza albanese, oppressa ferocemente dal governo serbo. Altri erano invece contrari, sostenendo che la difesa delle minoranze non poteva realizzarsi bombardando le maggioranze. Inoltre pensavano che la NATO, in caso di necessità, sarebbe stata pronta ad assumere un atteggiamento ostile nei confronti delle minoranze. Alla luce dei fatti evocati sopra, chi aveva ragione?
Da vari mesi assistiamo a un'imponente mobilitazione – politica, mediatica, bellica – a favore dell'Ucraina. Che questo paese aggredito meriti di essere sostenuto è fuori discussione. Quello che appare sospetto, invece, è che analoghe reazioni non scattino quando si tratterebbe di difendere altri popoli. Non pensiamo agli stati, che ovviamente agiscono secondo i criteri cinici della Realpolitik, ma alla gente. Invece il sacro ardore che circonda la vicenda ucraina diventa un'eccezione, perché spesso non si manifesta in casi analoghi.
Fino a dove? Fino a quando?
Quando si parla della NATO si fa riferimento all'alleanza militare nata nel 1949, ma in realtà si tratta di un sistema articolato che comprende tre livelli distinti. Il primo è la NATO vera e propria, fondata da 12 paesi, uno dei quali era una dittatura parafascista (il Portogallo di Antonio Salazar). Col tempo il gruppo è cresciuto: oggi, con la recente adesione di Svezia e Finlandia, i paesi membri sono 32, tutti europei tranne Canada, Stati Uniti e Turchia.
Il secondo livello è formato dai cosidetti "alleati esterni" (major non-NATO ally) che collaborano strettamente con le forze armate statunitensi ma non sono veri e propri membri della NATO. Creato nel 1987 dal Congresso americano, questo gruppo comprende attualmente 18 paesi (Arabia Saudita, Argentina, Australia, Brasile, Colombia, Corea del Sud, Egitto, Filippine, Giappone, Israele, Kuwait, Marocco, Nuova Zelanda, Pakistan, Qatar, Taiwan, Thailandia e Tunisia). Il terzo livello, creato nel 1994, è il cosiddetto Partenariato per la pace (Partnership for Peace, PfP). La sua funzione è quella di creare fiducia nella NATO: in pratica si tratta di un'area di parcheggio in attesa dell'adesione. Quattordici stati che avevano aderito al PfP sono poi diventati membri effettivi dell'Alleanza (Albania, Bulgaria, Repubblica Ceca, Croazia, Estonia, Lettonia, Lituania, Macedonia del Nord, Montenegro, Polonia, Romania, Slovacchia, Slovenia e Ungheria). Attualmente ne fanno parte 18 paesi: Armenia, Austria, Azerbaigian, Bielorussia, Bosnia-Erzegovina, Georgia, Irlanda, Kazakistan, Kirghisistan, Malta, Moldavia, Russia, Serbia, Svizzera, Tagikistan, Turkmenistan, Ucraina e Uzbekistan. Georgia e Moldavia saranno i prossimi a diventare membri della NATO.
1949 Belgio, Canada, Danimarca, Francia, Islanda, Italia, Lussemburgo, Norvegia, Paesi
Bassi, Portogallo, Regno Unito, Stati Uniti
1952 Grecia, Turchia
1955 Germania Ovest
1982 Spagna
1999 Repubblica Ceca, Polonia, Ungheria
2004 Bulgaria, Estonia, Lettonia, Lituania, Romania, Slovacchia, Slovenia
2009 Albania, Croazia
2017 Montenegro
2020 Macedonia del Nord
2022 Finlandia, Svezia
Bibliografia
AA. VV., "L'OTAN. Jusqu'où, jusqu'àquand?", Manière de voir, 183, juin-juillet 2022.
Boscariol M., L'allargamento NATO del 1999. Teorie a confronto, Nova Europa, Benevento 2020.
Schmies O. (a cura di), NATO's Enlargement and Russia: A Strategic Challenge in the Past and Future, Ibidem-Verlag, Stuttgart 2021.
Dhillon J. (a cura di), Indigenous Resurgence: Decolonialization and Movements for Environmental Justice, Berghahn Books, Oxford-New York 2021, pp. 170, £23.95 - £89.00.
In molte parti del mondo i problemi dei popoli indigeni sono strettamente connessi all'ambiente. Dalla resistenza dei popoli amazzonici alla protesta dei Lakota contro il DAPL (Dakota Access Pipeline), ormai queste battaglie costituiscono una realtà che non può più essere ignorata. Anche i media meno sensibili, dopo tanti anni di disinteresse, sono stati costretti a prenderne atto.
Al contrario l'editoria anglofona, da lungo tempo attenta a questo fenomeno, gli dedica un interesse crescente, pubblicando spesso opere scritte da docenti e studiosi indigeni. Lo conferma il libro Indigenous Resurgence: Decolonialization and Movements for Environmental Justice, curato da Jaskiran Dhillon (Cree), docente associata di Studi globali e Antropologia alla New School di New York. I testi del volume erano già stati pubblicati in un numero monografico della rivista Environment and Society (IX, 1, 2018).
Il libro propone otto saggi scritti da esperti che offrono un panorama ampio e interdisciplinare della questione. Melanie K. Yazzie (Diné) analizza la resistenza dei Navajo all'estrazione di uranio che viene realizzata sui loro territori, mettendone in luce la logica anticapitalista. Anne Spice si concentra sulla costruzione dei gasdotti nei territori indigeni del Canada. Wilfrid Greaves analizza i motivi che inducono le autorità governative a rifiutare le rivendicazioni ambientali dei popoli indigeni.
Negli altri contributi si intrecciano temi ambientali, filosofici e anticolonialisti. Il risultato è un mosaico di grande valore per chi segue i problemi ambientali e quelli dei popoli indigeni, oggi più che mai strettamente interconnessi.
Sergio Salvi, Altri Islam. Né sunniti né sciiti, i diversamente musulmani ieri e oggi nel mondo, Papiros, Nuoro 2021, pp. 522, € 19 (distribuito da Amazon).
Sergio Salvi è stato uno dei primi italiani, se non il primo in assoluto, a scrivere libri sulle minoranze nazionali. Classici come Le nazioni proibite (Vallecchi, 1973), Le lingue tagliate (Rizzoli, 1975) e Patria e matria (Vallecchi, 1978) uscirono quando questi temi erano ancora ignoti all'uomo della strada e venivano guardati con sospetto, se non con dichiarata avversione, dal mondo politico e culturale. Successivamente Salvi si è concentrato sui complessi rivolgimenti innescati dalla caduta dell'impero sovietico. Fra i tanti libri dedicati a questo tema spicca La mezzaluna con la stella rossa. Origini, storia e destino dell'Islam sovietico (Marietti, 1993). Il nuovo libro, Altri Islam. Né sunniti né sciiti, i diversamente musulmani ieri e oggi nel mondo, prosegue in modo coerente l'impegno divulgativo di grande qualità
dello scrittore fiorentino. Salvi doveva scrivere questo libro. Glielo imponeva la sua costante attenzione per i problemi delle minoranze, non soltanto nazionali e linguistiche, ma anche religiose.
Altri Islam è un'opera unica al mondo. Se non andiamo errati, nessuno aveva mai esplorato il mondo islamico in modo così esauriente e articolato. L'autore lo fa in modo preciso, fornendo una mole straordinaria di dati storici, sociali e politici. Come nei suoi lavori precedenti, Salvi riesce ad affrontare un tema complesso senza utilizzare un linguaggio da addetti ai lavori, offrendoci un libro eccellente che si legge come una raccolta di articoli giornalistici.
Il volume si compone di due parti ben distinte. Nella prima ("La navigazione interna"), che occupa circa due terzi, si dispiega tutta la varietà delle confessioni musulmane che non si riconoscono nelle due scuole principali. In questa cornucopia si agitano ordinatamente kurdi e albanesi, berberi e turchi, nazionalismi anticoloniali ed espansionismo sovietico, con ampio spazio per le numerose implicazioni geopolitiche legate ai vari contesti. Un'opera come questa, fra le altre cose, non poteva non mettere in evidenza l'infausta confusione fra mondo arabo e mondo islamico, purtroppo veicolata anche da certi media (p. 35).
La seconda parte ("Le rotte esterne"), complemento ideale della prima, si concentra sulle religioni non musulmane ma legate all'Islam da varie influenze: dai sikh ai baha'i, dai drusi agli yazidi. Fra l'altro viene chiarita la differenza fra alauiti e aleviti, spesso confusi a causa dell'assonanza. L'autore ci dimostra che il mondo islamico è un mosaico ricchissimo, un tessuto nel quale si intrecciano fili di mille colori. Epoche storiche, popoli e culture si combinano dando a vita a una varietà infinita. Lo studioso si dimostra capace di guidarci in questo sconfinato labirinto senza che si abbia mai la sensazione di perdersi.
A prima vista un libro di 500 pagine su questo tema non sembra destinato ad avere migliaia di lettori. Eppure Salvi riesce a rendere lieve e comprensibile una materia abbastanza ostica, se non addirittura viziata dall'islamofobia sempre più diffusa. L'unico appunto riguarda la bibliografia scarsa e incompleta (manca l'indicazione degli editori).
Alessandro MichelucciWanda Mastor, Vers l'autonomie. Pour une évolution institutionnelle de la Corse, Albiana, Ajaccio 2022, pp. 264, € 18.
La questione dell'autonomia tormenta la Corsica da oltre un secolo. Dai primi articoli pubblicati sulla rivista A Cispra nel 1914, passando per il periodo tra le due guerre mondiali, segnato dalla nascita del Partitu corsu autonomistu (1926), non c'è stata una fase politica dove il tema non sia stato dibattuto. Le discussioni di parte non sono mai mancate e hanno portato, nel corso di una storia turbolenta che tutti conoscono, ai successivi progressi istituzionali dai quali è nata la Corsica di oggi (il primo statuto Defferre e lo statuto Joxe in particolare). Nel 2017 il nazionalismo è diventato maggioritario nell'isola in seguito a una serie di vittorie elettorali che hanno portato l'intera classe politica a riaprire il "vecchio" dibattito sull'autonomia e a chiedersi se questa fosse legittima.
La domanda che viene posta in questo libro è più semplice e precisa: è possibile in termini giuridici? L'autrice, docente di diritto costituzionale a Tolosa, è stato incaricata di spiegare alla Collettività Territoriale Corsa (la Regione, ndt) le implicazioni giuridiche del tema e di proporre vie concrete di attuazione. Il rapporto della missione, presentato nel dicembre del 2021, si concentra su tre principali aree di riflessione: da un lato, il funzionamento - e il miglioramento - delle istituzioni esistenti, già ampiamente decentrate; il rapporto col diritto costituzionale francese (riforma costituzionale, giurisprudenza e analisi comparativa con le altre isole del Mediterraneo); infine, la raccolta di opinioni di varie personalità politiche, sia corse che esterne.
Lo studio realizzato da Wanda Mastor costituisce un elemento fondamentale dell'attuale dibattito politico e rappresenta già una tappa importante nella storia istituzionale dell'isola. Per questo motivo è stato messo a disposizione del pubblico sotto forma di libro.
Catherine WalchRiccardo Michelucci, Guerra, pace e Brexit. Il lungo viaggio dell'Irlanda, Odoya, Bologna 2022, pp. 288, € 18.
Ormai sono passati quasi sette anni dal referendum che ha sancito il distacco del Regno Unito dall'UE. Le conseguenze di questa svolta epocale sono progressivamente scomparse dai media, poi sono state sommerse dall'attenzione per la pandemia. Nonostante questo, la società britannica deve fare i conti con gli effetti sociali, politici ed economici del referendum. Uno di questi riguarda l'Irlanda del Nord, dove si è riaperto il dibattito sulla possibile riunificazione con la repubblica.
Un osservatore acuto e scrupoloso come Riccardo Michelucci, autore di numerosi libri e articoli sull'isola verde, non poteva certo restare muto davanti a questo nuovo fermento. Lo conferma questo libro, dove il giornalista fiorentino analizza la questione irlandese alla luce degli avvenimenti più recenti. Separata dalla repubblica nata all'inizio del Novecento, per quasi un secolo l'Irlanda del Nord ha vissuto in bilico tra la pace e la guerra. Nel 1998 l'accordo di Belfast ha sancito la conclusione del conflitto con Londra e inaugurato una nuova fase storica, ma il referendum del 2016 ha rimescolato ulteriormente le carte, innescando un processo impensabile fino a poco tempo fa.
Il libro si concentra sugli ultimi 23 anni, che vengono vagliati attentamente coinvolgendo i protagonisti del processo di pace, i sopravvissuti e i principali esponenti del mondo culturale e politico. Grazie a questo mosaico di grandi e piccole storie il lettore può vedere le ferite di un paese che resta ancora diviso. Una terra segnata dal sangue e dalla resistenza, ma ricca di ideali e di speranze. Sullo sfondo, una riunificazione che non pare più impossibile. Firma l'introduzione Enrico Terrinoni, esperto di letteratura irlandese e traduttore di Joyce, che collabora da vari anni con l'autore.
Antonella Visconti
Darren Chetty, Hanan Issa, Grug Muse, Iestyn Tyne (a cura di), Welsh (Plural): Essays on the Future of Wales, Repeater Books, London 2022, pp. 270, £7.99 – £12.99.
Negli ultimi 30 anni, purtroppo, è diventato molto difficile parlare di identità culturale o nazionale senza essere essere scambiati per nazionalisti ottusi e/o pericolosi. In realtà non bisogna fare di ogni erba un fascio. Esistono ancora diverse parti del mondo dove l'identità viene concepita come una ricchezza da donare agli altri in modo costruttivo e intelligente, accogliendo con interesse quella altrui. Un esempio di questo fenomeno è il Galles, come conferma un libro collettaneo di grande interesse, Welsh (Plural): Essays on the Future of Wales. In questa bella antologia troviamo saggi di alcuni dei più importanti autori gallesi – attori, studiosi, artisti, musicisti e attivisti - che esplorano nuovi modi di concepire la propria identità culturale. In altre parole, cosa significa essere gallesi oggi? Come si definisce un'identità nazionale? È contenuta in una storia, in una lingua o in una cultura condivisa? È un attaccamento a un paesaggio o a un luogo? A chi spetta deciderlo?
Presentato con una vivace copertina che riproduce un patchwork di stoffa colorata, il libro intreccia una ricca varietà di forme narrative: saggi storici, poesie, lettere e persino una storia interattiva a scelta. Ognuno è impreziosito da dettagli che formano un ritratto del Galles lontano dai soliti stereotipi a base di rugby, pecore, dolci colline, castelli e miniere di carbone.
Utili anche a chi conosce poco la storia e la cultura locale, le pagine di questo libro contengono una grande quantità di informazioni, dalla partecipazione attiva del Galles all'Impero britannico (e i suoi legami con il colonialismo e la schiavitù) alla devolution (l'autonomia in vigore dal 1998), dal divario tra Nord e Sud ai recenti fermenti separatisti. Come sottolinea il titolo, ogni saggio propone un'idea moderna dell'identità gallese, anzi delle identità gallesi, sia passate che presenti, perché la pluralità è la base irrinunciabile della convivenza civile.
Merita una nota positiva anche Repeater Books, la casa editrice fondata nel 2014 da Tariq Goddard, Mark Fisher, Etan Ilfeld, Tamar Shlaim, Alex Niven e Matteo Mandarini, che propone un catalogo stimolante orientato sui fermenti sociali contemporanei.
Giovanna MarconiFrancesco Serino, La vera storia dell’ultimo Stato: Gli Stati Uniti alla conquista delle Hawai'i, Mursia, 2022, pp. 374, € 19.
Anno dopo anno, in modo lento ma costante, l'editoria italiana continua a occuparsi delle questioni indigene meno conosciute colmando dei vuoti che non avevano ragione di esistere. Spesso questo accade grazie all'impegno di giovani studiosi che trattano certi temi per la prima volta, ma senza che questo comprometta minimamente la qualità del risultato. Un esempio ideale è questo libro di Francesco Serino, studioso grossetano, già autore de La vera storia della Repubblica delle banane. 1954: la CIA in Guatemala (Mursia, 2017).
Se non andiamo errati, il suo nuovo lavoro è il primo libro italiano che ricostruisce accuratamente la storia dell'arcipelago polinesiano: una storia sostanzialmente ignota al lettore italiano, che al massimo ne conserva qualche stereotipo datato con le ragazze dal seno nudo adornato da collane di fiori. Prima di essere risucchiato nell'orbita americana l'arcipelago hawaiiano era uno stato monarchico riconosciuto dal resto del mondo. Aveva rapporti con molti paesi, compresa l'Italia. Dopo il colpo di stato (1893) le isole divennero una colonia americana. Nel 1959, con un referendum che non prevedeva l'ipotesi del ritorno all'indipendenza, le Hawai'i diventarono il cinquantesimo stato della federazione nordamericana. Di questa storia, dimenticata ma centrale in termini geopolitici, Serino disegna un affresco ampio ed esauriente.
Il libro ci ricorda che la costruzione degli Stati Uniti ha avuto un costo enorme per i popoli indigeni: non soltanto per gli Indiani e per gli Inuit, ma anche per i Kanaka Maoli. Arricchisce il volume la prefazione di Franco Cardini. Chi scrive ha lamentato per molti anni il disinteresse della nostra editoria per le questioni indigene. Quindi non può che salutare con entusiasmo questo libro: quando arrivano le cose che aspettavamo, bisogna saperle riconoscere.
Alessandro MichelucciDuane Hamacher with Elders and Knowledge Holders, The First Astronomers. How Indigenous Elders read the stars, Allen & Unwin, Crows Nest (NSW) 2022, pp. 304, AUD $34.99.
Generalmente si pensa che l'astronomia sia di origine babilonese ed egiziana, che poi sia stata sviluppata da filosofi greci e arabi e infine codificata da scienziati europei come Keplero, Tycho Brahe e Galileo. Ma Duane Hamacher, astronomo americano che insegna all'Università di Melbourne, scardina questi stereotipi con The First Astronomers, un libro scritto in stretta collaborazione con alcuni anziani aborigeni australiani, custodi di un sapere astronomico ancora più antico.
L'opera propone un viaggio che conduce il lettore in un lungo viaggio stellare. In questo modo scopre che un tempo, secondo i Nuennone della Tasmania sudorientale, Punywen, l'uomo-sole, e Venna, la donna-luna, viaggiavano insieme nel cielo, fino a quando Venna si stancò e iniziò a rimanere indietro. Di conseguenza, mentre Punywen si allontanava, ogni notte la illuminava di più per indicarle lo spazio che li separava. Inoltre, il lettore può scoprire che la cerimonia di Banumbirr è direttamente collegata al periodo sinodico (il tempo necessario a un oggetto celeste per tornare nella posizione originale rispetto al sole) di Venere, e che i Mabuyag possono prevedere con precisione i venti, le variazioni di temperatura e le piogge in arrivo osservando la scintillazione stellare, mentre gli spazi tra le stelle danno origine alle "costellazioni oscure", la più famosa delle quali è senza dubbio quella che gli Euahlyi chiamano gawarrgay, l'emu celeste, la cui posizione rispetto alla Via Lattea segnala un'ampia gamma di pratiche ecologiche e protocolli culturali correlati.
In sostanza, le storie raccolte da Hamacher propongono al lettore a un radicale cambiamento di prospettiva. Le narrazioni tradizionali, un tempo relegate nel regno dei "miti" fantasiosi – se non addirittura mere superstizioni – vengono rilette sotto una luce nuova. Diventano tasselli di un insieme complesso di conoscenze scientifiche profondamente collegate alle culture indigene australiane e alla terra che questi popoli abitano da tempo immemorabile.
Alessandro PelizzonIndex on Censorship compie 50 anni
Londra è stata la capitale dell'impero più grande di tutti i tempi, sul quale "non tramontava mai il sole". Forse anche per questo è divenuta la sede di molte iniziative –associazioni, giornali, case editrici– che hanno cercato (e tuttora cercano) di opporsi a questa eredità battendosi contro la censura, la discriminazione e il razzismo. È il caso di una rivista, Index on Censorship, che compie 50 anni nel 2022. Non è una pubblicazione dedicata ai problemi delle minoranze e dei popoli indigeni, che comunque non ha mai trascurato.
Alessandro PelizzonFondata nel 1972 da un gruppo di persone riunite attorno a Stephen Spender (1909–1995), poeta e saggista inglese, Index on Censorship ha pubblicato saggi dei più autorevoli dissidenti di tutto il mondo: da Vaclav Havel a Nadine Gordimer, da Wole Soyinka ad Anna Politkovskaya. Come anche articoli di Arthur Miller, Salman Rushdie e Kurt Vonnegut. Dal dissenso sovietico alla lotta contro l'apartheid, dalla repressione cinese al genocidio ruandese, la rivista ha parlato dei temi più noti e di quelli trascurati dai media. Sulla sua copertina, sotto la testata, si legge A voice for the persecuted. Al tempo stesso ha denunciato che anche in molti paesi considerati democratici, come la Gran Bretagna e gli Stati Uniti, il dissenso non può sempre esprimersi liberamente.
www.indexoncensorship.org
Tim Giago/Nanwica Kciji 1934-2022
Tim Giago, uno dei massimi esponenti del giornalismo amerindiano, è morto il 24 luglio 2022. Tenace difensore della libertà di stampa, con la moglie Doris aveva fondato il Lakota Times, il primo giornale indiano indipendente, ed era stato fra i promotori della Native American Journalists Association. A lui si devono vari libri, fra i quali Children Left Behind (2006), dove narra la sua tragica esperienza nei convitti per indigeni. Nel numero 4 della prima serie (luglio-dicembre 2005) abbiamo pubblicato il suo articolo "Gli Indiani convivono con il terrorismo da 500 anni".
Petro Grigorenko (1907-1987) dissidente ucraino, ufficiale dell'esercito sovietico Will Hayward giornalista gallese, autore di Independent Nation: Should Wales Leave the UK? (2022) Paolo Kagaoan giornalista filippino-canadese, esperto di cinema, direttore di intheseats.ca Elizabeth Kimberley giornalista canadese, esperta di cinema Tero Lundstedt Ricercatore dell'Università di Helsinki (Diritto internazionale) Sampiero Sanguinetti giornalista corso, autore di vari libri, fra i quali Corse, l'option démocratique (2018) Nedim Useinow tartaro della Polonia, esperto della questione tartara, lavora all'Università di Varsavia (Dip. di Studi sull'Islam europeo) Mauro di Vieste direttore della Biblioteca Culture del mondo di Bolzano, esperto della questione kurda Andrej Zubov storico russo dissidente, emigrato in seguito all'articolo pubblicato sul quotidiano Vedomosti il 1° marzo 2014, che compare qui in traduzione italiana Oggi vive a Brno (Rep. Ceca) e lavora come lettore all'Università Masaryk.
Frédéric Bertocchini (testi), Eric Rückstühl (disegni), Le royaume anglo-corse, DCL, Ajaccio 2022, pp. 46, € 14,50.
Il sesto e ultimo albo della serie dedicata a Pasquale Paoli, Pasquale Paoli: la légende (DCL, 2007-2022), racconta la fase finale dell'avventura paolina, caratterizzata dall'effimera alleanza fra la Corsica e la Gran Bretagna (1790-1795). La forza narrativa di Bertocchini, il tratto efficace di Rückstühl e i colori di Véronique Gourdin si combinano felicemente creando un'opera ricca di tensione e di pathos. La narrazione non termina con la morte di Paoli, ma con la sua partenza verso il secondo esilio, che lo porterà ancora una volta a Londra, dove morirà nel 1807.
Alessandro MichelucciCarlos Reyes (testi), Rodrigo Elgueta (disegni), Noi, i Selk'nam, Edicola Ediciones, Santiago-Ortona (VT) 2022, pp. 160, € 19.
Indigeni della Terra del Fuoco, i Selk'nam furono vittime di un genocidio realizzato dai coloni argentini e cileni fra la fine dell'Ottocento e l'inizio del Novecento. La loro tragedia è stata dimenticata fino a pochi anni fa, ma recentemente è diventata oggetto di un certo interesse mediatico. Nel campo del fumetto spicca Noi, i Selk'nam, con disegni di Rodrigo Elgueta e testi di Carlos Reyes. L'albo merita molta attenzione, perché è il primo che strappa all'oblio collettivo uno dei (molti) genocidi che hanno poche possibilità di essere riconosciuti. Pubblicato originariamente in Cile, poi in Spagna e in Francia, arriva in Italia grazie a Edicola, una casa editrice che sviluppa i legami culturali italo-cileni. Opera cruda e realistica, dall'intreccio narrativo ben calibrato, Noi, i Selk'nam conferma che il fumetto è una valida alternativa ai saggi storici su questi temi.
Giovanna MarconiDelcourt, uno dei principali editori francesi di fumetti, sta pubblicando la serie Les reines de sang, dedicata alle regine che hanno segnato la storia. Fra gli albi già usciti spiccano quelli che raccontano la vita di due regine africane, Njinga e Kahina, che lottarono tenacemente contro il colonialismo. A entrambe sono dedicati due albi: Njinga. La lionne du Matamba (1-settembre 2020, 2-novembre 2022) e La Kahina. La reine berbère (1–giugno 2022, 2–gennaio 2023).
Kurdbun – Essere curdo, regia di Fariborz Kamkari, Italia-Francia, 2021, 90'.
Fariborz Kamkari, regista kurdo-iraniano, vive e lavora in Italia da molti anni. Riceve dei filmati da una giornalista kurda, Berfin Kar, che con il suo operatore Baran Yasak si trovava a Cizre, nel sud della Turchia, mentre l'esercito assediava la città. Nelle elezioni del giugno 2015 il Partito della Giustizia e dello Sviluppo (AKP) di Erdogan ha perso la maggioranza assoluta, mentre il Partito Democratico dei Popoli (HDP) di Selahattin Demirtaş, filocurdo, ha superato il 10% entrando in Parlamento. È la fine di un breve periodo di pace per le regioni kurde.
In questo contesto si sviluppa il racconto per immagini che Kamkari mette insieme su un girato di circa 50 ore ricevuto dalla giornalista Berfin Kar. Il film ha inizio domenica 1o gennaio 2016, ventunesimo giorno dell'assedio di Cizre. E' la mattina di capodanno e i militari che assediano la città non stanno ancora sparando. Molti escono a recuperare cadaveri e feriti per le vie della città, quando improvvisamente ripartono i bombardamenti: tre morti e nove feriti, tra cui l'operatore.
Perchè Cizre? Probabilmente perché qui si stava realizzando il confederalismo democratico (ecologismo radicale, femminismo, democrazia diretta) che ancora resiste nel Nord della Siria. Cizre perché molti abitanti sono gli sfollati provenienti dai 4000 villaggi rasi al suolo negli anni novanta dall'esercito turco. Il racconto riparte così dall'inizio dell'assedio, 21 giorni prima, e mostra al mondo cosa è realmente successo negli oltre due mesi di assedio.
"Io non me ne andrò, perché a Cizre ho capito cosa vuol dire essere kurda!" dice nel finale la giornalista, quando la situazione si fa ormai insostenibile. Questo è in fondo il tema centrale del film: cosa vuol dire essere kurdi? Cosa significa vivere da un secolo in una situazione permanente di guerra in tutti i posti dove vivono i kurdi? Tutti i membri del Consiglio Democratico della città vengono uccisi nei sotterranei dei loro uffici. Bilancio finale: 79 giorni di assedio, coprifuoco dal 14 dicembre 2015 al 2 marzo 2016, circa 180 morti. Nei media occidentali è passato come il massacro nei sotterranei di Cizre.
Slash/Back, regia di Nyla Innuksuk, Canada, 2022, 86'.
La tundra non compare spesso nei film del terrore, ma è un teatro ideale. Grazie a un paesaggio esteso e sottosviluppato, all'isolamento e a condizioni ambientali proibitive, poche persone hanno sfidato il paesaggio artico del cinema horror e sono sopravvissute per raccontarlo. Penso a Josh Hartnett in 30 Days of Night (tr. it. 30 giorni di buio, ndt). Per le ragazze di Slash/Back, invece, questo am-
biente gelido e inospitale è la casa. Appartenenti a una comunità di pescatori indigeni del Nunavut, in Canada, le ragazze trascorrono le loro giornate andando in bicicletta e facendo quello che fanno le loro coetanee: parlare di ragazzi e del film La cosa di John Carpenter. È il solstizio d'estate, con le sue 24 ore di luce solare. I genitori si recano a una festa e lasciano i ragazzi da soli. Quella che inizia come una serata allegra col ragazzo più carino del posto si trasforma in un incubo in seguito all'arrivo di una specie aliena.
I maggiori punti di forza di Slash/Back sono i suoi personaggi. Le attrici Tasiana Shirley, Alexis Wolfe, Chelsea Prusky, Frankie Vincent-Wolfe e Nalajoss Ellsworth interagiscono con la massima naturalezza. Descrivono un giorno nella vita di una ragazza inuit, un tema raramente esplorato nel cinema. Ma la vitalità giocosa evapora rapidamente quando la giornata si trasforma in qualcosa di diverso.
Elizabeth KimberleyApenas al sol, regia di Arami Ullón, Svizzera-Paraguay-Argentina, 2020, 75'.
Gli Ayoreo vivono in Bolivia e in Paraguay. Questo popolo indigeno potrebbe stimolare un film grandioso, ma Apenas al sol sceglie un'ottica diversa. L'attenzione si concentra su Mateo Sobode Chiqueno, lui stesso ayoreo, che da molto tempo sta costruendo un archivio di questa cultura registrando le canzoni, le testimonianze e i rituali della sua gente.
Chiqueno appartiene alla generazione degli anni Sessanta, quella che fu vittima dell'oppressione spietata realizzata dalla dittatura militare di Alfredo Stroessner (presidente del Paraguay dal 1954 al 1989). Gli Ayoreo vennero cacciati dalle loro foreste e costretti a vivere secondo una logica capitalista e cristiana. La macchina da presa cattura in modo esemplare quei momenti.
Una delle scene migliori del film è quella dove il protagonista registra una donna che canta una canzone tradizionale. Alla fine la donna si interrompe, dicendo che non ricorda tutto il testo. Ho sempre invidiato le persone che riescono a imparare le canzoni a memoria, ma in pratica questo non è difficile, perché in genere si tratta di canzoni che fanno parte della nostra quotidianità. Immaginate invece di dover conoscere delle canzoni antiche per poterle tramandare a una generazione che altrimenti non le conoscerebbe mai. È proprio quello che accade agli indigeni di tutto il mondo.
Premiato in numerosi festival fra il 2021 e il 2022, Apenas al sol è un lavoro ricco di sfumature che meritano di essere analizzate con la massima cura.
Paolo KaogoanRecentemente è stato ristampato Ningla A-Na, l'unico documentario dedicato all'Aboriginal Tent Embassy, una delle più importanti proteste organizzate dai popoli indigeni dell'Australia. Realizzato dal regista Alessandro Cavadini nel 1972, questo documento di grande valore storico contiene le immagini dell'epoca e le testimonianze dirette degli organizzatori. Uno strumento indispensabile per capire le questioni indigene del ventesimo secolo.
www.smartstreetfilms.com.au
Oki Kano, Tonkori the Moonlight, Mais Um, 2022.
Oki Kano, nato nel 1957, è uno dei principali musicisti che appartengono al popolo ainu, la minoranza indigena del Giappone. Attivo dagli anni Novanta, suona il tonkori, strumento a cinque corde tipico del suo popolo. Il nuovo CD propone 11 brani dove la musica tradizionale si fonde con influenze di vario tipo, dal rock al reggae, ma senza che queste la snaturino.
Accanto a Oki, che cura anche le parti vocali, compaiono vari musicisti. In quattro brani possiamo ascoltare la voce di Umeko Ando (1932-2004), la più importante cantante tradizionale ainu, con la quale Oki Kano ha inciso il suo primo CD, Hankapuy (1999).
Giovanna MarconiSmall Island Big Song, Our Island, Small Island Big Song, 2022.
Il mutamento climatico è la minaccia più grande per il futuro del pianeta, ma la politica stenta a elaborare delle soluzioni concrete. Al tempo stesso, comunque, si moltiplicano le iniziative che cercano di smuovere questa inerzia. Uno dei progetti più belli e più ambiziosi che siano stati concepiti con questo scopo è Small Island Big Song, ideato nel 2015 dalla produttrice taiwanese Bao-Bao Chen e dal marito, il regista australiano Tim Cole. Il progetto è nato per raggiungere due obiettivi complementari. Da una parte, realizzare un dialogo musicale che coinvolgesse artisti dell'Oceano Pacifico e Indiano: Sandro e Sammy Samoela (Madagascar), Putad (Taiwan), Selina Leem (Isole Marshall), etc., per un totale che supera i 100. Dall'altra, trasformare le loro musiche in un canto corale che mettesse in primo piano l'urgente necessità di invertire la rotta.
L'allestimento ha richiesto tre anni. Individuati i musicisti, BaoBao e Tim hanno chiesto loro di scegliere il brano che ritenevano più adatto e il luogo dove preferivano registrarlo con strumenti tradizionali nella lingua autoctona. Le antiche culture musicali sono state abilmente coniugate alle forme espressive contemporanee: folk, reggae, rock, blues, etc.
Il risultato è un miscela inebriante, una massa sonora compatta e coerente pur nell'estrema varietà che la compone. Il progetto viene documentato da un film (disponibile su DVD) che negli anni scorsi è stato presentato in vari festival e da due CD. Questo non è l'ennesimo disco di musica etnica, ma un monumento culturale che va oltre la musica in senso stretto, disegnando un caleidoscopio di canti, suoni e impegno civile che verrà ricordato.
Nessuno come Boris Pahor ha solcato gli ultimi due secoli della storia europea attraversando confini fisici e spirituali, riuscendo a dilatare la memoria del Novecento fino ai giorni nostri. Sloveno di cittadinanza italiana, nato a Trieste nel 1913 quando la città faceva ancora parte dell'impero asburgico, ha vissuto in prima persona e trasfigurato in grande letteratura alcuni degli orrori del nostro passato recente: la repressione fascista nella Venezia Giulia, i due conflitti mondiali, l'esperienza nei campi di concentramento nazisti, infine l'ostracismo comunista ai tempi di Tito. Non aveva ancora compiuto sette anni, il 13 luglio del 1920, quando dalle finestre del suo seminterrato situato nel centro di Trieste vide il cielo farsi rosso sangue. Si precipitò fuori con sua sorella e vide per la prima volta l'inferno. I fascisti avevano dato fuoco al Narodni Dom, la Casa della cultura slovena. Da quel momento in poi sarebbe stato testimone diretto della soppressione delle scuole in lingua slovena, dell'assimilazione coatta, dell'espulsione e dell'internamento degli intellettuali. Nel 1944 fu catturato dai nazisti e internato in vari campi di concentramento in Francia e in Germania, un'esperienza che avrebbe poi raccontato nel suo capolavoro, Necropoli, l'opera che gli è valsa un posto tra i grandi della "letteratura dello sterminio", accanto a Primo Levi e Imre Kértesz.
Profondamente sincero e coerente con le sue idee, consapevole del suo ruolo di memoria storica del Novecento e di grande testimone di libertà, Pahor ha sempre sentito il dovere morale di denunciare la deriva etica dei nostri tempi mettendo in guardia le giovani generazioni sul male che ha attraversato il ventesimo secolo. Talvolta anche adottando posizioni che potevano risultare scomode. Anni fa non esitò a criticare la legge che istituì il Giorno del Ricordo, perché a suo dire rendeva onore alle vittime delle foibe e dell'esodo istriano, fiumano e dalmata senza menzionare esplicitamente i crimini commessi in precedenza dall'Italia fascista sulle popolazioni slave. Era un concetto che gli stava particolarmente a cuore e l'ha ribadito fino alla fine dei suoi giorni.
Riccardo Michelucci