anno VII/nuova serie
numero 18-19
la causa dei popoli 1
luglio 2022-giugno 2023
la causa dei popoli problemi delle minoranze, dei popoli indigeni e delle nazioni senza stato anno VII/nuova serie
numero 18-19
ISSN: 2532-4063 Direttore: Alessandro Michelucci Redazione: Maurizio Torretti, Davide Torri Via Trieste 11, 50139 Firenze, 055-485927, 327-0453975 E-mail: a.michelucci@tim.it https://issuu.com/lacausadeipopoli Direttore responsabile: Riccardo Michelucci
luglio 2022-giugno 2023
EDITORIALE Grazie, maestro occitano Alessandro Michelucci
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DOSSIER Il trovatore del ventesimo secolo Alessandro Michelucci
Comitato scientifico Valerie Alia Leeds Metropolitan University, José Luis Alonso Marchante storico indipendente, James Anaya University of Arizona, Aureli Argemí CIEMEN, Laurent Aubert Archives internationales de musique populaire, Claus Biegert Nuclear Free Future Award, Guglielmo Cevolin Università di Udine, Duane Champagne UCLA, Naila Clerici Soconas Incomindios, Walker Connor Middlebury College, Myrddin ap Dafydd Gwasg Carreg Gwalch, Alain de Benoist Krisis, Zohl dé Ishtar Kapululangu Aboriginal Women's Association, Philip J. Deloria Harvard University, Toyin Falola University of Texas at Austin, Jacques Fusina Università di Corsica Pasquale Paoli, Edward Goldsmith The Ecologist, Barbara Glowczewski Collège de France, Ted Robert Gurr Center for International Development and Conflict Management, Mahdi Abdul Hadi PASSIA, Debra Harry Indigenous Peoples Council on Biocolonialism, Elina Helander-Renvall University of Lapland, Ruby Hembrom Adivaani, Alan Heusaff Celtic League, Amjad Jaimoukha International Centre for Circassian Studies, Asafa Jalata University of Tennessee, René Kuppe Universität Wien, Robert Lafont Université Paul Valéry, Colin Mackerras Griffith University, Luisa Maffi Terralingua, Saleha Mahmood Institute of Muslim Minority Affairs, Jean Malaurie CNRS, David Maybury-Lewis Cultural Survival, Antonio Melis Università di Siena, Fadila Memisevic Gesellschaft für bedrohte Völker, Garth Nettheim University of New South Wales, Kendal Nezan Institut Kurde, Helena Nyberg Incomindios, Massimo Olmi giornalista, Nicholas Ostler Foundation for Endangered Languages, Anna Paini Università di Verona, Alessandro Pelizzon Southern Cross University, Norbert Rouland Universitè d'Aix-Marseille III, Rudolph Rÿser Center for World Indigenous Studies, Ryūichi Sakamoto compositore, Edmond Simeoni Corsica Diaspora, Ruedi Suter MediaSpace, Parshuram Tamang Nepal Tamang Ghedung, Colin Tatz Australian Institute of Holocaust and Genocide Studies, Victoria Tauli-Corpuz Tebtebba, Ned Thomas Literatures Across Frontiers, Inja Trinkuniene Romuva, Fernand de Varennes Murdoch University, Joseph Yacoub Université Catholique de Lyon, Antonina Zhelyazkova International for Centre for Minority Studies and Intercultural Relations
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Il mio paese scorticato 8 J.-P. Chabrol, Robert Lafont, Emmanuel Maffre-Baugé La Francia contro le lingue regionali Alain de Benoist
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Occitano e catalano, lingue sorelle Robert Lafont
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Gardarem lo Larzac
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Gardarem la Tèrra Robert Lafont
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Bibliografia e filmografia
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INTERVENTI Una nuova voce per l'Amazzonia Intervista a Elaize Farías
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Un raggio di speranza per la Corsica Giovanna Marconi
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Rosse di sangue Sean Carleton
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Lunga vita a Fañch e Artús! Fabiana Giovannini
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Quelli della porta accanto Alessandro Michelucci
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DOCUMENTI Scuse, risarcimenti e rimpatrio di opere artistiche 34 e resti umani
LO SCAFFALE Biblioteca Aria nuova dalla Corsica Nuvole di carta Cineteca Musiche Per gli amici assenti In copertina: Robert Lafont (foto: CIRDOC)
Un paese deve essere giudicato in base a come tratta le sue minoranze (M. K. Gandhi)
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Grazie, maestro occitano Secondo uno stereotipo radicato, la Francia sarebbe la patria dei diritti umani, della democrazia e della libertà. A nulla vale ricordare che questa repubblica è nata mettendo al bando le lingue diverse dal francese e annettendo un'isola vicina (la Corsica). A nulla vale ricordare che ha combattuto sette anni per non perdere l'ultima colonia importante (l'Algeria) e che pratica tuttora un centralismo anacronistico negando i diritti delle proprie minoranze linguistiche (Alsaziani, Baschi, Bretoni, Catalani, Corsi, Fiamminghi e Occitani). Chi si ostina a considerarla un faro di libertà, quindi, dovrebbe ascoltare la voce delle figure politiche e intellettuali che hanno toccato con mano una realtà diversa dagli stereotipi suddetti. Uno dei più lucidi è stato Robert Lafont, nato a Nîmes il 16 marzo del 1923 e morto a Firenze il 24 giugno del 2009. Lafont è stato uno dei massimi intellettuali che la cultura occitana abbia espresso nel ventesimo secolo. Ma dato che oggi il termine occitano può generare un equivoco, è necessario un chiarimento. L'Occitania amministrativa, nata con la riforma territoriale del 2016, si estende per 72000 kmq e include alcune città di rilievo della Francia meridionale, come Montpellier, Nîmes e Tolosa. Questa coincide solo in parte con la regione storico-linguistica dell'Occitania, grande quasi il triplo, che non ha mai conosciuto l'unità politica e rappresenta un caso emblematico di nazione senza stato. Per molti questa cultura è legata a qualche vago ricordo scolastico: la lingua d'oc, i trovatori provenzali (fondatori della poesia europea), lo sterminio dei Catari. Ma esistono anche tappe più vicine a noi: basti pensare a Frédéric Mistral (1830-1914), il poeta provenzale che nel 1904 ricevette il Premio Nobel per la letteratura. Lafont si inserisce a pieno titolo in questo panorama, ma la sua sua parabola culturale e politica non si esaurisce nel ruolo che svolge nella cultura occitana: Robert è poeta e romanziere, drammaturgo e linguista, anticipatore dei movimenti no-global (quelli che in Francia sono chiamati altermondialistes), lucido critico del centralismo francese e paladino di una Francia federale. Chi scrive ha avuto la fortuna di conoscerlo e di frequentarlo, favorito dal fatto che abitavamo nella stessa città. Robert non è stato soltanto un prezioso interlocutore, ma ha dato un sostegno concreto alla nostra associazione fin dall'inizio. Il 19 gennaio 1993, quando facemmo il primo convegno pubblico, era al tavolo dei relatori. Le parole con le quali presentò la nostra iniziativa furono un'investitura importante per noi. Non si limitò a questo, che per noi era già molto, ma ci dedicò il suo tempo, ci ascoltò, ci dette dei consigli preziosi. Il dossier che gli dedichiamo in occasione del suo centenario è il minimo che possiamo fare per sdebitarci. Grazie, Robert, maestro occitano. Amico occitano. Alessandro Michelucci
Robert Lafont e la moglie Fausta Garavini, esperta di letteratura occitanica e scrittrice, nella loro casa di Firenze.
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Il trovatore del ventesimo secolo Alessandro Michelucci
Senza l'apertura all'altro, una cultura particolare è una prigione dell'io, un ritiro soffocante, una ripetizione sterile, una castrazione volontaria. Senza il riconoscimento dell'altro, una cultura cosiddetta universale è solo una tirannia diffusa, un'ingiustizia mantenuta, un imperialismo. L'uomo ha il diritto di disidentificarsi e di identificarsi. Robert Lafont, Prémices de l'Europe (2007). Il 1960 segna l'inizio di un decennio centrale per la Francia postbellica. La guerra d'Algeria, iniziata otto anni prima, volge ormai alla fine. Gli accordi che saranno firmati a Evian-les-Bains il 18 marzo 1962 segneranno la conclusione effettiva del conflitto. Il referendum dell'8 aprile conferirà al governo De Gaulle il potere di applicarli. Ma la perdita dell'Algeria, ultima colonia importante, innescherà un trauma politico e psicologico che segnerà profondamente la società transalpina. Accanto alla questione algerina ci sono delle forti tensioni sociali che incidono sulla politica interna. Alla fine del 1961 i minatori del bacino di Decazeville, situato nel sud del paese, scioperano per protestare contro l'imminente chiusura delle miniere a cielo aperto dell'Aveyron e il progetto governativo di reinsediarli in altri dipartimenti. Le agitazioni dei minatori stimolano una riflessione sul colonialismo interno. Questo termine indica l'applicazione ai processi politici interni della griglia analitica sviluppata nel contesto della colonizzazione di paesi stranieri. Non si tratta comunque di un'idea nuova. Come sottolinea Dominique Blanc, "il termine era già utilizzato in alcuni testi regionalisti spagnoli alla fine del XIX secolo", mentre l'idea di una colonizzazione interna (innere Kolonisation) della Germania orientale, dibattuta all'interno del Verein für Sozialpolitik, risale alla fine dell'Ottocento. Per quanto riguarda la Francia, sembra che il termine sia nato nell'ambiente riformista del Club Jean Moulin, e precisamente in un articolo di Charles Brindillac pubblicato su Esprit nel dicembre 1957 con il titolo "Décoloniser la France" . Successivamente il colonialismo interno verrà analizzato nel rapporto Décoloniser les provinces, diffuso dal socialista Michel Rocard nel 1966. Colonialismo interno e rivoluzione regionalista Ma la riflessione più lucida e articolata sul colonialismo interno è quella che viene elaborata da Robert Lafont, all'epoca già destinato ad affermarsi come il massimo intellettuale occitano del ventesimo secolo. Nato a Nîmes il 16 marzo 1923, Lafont cresce insieme ai nonni materni, che parlano fra loro in provenzale. Avido lettore delle opere di Frédéric Mistral, lo scrittore provenzale premiato col Nobel nel 1904, il giovane compie gli studi liceali nella città natale e si laurea alla Facoltà di Lettere di Montpellier. Nel 1945, insieme a un gruppo che include fra gli altri Ismaël Girard, René Nelli, Max Rouquette e Tristan Tzara, fonda l'Institut d'Etudis Occitans (IEO), che dirigerà a più riprese. Col tempo il nuovo organismo, nato per conservare e sviluppare la lingua occitana, si doterà di una struttura articolata che comprende numerose sezioni locali e regionali, da Limoges a Marsiglia. L'anno successivo, insieme ad altri, Lafont fonda L'ase negre (Il mulo), la prima rivista occitanista del dopoguerra. Le ambizioni di questa pubblicazione, che avrà soltanto quattro numeri mensili, sono politiche (a favore del federalismo), linguistiche (la rivista è interamente in occitano) e letterarie (vengono pubblicati nuovi autori). 4
L'attenzione di Lafont per le questioni regionali non ha niente a che fare col passatismo o col ripiegamento folklorico: per lui l'area occitana non deve essere "riserva etnografica e linguistica, ma una terra viva e pulsante", scrive nel 1955 sulla rivista Oc. Lo studioso critica il capitalismo, ma non abbraccia il marxismo, che con la sua logica centralista non si coniugherebbe con la difesa delle identità locali. Rifiuta il micronazionalismo difeso da altri esponenti del movimento occitano. Un contrasto particolarmente forte è quello che lo oppone a François Fontan, fondatore del Partit Nacionalista Occitan. Indipendentista influenzato dal marxismo, Fontan propugna una visione rigidamente etnica: nel libro Ethnisme, vers un nationalisme humaniste (1961) propone un riassetto globale del pianeta in nazioni monoetniche e monolinguistiche. Evidentemente si tratta di una posizione utopistica e massimalista che Lafont non può condividere.
Lo scrittore provenzale che vinse il Nobel I termini "lingua occitana" e "lingua provenzale" vengono spesso usati come sinonimi, ma in realtà la seconda è la varietà di occitano parlata in Provenza, la regione del’estremo sudest francese confinante con l’Italia (Piemonte e Liguria). Provenzale è Fréderic Mistral (1830-1914), lo scrittore al quale spetta il merito di aver dato piena dignità letteraria alla lingua occitana. Nel 1854, con altri scrittori, Mistral fonda il Félibrige, il movimento letterario che promuove la rinascita della lingua provenzale, cadutaun in disuso in seguitooriginale, all'Editto diestraneo Villers-Cotterêt (1539), che hamarxista, imposto l'uso del Propone invece socialismo al dogmatismo basato francese. Il nuovoe movimento guadagna velocemente un certo seguito e si esprime nelle opere di sull'autogestione sul decentramento. vari autori, primo fra tutti lo stesso Mistral. Le sue opere, fresche e originali, sono strettamente legate ai paesaggi naturali della Provenza. Fra le tante spicca Mireio (1859), un poema in 12 canti che viene considerato una delle massime espressioni della letteratura occitana. Attivo anche come filologo, lo scrittore compie un lungo lavoro per la riabilitazione del provenzale, proponendo una serie di regole ortografiche e linguistiche, raccolte nel dizionario Lou tresor dóu Félibrige (1878-1886). Inoltre si dedica alla raccolta di materiale etnografico e documentario. Nel 1904 Mistral vince il Premio Nobel per la letteratura. Molte delle sue opere sono state tradotte in italiano. Fra queste, Viaggio in Italia (Viennepierre 2002), Mireio (in italiano Mirella, Coumboscuro, 2011) e Racconti e leggende provenzali (e/o, 2012). Nel libro Mistral ou l'illusion (Plon, 1954) Robert Lafont analizza criticamente la sua opera, riconoscendo il ruolo fondamentale dello scrittore ma rifiutando il culto della sua personalità. Il Félibrige è ancora attivo e porta avanti la lezione del grande scrittore. Giovanna Marconi
Da sinistra: locandina di Mireille (1864), opera in cinque atti ispirata al capolavoro di Mistral, composta da Charles Gounod su libretto di Michel Carré; Mistral, olio su tela di Paul-Jean Marie Saïn (data ignota); il libro di Robert Lafont sullo scrittore provenzale.
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Nel 1958, insieme al bretone Armand Keravel, Lafont fonda il Mouvement laïque des cultures régionales, che intende promuovere l'insegnamento pubblico delle lingue regionali. Questa collaborazione si inserisce nel contesto dell'impegno politico che comincia a caratterizzare le minoranze dell'Esagono. In Bretagna è già attivo il Comité d'étude et de liaison des intérêts bretons (CELIB), fondato nel 1950, ma è soprattutto negli anni Sessanta che nascono vari movimenti politici e culturali, come il Comité d’études et de défense des intérêts de la Corse (CEDIC, 1964) , l'Union Démocratique Bretonne (UDB, 1964) e il Mouvement Regionaliste d'Alsace et Lorraine (MRAL, 1968). A questo fermento contribuisce la legge elaborata dal socialista Maurice Deixonne, approvata nel 1951, che autorizza l'insegnamento facoltativo del basco, del bretone, del catalano e dell'occitano. La legge esclude però l'alsaziano, il corso e il fiammingo, che vengono considerati dialetti di lingue straniere (tedesco, italiano e olandese). Per Lafont, comunque, l'impegno nazionalitario è sempre saldamente inserito in una riflessione politica ed economica di ampio respiro. In opere di rilievo centrale, come La révolution régionaliste (Gallimard, 1967), Sur la France (Gallimard, 1968) e Décoloniser en France (Gallimard, 1971), lo studioso occitano espone il proprio concetto di colonialismo interno: "Per noi questa espressione, non colonialismo tout court, ma colonialismo interno, non è né un facile vessillo di rivolta, né un modo per attirare l'attenzione mediatica. È l'espressione più adatta che abbiamo trovato per definire una serie di processi economici di cui il sottosviluppo regionale è l'involucro visibile" (La révolution régionaliste). Questa teoria influenza le lotte nazionalitarie che si stanno sviluppando in altre regioni dell'Europa occidentale, come la Bretagna, la Catalogna e la Scozia. mobilitazione L'attività politica rimane quindi strettamente intrecciata con quella culturale. Lafont prosegue il forte impegno in difesa della cultura occitana, attestato da libri come Clefs pour l'Occitanie (Seghers, 1971), Lettre ouverte aux français d'un occitan (Albin Michel, 1973) e La revendication occitane (Flammarion, 1974). All'inizio degli anni Settanta lo studioso partecipa attivamente alle imponenti proteste contadine del Larzac, un'area rurale minacciata dall'ampliamento di una base militare, che si risolvono positivamente. Fra i manifestanti c'è anche José Bové, poco più che ventenne, destinato a diventare una figura centrale del movimento contro la globalizzazione. Del resto, la riflessione sociopolitica sviluppata da Lafont anticipa già questo orientamento. Nel 1974, pochi giorni dopo la morte di Georges Pompidou, lo studioso annuncia l'intenzione di candidarsi alle elezioni presidenziali. Questa scelta ha un significato ben preciso: Lafont si propone come rappresentante delle varie minoranze esagonali, in aperta opposizione al centralismo parigino. La candidatura viene invalidata dal Consiglio costituzionale per l'irregolarità di alcune firme, ma la mossa non si rivela inutile, perché dai comitati di sostegno nasce un nuovo movimento occitanista, Volem viure al pais. Passano quindi molti anni segnati dall'impegno accademico (insegna all'Università Paul-Valéry di Montpellier) e dalla scrittura, con opere che spaziano dal romanzo alla poesia, dal teatro alla linguistica. Ma la fiamma dell'impegno politico non si spegne mai. Infatti torna a manifestarsi nel 2003, quando Lafont partecipa al convegno Gardarem la terra. In quella occasione lo studioso legge il manifesto politico che lui stesso ha redatto. Il convegno si richiama apertamente ai moti popolari degli anni Settanta (la grande protesta del Larzac) e ne attualizza lo spirito, inserendosi nel movimento contro la globalizzazione neoloberista che si sta sviluppando in varie parti del mondo. Il 24 giugno 2009 Robert Lafont termina la propria parabola terrena a Firenze, la città dove ha vissuto per molti anni insieme alla moglie Fausta Garavini, anche lei esperta di letteratura occitana.La vita di questo trovatore del ventesimo secolo è stata un meraviglioso mosaico di esperienze politiche e culturali che si sono nutrite scambievolmente con la massima coerenza. Lo studioso occitano è stato un uomo di grande cultura, ma non è mai rimasto chiuso in una torre d'avorio. Profondamente europeo, radicale ma mai velletario, ci lascia un'eredità culturale e politica di enorme valore, secondo la quale la difesa della diversità culturale non potrà mai accettare che la vita venga ridotta a merce. 6
La lunga lotta in difesa della lingua occitana 21 maggio 1854 Sette poeti provenzali - Théodore Aubanel, Jean Brunet, Paul Giéra, Anselme Mathieu, Frédéric Mistral, Joseph Roumanille e Alphonse Tavan - fondano il Félibrige, un'associazione culturale per la difesa e la promozione della lingua occitana. 1875 Frédéric Mistral publica sul giornale L'Armana Prouvençau un articolo dove chiede che ai bambini occitani venga garantita l'istruzione nella lingua madre. 1900 Sylvain Lacoste, membro del Félibrige, pubblica il libro Du patois à l’école primaire, dove propone che l'occitano venga insegnato a scuola insieme al francese. 1919 Alcuni felibristi iniziano a insegnare la lingua in certi licei della Provenza e della Guascogna. 1923 Ismaël Girard fonda a Tolosa la rivista Oc, che pubblica testi in occitano e in catalano per sottolineare i forti legami storici fra le due lingue. 1934 Charles Camproux, Léon Cordes e Roger Barthe fondano la rivista Occitania. 28 aprile 1945 Nasce a Tolosa l’Institut d'Estudis Occitans. Fra i fondatori, Jean Cassou, Robert Lafont, René Nelli, Max Rouquette e Tristan Tzara. Il primo segretario è Robert Lafont. 11 gennaio 1951 La legge Deixonne autorizza l'insegnamento facoltativo del basco, del bretone, del catalano e dell'occitano. Vengono però esclusi l'alsaziano, il corso, il fiammingo e il tahitiano, considerati dialetti derivanti da lingue straniere. 1958 Robert Lafont, occitano, e Armand Keravel, bretone, fondano il Mouvement Laïque des Cultures Régionales per promuovere l'insegnamento pubblico delle lingue regionali. 1969 Fondazione del CREO (Centre Régionaux des Enseignants de l’Occitan). 1979 Viene aperta a Pau la prima Calandreta ("piccola allodola"), scuola bilingue che segue i programmi della scuola pubblica. Più tardi nascerà una rete che coprirà tutta l'area occitana. 23 maggio 1980 Il regista Jean-Pierre Denis viene premiato a Cannes con la Caméra d'Or (miglior film) per Histoire d'Adrien/L'istòria d'Adrien, girato in occitano. 1981 Il programma diffuso da François Mitterrand per la campagna presidenziale afferma che "saranno promosse le identitità regionali, le lingue e le culture minoritarie saranno rispettate e insegnate". 1991 Viene creato il CAPES (Certificato di idoneità all'insegnamento dell'istruzione secondaria) di occitano. 1994 Le Calandretas vengono riconosciute ufficialmente dal Ministro dell'Istruzione. 22 ottobre 2005 Grande manifestazione popolare a Carcassonne in difesa della lingua occitana. Iniziative analoghe si tengono in altre città negli anni successivi. 20 dicembre 2013 Iniziano le trasmissioni di Oc Tele, la prima televisione in lingua occitana. Il fondatore è Lionel Buannic, caporedattore di TV Breizh, la prima televisione bretone. 14 ottobre 2022 Il Congrès permanent de la langue occitane mette in linea Revirada, il primo traduttore automatico francese-occitano e occitano-francese. 7 aprile 2023 Debutta La sèria, prima serie televisiva in occitano, trasmessa da France 3.
Manifestazione per la difesa della lingua occitana, Carcassonne, 22 ottobre 2005 (foto: P. Quintana Seguí).
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Il mio paese scorticato Robert Lafont Emmanuel Maffre-Baugé Joan-Pèire Chabròl Mon païs escorjat è il titolo del manifesto che Emmanuel Maffre-Baugé, Robert Lafont et Jean-Pierre Chabrol presentarono a Montpellier il 27 ottobre 1978. Il documento, pubblicato l'anno successivo sul numero 2 della rivista occitanista Aici e ara, era stato ideato a Heidelberg da Robert Lafont, che poi l'aveva proposto agli altri due firmatari. Successivamente fu firmato da 10.000 personalità culturali e politiche. Lo sanno tutti e le stesse autorità europee concordano: l'entrata della Grecia, del Portogallo e della Spagna nel MEC sarà un colpo mortale per l'economia delle regioni meridionali della Francia. In questo modo si perfezionerà il degrado sociale della nostra terra, già colpita dalla deindustrializzazione, dalla disoccupazione, dallo sfruttamento turistico selvaggio e dalla proliferazione delle basi militari. I responsabili del gioco europeo parlano di redditività, espansione, modernizzazione: tutti criteri che ci escludono da questo gioco, dove siamo delle pedine e del quale si vorrebbe che fossimo complici. Noi sappiamo bene, grazie a una sfortunata esperienza, di cosa si tratta: di una strategia tesa al profitto dove il nostro spazio vitale è condannato a diventare un deserto soleggiato per gli europei in vacanza che servirà soltanto a mantenere qualche pensionato locale. Dall'altra parte vogliono convincerci che la democratizzazione di alcuni paesi fratelli ci impone di lasciarli entrare nella famiglia di cui noi facciamo già parte. Noi riteniamo essenziale la fraternità con dei popoli vicini e affini che abbiamo sostenuto nelle loro lotte di liberazione. Ma dobbiamo lasciare che questa liberazione diventi un'arma contro di noi? Siamo proprio sicuri che questa liberazione passi per l'integrazione all'Europa dominata dal marco e dal dollaro? Noi abbiamo un'altra idea della lotta fraterna per la democratizzazione del nostro continente. In questa battaglia il nostro paese non è un qualunque luogo da usare e gettare a piacimento. È l'Occitania, patria di una cultura soffocata che oggi rinasce grazie all'entusiasmo dei nostri giovani. È la terra dove sono nate lotte per la libertà antiche e recenti: i Catari (X-XIV secolo, ndt), i Camisardi (1702-1709, ndt) e la Resistenza antifascista. È terra delle grandi lotte contadine e operaie che hanno segnato la storia dei popoli. È il paese dove esiste una solida coscienza civica e democratica che non è stata ancora distrutta. È il paese che noi, impegnati a livello culturale e sociale in vari modi, vogliamo difendere. Crediamo che la situazione sia grave. Bisogna evitare che venga inflitto un colpo mortale agli operai, ai contadini, agli intellettuali, agli artigiani e ai commercianti, a tutta la società occitana. Questo significa che abbiamo bisogno di un potere democratico capace di opporsi alle multinazionali e al centralismo statale che si sono alleati. Per realizzare la democratizzazione di questo territorio è necessario un potere autonomo che dia alle regioni occitane nuove opportunità. Davanti a questa strategia mercantile, quindi, noi affermiamo con forza il nostro diritto di vivere, lavorare, creare e decidere in questa terra, dove viviamo e dove vogliamo restare. Se l'Europa attuale e quella allargata ci impediranno di raggiungere questi obiettivi elementari, sarà l'Europa che dovrà essere realizzata diversamentre, e non noi che dovremo piegarci alla sua logica. Noi decidiamo quindi di rendere pubblica la nostra determinazione: saremo dalla parte di tutti coloro che lotteranno contro la liquidazione violenta e scellerata della nostra vita sociale, contro l'Europa del capitale e per l'autonomia della nostra terra. E per l'Europa dei popoli. 8
La Francia contro le lingue regionali Alain de Benoist
Quando scoppiò la Rivoluzione la grande maggioranza della popolazione non parlava il francese. La Francia contava 26.000.000 di abitanti, l'80% dei quali era costituito da contadini. Di questa percentuale, meno di 3.000.000 parlavano esclusivamente il francese (comunque infarcito di espressioni dialettali). Inoltre, la "lingua del re" segnava nettamente le differenze di classe: le lingue locali venivano parlate dagli operai e dai contadini. Il numero delle lingue regionali parlate oggi in Francia varia molto a seconda del criterio che si adotta per individuarle. Ma secondo la convenzione le principali sono sette: alsaziano, basco, bretone, catalano, corso, fiammingo e occitano. Queste lingue vengono spesso definite patois, o anche dialetti, per sottolinearne il carattere locale. Ma bisogna ricordare che "non esiste una gerarchia di valori fra lingua, dialetto e patois" (Henriette Walter, Le francais dans tous les sens, Librairie générale francaise, 1988, n. ed. Points, 2016). L'ordinanza di Villers-Collerets, emanata nel 1539, impose l'uso del francese nei tribunali e negli atti ufficiali del regno. Anche se spesso si dimentica che questo provvedimento non fu concepito per reprimere l'uso delle lingue regionali, ma quello del latino. Fu soltanto con la Rivoluzione che la lingua divenne un affare di stato: bisognava dotare la Repubblica "una e indivisibile"di una "lingua nazionale". Perché nascesse un popolo francese legale, nel senso politico del termine, bisognava che scomparissero gli altri popoli: bretone, corso, occitano, etc., che costituivano la ricchezza più profonda della Francia. In un primo momento, comunque, i capi della Rivoluzione optarono per una politica linguistica piuttosto tollerante. Il 3 novembre 1789 Jacques Guillaume-Thouret evocò la necessità di "distruggere lo spirito di provincia", ma il 14 gennaio 1790, su proposta del deputato François-Joseph Bouchette, l'Assemblea nazionale decise di far pubblicare i propri decreti "in tutti gli idiomi che si parlavano nelle diverse parti della Francia". Nello stesso periodo Jean-François Marmontel, enciclopedista e grammatico, cercò di promuovere le lingue regionali. Ma dopo l'eliminazione del partito girondino (giugno 1793), poi sotto il Terrore, la tendenza si invertì e i cosiddetti patois divennero oggetto di un attacco sistematico. Lo sradicamento dei "gerghi primitivi" Un decreto emanato nell'ottobre del 1793 impose che l'insegnamento fosse impartito unicamente in francese in tutto il paese. Un altro proibì agli Alsaziani di dare nomi tedeschi ai bambini. Bertrand Barrère, membro del Comitato di salute pubblica, lanciò una vera e propria offensiva in favore della lingua unica: "In un popolo libero la lingua deve essere una e una sola per tutti". Nel suo Rapport du Comité de salut public sur les langues, presentato alla Convenzione il 27 gennaio 1794, si dichiarò favorevole allo sradicamento dei "gerghi barbari" e degli "idiomi rozzi" che servivano soltanto ai "fanatici" e ai "controrivoluzionari". Il 16 giugno 1794 il Comitato di salute pubblica ribadì la necessità di cancellare i "dialetti": "In una Repubblica una e indivisibile la lingua deve essere una. La varietà dei dialetti è un fenomeno federalista che bisogna cancellare completamente". Pochi giorni prima, il 4 giugno, l'abate Henri-Baptiste Grégoire, ex vescovo di Blois, aveva pubblicato il suo famoso Rapport sur la necessité et les moyens d'anéantir les patois et d'universaliser la langue française (Rapporto sulla necessità e sui mezzi per annientare i dialetti e universalizzare la lingua francese, ndt). 9
Disgustato dal fatto che si parlasse unicamente francese soltanto in 15 dipartimenti su 83, il rapporto affermava la necessità di "uniformare la lingua", di imporre ovunque la "lingua della libertà" e di "estirpare questa congerie di idiomi degenerati che prolungano l'infanzia della ragione e la vecchiaia dei pregiudizi". Dopo di lui non verrà mai messo in discussione questo orientamento, che sopravviverà alla Rivoluzione e ispirerà tutta la politica della Terza Repubblica (1870-1940). Al censimento del 1806, quando la Francia contava 29,6 milioni di abitanti, c'erano ancora 8,4 milioni che parlavano l'occitano (bearnese, guascone, provenzale, etc.), 2,1 milioni che parlavano franco-provenzale, un milione che parlava alsaziano, altrettanti il bretone, 174000 corsofoni e 156000 che parlavano il fiammingo. In sostanza, circa 13 milioni di francesi che nella vita quotidiana utilizzavano una lingua diversa da quella di Voltaire. Nel diciannonevesimo secolo la politica tesa allo sradicamento delle lingue regionali riprese con la legge Guizot (1833). Erano i tempi in cui il prefetto del Finistère (uno dei quattro dipartimenti che formano la Bretagna, ndt) dichiarava che "bisogna(va) assolutamente cancellare il bretone, mentre un ispettore dell'Accademia di Mauléon affermava con orgoglio di "aver imposto ai docenti di non usare mai il basco". Nel 1845 il prefetto di Morlaix (città bretone, ndt), parlando agli insegnanti riuniti in sua presenza, affermava: "Signori, ricordate che il vostro unico compito è quello di uccidere la lingua bretone!". Nel 1863, comunque, saranno ancora 7,5 milioni (20% della popolazione) i francesi che non conoscono la lingua nazionale. La bacchetta degli "ussari neri" La Terza Repubblica si impegnò con forza ancora maggiore nella lotta contro i "dialetti", perché sospettava che i loro sostenitori appartenessero agli ambienti "clericali": nel 1902 Emile Combés, presidente del Consiglio ferocemente anticlericale, cercò di impedire al clero bretone di usare la lingua regionale. Gli "ussari neri" (docenti scolastici contrari alle lingue regionali, ndt) si impegnavano anima e corpo a insegnare il francese agli alunni baschi, bretoni o corsi ("È vietato sputare per terra e parlare bretone") per accelerare l'omologazione linguistica. Anche il servizio militare contribuirà al raggiungimento di questo obiettivo. In quegli anni, comunque, le lingue regionali trovarono anche dei paladini, sia a destra (per difendere le tradizioni) che all'estrema sinistra (per solidarietà con il popolo). Nel 1911 Jean Jaurés pronunciò a Saint-Jean-de-Luz un discorso nel quale incensava le lingue regionali e le difendeva da coloro che le consideravano soltanto idiomi "arretrati". Nel suo libro La mort du français (Plon, 1999) Claude Duneton racconta: "Nel mio paese, dopo la messa domenicale, nell'autunno del 1939, non si sentiva una sola parola di francese… Quella folla fatta di vecchi, giovani, donne, bambini, ragazze cresciute nei pascoli si esprimeva soltanto in occitano". Cosa rappresentano oggi, nel terzo millennio, le lingue regionali? Le stime sono contraddittorie. Secondo quelle più affidabili, il corso viene parlato da 90.000 persone, il bretone da 260.000, l'occitano da 600.000, il basco da 50.000 e il dialetto alsaziano da 800.000, senza dimenticare i 30.000 che parlano fiammingo. In totale, quasi il 3% della popolazione francese. Nel 1997 il 55% degli abitanti della zona catalanofona comprendeva questa lingua, il 39% sapeva leggerla e il 34% era in grado di parlarla. Nel 2006, nella regione basca, il 22,5% degli abitanti era bilingue, l'8,6% comprendeva il basco ma non lo parlava, mentre coloro che non lo parlavano erano il 68,9%. Nei 32 dipartimenti che compongono l'Occitania, un milione su 14 usa l'occitano quotidianamente e altri 3 milioni lo capiscono. Oggi la politica ufficiale non consiste più nello sradicamento delle lingue regionali, ma nel mantenerle al minimo livello. Questo spiega perché non sono regolate da leggi specifiche, ma da circolari e decreti, cosa che determina una normativa fragile. Nonostante l'impegno delle scuole come Diwan (Bretagna), Ikastolas (Paese Basco) e Calandretas (Occitania), soltanto l'1,5% della popolazione scolare (72826 su 4,8 milioni) usufruisce di un insegnamento bilingue. 10
Un mondo di lingue tagliate La repressione della diversità linguistica non è mai stata monopolio dei regimi autoritari o dittatoriali, ma è stata praticata regolarmente anche in quelli che si ammantano di principi democratici. Quello che segue è un breve panorama, ovviamente incompleto, che dimostra come l'accanimento contro le lingue minoritarie sia stato praticato (e sia tuttora praticato) in varie parti del mondo. In genere, però, questo fenomeno genera reazioni mediatiche e popolari molto scarse, perfino da parte di coloro che sono sensibili alle violazioni dei diritti umani. 1794 I rivoluzionari impongono l'uso esclusivo del francese mettendo fuorilegge tutte le altre lingue che vengono parlate in Francia (basco, bretone, catalano, occitano, etc.). 1859 La Francia vieta l'uso della lingua italiana in Corsica, che era rimasta di uso corrente nonostante la legge del 1794. 1867 La Nuova Zelanda istituisce un sistema didattico che prevede soltanto l'uso dell'inglese. I bambini maori vengono puniti se usano la lingua madre. Gli effetti saranno devastanti: nel 1953 la percentuale degli scolari che parlano la lingua indigena sarà scesa al 26%. 1879 Il Giappone annette le isole Ryukyu e inizia una politica di assimilazione. Le lingue autoctone vengono bandite e i bambini che le usano a scuola vengono puniti. 1887 Negli Stati Uniti viene vietato l'uso delle lingue indigene, sia in campo didattico che nell'ambito familiare. 1896 Dopo il colpo di stato americano che ha deposto la monarchia hawaiiana, la lingua indigena viene esclusa dall'insegnamento scolastico e ne viene scoraggiato l'uso familiare. 1898 La Norvegia e la Svezia proibiscono l'uso della lingua sami (lappone). 1917 La Marina statunitense bandisce l'uso del chamorro, lingua indigena di Guam. I militari bruciano tutti i dizionari chamorro-inglese. I bambini che parlano il chamorro a scuola vengono puniti e talvolta i loro genitori vengono multati. 1923 La riforma Gentile sancisce l'uso obbligatorio dell'italiano come unica lingua d'istruzione, con la possibilità in aree mistilingui di studio della lingua locale in ore aggiuntive. 1925 A Bolzano viene emanato un decreto che rende illegale anche l'insegnamento del tedesco nell'ambito privato. Si è scoperta infatti la rete delle Katakombenschulen, scuole clandestine dove si insegna il tedesco ai bambini. 1937 Il regime nazionalsocialista bandisce l'uso del sorabo. 1939 La Spagna franchista proibisce l'uso della lingua catalana. 1941 L'Etiopia di Hailé Selassié mette fuorilegge la lingua oromo. 1952 Nei pressi dell’Università di Dhaka (Pakistan) cinque studenti vengono uccisi durante le proteste organizzate per reclamare il riconoscimento ufficiale del bangla (bengalese). 1968 Il cantautore catalano Joan Manuel Serrat viene escluso dall'Eurofestival perché ha presentato una canzone in lingua madre. 1973 Il regime di Gheddafi proibisce l'uso delle lingue berbere. 1977 Lo scrittore Ngugi wa Thiong'o viene condannato a un anno di prigione per aver scritto e rappresentato l’opera teatrale Ngaahika Ndeenda, scritta in gikuyo, sua lingua madre, insieme a Ngugi wa Mirii. 1980 Colpo di stato militare in Turchia. La lingua kurda viene bandita. 1985 Lo scrittore irlandese Brian Ó Baoill viene arrestato e condannato a due mesi di carcere per le sue proteste contro l'assenza di programmi in irlandese sulla rete nazionale RTÉ . 1991 Leyla Zana, prima curda eletta nel Parlamento turco, usa la lingua madre, all'epoca illegale, durante il giuramento iniziale. Nel 1995 viene arrestata e condannata a 15 anni di prigione. 1999 Il Parlamento italiano approva la legge 482, che riconosce 12 "minoranze linguistiche-storiche", ma per volontà della Lega Nord esclude la minoranza rom/sinti. 2017 La Cina vieta l'uso della lingua uigura in alcune scuole dello Xinjiang. 2020 Zahra Mohammadi, kurda iraniana, viene condannata a 10 anni di carcere con l'accusa di aver "formato un gruppo contro la sicurezza nazionale". In realtà la condanna è dovuta esclusivamente al fatto che insegna il kurdo. 11
Una piccola rinascita Le lingue regionali, quindi, hanno conosciuto un notevole declino, ma le regioni dove vengono ancora parlate (una quarantina di dipartimenti) coprono uno spazio equivalente alla metà della Francia. Secondo il censimento del 2020, un francese su otto ha ereditato dai genitori la conoscenza di una lingua regionale. Queste lingue sono state riconosciute per la prima volta, seppur timidamente, dalla legge Deixonne del 1951, che ha introdotto nell'insegnamento il basco, il bretone, il catalano e l'occitano. Successivamente sono stati inclusi anche il corso (1974) e l'alsaziano (2006). Nel 2001 la Delegazione generale per la lingua francese è stata ribattezzata Delegazione generale alla lingua francese e alle lingue di Francia, mentre con la revisione costituzionale del 23 luglio 2008 è stato inserito un articolo (75-1) che proclama che "le lingue regionali sono parte integrante del patrimonio francese". Un passo avanti, ma ancora insufficiente. Sotto la monarchia come sotto la repubblica, per paura delle aspirazioni nobiliari o popolari, lo Stato non è cresciuto nella diversità, ma nell'uniformità. Il risultato è che oggi la Francia è lo stato più centralista d'Europa, quello dove le collettività locali (equivalenti alle Regioni italiane, ndt) dispongono di minore autonomia e di minori risorse locali. È anche quello che, nel nome di una concezione assolutista, ha praticato la politica più diffidente, se non la più intollerante, verso le lingue e le culture regionali. La Francia resta l'unico paese del mondo occidentale che privilegia l'esistenza di una lingua unica dimenticando tutte le altre che sono storicamente presenti sul suo territorio, in altre parole l'unico paese che si dichiari ufficialmente e orgogliosamente monolingue. La Carta europea delle lingue minoritarie In tempi più recenti la questione delle lingue regionali è tornata in primo piano grazie al dibattito, spesso molto vivace, relativo alla Carta europea delle lingue regionali o minoritarie. Adottata a Strasburgo il 5 novembre 1992 per "conservare e sviluppare le tradizioni e la ricchezza culturale dell'Europa", questa Carta stimola gli Stati a promuovere l'uso pubblico e privato delle lingue che non godono di un riconoscimento ufficiale. Al 10 ottobre 2023 l'hanno sottoscritta 34 paesi, 25 dei quali l'hanno anche ratificata e resa operativa. Il 7 maggio 1999, a Budapest, la Francia ha sottoscritto 39 degli 88 articoli che compongono la Carta. Il processo di ratificazione si è interrotto il 15 giugno, quando il Consiglio costituzionale, consultato dal presidente Jacques Chirac, ha affermato che il documento conteneva delle clausole incompatibili con la Costituzione, a cominciare dall'art. 2, che riconosce lo status di lingua ufficiale soltanto al francese ("la lingua della Repubblica è il francese"), e che "attentava ai principi costituzionali di indivisibilità della Republica in quanto istituiva dei " diritti collettivi" per alcuni gruppi particolari. Il Consiglio di stato avrebbe ripreso la stessa argomentazione nel 2013 e nel 2015. Nel 1998 Lionel Jospin, all'epoca Primo Ministro, aveva incaricato il giurista Guy Carcassonne di trovare un modo per aggirare l'opposizione del Consiglio costituzionale. Carcassonne aveva proposto di adottare una "dichiarazione interpretativa", specificando che per la Francia il concetto di "gruppo" rinvia soltanto "agli individui che lo compongono e non può in alcun caso formare un'entità distinta, titolare di diritti propri"! Ma se l'impiego di questo termine non conferisce dei diritti collettivi a quanti parlano lingue regionali o minoritarie, allora a cosa serve? L'impegno di Carcassonne fu meritorio, ma inutile, così il dibattito sul tema è rimasto fermo per 15 anni. Poi è tornato d'attualità nel gennaio del 2014, quando l'Assemblea nazionale ha approvato a larga maggioranza (361 voti contro 149) una proposta di legge costituzionale che autorizzava la ratifica della Carta con una revisione della Costituzione. Ma nel giugno del 2015 il Consiglio di Stato ha emesso un altro parere contrario, dopodiché anche il Senato ha negato l'approvazione. Negli stessi giorni, un'inchiesta realizzata dall'Institut français d'opinion publique (IFOP) rivelava che il 72% dei Francesi era favorevole (il 18% "assolutamente favorevole") alla ratifica della Carta. 12
Unità non significa uniformità Le argomentazioni contrarie alla ratifica sono ben note. Secondo i suoi avversari, la Carta metterebbe in pericolo l'identità della Francia, quell'unità che sembra subordinata alla reductio ad unum. Riconoscendo dei diritti specifici a gruppi particolari, la Carta metterebbe in pericolo "l'indivisibilita della Repubblica e l'"unità del popolo francese". Favorirebbe una forma di "comunitarismo linguistico" che incoraggerebbe le rivendicazioni autonomiste o "separatiste". Costituirebbe "un attacco diretto e frontale contro il modello repubblicano", afferma il parlamentare Henri Guaino. Secondo Anne-Marie Le Pourhiet, questa posizione deriverebbe da un "fantasma identitario", per il quale invocare l'insegnamento di una lingua locale nelle scuole di un territorio specifico si iscriverebbe in una logica dell'apartheid e dell'attribuzione identitaria! Tutte queste argomentazioni sono tipicamente giacobine. I termini più frequenti – cavallo di Troia, irredentismo, balcanizzazione, etc. – mettono in luce il superego giacobino, la sua ossessione dell'uniformità e dell'indifferenziazione, l'idea che la Francia sarà tanto più forte quanto più le sue parti saranno prive di specificità. Il giacobinismo si basa sulla convinzione che gli organismi superiori debbano gestire e che il pluralismo sia sempre sinonimo di indebolimento. Come sempre, l'unità viene confusa con l'uniformità e la diversità viene considerata una debolezza, mentre in realtà è una ricchezza e una forza. Il plurilinguismo è la regola La tesi secondo la quale il francese è il crogiuolo (o il cemento) dell'identità nazionale, o la tesi secondo la quale la Francia ha costruito la propria unità grazie alla lingua ufficiale, è anche questa contestabile: i milioni di francesi che alla vigilia della Rivoluzione non la parlavano non si consideravano meno francesi per questo. Composta da province con lingue, culture e talvolta anche leggi diverse, la Francia aveva dei confini politici, ma non era uno stato unitario. D'altronde, l'espressione "la lingua della Repubblica è il francese" viene inserita nella Costituzione soltanto dal goveno Jospin (giugno 1992). Prima di questa data, nessuna Costituzione ne fa alcun accenno. Vale la pena di ricordare anche che in Belgio non si parla il "belga", né in Svizzera "lo svizzero" e che fino al 1961 la "Repubblica una e indivisibile" si estendeva fino a Tamanrasset (Algeria meridionale)… Neanche la polemica basata sull'uguaglianza è convincente, perché esistono paesi multilingui, come la Svizzera e la Gran Bretagna, dove i cittadini godono di uguali diritti. Inoltre, come scrive Bruno Guillard, "il rifiuto di riconoscere alle lingue regionali il loro giusto spazio determina una disparità di trattamento fra la maggioranza dei cittadini, che parlano soltanto il francese, e le minoranze, che oltre a questa lingua parlano degli idiomi locali con i quali hanno legami affettivi, storici e familiari, ma che non beneficiano dell'insegnamento come i francesi. Quello che si pone, in sostanza, è un problema di coerenza. "Se vogliamo difendere la francofonia in modo credibile, la Francia deve anzitutto dimostrare che rispetta la propria diversità linguistica", sottolinea giustamente il celebre linguista Claude Hagège, autore del libro Halte à la morte des langues (Odile Jacob, 2001). Lo stesso sostiene la senatrice socialista Frédérique Espagnac: "Non possiamo difendere la diversità culturale all'estero, per esempio il francese del Québec dallo strapotere dell'inglese, senza difendere la diversità linguistica in casa nostra". Eppure l'ex ministro Jean-Pierre Chevénement, parlando a Mons il 7 novembre 1992, proclamava che in Francia non esistevano minoranze, sostenendo al tempo stesso gli autonomisti valloni del Belgio! Gabriel Matzneff, come tanti altri, ha denunciato recentemente "la guerra che il giacobinismo conduce da due secoli contro le lingue locali, si tratti del provenzale, del bretone o del corso". E ha aggiunto: "Nessuno mette in dubbio che l'italiano sia la lingua della repubblica italiana, ma una delle sue ricchezze è quella di aver conservato le proprie lingue locali. Esiste una splendida letteratura italiana, ma quella veneziana e napoletana non sono da meno, ed è 13
in friulano che Pasolini ha scritto la sua più importante raccolta di poesie, La meglio gioventù (Sansoni, 1954). Per un'ecologia linguistica In tempi più recenti l'immigrazione ha complicato ulteriormnete le cose. Molti pensano che il riconoscimento delle lingue minoritarie imporrebbe automaticamente quello dell'arabo, del berbero, del cinese, etc., tutte lingue parlate nelle comunità di immigrati che si sono formate in varie località francesi , e che questo aggraverebbe il temuto "comunitarismo". Ma questa preoccupazione è infondata se si legge con attenzione la Carta europea. Questa sottolinea il concetto di territorio e parla di lingue "praticate tradizionalmente su un territorio statale da cittadini che costituiscono un gruppo nmericamente inferiore al resto della popolazione". La carta specifica che questa definizione esclude i dialetti delle lingue ufficiali e le lingue dei migranti". Certo, un paese potrebbe includere anche queste ultime, ma sarebbe una violazione della Carta. La verità è che la diversità linguistica, strettamente connessa alla diversità culturale, non è meno preziosa della diversità biologica. Tanto è vero che oggi si parla di ecologia delle lingue, concetto introdotto negli anni Novanta da vari studiosi, fra i quali Louis-Jean Calvet (Pour une écologie des langues du monde, Plon, 1999). Detto questo, la Carta europea non deve essere sopravvalutata. Anzitutto perché non è sufficiente per garantire la protezione di queste lingue. Infatti nei Paesi Bassi, che l'hanno ratificata nel 1996, i bambini che parlano il frisone al di fuori della famiglia sono appena il 22%, mentre 20 anni fa erano il doppio. La mancata trasmissione delle lingue regionali è dovuta a numerosi fattori (l'effetto della televisione, la presenza massiccia della lingua inglese, i divorzi e le separazioni, etc.). Bisogna anche considerare chche la Carta europea (emanazione del Consiglio d'Europa e non dell'Unione Europea) è stata concepita soprattutto per i paesi dell'Europa centrale e orientale che avevano subito dei mutamenti territoriali dopo al Prima guerra mondiale e dove esistevano delle minoranze che non parlvano la lingua ufficiale (i Tedeschi dei Sudeti, gli Ungheresi della Romania, etc.). In questi paesi l'uso delle lingue regionali in campo amministrativo e giudiziario è perfettamente legittimo, cosa che non accade nei paesi dove la lingua ufficiale viene utilizzata ovunque. La situazione particolare della Francia è chiaramente dovuta al fatto che oggi tutti i francesi parlano e capiscono la lingua ufficiale. È una situazione completamente diversa, per esempio da quella che si ricontra in Belgio, dove una buona quantità di persone non parla il francese e spesso non lo capisce, mentre capiscono meglio l'inglese. Lo stesso accade ai Valloni, dato che il neerlandese è soltanto la decima lingua obbligatoria nell'istruzione in francese. Nel nostro paese il problema deriva dall'impossibilità di usare le lingue regionali negli uffici e davanti alle autorità amministrative, data la difficoltà e i costi che questo comportebbe. L'idea che tutti i documenti ufficiali e amministrativi debbano essere tradotti nelle lingue regionali, o che queste vengano utilizzate nei tribunali, non è realistica. Un bretone non potrebbe mai chiedere che il suo processo fpsse fatto in bretone, così come un occitano non potrebbe esigere che il suo matrimonio fosse officiato in occitano. Inoltre questo sarebbe perfettamente inutile in un paese dove tutti comprendono la lingua ufficiale. La promozione delle lingue regionali, quindi, deve essere fatta a monte, per esempio facendo in modo che una parte consistente dell'educazione scolastisca e prescolastica venga impartita in queste lingue, grazie alla moltiplicazione delle classi bilingui e ad appositi programmi di immersione linguistica. I nemici delle lingue regionali non possono tollerare che queste godano dello stesso trattamento che viene riservato al francese. Ma il problema, in effetti, non è questo. Nessuno vuole negare che il francese sia la lingua nazionale della nostra repubblica. Ma questo significa che il francese deve restare l'unica lingua oppure che deve diventare la lingua comune? È questo il vero problema. 14
Per una Francia plurale Il mondo della canzone francese, almeno in Italia, viene generalmente considerato la proiezione musicale del proverbiale centralismo transalpino. In effetti non si contano le canzoni dedicate a Parigi, dove si concentra la maggior parte delle attività musicali, ma nonostante questo l'interesse dei cantanti francesi per le lingue minoritarie dell'Esagono è attestato da numerosi dischi. Basti pensare ad artisti come Pascal Danel (Buttafoco: Retour aux racines corses, 1994) e Guy Bonnet (Moun Miejour, 1976, e Cante. Guy Bonnet chante Charles Trenet en langue d'oc, 1995). Oppure a lavori nati dalla collaborazione con artisti bretoni, corsi, occitani, etc. (Corsu Mezu Mezu, 2015, e Corsu Mezu Mezu 2, 2022). O ancora ad antologie come Ils ont chanté la Bretagne (2003), che contiene brani cantati da Hugues Aufray, Léo Ferré, Yves Montand, Claude Nougaro e altri. Per quanto riguarda in particolare la lingua occitana, uno dei primi, se non il primo in assoluto, a manifestare un forte interesse è stato Marcel Amont, noto agli spettatori italiani meno giovani per la sua partecipazione alla trasmissione televisiva Studio Uno. Nato a Bordeaux da genitori occitani, Amont guadagnò grande fama fra la fine degli anni Cinquanta e gli anni Settanta. Accanto alla discografia commerciale, fra il 1962 e il 1987 incise cinque LP esplicitamente dedicati alle canzoni tradizionali occitane. Successivamente confermò la propria passione per questa cultura pubblicando due libri, Comment peut-on être gascon! (Atlantica, 2001) e Les plus belles chansons de Gascogne (Sud-Ouest, 2006). Inoltre partecipò a varie iniziative per la difesa della lingua occitana. Estranea al mondo della chanson e orientata verso la musica tradizionale, Veronique Chalot (1950-2021) esordì nel 1975 con un LP intitolato La chanson de Provence, registrato dal vivo al leggendario Folkstudio di Roma. Il disco contiene alcune antiche ballate provenzali e bretoni del XIII e XIV secolo. In tempi più recenti anche Francis Cabrel, uno dei più famosi cantautori transalpini, si è schierato apertamente in difesa delle lingue regionali, con particolare attenzione per l'occitano. Nel CD À l'aube revenant (2020) ha espresso questa posizione. Non solo, ma Cabrel ha anche manifestato le proprie idee sui media, dichiarando fra l'altro che "Le cosiddette lingue regionali sono in realtà lingue a pieno titolo. Non hanno nulla di minoritario. Sono lingue che devono essere insegnate e imparate". Grazie all'amicizia con Claude Sicre, vulcanico musicista occitano di Tolosa, Cabrel ha partecipato a vari concerti mettendo in evidenza il proprio amore per la lingua dei trovatori. Questi artisti, come tanti altri, confermano che non è possibile amare il proprio paese, qualunque esso sia, e al tempo stesso desiderare che la sua varietà linguistica venga soffocata o nascosta come se fosse qualcosa di cui ci si deve vergognare. Al contrario, si tratta di una ricchezza da mostrare con orgoglio. Oggi, comunque, la questione delle lingue minoritarie occupa un posto importante nel dibattito politico francese, anche se i partigiani dela Francia giacobina sono sempre potenti. Antonella Visconti 15
Occitano e catalano, lingue sorelle Robert Lafont
L'importanza che Robert Lafont ha avuto in campo culturale non è inferiore a quella che ha avuto in campo politico. La sua opera, che comprende oltre 100 libri e un migliaio di articoli, è dedicata in gran parte a temi letterari e scientifici, spaziando dalla poesia al teatro, dal romanzo alla linguistica. In quest'ultimo campo spicca il suo interesse per i legami storici fra occitano e catalano, lingue sorelle che fino all'inizio del tredicesimo secolo sono state un solo idioma diffuso in gran parte della Francia meridionale e nell'odierna Catalogna. Per mettere in evidenza questo aspetto del suo impegno culturale pubblichiamo l'introduzione che Lafont scrisse per la Pétite anthologie des littératures occitane et catalane, curata da Christan Nique (Canopé - CRDP de Montpellier, 2006). Attorno al decimo secolo l'uso del latino cominciò a declinare e comparirono embrioni di nuovi idiomi, le lingue romanze. Due secoli dopo, verso il 1100, la lingua d'oc divenne protagonista di una vera e propria fioritura letteraria. Da una parte, gli ambienti monastici svilupparono una poesia eroica e guerriera basata sulle vite dei santi. Si tratta della chanson de geste, che si diffuse in tutta l'Europa. Sembra ormai certo che la prima versione della più famosa, la Chanson de Roland, sia stata scritta in occitano tra Rouergue e la Navarra. Questa lingua era utilizzata dai nobili e dal clero per gli atti giuridici. Dall'altra parte, la società cavalleresca prese in prestito dal clero la strofa cantata in rima, nota come tropo. In cinquant'anni questa ricchezza poetica e musicale proliferò nelle corti feudali e reali, dalla Catalogna alla Provenza. Questa forza creativa si estinse soltanto alla fine del tredicesimo secolo. Gli autori, che venivano chiamati trovatori, erano conosciuti e imitati fino in Sicilia e in Germania. La loro lingua era considerata la lingua dell'Europa colta. Questi poeti portarono una vera e propria rivoluzione non solo nello stile, ma anche nella morale. Equipararono la donna al signore feudale e le dedicarono le loro canzoni d'amore raggiungendo i livelli espressivi più raffinati. La donna, fino ad allora disprezzata, divenne la fonte di una femminilità che si irradiò sull'intera società. Non solo, ma lasciarono che anche lei si esprimesse con la poesia. La lingua occitana e l'amor cortese furono accolti dalla poesia europea come una grande espressione artistica. Ma la spietata persecuzione dei catari distrusse la società che l'aveva concepita. La creatività occitana, comunque, non scomparve. Assunse forme religiose e accademiche. A Tolosa alcuni borghesi fondarono il Gai Saber, un'associazione che voleva perpetuarla. Con le Leys d'Amors l'occitano espresse il primo grande trattato di poetica, retorica e grammatica scritto in una lingua moderna. Praticò vari generi narrativi, inventò il romanzo in prosa e fornì uno strumento linguistico al pensiero benedettino. La guerra contro i catari tagliò fuori la Catalogna dalle province occitane, dove si scriveva poeticamente nella lingua del trobar: il primo catalano che divenne re d'Aragona, Alfonso II, era lui stesso un trovatore. Ma da lì, nella lingua sorella che divenne quella di un regno mediterraneo, nacque una nuova grande letteratura. Lo scrittore Ramon Llull, formatosi come trovatore, inaugurò il catalano in una grande opera poetica, filosofica e religiosa, famosa in tutto il Medioevo. Si sviluppò una prosa storica. Una nuova scuola poetica, sempre sulla scia dei trovatori, nacque nel regno di Valencia. Il romanzo cavalleresco che ispirò il celebre Don Chisciotte di Miguel Cervantes, Tirant lo Blanc, è scritto in catalano. Il catalano e l'occitano erano le principali lingue usate nell'amministrazione e nella vita sociale. Ma un duro colpo alla seconda fu inferto indirettamente da Francesco I, che impose il francese all'amministrazione pubblica con l'Editto di Villers-Cotterêts. Tuttavia, ciò non bastò 16
a impedire una nuova ondata di creazione poetica. Il grande poeta protestante Pey de Garros scrisse per la Corte di Navarra. Negli ambienti rinascimentali italiani e nella Pléiade francese si affermò una poesia modernizzata nelle varie forme parlate dalla Provenza alla Guascogna. Fu il momento barocco dell'Occitania, che culminò con il poeta Godolin, destinato a una fama duratura. Nel XVII e XVIII secolo l'occitano e il catalano cedettero il passo alle lingue del potere, il francese e il castigliano. Il declino della lingua occitana nelle classi popolari diede origine a generi parodici e burleschi di una verve talvolta notevole, che riscossero successo su vari palcoscenici, tra cui quello di Béziers, nel periodo del debutto di Molière. Non è escluso che, veicolato dal genere pastorale, l'occitano abbia raggiunto gli strati più alti della società francese. Le poesie di Despourrins venivano cantate alla corte di Luigi XV; il celebre capolavoro della musica francese Daphnis et Alcimadure ha un libretto in occitano di Cassanéa de Mondonville, nato a Narbona. Ma il XVIII secolo fu anche l'epoca in cui, sotto la guida di eruditi italiani, catalani e occitani, la memoria dei trovatori emerse dal passato e stimolò una rinascita. Come Fabre d'Olivet, i romantici occitani e catalani trassero ispirazione dalla lingua dei trovatori, che scoprirono essere così vicina alla loro lingua madre. Intorno al 1850 questa ondata di ispirazione si rafforzò. Fu allora che, sotto il nome di Félibrige, si formò una scuola letteraria con le più alte ambizioni. A guidarla fu un letterato geniale, il provenzale Frédéric Mistral, che fu ammirato e tradotto in tutto il mondo. Nel 1904 gli fu assegnato il Premio Nobel per la letteratura. Il Félibrige si diffuse in tutta l'Occitania e in Linguadoca, tra Nîmes e Tolosa. Nel ventesimo secolo si manifestò un nuovo movimento di rinascita, guidato da scrittori che portavano la scrittura occitana nell'attualità, lontano dal regionalismo e dal provincialismo, conferendole un'innegabile modernità. Adottarono una forma di scrittura classica ispirata al periodo storico più brillante, quello che oggi viene maggiormente insegnato. In Catalogna, nel frattempo, il secolo XIX secolo segnò la Renaixença, un periodo di grande attività letteraria e artistica, con Barcellona come centro. Nel secolo successivo il catalano è diventato una lingua di uso corrente, pienamente ufficializzata in Spagna e nelle nuove strutture europee. La letteratura catalana è oggi una delle più vivaci e stimolanti d'Europa. Ha dato vita a grandi nomi, come Jacint Verdaguer, Joan Maragall e Salvador Espriu. Questa raccolta di testi, commissionata dal Rettore dell'Accademia di Montpellier, vuole ricordare ai giovani catalani e occitani che possiedono, nonostante il silenzio finora imposto alle loro lingue, uno dei più prestigiosi patrimoni culturali esistenti, ravvivato da sette secoli di scrittura e saldamente inserito nella vita contemporanea.
Gli occitani della Catalogna La Val d'Aran, situata nel nord della Catalogna, è l'unico territorio della regione dove si parla la lingua occitana (qui detta aranese). Le 7000 persone che la parlano godono di una tutela concreta. Dal 1984 la lingua viene insegnata nelle scuole locali. Quindi la legge sulla politica linguistica (1998) ha riconosciuto l'aranese come "varietà della lingua occitana propria della Val d'Aran". Dopo la creazione della Cattedra di Studi Occitani presso l'Università di Lleida (2005), nel 2006 lo Statuto di Autonomia ha riconosciuto l'aranese come una lingua ufficiale della Catalogna. Una legge del 2015 riconosce l'identità storica, geografica e linguistica della Val d'Aran come parte integrante della realtà nazionale occitana. Antonella Visconti
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GARDAREM LO LARZAC
Dall'alto, da sinistra a destra: Robert Lafont parla ai manifestanti durante la rivolta del Larzac; un manifesto dell'epoca; il libro dove José Bové racconta le proprie esperienza politiche; un libro che analizza l'eredità politica della rivolta; la locandina di una mostra; una foto dell'epoca.
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Gardarem la Tèrra Robert Lafont
Trent'anni fa i contadini del Larzac hanno condotto una lotta vittoriosa contro l'esproprio delle loro terre da parte dello Stato militarista. L'iniziativa ha attirato l'attenzione del mondo, ha innescato una convergenza di lotte sociali, ha riunito sull'altopiano un'intera generazione di giovani europei e ha ricevuto l'adesione di pacifisti provenienti da ogni parte del mondo. Guidata e organizzata dagli stessi contadini, quella lotta rimane esemplare: ha dimostrato che uomini e donne impegnati con determinazione in una giusta causa possono inceppare il meccanismo della macchina statale; con la sua dimensione globale, ha precorso l'attuale movimento che si è manifestato a Seattle, Davos, Genova e Porto Alegre; ricca di contenuti elaborati da una lotta pacifica, ha dato nuove speranza ai popoli della Terra sottoposti all'imperialismo. Oggi, a trent'anni di distanza, è dovere degli uomini liberi rendere omaggio ai contadini del Larzac e, di conseguenza, affermare la propria solidarietà con coloro che stanno portando avanti le nuove forme di lotta fino ad affrontare la repressione. A distanza di trent'anni, l'imperialismo è strettamente unito a un'oligarchia politica e finanziaria che controlla il pianeta attraverso un sistema economico globale e uno Stato egemone che ha ogni potere, compreso quello di uccidere. L'abbiamo visto recentemente in Afghanistan e in Iraq. Per mettere le mani sulle risorse necessarie all'industria petrolifera è stata promossa una guerra in spregio a tutte le convenzioni internazionali, utilizzando l'ipocrisia e la menzogna più spudorate della storia. Ora sappiamo che le motivazioni addotte (la presenza di armi di distruzione di massa) erano false, e attendiamo l'esito di quella che, in nome della lotta al terrorismo, è stata dichiarata una guerra permanente. Ma i risultati sono già pessimi. C'è una resistenza popolare diffusa contro la quale il potere mondialista non può far altro che uccidere. A trent'anni di distanza dall'esperienza del Larzac, la frenetica corsa alla crescita economica guidata dalla logica del profitto ha generato una serie di problemi che minacciano l'intero pianeta. I colpevoli sono il sistema economico globale, lo Stato che rifiuta di rispettare gli accordi internazionali, in pratica lo stesso gruppo di persone che saccheggia e uccide la Terra. Mentre questi consolidano il proprio potere e sottomettono gli Stati uno per uno, gran parte dell'umanità muore di fame, miseria e malattie. I deserti avanzano e la gente muore. Ma la rivolta del Larzac è diventata universale. Nel 2003, nelle città di tutto il mondo, abbiamo assistito alla mobilitazione contro la guerra e per la vita di quello che deve essere chiamato il "popolo della Terra". In occasione del trentesimo anniversario del Larzac, ci rivolgiamo a questo popolo e gli proponiamo i tre obiettivi di sopravvivenza e forse di rinascita che sono nati qui. Questi tre principi hanno il valore di una dichiarazione universale dei diritti: 1. I popoli della Terra hanno diritto alla vita, ovunque vivano e qualunque sia il loro grado di sviluppo materiale e sociale. Finora si sono affidati a organizzazioni rivali, che nel loro percorso finale hanno assunto la forma dello Stato. I risultati sono stati guerre perpetue, sottomissione dei deboli ai forti, ingiustizie spaventose e povertà sempre più diffusa. Oggi la maggior parte degli Stati sono organizzazioni obsolete, incapaci, di fronte alla globalizzazione che sostengono, di muoversi con una vera autonomia decisionale, mentre lo Stato mondiale in gestazione è incapace di limitare i loro danni e i loro crimini. In ultima analisi, l'ONU è stata calpestata e resa inutile dagli Stati Uniti d'America. Di conseguenza, l'obiettivo politico dei "popoli della Terra" non può che essere un governo mondiale, un sistema democratico federale che sostituisca gli Stati e il disordine imposto dall'imperialismo ultraliberista. 19
2. I popoli e i Paesi hanno diritto alla vita, cioè al pieno sviluppo locale, nel rispetto della varietà culturale. Il diritto alla patria è stato proclamato trent'anni fa sul Larzac. Fu proclamato in occitano (Gardarem lo Larzac), una lingua che lo Stato francese aveva soffocato ed emarginato a lungo. È giunto il momento di elaborare un'organizzazione articolata della società europea e mondiale, dall'unità di base alla più grande struttura interregionale, passando per la regione definita dalla sua cultura storica e dalle sue relazioni naturali. È giunto il momento di fondare una democrazia globale contro il tribalismo statale, in altre parole l'autonomia universale. 3. La vita ha diritto alla vita. Visti i rischi che questa corre attualmente a causa dello sfruttamento selvaggio che deve garantire il profitto dei capitalisti, è necessaria una regolamentazione. Soltanto un'autorità dei "popoli della Terra" che regoli le rivalità ed elimini qualunque egemonia è in grado di imporla. Quello che proponiamo non è una regressione agli stili di vita idilliaci di una pseudo-età dell'oro, né il sogno di un paradiso ecologico, ma scelte democratiche basate su un rigoroso calcolo dei vantaggi e degli svantaggi dell'innovazione tecnica e dello sfruttamento. La vita è un processo evolutivo e nessun progresso materiale è condannabile in sé. Lo sono, invece, le sue ricadute devastanti e il suo uso perverso da parte di poteri senza scrupoli. Se oggi lanciamo questo appello per un futuro che alcuni definiranno utopico non è perché disprezziamo le analisi e i programmi. È perché crediamo che il movimento ampio e profondo dal quale è nato un "popolo della Terra", già capace di ribaltare la storia delle società umane, inventerà le forme di organizzazione necessarie. Noi saremo lì con loro, risoluti e realisti. Al Larzac, il 9 agosto 2003, abbiamo osato esprimere questa speranza, adeguata al pericolo che minaccia il nostro pianeta. Gardarem la Tèrra. Viva il popolo della Terra. Visca lo pòble de la Tèrra.
Larzac 1973-2003 Il mondo non è in vendita Dall'8 al 10 agosto 2003 oltre 300.000 persone si sono riunite sull'altopiano del Larzac (Millau, Occitania) per una grande manifestazione di protesta contro la spietata logica mercantile dell'Organizzazione Mondiale del Commercio (OMC). Erede ideale delle proteste contadine degli anni Settanta che anticiparono gli altermondialistes odierni, l'importante iniziativa comprendeva una ricca varietà di incontri, dibattiti, concerti, etc. In quell'occasione Robert Lafont ha letto il manifesto che compare in queste pagine, del quale è l'autore principale. Il manifesto è il testamento ideale di questo grande intellettuale occitano che ha saputo fondere l'impegno politico e quello accademico in una sintesi perfetta. "Il mondo non è in vendita": questa è la sostanza dell'eredità ideale e politica che ci ha lasciato.
Robert Lafont nel suo studio di Firenze.
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Bibliografia Colombel J. (a cura di), "Résistance du Larzac, 1971-1977", Les Temps Modernes, XXXII, 371, juin 1977, pp. 1971-2088. De Sède G., Settecento anni di rivolte occitane, Tabor, Valle di Susa (TO) 2016. Fontan F., La nazione occitana: i suoi confini, le sue regioni, MAO, Cuneo 1982. Gardy Ph., L'arbre et la spirale. Robert Lafont polygraphe, Vent Terral, Valence d'Albigeois 2017. Garavini F., La letteratura occitanica moderna, Sansoni, Firenze-Milano 1970. Lafont R., La révolution régionaliste, Gallimard, Paris 1967. Lafont R., Décoloniser en France, Gallimard, Paris 1971. Lafont R., Clefs pour l'Occitanie, Seghers, Paris 1971. Lafont R., Lettre ouverte aux Français d'un Occitan, Albin-Michel, Paris 1973. Lafont R., La revendication occitane, Flammarion, Paris 1974. Lafont R., Autonomie, de la région à l'autogestion, Gallimard, Paris 1976. Lafont R., Les Cathares en Occitanie, Fayard, Paris 1982. Lafont R., Lettres de Vienne à un ami européen, Aubanel, Avignon 1989. Lafont R., Nous, Peuple européen, Kimé, Paris, 1991. Lafont R., La Nation, l’État, les Régions, Berg International, Paris 1993. Lafont R. (a cura di), Baroques occitans. Anthologie de la poésie en langue d'oc – 1560-1660, Presses Universitaires de la Méditerranée, Montpellier 2002. Lafont R., Prémices de l'Europe, Sulliver, Arles 2007. Longobardi M., Viaggio in Occitania, Virtuosa-Mente, Arenzano (GE) 2019. Porcellana V., In nome della lingua. Antropologia di una minoranza, Aracne, Roma 2007. Saletta R., Occitania. Ritratto di una comunità linguistica, La Bela Gigogin, Asti 2008. Salvi S., Occitania, Luigi Colli, Rodello (Cuneo) 1998. Tautil G., Robert Lafont et l'occitanisme politique, Fédérop, Gap 2011. Terral P.-M., Larzac terre de lutte. Une contestation devenue référence, Privat, Toulouse 2017. Torreilles c. (a cura di), Robert Lafont, la haute conscience d'une histoire. Actes du colloque de Nîmes, 26-27 septembre 2009, Trabucaire, Canet 2013.
Filmografia Gardarem lo Larzac, regia di Dominique Bloch, Isabelle Lévy, Philippe Haudiquet, Francia, 1973 (d). Lo sol poder es que de dire, regia di Andrea Fantino, Italia, 2017 (d). Occitan. Gardarem la lenga, regia di Marc Khanne, Francia, 2020 (d). Robert Lafont. Un écrivain dans le siècle, regia di Christian Passuello, Francia, 2001 (d). Tous au Larzac, regia di Christian Rouaud, Francia, 2011. 21
Una nuova voce per l'Amazzonia Intervista a Elaíze Farias
Una delle più interessanti iniziative brasiliane per la difesa dei popoli amazzonici è Amazônia Real, un'agenzia giornalistica indipendente fondata da Kátia Brasil ed Elaíze Farias. Il suo lavoro è prezioso e merita molta attenzione. Per questo abbiamo intervistato Elaíze Farias. Cominciamo con alcuni dati fondamentali: chi sei, cosa fai, perché è nata è Amazônia Real. Sono nata a Parintins, una città dello stato di Amazonas situata sulle rive del Rio delle Amazzoni, e ho origini indigene. Ho fondato Amazônia Real nel 2013 insieme alla giornalista Kátia Brasil. La sede centrale è a Manaus, la capitale di Amazonas, ma abbiamo professionisti in tutta la regione. Siamo un veicolo mediatico indipendente che approndisce tutto quello che riguarda l'Amazzonia brasiliana. Il nostro obiettivo è quello di dare visibilità alle popolazioni emarginate della regione, concentrandosi su argomenti che vengono trascurati dai media convenzionali. Il nostro giornalismo privilegia i problemi dei popoli indigeni e di altri gruppi sociali: la comunità dei quilombos (discendenti degli schiavi africani, ndt), gli abitanti delle rive dei fiumi, le piccole famiglie di contadini. Rifiutiamo i meccanismi mediatici che perpetuano il razzismo e il colonialismo. Vogliamo superare la logica etnocentrica del giornalismo occidentale, che è ancora molto radicata. Vogliamo rompere gli standard del giornalismo che parla dei popoli amazzonici o che si concentra su questioni socio-ambientali. Vogliamo invertire le relazioni storiche, mettendo in primo piano i popoli indigeni, gli immigrati, le donne, i difensori dell'ambiente. Come si svolge concretamente il lavoro di Amazônia Real? Amazônia Real produce reportage che includono una ricca varietà di temi, con i diritti umani, i diritti territoriali e quelli di genere come linee guida. Il nostro approccio giornalistico mira ad avere un impatto globale, cercando di incidere sugli ambienti in cui questi diritti vengono violati. Abbiamo un gruppo fisso di circa 15 professionisti e una rete di giornalisti nei nove Stati dell'Amazzonia brasiliana. Abbiamo reporter, fotografi, addetti alle reti sociali, redattori, grafici e personale di supporto tecnico. I nostri reportage vengono prodotti durante i viaggi sul campo, quando è possibile, e a distanza, per telefono o sulle reti sociali. I viaggi sul campo vengono effettuati in base alle disponibilità economiche, dato che si tratta di coprire spazi enormi, e quindi sono molto costosi. Anche le interviste telefoniche richiedono pazienza, perché le disuguaglianze tecnologiche impongono spesso lunghe attese. Per questo consigliamo ai nostri reporter di adottare un approccio interculturale e interdisciplinare. Questo significa dimenticare gli stereotipi che gravano sull'Amazzonia e sulla sua gente, perché si tratta di un microcosmo complesso e articolato. Per quanto riguarda i problemi dell'Amazzonia, trovi una differenza sostanziale tra la politica del primo governo Lula e le promesse del secondo? L'Amazzonia è una regione di dimensioni continentali con una popolazione di oltre 20 milioni di persone di diverse origini etniche e sociali. La sua storia, segnata da invasioni e massacri di popolazioni indigene, viene generalmente raccontata secondo l'ottica dei colonizzatori. Questo permette l'accumulo di grandi capitali, lo sfruttamento delle risorse naturali, la devastazione 22
ambientale e sociale. Si tratta di oltre 500 anni di sfruttamento che vengono perpetuati, replicando un modello economico colonialista. Dico questo perché è un copione che si ripete e che continuiamo a denunciare nei nostri rapporti. Raccontiamo non solo chi sono le vittime delle violazioni dei diritti, ma anche come reagiscono e come cercano di cambiare questo contesto sociale. Perché dico questo? Perché l'aggressione dei popoli indigeni e la devastazione della foresta non sono iniziati con Bolsonaro. La sua ascesa ha semplicemente accelerato le dinamiche dannose già in atto. Sotto il suo governo sono aumentati la deforestazione e gli incendi, mentre l'industria mineraria non ha avuto più limiti. Bolsonaro ha cancellato le leggi di protezione ambientale, ha intensificato i conflitti, ha incoraggiato gli attacchi contro i difensori dell'ambiente, gli indigeni, i capidelle comunità, etc. Le sue idee hanno stimolato l'illegalità. Come dicevo prima, questo modello di sfruttamento predatorio non è iniziato ora. Le sue strutture criminali sono sempre esistite. A seconda del periodo storico e di chi governa, queste sono più o meno efficienti. Durante la campagna elettorale Lula ha promesso di recuperare l'agenda ambientale e sociale che era stata praticamente distrutta dal governo Bolsonaro. Al suo insediamento, il 1° gennaio 2023, ha salito la rampa accanto al capo Raoni, il principale leader indigeno. Un mese dopo ha dovuto prendere decisioni d'emergenza per combattere l'attività mineraria che da diversi anni devasta la terra degli Yanomami: un problema che negli ultimi anni ha raggiunto una gravità senza precedenti. Lula si è anche impegnato a omologare (fase finale della demarcazione delle terre, ndt) almeno 13 territori indigeni, ma finora ne ha omologati soltanto sei. Ha promesso di dare ampio spazio alla politica ambientale, ma deve affrontare una forte resistenza nel Congresso. La scorsa settimana, in particolare, i deputati federali hanno deciso di votare d'urgenza una legge che annulla i diritti fondiari delle popolazioni indigene. I diritti dei popoli indigeni sono sotto attacco permanente e non sarà facile difenderli. Il nuovo presidente ha creato un Ministero dei Popoli Indigeni. La Fondazione dei Popoli Indigeni (FUNAI) sta cercando di riorganizzarsi ed è guidata da un'indigena. Ma gli interessi contrari ai diritti dei popoli indigeni e alla protezione dell'ambiente e della biodiversità sono moltissimi. In Amazzonia tutti i governanti difendono lo sfruttamento predatorio delle risorse naturali e la retorica dello "sviluppo" capitalista, che come sappiamo va a vantaggio di pochi. La maggioranza dei governi amazzonici è stata sostenuta da Bolsonaro. Quindi, quando si parla di Amazzonia, bisogna tenere conto anche dell'amministrazione politica regionale e locale: governatori, sindaci, deputati, senatori. Pensi che Lula riuscirà a rimediare ai gravissimi danni che il governo Bolsonaro ha causato alle popolazioni indigene dell'Amazzonia? È quello che ha promesso. Le novità più importanti sono la creazione del Ministero dei Popoli Indigeni e la riforma della FUNAI, che sotto il governo Bolsonaro difendeva gli interessi dei nemici dei popoli indigeni. L'operazione di sostegno agli Yanomami è stata fondamentale per evitare un genocidio, ma non è sufficiente. Tanto che, a tutt'oggi, la presenza di minatori continua nel territorio yanomami (l'argomento è diventato solo più raro sulla stampa). Lula ha ratificato sei terre indigene. Tuttavia, ce ne sono altre sette che devono essere ratificate con urgenza. Ma in Amazzonia ci sono circa 30 terre nelle stesse condizioni. Per non parlare delle centinaia che sono ancora in diverse fasi di demarcazione. Lo sforzo che il presidente sta facendo per annullare i danni prodotti da Bolsonaro è evidente. Ha viaggiato all'estero per dimostrare che la politica ambientale è tornata a essere una priorità, ma non basta. Negli ultimi giorni alcuni deputati federali stanno cercando di neutralizzare i ministeri dell'Ambiente e dei Popoli Indigeni. Lula deve mostrare la stessa postura che ha usato nei suoi discorsi internazionali. Deve sostenere pienamente Marina Silva, Ministro dell'Ambiente, e Sonia Guajajara, Ministro dei Popoli Indigeni. Le terre indigene continuano a essere invase. Le popolazioni indigene sono ancora in pericolo. Di recente Lula è stato criticato per aver appoggiato le esplorazioni petrolifere alla foce del 23
Rio delle Amazzoni, nello stato di Amapa. Il tema è stato oggetto di conflitto nel governo. Gli specialisti e il Ministero dell'Ambiente affermano che l'esplorazione avrà un enorme impatto sull'area. Lula deve essere più deciso e contrastare lo smantellamento della politica ambientale caldeggiato dai conservatori. Questo è stato condannato anche a livello internazionale. Se non reagirà in modo netto le sue promesse si dimostreranno vane. Non c'è da stupirsi se gli indigeni hanno già iniziato una mobilitazione contro le ultime decisioni del Congresso. Bibliografia Emiri L., Mosaico indigeno, Multimage, Firenze 2020. Kopenawa D., Albert B., La caduta del cielo. Parole di uno sciamano yanomami, Nottetempo, Milano 2018.
Dall'alto: Elaíze Farias; manifesto di un'iniziativa per la demarcazione delle terre indigene; l'ultimo libro della giornalista Eliane Brum, tr. it. Amazzonia. Viaggio al centro del mondo (Sellerio, 2023).
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Un raggio di speranza per la Corsica Alessandro Michelucci
Nella seconda metà del Novecento molte minoranze territoriali dell'Europa occidentale hanno affermato i propri diritti politici e culturali con rinnovato slancio. In Italia e in Spagna la caduta della dittatura ha stimolato un contesto favorevole, seppure in tempi e in forme diverse: pensiamo all'autonomia del Sudtirolo e a quella delle regioni abitate da minoranze storiche (Catalogna, Galizia e Paesi Baschi). Fra il 1997 e il 1999 il Regno Unito ha riconosciuto una certa autonomia alle tre regioni celtofone (Galles, Irlanda del Nord e Scozia). Nulla di simile, invece, è accaduto in Francia, paese di grande tradizione democratica ma notoriamente avverso a tutto ciò che possa oscurare la sua fama di "una e indivisile", come se qualsiasi accenno all'autonomia fosse l'anticamera della frammentazione. Del resto, la guerra spietata contro le lingue diverse dal francese (alsaziano, basco, bretone, catalano, corso, fiammingo e occitano) ha se-gnato la Francia repubblicana fin dall'inizio, quando la grande maggioranza della popolazione non parlava il francese. In questo contesto sfavorevole, silenziosa ma sorretta da una convinzione incrollabile, si è mossa per lungo tempo un'isola storicamente legata all'Italia: la Corsica. Per circa quarant'anni (1976-2014) la cronaca ha documentato gli attentati dinamitardi dei separatisti, spesso senza vittime e quindi non equiparabili alla violenza spietata dell'IRA e dell'ETA. Al tempo stesso, però, si è fatto strada un vivace ambiente autonomista, nettamente contrario alla violenza, riunito attorno ai fratelli Edmond (1934-2018) e Max Simeoni (1929-2023). Il secondo è stato anche parlamentare europeo. Nonostante certi momenti di tensione col potere centrale, il loro impegno serio e costruttivo ha dato dei frutti concreti: oggi l'autonomista Gilles Simeoni, figlio di Edmond, è il presidente della Collettività Territoriale di Corsica (analoga alla nostra Regione), e grazie alla pressione dell'attuale Esecutivo il potere centrale ha capito che l'autonomia non era più rinviabile. L'apertura di Macron Negli ultimi anni il Ministro dell'Interno Gerard Darmanin si era recato varie volte in Corsica per discutere la questione con Gilles Simeoni. Nel marzo del 2022, durante uno di questi incontri, si era detto "pronto ad arrivare all'autonomia". Una novità epocale, ma mancava ancora il parere decisivo, quello di Macron. La visita del presidente, quindi, era attesa con una certa impazienza. Macron è arrivato in Corsica il 27 settembre scorso. La trasferta aveva anche lo scopo di celebrare gli 80 anni dalla liberazione dell'isola: nel 1943 la Corsica, invasa da Mussolini che voleva annetterla, era stata il primo dipartimento francese a essere liberato. Ma questa ricorrenza passava in secondo piano davanti al vero motivo della visita presidenziale. La mattina del 28 settembre, parlando davanti ai membri dell’Assemblea regionale di Ajaccio, il Presidente ha pronunciato un discorso che lascia intravedere una soluzione dell'annoso dossier corse. Macron si è detto favorevole all'autonomia, rimarcando più volte che questa non dovrà essere "né contro lo Stato né senza lo Stato", in altre parole pienamente rispettosa del quadro republicano. Venendo alla sostanza, ha perorato "l'entrata della Corsica nella Costituzione": la revisione prevista per il 2024 dovrà includere un articolo che riconosca la specificità della Corsica e inserisca l'autonomia nell'architettura statale. Sul piano giuridico la regione potrà adattare le leggi nazionali alle specifiche necessità locali. Un'altra rivendicazione centrale degli autonomisti, quella linguistica, verrà parzialmente 25
accolta con l'istituzione di un servizio di istruzione pubblica bilingue. A questo proposito bisogna ricordare che la lingua corsa, strettamente legata all'italiano, viene già utilizzata in vari campi, dalla toponomastica agli atti istituzionali, ma senza che questo sia stato espressamente autorizzato dal governo centrale. Concludendo il suo discorso, Macron ha fissato un termine di sei mesi affinché i responsabili politici dell'isola concordassero con Parigi una nuova legge che modificherebbe la Costituzione secondo il criterio suddetto. Quindi il testo passerà al voto del Parlamento. Gli autonomisti, che rappresentano il 56% dell'Assemblea regionale, primo fra tutti Gilles Simeoni, hanno accolto l'apertura del Presidente con entusiasmo. Il discorso di Macron segna una svolta importante nei rapporti fra Parigi e Ajaccio, anche se poi le sue parole dovranno essere tradotte in fatti concreti. Come dice il proverbio, fra dire e fare c'è di mezzo il mare. La delusione degli indipendentisti Gli indipendentisti, al contrario, non hanno applaudito il discorso del Presidente. Paul-Felix Benedetti, leader di Core in Fronte (12%), non aveva neanche partecipato alla cena con Macron che si era tenuta la sera del 27 settembre. Per i separatisti le sue proposte rappresentano una risposta insufficiente alle loro richieste. In effetti la proposta presidenziale non prevede la coufficialità di due lingue (francese e corso) né uno statuto specifico che garantisca ai residenti l'accesso al patrimonio immobiliare. Per certi versi, comunque, l'autonomia che viene proposta oggi è meno avanzata di quella concepita nel 2000 dal governo di Lionel Jospin. Il progetto elaborato dal premier socialista prevedeva fra l'altro il riconoscimento del popolo corso. Ma a molti esponenti della maggioranza questo suonò come una bestemmia, tanto è vero che il 29 agosto Jean-Pierre Chevènement, Ministro degli Interni, si dimise. Macron, quindi, cerca di evitare reazioni così dure, ma in ogni caso non sarà facile far digerire al Parlamento il progetto che ha esposto ad Ajaccio. È possibile un effetto domino? Non è necessario essere indovini per prevedere che l'apertura di Macron nei confronti della Corsica scateni un contagio che coinvolge altre regioni. I primi segni sono già visibili. "Ho sentito che il Presidente della Repubblica parla di maggiore libertà e autonomia per la Corsica, per agire in settori importanti come la casa, le lingue e altre questioni. Ebbene, noi chiediamo la stessa cosa", ha dichiarato Loïg Chesnais-Girard, Presidente della Bretagna. La regione nordoccidentale vanta una forte tradizione autonomistica, anche se non ha mai goduto del rilievo mediatico riservato alla Corsica. Anche gli autonomisti alsaziani hanno drizzato le orecchie, ma il loro peso elettorale (5%) è minimo. Oltre a questo, la riforma territoriale del 2016 ha di fatto cancellato la singolarità politica dell'Alsazia, accorpandola alla Lorena e alla ChampagneArdenne in una grande regione chiamata Grand Est. A Parigi, ovviamente, si suona una musica diversa. Secondo Jean-Philippe Tanguy, deputato del Rassemblement National, quelle di Macron sono "promesse vane che possono danneggiare la Francia". Sulla stessa lunghezza d'onda Bruno Retailleau, presidente del gruppo dei Républicains (ex gollisti) al Senato. Neanche all'interno di Liberté en Marche (LREM), il partito di Macron, il progetto presidenziale gode di un sostegno bulgaro. La Corsica non è la Catalogna Negli anni scorsi erano già circolate qua e là opinioni che assimilavano la situazione corsa a quella catalana, ma in realtà si tratta di casi profondamente diversi. La Corsica è la regione più piccola, più povera e meno popolosa della Francia, mentre la Catalogna è la più ricca della Spagna e la seconda per numero di abitanti. Barcellona è una metropoli di respiro europeo, mentre Ajaccio è una città di 65000 abitanti come Massa o Viterbo. Ma al di là dei numeri, la Catalogna si iscrive in un sistema autonomistico che rappresenta la struttura portante dell'intero paese, mentre la Francia rimane un paese rigidamente centralista. 26
L'autonomia per essere padroni del nostro destino Discuteremo di tutto: autonomia, riconoscimento del popolo corso, economia e così via. Di tutto, senza tabù. Al momento il presidente della Collettività Territoriale non sa cosa vuole lo Stato. Siamo bloccati, senza parole. Le ipotesi sono due. Quella di Parigi: non sappiamo se accoglierà la tesi autonomista o se abbia una carta segreta da giocare. La recente sortita di Gilles Simeoni è un ultimatum o indica che gli autonomisti non possono più aspettare? Ma hanno i mezzi per rompere col governo centrale? In ogni caso, il "popolo" reagirà. La situazione si complicherà. Le forze clandestine (separatisti armati, ndt) stanno per intervenire? Nessuno sa con certezza cosa possa accadere. L'errore principale è quello di aver lasciato che la politica si impantanasse in elezioni senza avere il potere di riformare. Gli autonomisti, tuttavia, sono responsabili di questa situazione: aumento del costo della vita, terreni non edificabili dagli autoctoni, speculazione, deriva mafiosa, etc. L'equazione da risolvere è semplice: i mandati di "gestione", privi di potere reale e strutturale, servono a poco, anche se il governo regionale è stato indotto a credere che potessero risolvere tutto. In realtà, si tratta di sostituire un sistema di gestione dove il potere centrale controlla tutto, in particolare i fondi pubblici, perché da una parte c'è la naturale richiesta di avere i mezzi per gestire il futuro del popolo corso, mentre dall'altra c'è una Francia totalitaria che non riconosce il diritto alla diversità. Di conseguenza, è un potere di militanti organizzati all'interno del popolo corso che può dare un mandato per parFrançois tecipare alle elezioni e guidareAlfonsi il processo di emancipazione in tutti i suoi aspetti umani, culturali ed economici. Questa base organizzata di militanti non esiste: le elezioni locali di persone "che non legiferano", come dice Macron, servono a promuovere la carriera e i vantaggi personali. In conclusione, i punti essenziali sono tre: i mandati "locali", il potere dello Stato, la "respirazione" democratica del popolo corso. L'inganno consiste nel fatto che i mandati e i militanti "locali" presentati come efficienti non lo sono affatto. Così i vari statuti (Deferre, Jospin, Cazeneuve, ecc.) non hanno cambiato nulla. I diritti del popolo corso devono comprendere la piena autonomia, il riconoscimento del popolo corso e la co-ufficialità della lingua. Essere padroni del proprio destino significa essere in grado di gestire gli interessi di questo popolo. Un dibattito democratico che tenga conto delle differenze interne è l'unica strada percorribile. Altrimenti un "padrone" lo impone o si dimette. Per concludere, vorrei citare Gilles: "Non lasciamo che la storia ci passi davanti".
Una decisione provvidenziale
Max Simeoni Massimu (Max) Simeoni è morto all'ospedale di Bastia il 9 settembre 2023. Nato nel 1929, ha scritto la storia dell'autonomismo corso insieme al fratello minore Edmond (1934-2018). A Max si deve la fondazione di Arritti (In piedi), settimanale nato nel 1966 e tuttora attivo. Questo è il suo ultimo editoriale, comparso su Arritti n. 2807 il 7 settembre 2023. Per pochi giorni, quindi, Max non ha potuto ascoltare il discorso di Macron.
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Rosse di sangue Sean Carleton
Il 23 maggio 2023 la Royal Canadian Mounted Police (le famose Giubbe Rosse) ha lanciato una serie di iniziative per celebrare il suo 150° anniversario. Per contrastare la mitizzazione acritica del corpo militare è stato creato un sito dove alcuni esperti analizzano la sua storia controversa. Da questo sito è tratto l'articolo di Sean Carleton sul ruolo che la RCMP ha svolto nelle famigerate residential schools (i convitti per l'assimilazione forzata dei giovani indigeni, ndt). Il 30 settembre 2020 la RCMP ha diffuso un tweet in occasione della Giornata della camicia arancione (dedicata alle vittime delle residential schools, ndt). Il tweet conteneva una foto di membri dell'RCMP che indossavano una camicia arancione in onore dei sopravvissuti delle scuole. La foto era accompagnata da un messaggio: "Oggi i membri della RCMP indossano questa camicia per ricordare i bambini indigeni che sono stati mandati nelle residential schools. In questo giorno vogliamo riflettere sul passato, riconoscere quello che è stato il nostro ruolo e iniziare un dialogo". Il tweet è stato criticato duramente. In particolare, l'espressione vaga – i bambini che sono stati mandati - nascondeva il ruolo che le Giubbe Rosse avevano svolto aiutando i funzionari religiosi e statali a strappare i bambini alle rispettive comunità. Il giorno dopo, quindi, la RCMP ha pubblicato un tweet di rettifica, affermando che "le parole contano" e che "ci rammarichiamo del linguaggio usato". Ma il nuovo messaggio conservava un tono generico e non alludeva all'uso della forza. Il tweet riconosceva che i bambini "erano stati rapiti", ma non chiariva che a farlo erano state spesso le Giubbe Rosse. Questo dimostra che l'opinione pubblica deve conoscere meglio il ruolo che la RCMP ha svolto in quel contesto. Negli ultimi trent'anni, grazie alle testimonianze dei sopravvissuti, molti libri e articoli di studiosi hanno documentato che i funzionari religiosi e statali hanno concepito e realizzato questo sistema scolastico genocida che è durato oltre cento anni (tra il 1880 e gli anni Novanta del Novecento). L'intento era quello di delegittimare le culture indigene per facilitare l'assimilazione, sostenere le strutture capitalistiche dei coloni e la costruzione della federazione canadese. Nella letteratura storica, comunque, manca un esame dettagliato del ruolo che le Giubbe Rosse hanno svolto in quel contesto, anche se studi più recenti stanno iniziando ad analizzarlo. Il lavoro più approfondito è un rapporto del 2011 scritto da Marcel-Eugène LeBeuf, un membro civile della RCMP, a nome della stessa struttura. In sintesi, il rapporto riconosce il coinvolgimento delle Giubbe Rosse, come nei tweet suddetti, ma minimizza la loro complicità diretta, scaricando la colpa sul governo: "Quando veniva richiesto i membri della RCMP facevano semplicemente il loro lavoro, applicando le leggi ideate dal governo". Un esame più attento del rapporto e delle prove utilizzate porta a una valutazione diversa. Il sistema delle residential schools aveva bisogno della polizia per funzionare. Tra la fine dell'Ottocento e l'inizio del Novecento si sviluppò una sttretta collaborazione tra Chiesa, governo e polizia che fu fondamentale per mantenere l'intera struttura scolastica. Questi tre attori ebbero ruoli diversi, ma complementari. Alla fine del 1800 il Dipartimento degli Affari Indiani (DIA) istituì un corpo di agenti autoctoni che gestisse gli "affari indiani". Il loro compito era quello di far rispettare le politiche indiane del governo federale. Negli stessi anni Ottawa rese obbligatoria la frequenza delle 28
scuole: gli agenti indiani chiedevano spesso alle Giubbe Rosse di convincere i genitori a mandare i figli nei convitti. Se si rifiutavano, gli uomini della RCMP intervenivano con la forza e li strappavano alle famiglie. Catturavano quelli che opponevano resistenza, riportavano quelli che scappavano e multavano o arrestavano i genitori che si rifiutavano. Le Giubbe Rosse non svolgevano queste mansioni gratuitamente: il corpo militare fatturava al DIA le somme relative a questi compiti. Negli anni Quaranta la spesa divenne così onerosa che il DIA affidò queste azioni repressive agli agenti indiani e ai funzionari scolastici. Le Giubbe Rosse hanno quindi beneficiato finanziariamente del lavoro svolto per conto delle scuole, che ha sottratto al bilancio del DIA fondi che avrebbero potuto essere impiegati per risolvere i problemi dei convitti. Infine, mentre il rapporto della RCMP nega di avere ignorato gli abusi e i maltrattamenti che avvenivano nelle scuole, le prove dimostrano che questo era improbabile e che la polizia era indifferente davanti alle sofferenze dei ragazzi. Nel 1948, per esempio, quando bruciò la Thunderchild Indian Residential School nel Saskatchewan, le Giubbe Rosse si occuparono esclusivamente di catturare i responsabili, senza indagare sulle pessime condizioni della scuola, più volte denunciate dai membri della riserva di Thunderchild, per determinare il motivo per cui i ragazzi avevano incendiato la scuola. Esistono molti altri casi in cui, davanti alle sofferenze imposte ai ragazzi e denunciate dai genitori, la RCMP ha respinto le accuse, scegliendo invece di punire i cosiddetti "piantagrane". Lungi dall'essere un attore riluttante e tanto meno neutrale, il più delle volte il corpo di polizia federale si è schierato dalla parte degli agenti indiani e dei funzionari scolastici, proteggendo con zelo il sistema disumano delle residential schools. Un'analisi corretta della storia delle Giubbe Rosse non potrà mai prescindere da questi dati di fatto.
The Scream (2017), incisione su rame dell'artista cree canadese Kent Monkman. Bibliografia Carleton S., Lessons in Legitimacy: Colonialism, Capitalism, and the Rise of State Schooling in British Columbia, UBC Press, Victoria (BC) 2023. Milandri R., Le scuole residenziali indiane. Le tombe senza nome e le scuse di Papa Francesco, Mauna Kea, San Benedetto del Tronto (AP) 2023. Milloy J. S., A National Crime: The Canadian Government and the Residential School System, 1879 to 1986, University of Manitoba Press, Winnipeg (MB) 1999, n. ed. 2017.
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Lunga vita a Fañch e Artús! Fabiana Giovannini
Nato nella maternità di Quimper l'11 maggio 2017 da genitori bretoni, il piccolo Fañch (François in bretone) si è visto rifiutare la registrazione del nome di battesimo a causa della ñ. Fanch era possibile, ma Fañch no. Si è trattato di un eccesso di zelo da parte di un funzionario "repubblicano" troppo rigido (dopo tutto, i nomi di battesimo bretoni sono già stati registrati in Bretagna) o di una nuova offensiva giacobina contro le lingue regionali? Quest'ultima è l'ipotesi più probabile, vista la battaglia legale che si è dovuta affrontare per far riconoscere l'identità del piccolo Fañch. Nel 2017 i genitori si sono rivolti all'amministrazione locale, che ha fatto correggere l'ortografia del nome del bambino. Ma poco dopo, il 31 maggio, il Pubblico Ministero ha presentato una denuncia al Tribunale civile di Quimper, citando una direttiva del 23 luglio 2014 che fa riferimento all'articolo 2 della Costituzione ("La lingua della Repubblica è il francese", ndt) e non autorizza i segni diacritici non utilizzati nel francese. Il 13 settembre 2017 il tribunale si è pronunciato a favore di questa tesi, affermando che "ammettere una ñ equivarrebbe a infrangere la volontà del nostro Stato di diritto di mantenere l'unità del Paese e l'uguaglianza senza distinzione di origine". Quindi il piccolo Fañch avrebbe minato l'unità della Repubblica… I genitori hanno fatto ricorso, e il 19 novembre 2018 la sentenza è stata ribaltata dalla Corte d'Appello di Rennes. Questa ha affermato che la ñ non era sconosciuta alla lingua francese, poiché compariva in diversi dizionari e che altri nomi di battesimo con la ñ erano già stati accettati. Ma la Procura ha insistito e ha fatto ricorso alla Corte di Cassazione il 17 ottobre 2019. Questa, fortunatamente, ha respinto il ricorso e ha stabilito che c'era stata una violazione della procedura. La sentenza della Corte d'Appello è stata quindi confermata e tutti pensavano che avrebbe creato un precedente... Ma sottovalutavano l'aggressività di coloro che si oppongono alle lingue regionali, visto che, sempre in Bretagna, nel novembre 2019 la procura di Brest ha respinto un secondo piccolo Fañch, nato a Morlaix, con il pretesto che il Fañch di Quimper era stato annullato per un cavillo. Per il momento vale la sentenza della Corte d'Appello, ma questa nuova offensiva dimostra che la lotta contro le aggressioni dell'amministrazione francese continuerà per tutta la vita del piccolo Fañch se non verrà modificato l'articolo 2 della Costituzione. Molti rappresentanti dello Stato stanno conducendo una vera e propria crociata contro le lingue regionali e il loro diritto di esistere. Questo atteggiamento è confermato dal caso del piccolo Artús, nato in Occitania il 15 dicembre 2022. I suoi genitori si sono visti rifiutare il nome del loro bambino dall'ufficio anagrafe di Châteauneuf-de-Randon con la motivazione che l'accento acuto sulla ú non esiste in francese. "Non possiamo nemmeno chiamare nostro figlio con un nome storico della zona in cui viviamo!", si lamenta Lissandre, padre di Artús, che ha deciso di lottare anche contro questo sopruso: "La consideriamo una discriminazione culturale... Artus senza accento equivale a un errore di ortografia in occitano... Lottare perché una cultura sia rispettata, perché la nostra lingua sia rispettata, significa dire che non siamo né liberi, né uguali, né fratelli". Questo arcaismo è stato discusso anche nell'emiciclo dell'Assemblea nazionale. Come si ricorderà, il deputato bretone di R&PS Paul Molac desiderava inserire i segni diacritici nella legge e la sua proposta fu approvata a larga maggioranza sia in Parlamento che al Senato. Purtroppo, la legge Molac del 21 maggio 2021 è stata immediatamente censurata dal Consiglio costituzionale sulla questione della ñ e sull'insegnamento immersivo. Di fronte alla rabbia e alla crescente 30
mobilitazione di tutte le regioni che difendono una lingua, Emmanuel Macron ha calmato le acque dichiarando: "Le lingue di Francia sono un tesoro nazionale. Tutte, sia che provengano dalle regioni della Francia continentale che dai territori d'oltremare, continuano ad arricchire la nostra cultura francese... Per decenni, un grande movimento di trasmissione attraverso scuole immersive, attraverso associazioni come Diwan, Seaska, le Calandretas, Bressola, ABCM e altre, ha mantenuto vive queste lingue e garantito il loro futuro. Nulla può ostacolare questa azione... La legge deve liberare, mai soffocare. Ampliare, mai ridurre. Lo stesso colore, gli stessi accenti, le stesse parole: questa non è la nostra nazione". Il primo ministro Jean Castex ha quindi inviato due esperti per dare una nuova lettura alla decisione del Consiglio costituzionale... Tanto più che sono state coinvolte anche le Nazioni Unite... il 31 maggio 2022 Fernand de Varennes, relatore speciale dell'ONU sulle questioni delle minoranze, Alexandra Xanthaki, relatrice speciale sui diritti culturali, e Koumbou Boly Barry, relatore speciale sul diritto all'istruzione, hanno firmato una lettera al governo francese in cui si denuncia: "Questa decisione può minare la dignità, la libertà, l'uguaglianza e la non discriminazione, nonché l'identità delle persone di lingue e culture minoritarie. Queste lingue, che secondo il rapporto ufficiale del 1999 sono 75, sono per la maggior parte classificate dall'UNESCO come lingue in pericolo". Il 16 dicembre 2022 una nuova circolare del Ministero dell'Istruzione ha dichiarato che "l'insegnamento per immersione è una strategia possibile per l'apprendimento dell'educazione bilingue", eliminando così il divieto del metodo immersivo per l'insegnamento delle lingue regionali. Ma può esistere una scrittura in queste scuole e un rifiuto di essa nel registro civile per la registrazione dei nomi in una lingua regionale? Come se non bastasse, nella lingua francese esiste la ñ. Era comune nel Medioevo e nel XVIII secolo. È persino menzionata nell'ordinanza di Villers-Cotterêts, che tuttavia veniva utilizzata contro le lingue regionali, poi l'uso e l'Académie Française l'hanno gradualmente cancellata dall'ortografia del francese prima di reintrodurla con il riconoscimento delle lingue straniere a seguito delle migrazioni, in particolare lo spagnolo e il portoghese... Il nome di Laurent Nuñez-Belda, prefetto della polizia di Parigi, ex segretario di Stato agli Interni e coordinatore della lotta contro il terrorismo, deve forse essere riscritto? La stupidità di questo approccio discriminatorio è evidente. È ora che la Costituzione e le direttive che ne derivano siano adattate alla realtà francese. È ora che le lingue regionali, definite "patrimonio della Francia" dalla Costituzione, siano pienamente riconosciute in tutti i loro diritti. Bibliografia Feltin-Palas M., Sauvons les langues régionales!, Héliopoles, Paris 2022. Rouz B., Fañch: Le prénom qui fait trembler la République, Editions des Montagnes Noires, Gourin 2020.
I giacobini del Bosforo Come la Francia, un altro paese aveva dichiarato guerra alle lingue minoritarie, ma con leggi ancora più esplicite e spietate. Si tratta della Turchia. Nel 1928, con l'adozione dell'alfabeto latino disposta da Kemal Atatürk, la neonata repubblica mise al bando la lingua kurda. Non solo, ma vietò anche l'uso di lettere tratte dall'alfabeto kurdo: Ê, Î, Q, Û, W, X. L'uso di queste lettere, assenti nell'alfabeto turco, veniva punito con durezza. Le parole tratte da lingue straniere furono modificate: taxi = taksi, Newroz = Nevruz, il nome proprio Ciwan divenne Civan, etc. Il divieto è caduto con il pacchetto di riforme introdotto da Erdoğan nel 2013. Giovanna Marconi
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Quelli della porta accanto Alessandro Michelucci
Oggi ci sono problemi e diritti che fanno parte di un bagaglio culturale collettivo: quelli delle donne, dei bambini, degli animali, tanto per fare qualche esempio. Perché non si può dire lo stesso dei problemi dei popoli indigeni, che rimangono sostanzialmente estranei all'uomo della strada, a meno che guerre o eventi simili non li inseriscano nel calderone mediatico? Chi si occupa di questi temi deve chiederselo e impegnarsi per scalfire questa coltre di apatia. Non ha senso lamentarsi di questa scarsa attenzione e chiudersi in una torre d'avorio parlando a poche persone che sono già interessate. Ma che appunto sono poche e tali resteranno. Al contrario, bisogna divulgare i temi suddetti sfruttando al massimo il crescente rilievo mediatico che la vita artistica e culturale di questi popoli sta suscitando da diversi anni. Non dobbiamo ritrarli come comunità derelitte e ripiegate su se stesse, destinate soltanto a lamentare le ingiustizie che subiscono. Naturalmente queste rimangono, e quindi il nostro compito principale è quello di denunciarle, esplorando risvolti storici ignoti o trascurati. Ma al tempo stesso è necessario sottolineare la loro voglia di rinascere. Perché non sono bizzarri resti di un mondo destinato a scomparire, ma comunità vive e moderne che si sono dimostrate capaci di muoversi a tutti i livelli – politico, culturale, diplomatico - utilizzando le tecnologie informatiche e guadagnando la stima di coloro che li ignoravano o li disprezzavano. Diamo uno sguardo sommario a questo panorama. Oggi le loro espressioni artistiche e culturali sono una realtà incontestabile. Pensiamo al successo mondiale della musica tuareg; all'interesse ormai consolidato per l'arte aborigena australiana; ai romanzi di maori come Patricia Grace e Witi Ihimaera, indiani come Sherman Alexie e Louise Erdritch, aborigene come Melissa Lucashenko e Alexis Wright. Gli editori italiani sono sempre più interessati alle loro opere. Ogni anno la Biennale di Venezia dedica ampio spazio ad artisti maori, mapuche, indiani nordamericani. All'edizione del 2019 ha partecipato fra gli altri Zacharias Kunuk, il regista inuit che nel 2001 era stato premiato a Cannes per Atanarjuat, primo film girato interamente in lingua eschimese. Sempre nel 2019 Wes Studi (Balla coi lupi, Geronimo, Caccia spietata, Avatar), attore cherokee, è stato premiato con l'Oscar alla carriera. Studi non è il primo artista amerindiano che riceve la prestigiosa statuetta: il primato spetta a Buffy Sainte-Marie, cree canadese, premiata nel 1983 per la canzone "Up where we belong" (dal film Ufficiale e gentiluomo) e già nota per "Soldier blue" (Soldato blu, 1970). Nel maggio 2022 il musicista navajo Raven Chacon ha ricevuto il Premio Pulitzer, che nel 1969 era già stato dato a un altro indiano, il kiowa Scott Momaday, per il romanzo House Made of Dawn (tr. it. Casa fatta di alba, Black Coffee, 2022). Ma questa è solo la punta di un iceberg che comprende tante altre espressioni: dall'arte plastica ai fumetti, dal teatro alla poesia. Dobbiamo documentare tutto questo, parlarne in ogni sede possibile, dare spazio ai suoi protagonisti e alle loro collaborazioni con gli artisti più noti, mettendo da parte un complesso d'inferiorità che non ha nessun motivo di essere. Così la gente capirà che i popoli indigeni non sono realtà lontane. Capirà che non sono degli extraterrestri né colorati resti del passato, ma quelli della porta accanto. Certo, si tratta di una porta che non è sempre aperta, ma oggi disponiamo di molti strumenti per aprirla. Strumenti che dobbiamo usare. Anche a Hollywood qualcosa si sta muovendo. Alludiamo al film Killers of the Flower Moon, diretto da Martin Scorsese, che è uscito nell'ottobre del 2023. Tratto dal romanzo di David Grann Gli assassini della terra rossa, ambientato in un contesto amerindiano, il film è interpretato da Leonardo DiCaprio e Robert De Niro. 32
Dall'alto, da sinistra verso destra: il poeta-musicista sami Nils-Aslak Valkeapää apre le Olimpiadi invernali di Lillehammer (1994); il CD Aman Iman (2007) del gruppo tuareg Tinariwen; Jamala, tartara della Crimea, vincitrice dell'Eurofestival con "1944", dedicata al genocidio del suo popolo (2016); Wes Studi riceve l'Oscar alla carriera (2019); JoJo Rabbit, diretto dal regista maori Taika Waititi, Oscar per la miglior sceneggiatura non originale (2020); un libro di Oodgeroo Noonuccal, scrittrice aborigena; Maret Anne Sara, artista sami invitata alla Biennale di Venezia (2022).
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Scuse, risarcimenti e rimpatrio di opere artistiche e resti umani Dichiarazione congiunta delle organizzazioni indigene in occasione dell'incoronazione di Re Carlo III, 6 maggio 2023 4 maggio 2023 Noi sottoscritti chiediamo al monarca britannico, re Carlo III, in occasione della sua incoronazione che ha luogo il 6 maggio 2023, di riconoscere il tragico impatto del genocidio e della colonizzazione dei popoli indigeni di Antigua e Barbuda, Aotearoa (Nuova Zelanda), Australia, Bahamas, Belize, Canada, Grenada, Giamaica, Papua Nuova Guinea, Saint Kitts e Nevis, Saint Lucia e Saint Vincent e Grenadine. Le nostre organizzazioni indigene, insieme ad altre che lavorano per aiutare le nostre comunità a superare questo enorme trauma culturale e umano, ora giustamente riconosciuto dalle Nazioni Unite come "crimine contro l'umanità", chiedono inoltre che vengano presentate scuse formali e che venga avviato un processo di giustizia riparatoria. In particolare chiediamo a Re Carlo III, in qualità di Capo di Stato dei nostri rispettivi Paesi, di fare quanto segue: 1. Avendo riconosciuto, in occasione della riunione dei capi di governo del Commonwealth tenutasi in Ruanda nel giugno 2022, che i torti del passato sono un "tema da affrontare con urgenza", avviare immediatamente il dibattito sull'impatto della schiavitù. 2. Impegnarsi immediatamente a discutere dei risarcimenti per l'oppressione dei nostri popoli, il saccheggio delle nostre risorse, la denigrazione della nostra cultura e a ridistribuire la ricchezza che sostiene la Corona ai popoli ai quali cui è stata rubata. 3. Impegnarsi immediatamente a rimpatriare tutti i resti umani dei nostri popoli che si trovano nei musei e nelle istituzioni del Regno Unito e che sono parte integrante del nostro bagaglio familiare, culturale e spirituale. 4. Impegnarsi immediatamente a restituire tutte le opere artistiche e i i manufatti che sono stati rubati ai nostri popoli durante secoli di genocidio, schiavitù, discriminazione, massacri e discriminazione razziale. 5. Impegnare immediatamente la Famiglia Reale a far propria la rinuncia alla "Dottrina della scoperta" fatta da Papa Francesco nell'aprile 2023 e avviare il processo di consultazione e di risarcimento per i popoli che hanno subito le conseguenze dell'applicazione di questa dottrina. Siamo solidali in questo processo che ha come obiettivo la riparazione dei torti del passato e il completamento del processo di decolonizzazione. Rimaniamo impegnati nella ricerca della verità sul nostro passato, nella giustizia per i nostri popoli e in un futuro costruito sulla democrazia, sull'inclusione e sull'unità. Siamo uniti nella lotta per creare un mondo libero dalle vestigia del razzismo e dell'oppressione che sono ancora ben visibili e che sono un'eredità diretta della discriminazione che è stata praticata durante l'era coloniale. Seguono le firme dei rappresentanti di 16 organizzazioni di Antigua e Barbuda, Aotearoa (Nuova Zelanda), Australia, Bahamas, Canada, Giamaica, Grenada, Papua Nuova Guinea, Saint Kitts and Nevis, Saint Lucia e Saint Vincent and the Grenadines. 34
Buckingham Palace, 4 maggio 2023. Da sinistra: Roseanne Archibald (Assembly of First Nations); re Carlo III; Mary Simon, Governatore generale del Canada; Cassidy Caron (Métis National Council); Natan Obed (Inuit Tapiriit Kanatami).
Da sinistra: Lidia Thorpe, militante aborigena australiana, ex parlamentare, firmataria della lettera pubblicata nella pagina precedente; Laura Trevelyan, giornalista inglese. Il 27 febbraio 2023 ha presentato scuse formali per il ruolo che la sua famiglia aveva avuto nello schiavismo, incitando re Carlo III a fare lo stesso.
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Biblioteca
Lin Poyer, War at the Margins: Indigenous Experiences in World War II, University of Hawai'i Press, Honolulu (HI) 2022, pp. 332, $28.00/$68.00. Se si esclude il notevole lavoro di Matteo Incerti, I pellerossa che liberarono l'Italia (vedi n. 15), il contributo dei popoli indigeni alle guerre mondiali è stato praticamente ignorato dalla pubblicistica italiana. Nei paesi anglofoni, al contrario, questo tema riscuote ormai un interesse consolidato, soprattutto per quanto riguarda la Seconda guerra mondiale. Uno dei contributi più recenti è War at the Margins: Indigenous Experience in World War II, dove Lin Poyer offre un'ampia visione comparativa dell'impatto che l'ultimo conflitto mondiale ha avuto sulle società indigene. Il fatto che alla guerra abbiano partecipato i quattro paesi nati dal colonialismo britannico (Australia, Canada, Nuova Zelanda e Stati Uniti) offre un vasto terreno d'indagine. Utilizzando una ricca varietà di fonti storiche ed etnografiche, la studiosa americana esamina come queste comunità siano emerse dal trauma del periodo bellico con una maturità che ha gettato le basi per la loro affermazione sulla politica mondiale. La peculiarità dei popoli indigeni offre una prospettiva preziosa sulla Seconda guerra mondiale, poiché coloro che si trovavano ai margini degli Stati belligeranti furono coinvolti come soldati, esploratori, guide, lavoratori e vittime. Il loro senso comunitario ebbe un forte peso, esprimendosi in unità militari etniche distinte, come anche nell'uso non ufficiale delle loro abilità specifiche, ma l'impatto della guerra non fu limitato ai soldati. La guerra ebbe una forte influenza anche sulle popolazioni indigene civili, costringendole a misurarsi con bombardamenti, invasioni, sfollamenti, lavoro forzato, disagi sociali ed economici di vario tipo. Al tempo stesso, il conflitto segnò la fine degli imperi e gettò le basi per il mondo postcoloniale. Molti indigeni dei nuovi Stati postbellici cercarono di sfruttare il vento a loro favore, ma dovettero constatare che la fine del colonialismo non coincideva quasi mai con la fine del razzismo. I governi nazionali videro nel servizio militare una prova del desiderio di assimilazione delle popolazioni indigene, ma l'esperienza della guerra rinforzò il senso identitario e aprì nuove strade all'attivismo. Così, alla fine del secolo, i popoli indigeni avrebbero guadagnato una soggettività politica inedita, costringendo i rispettivi governi a dibattere i loro problemi inserendoli in un contesto internazionale. Grazie a questo approccio innovativo, War at the Margins aggiunge un importante contributo alla storia della Seconda guerra mondiale e allo sviluppo del movimento indigeno mondiale. Alessandro Michelucci 36
Enzo Martines, Il Friuli a un bivio. Indagine alla ricerca dell'anima dispersa della Piccola Patria, KappaVu, Udine 2022, pp. 220, € 17. Alcuni libri meritano attenzione non solo per quello che propongono, ma anche per le loro contraddizioni formali e sostanziali, che tuttavia confermano il valore del contenuto. A questa categoria particolare può essere iscritto Il Friuli a un bivio, scritto da Enzo Martines. L'autore, che ha al proprio attivo esperienze rilevanti in campo culturale e istituzionale, si interroga sulla storia, l'identità e il futuro del Friuli, raccogliendo osservazioni e testimonianze di autorevoli personalità del mondo politico e culturale locale. L'arco temporale analizzato copre gli ultimi sessant'anni. In altre parole, si parte dagli anni Sessanta del Novecento, con la nascita della Regione autonoma Friuli-Venezia Giulia, le lotte per l'università del Friuli, la riorganizzazione dell'autonomismo e le peculiarità del Sessantotto friulano per arrivare a oggi. Martines si concentra in particolare sul terremoto del 1976 e sulla ricostruzione, che rappresentano sicuramente una profonda spaccatura, ma in cui è possibile cogliere anche connessioni identitarie e sociopolitiche. Un altro periodo che l'autore analizza a fondo è quello che segue la caduta del Muro di Berlino, in bilico tra crisi di sistema, disorientamento e nuove opportunità, per arrivare ai nostri giorni, segnati da problemi sociali e demografici che richiedono risposte concrete. Da tutto questo emergono condizioni profonde e condivisibili: il ruolo chiave delle specificità linguistiche e culturali, che possono anche produrre sviluppo socioeconomico; l'importanza della dimensione europea e di una visione europeista per pensare, vivere e costruire il futuro della regione; la centralità della sostenibilità; la funzione strategica di un'Università che deve essere realmente aperta al mondo, e quindi anche alle peculiarità locali; il bisogno di garantire ai giovani condizioni di crescita culturale, sociale ed economica. Convincono di meno, nel metodo e nel merito, altri passaggi. Se è apprezzabile la consapevolezza del fatto che qualsiasi identità non può che essere dinamica e plurale, non si può non cogliere la contraddizione tra questo approccio e l'enfasi dedicata all'idea di "archetipo", che rischia spesso di diventare luogo comune e pregiudizio. Esemplari in tal senso l'utilizzo ripetuto, a partire dal sottotitolo, dell'espressione "Piccola Patria" per definire il Friuli e l'analoga riproposizione del friulano salt, onest, lavoradôr (solido, onesto e laborioso), che invece costituisce una soffocante gabbia ideologica per identità, cultura, comunità e territorio, sia in termini storici che in riferimento al presente e al futuro. In questa cornice si colloca anche il mancato collegamento fra la controcultura friulana degli anni Novanta e l'esplicitazione di qualche sua espressione innovativa. In ogni caso il libro segna un passaggio importante e sottolinea la necessità di continuare a promuovere e sviluppare una visione positiva, progressista e consapevole del Friuli. Marco Stolfo
Brenda Shaffer, Iran is More than Persia: Ethnic Politics in Iran, Walter de Gruyter, Berlin 2022, pp. 161, € 84,95. A partire dal 16 settembre 2022 l'Iran è scosso da una serie di imponenti moti popolari dove le donne reclamano il rispetto dei propri diritti, che vengono negati da tempo immemore come accade in molti altri paesi islamici. Il settimanale americano Time, secondo una lunga consuetudine, ha attribuito alle donne iraniane il titolo di "eroine dell'anno". Nei paesi europei, compresa l'Italia, le proteste hanno innescato una solidarietà che si sta esprimendo in vari modi: articoli, conferenze, dibattiti, etc. La battaglia culturale e mediatica in difesa delle donne è doverosa, ma forse sarebbe più efficace se venisse inquadrata in un contesto più ampio, che includesse tutti coloro che sono oppressi dal regime liberticida di Teheran. Senza dimenticare le minoranze, ovviamente: la prima vittima della repressione iniziata nel settembre 2022, nota 37
mediaticamente come Mahsa Amini, in realtà era una ragazza kurda che si chiamava Jina Amini. Oggi, mentre i media parlano genericamente di "rivolte iraniane" trascurando il fitto intreccio di appartenze culturali che le compongono, appare molto utile la lettura del libro Iran is More than Persia: Ethnic Politics in Iran, scritto da Brenda Shaffer. L'autrice, specialista di politica estera e questioni energetiche, segue con particolare attenzione l'area caucasica, le regioni del Mar Nero e del Mar Caspio. I persiani sono meno della metà della popolazione iraniana, mentre il 40% degli iraniani non conosce la lingua farsi. La grande maggioranza delle minoranze (Arabi, Baluci, Kashqai, Kurdi, etc.) abita nelle regioni di confine, che sono le più povere. Il libro esplora infatti la politica estera dell'Iran verso gli Stati vicini dove abitano gli stessi popoli. I problemi energetici colpiscono le province delle minoranze più duramente del centro persiano, aggiungendo un inquietante carattere etnico a quelle che spesso vengono presentate come sfide puramente ambientali o economiche. L'autrice esamina inoltre il potenziale impatto dei disordini su base etnica del Khuzestan, la principale regione produttrice di petrolio del paese, sulla produzione petrolifera. Un lavoro attento che mette finalmente in luce una serie di problemi sociali e culturali trascurati dai media. Giovanna Marconi
Ilan Pappé, La prigione più grande del mondo. Storia dei Territori Occupati, Fazi, Roma 2022, pp. 385, € 20. Nel 2006 Ilan Pappé ha pubblicato The Ethnic Cleansing of Palestine (Oneworld, 2006, tr. it. La pulizia etnica della Palestina, Fazi, 2008) per confutare la vulgata israeliana relativa alla Nakba, l'esodo forzato della popolazione palestinese durante la guerra civile del 1947-48. Il suo lavoro di ricerca storica continua ora con La più grande prigione del mondo, pubblicato in Italia nella traduzione di Michele Zurlo. La tesi di fondo è che la Cisgiordania sia diventata un enorme carcere a cielo aperto. A suffragio di questa ipotesi, Pappé ricostruisce la progressiva riduzione dei diritti dei palestinesi a partire dalla nascita di Israele. Tra il 1948, anno che coincide con la Nakba, e il 1967, quando la Guerra dei sei giorni porta all'annessione de facto della Palestina, il governo e l'esercito discutono animatamente sul futuro dei territori occupati. Pappé dimostra che fin dagli anni Trenta era stata prevista la possibilità di allargare i confini di Israele ben oltre il territorio che sarebbe stato assegnato dall'ONU in base alla risoluzione 181 del 1948. Questo disegno ambizioso veniva però contrastato da quanti, allineandosi alla posizione di Ben Gurion, temevano l'aumento della popolazione araba sul suolo del nuovo stato sionista. Alla fine, comunque, prevalse il parere di chi sognava un grande Israele. Pappé ricostruisce allora i passaggi che hanno reso possibile questo processo, indicando il fattore determinante nell'accorta strategia politica israeliana. Da un lato si è lavorato per ingigantire la minaccia araba, ben incarnata dalla politica estera dell'ambizioso egiziano Nasser; dall'altro lato Israele è riuscito a infiltrare nella CIA personaggi capaci di influenzare la linea di sostegno statunitense. Pappé elenca i responsabili politici e militari grazie all'analisi di materiali d'archivio da poco declassificati, confrontandoli con documenti raccolti da ONG e interviste. L’abuso del carcere preventivo, la costruzione del famigerato muro e gli arresti arbitrari sono solo alcuni degli strumenti tesi alla cancellazione dei diritti fondamentali della Cisgiordania. Ma Pappé non dimentica la tragica situazione in cui versa Gaza, da lui definita la "massima forma di carcere duro". La cosiddetta comunità internazionale si astiene dal criticare il modus operandi dei governi israeliani, sempre più in balia della linea politica dettata dai coloni, perché capace di mantene38
re una situazione di non belligeranza tra le parti. A pagare il conto di questa ipocrisia manifesta è ora la terza generazione di palestinesi, condannati dagli Accordi di Oslo in poi a veder sfumare la sempre procrastinata creazione di una Palestina indipendente. Per l'autore, però, solo quando la più grande prigione del mondo sarà stata smantellata si potrà cominciare a parlare veramente di pace. Anna Di Giusto
Jean Malaurie, De la pierre à l'âme. Mémoires, Plon, Paris 2022, pp. 672, € 26. De la pierre à l’âme è il culmine della vita di ricerche ed esplorazioni che Jean Malaurie ha compiuto in tutte le regioni artiche, dalla Groenlandia alla Chukotka siberiana, in oltre mezzo secolo. È anche un'opera piena di ricordi, un ritorno a se stessi, un tentativo incompiuto di delucidazione interiore, una summa intellettuale che immerge il lettore nell'effervescenza intellettuale dell'immediato dopoguerra. "Non insegno, racconto", dice Jean Malaurie, il cui messaggio scientifico o etnografico non è mai didascalico, ma fa parte di un'avventura personale fatta di incontri, prove e ostacoli. Il racconto di un vagabondaggio in un ambiente sconfinato e ricco di pericoli. De la pierre à l'âme è una ricerca iniziatica che conduce dallo studio della pietra attraverso il prisma di una scienza esatta, la geomorfologia, all'animismo e al sacro. È la storia di una via di Damasco che conduce un giovane geografo amante delle figure e dei diagrammi a una conversione dello sguardo attraverso il contatto con gli Inuit. L'autore racconta gli eccezionali momenti di comunione con il cosmo vissuti insieme a un popolo animista. Non si può non essere colpiti dall'attualità e dal carattere profetico di questo libro, iniziato una decina di anni fa e dedicato a un'avventura umana iniziata settant'anni fa. In queste pagine Malaurie denuncia la rottura del legame con il cosmo, la distruzione della fauna e degli ambienti naturali, la riduzione della biodiversità, lo sfruttamento produttivistico delle risorse e l'agonia programmata di quelle "sentinelle" che sono i popoli autoctoni. Marc Escola
Pericle Camuffo (a cura di), Le nostre voci. Scritti politici e sociali degli Aborigeni australiani, PM Edizioni, Varazze (SV) 2021, pp. 230, € 18. L'impatto tra gli aborigeni australiani e i colonizzatori europei ha avuto effetti diversi da una regione all'altra dell'isola, con esiti spesso drammatici. Cacciati dalle proprie terre, gli indigeni hanno subito lo sfruttamento di una cultura razzista e violenta, che ha cercato in tutti i modi di cancellare i diritti delle tante tribù sparse sul continente, sperimentando politiche di assimilazione forzata, di segregazione e di isolamento. Con il tempo gli aborigeni sono riusciti a organizzarsi per affermare la propria identità politica, sociale e culturale. Sono sopravvissuti ai massacri e al processo di assimilazione coatta iniziato oltre duecento anni fa, mostrando determinazione e fermezza nel gestire le proprie rivendicazioni territoriali, mobilitandosi e protestando in modi spesso ingegnosi, nella speranza di un futuro diverso e senza mai distogliere lo sguardo dalle proprie radici. In questo processo l'arte ha svolto un ruolo centrale. Nella pittura è racchiusa tutta la complessità della cultura aborigena, così come nella musica, nel cinema, ma soprattutto nella poesia e nella letteratura. Questo testo raccoglie appunto una polifonia di autori importanti, tra i quali Patrick Dodson, Kevin Gilbert e Oodgeroo Noonuccal. Il libro è uno strumento molto utile per conoscere la varietà delle culture aborigene. Il suo a39
spetto innovativo è rappresentato dalle varie sfaccettature che tratta, perché attraverso ar-ticoli, poesie, scritti politici, dichiarazioni e discorsi pubblici i temi si intrecciano e si sovrappongono, componendo un ricco mosaico di queste culture. Maurizio Torretti
Béatrice Mou Sang Teinauri, Je m'appelle Airuarii, autoedizione, 2022, pp. 103, $5.50. Gli esperimenti nucleari che hanno avvelenato il Pacifico dal 1946 al 1996 hanno lasciato una tragico fardello fatto di malattie ereditarie, disfunzioni e malformazioni, ma vengono rievocati molto raramente. Questa sporadicità, unita alla distanza temporale e a quella geografica, li ha relegati in un angolo remoto della memoria collettiva. A questo si aggiunge il disinteresse colpevole dei media, interrotto ogni tanto da qualche libro in inglese o in francese. Uno dei più recenti è Je m'appelle Airuarii, libro autobiografico della sino-polinesiana Béatrice Mou Sang Teinauri. L'autrice è nata nel 1977, quando gli esperimenti nucleari francesi (1966-1996) erano in piena attività. Affetta da leucemia mieloide cronica in seguito a queste operazioni, la donna ci offre una testimonianza preziosa, tutta centrata su dati umani, senza gli accenti anticolonialisti che caratterizzano gran parte della pubblicistica sul tema. Mou Sang racconta con grande dignità la propria gravidanza e la lunga battaglia per essere riconosciuta vittima degli esperimenti. La storia che narra è la stessa di tanti altri, vittime innocenti di crimini che non solo non sono stati mai puniti, ma sono stati completamente dimenticati. Anche questo è razzismo. Anthony Gordon UNA NUOVA RIVISTA OCCITANA Si chiama L'ABC del saber la nuova rivista occitana diretta da Eric Fraj, noto anche come musicista. La pubblicazione di taglio interdisciplinare spazia dalla scienza all'arte, dalla letteratura alle scienze sociali. Il primo numero ospita un ampio dossier sulla guerra, che viene esplorata anche nei suoi risvolti meno convenzionali, ma senza dimenticare il conflitto russo-ucraino. Elegante e moderna, la rivista si inserisce nel gruppo di pubblicazioni che fanno riferimento a una cultura minoritaria, come la gallese Planet e la bretone Bretons, ma a differenza di queste usa la lingua autoctona, favorita dal fatto che l'occitano è una lingua neolatina facilmente comprensibile per chi conosce il francese, il catalano o lo spagnolo. https://abcdelsaber.fr
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Aria nuova dalla Corsica La vivacità di una cultura è attestata anche dal numero di iniziative editoriali che realizza. Un caso singolare è quello della Corsica, che negli ultimi cinque anni ha proposto sette nuove riviste culturali. Queste trattano varie discipline - letteratura, storia, indagine sociale, arte – sottolineando l'identità mediterranea dell’isola. Hanno tutte un notevole spessore culturale, ma sono dirette a un vasto pubblico. Eccole (fra parentesi l'anno di esordio). Infine, non omettiamo la più longeva, Etudes corses et méditerranéennes, che col n. 89 (dicembre 2023) ha festeggiato 50 anni. Storia corsa (2018) La storia dell'isola, strettamente legata a quella italiana, è ricca di pagine interessanti ma poco note. Ogni numero propone un dossier tematico, fra i quali quello dedicato alla Corsica medievale, quello sulle invasioni barbariche e quello che ripercorre la liberazione dell'isola nel contesto dell'ultima guerra mondiale. Robba (2021) Questa rivista telematica ospita articoli sulle odierne questioni politiche e sociali dell'isola, alcuni in francese e altri in corso. Fra i collaboratori, Sampiero Sanguinetti e Toni Casalonga. Litteratura (2021) Pubblicata da Omara, casa editrice fondata da Marc Biancarelli e Jérôme Luciani, propone autori della scena letteraria isolana. I Vagabondi (2021) Diretta da Jean-Jacques Colonna d'Istria, fondatore delle edizioni Scudo, propone numeri che ruotano attorno a un tema centrale, come le donne del Mediterraneo, la natura e la sesualità. Quì (2021) Quadrimestrale diretto dal fotografo Jean-Christophe Attard, molto curato graficamente, offre una ricca varietà di articoli, cronache, interviste, racconti, etc. A Traversa (2023) Semestrale diretto da Christian Peri. Ogni numero contiene un dossier dedicato a un paese mediterraneo. Ampio spazio viene dato alle riviste di questa area geografica. Merita un discorso a parte Lumi, unica rivista accademica fra quelle di cui si parla in questa pagina. Diretta da Jean-Guy Talamoni (nella foto), ricercatore dell'Università di Corsica, la rivista è nata come prolungamento ideale del progetto Paoli-Napoléon, lanciato nel 2014 dallo stesso Talamoni e da Jean-Dominique Poli. Lumi si concentra sui rapporti fra Pasquale Paoli e Napoleone. Attiva dal 2022, è scritta in corso e può essere scaricata liberamente dalla Rete.
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Nuvole di carta
Tiburce Roger, Hervé Richez (a cura di), Indians! L'ombre noire de l'homme blanc, Bamboo, Paris 2022, pp. 120, € 19,90. Merita molta attenzione questa bella antologia ideata da Tiburce Oger insieme a Hervé Richez e disegnata da alcuni dei principali nomi del fumetto francofono. Dopo il successo di Go West Young Man (Bamboo, 2021), i due soggettisti francesi propongono un'opera che rende omaggio ai popoli amerindiani, ma apertamente dedicata "a tutti i popoli e alle loro diversità". Per realizzare questo volume sono stati coinvolti sedici artisti, ognuno dei quali ha illustrato una delle altrettante storie scritte da Tiburce Oger. Alcuni di loro avevano già partecipato al volume precedente, come Dimitri Armand, Paul Gastine e Ronan Toulhoat. Questo nuovo lavoro vede l'arrivo di nomi altrettanto prestigiosi, fra i quali Laurent Astier, Laurent Hirn e Jef, noti per i loro lavori ambientati nell'America coloniale. Contrariamente alla maggior parte dei lavori analoghi, che si concentrano sulle guerre indiane del diciannovesimo secolo, Indians! spazia dalla metà del Cinquecento alla fine dell'Ottocento. L'obiettivo è quello di archiviare le logore reliquie del sogno americano e capire come sia nato l'incubo americano. L'album ci permette quindi di cancellare i noti stereotipi e di sostituirli con una narrazione vera, viva, palpitante. Ogni storia è preceduta da un breve testo dove ricorre l'aquila, animale simbolico centrale nelle culture amerindiane, che rappresenta il filo conduttore dell'antologia. Alessandro Michelucci KAHHORI, SUPEREROINA MOHAWK
Molti supereroi della Marvel, come Spider-Man, Devil e Hulk, sono noti anche in Italia, dove le loro storie vengono pubblicate dalla casa editrice Panini. Praticamente ignoti, invece, sono i suoi numerosi supereroi indigeni, dato che le loro storie non vengono tradotte in italiano. Il personaggio più recente è Kahhori, una giovane indiana mohawk. La supereroina indigena è stata concepita e realizzata con la consulenza di alcuni membri della nazione mohawk. Kahhori comparirà per la prima volta nella seconda stagione di What if?, una serie animata della Marvel trasmessa su Disney+, che inizierà nel 2024. Il primo episodio porterà la firma di Ryan Little.
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Cineteca
We Are Still Here, regia di Beck Cole, Danielle MacLean, Dena Curtis, Tim Worrall, Richard Curtis, Miki Magasiva, Mario Gaoa, Chantelle Burgoyne, Tracey Rigney, Renae Maihi, Australia-Nuova Zelanda, 2022, 82’. Attraversando oltre 1000 anni fra passato, presente e futuro, We Are Still Here propone otto storie di resistenza indigena ambientate in Australia e in Nuova Zelanda. Il film è una vigorosa risposta alle celebrazioni organizzate per il 250° anniversario dell'arrivo del capitano James Cook (1769 in Nuova Zelanda e 1770 in Australia). A realizzare quest'opera articolata e complessa ha provveduto un collettivo di scrittori, registi e attori indigeni. Spaziando dall'animazione alla fantascienza, dalla commedia romantica al dramma storico, il lungometraggio passa da un'epoca all'altra offrendo al pubblico un raggio di eroicità del protagonista. Il film si apre con una storia ambientata in tempi antichi, prima dell'arrivo di Cook: due donne che pescano, madre e figlia, simboleggiano l'importanza della cultura autoctona, ancora carica di sacralità. Poi si salta al 1862, dove gli indigeni australiani e neozelandesi sperimentano il duro impatto del colonialismo. Quindi alla Prima guerra mondiale: un soldato samoano, rimasto solo in trincea, riceve un inaspettato atto di gentilezza da parte di soldato turco. Oltre alle storie ambientate nel passato, il film presenta altri episodi che analizzano i temi dell'attivismo e del razzismo. Uno si concentra sulle reazioni aborigene ai festeggiamenti ufficiali dell'invasione britannica. Un altro evidenzia il razzismo che emerge nelle piccole città quando gli indigeni acquistano alcoolici. Altre storie si proiettano nel futuro, disegnando un mondo distopico dove una ragazza cerca di difendere la propria cultura. Il film mette in mostra il talento degli attori indigeni, capaci di suscitare rabbia, umorismo e commozione. La pluralità dei registi e degli scrittori garantisce una ricca varietà espressiva, ma anche un quadro unitario e coerente. We Are Still Here è un film potente che celebra le culture indigene dell'Australia e della Nuova Zelanda senza cadere mai nella retorica. Rhiannon Clarke
Whina, regia di James Napier Robertson e Paula Whetu Jones, Nuova Zelanda, 2022, 112’. Questo film biografico racconta la vita di Hōhepine Te Wake, meglio nota come Whina Cooper (1895-1994), figura centrale dell'attivismo maori, animatrice di molte iniziative per la difesa delle donne, delle terre e del diritto all'istruzione. Whina ripercorre i momenti più importanti della sua vita, che la portarono a essere la "prescelta" per guidare le grandi proteste del 43
suo popolo contro la politica governativa. Fermamente convinta che la forza venisse dall'unità, la donna si batté anche per l'alleanza tra i Maori e i bianchi neozelandesi: "Uniamoci e non dividiamoci! Il mondo sta cambiando, è una nuova era e dobbiamo essere pronti!". Il lungometraggio coglie appieno la passione e la determinazione con le quali Whina portò avanti la propria causa: nonostante il fallimento di due matrimoni, la donna continuò a lottare con fermezza immutata, incitando la gente a non dimenticare la propria identità culturale e a condurre una battaglia pacifica per l'uguaglianza. Questo le guadagnò grande rispetto e grande seguito popolare. Si tratta di un film ambizioso e potente, girato nei pittoreschi paesaggi della Nuova Zelanda. L'intero cast ha partecipato a questo lavoro con la massima convinzione, come attestano le notevoli interpretazioni di Miriama McDowell e Rena Owen, che interpretano rispettivamente la giovane e la vecchia Whina Cooper. La cultura ancestrale degli indigeni pervade tutto il film, fornendo un ricco bagaglio di spunti di riflessione al pubblico che non la conosce. Whina utilizza uno stile narrativo non lineare, attraversando tutte le fasi della sua ascesa. Se il pubblico uscirà dal cinema con un quadro chiaro del tema, e magari anche con un po' di rabbia, il film avrà raggiunto il suo scopo. Mark Morellini Pacifiction – Un mondo sommerso, regia di Albert Serra, Francia-Germania-Portogallo-Spagna, 2022, 163’. Capita piuttosto spesso che i film stranieri vengano distribuiti in Italia col titolo originale o con titoli di fantasia che non rendono la sostanza della trama. Al secondo gruppo appartiene Pacifiction - Tourment sur les îles, diffuso nel nostro paese come Pacifiction – Un mondo sommerso, un titolo che sembra più adatto a un documentario di Folco Quilici. Al contrario, il film vede in primo piano un Alto Commissario, rappresentante del potere francese a Tahiti, territorio d'oltremare dell'Esagono. Sullo sfondo, la questione degli esperimenti nucleari che hanno devastato questo remoto angolo del pianeta. Certi spunti sono interessanti, ma l'eccessiva durata e l'insistenza sulle ambientazioni mondane compromettono il risultato finale, sprecando così l'occasione per mettere in piena luce un contesto sociale afflitto dagli ultimi resti del colonialismo francese. Anthony Gordon
La cultura sami approda su Netflix Ormai è sempre più evidente che le Le culture indigenestanno stanno uscendo uscendo culture indigene dalla marginale. marginalità.Lo Lo conferma conferma la la dalla giovane scrittrice Ann-Helén Laescrit-trice sami Ann-Helén Laestadius, autrice romanzo Stöld stedius, samidel svedese, autrice del(tr. roing. Stolen, Bloomsbury, 2023). L'omanzo Stöld, bestseller tradotto in pera, già edita in molte lingue, sarà oltre 20 lingue (in Italia sarà pubpubblicata in italiano da Marsilio. blicato da Marsilio neltrasposta 2024). Non solo, ma verrà sul Non solo, ma il romanzo verrà tragran-de schermo dallalo sctapoa bI spostoindigeni sullo schermo popoli stann dalla regista Elle Mária Eira, anche lei sami. Il film, scritto da Peter Birro e realizzato per Netflix, uscirà nel 2024.
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Musiche
AA. VV., Metsa Kene: Estonia Meets Amazonia, Living Gaia Estonia, 2020. L'interesse per le culture indigene continua a stimolare progetti musicali che superano tutte le barriere geografiche e culturali. Metsa Kene: Estonia Meets Amazonia, un'insolita collaborazione fra estoni e indigeni amazzonici, non è una novità, ma parlarne ci sembrava comunque imperativo. Il progetto, concepito dal brasiliano Eduardo Agni, propone 15 canzoni eseguite in prevalenza da musicisti estoni, affiancati da due brasiliani, Txana Bane e Txai Fernando. Non poteva mancare Mari Kalkun, autrice del recente Stories of Stonia (Real World Records, 2023), interprete di quel legame profondo con la Madre Terra che non deve essere considerato monopolio dei popoli indigeni. È proprio questo idem sentire che ha stimolato la nascita del progetto. Il risultato è un'alchimia musicale stimolante. Il disco contiene numerosi richiami al folklore estone, che non ha niente da invidiare al contiguo folklore scandinavo. La fusione con i ritmi amazzonici conferma che l'intreccio di culture diverse può generare novità stupefacenti. Alessandro Michelucci
Rafa Xambó, Cantata de València, Stanbrook, 2022. Il catalano non si parla soltanto in Catalogna, ma anche in altri territori spagnoli (Baleari e València), nel principato di Andorra, nel dipartimento dei Pirenei orientali (Francia sudorientale) e nella città sarda di Alghero. Questa introduzione era necessaria per presentare Rafa Xambó, un musicista e sociologo valenciano che ha dedicato alla propria città un disco molto interessante, intitolato appunto Cantata de Valéncia. Accompagnato da un libro, il disco propone un viaggio attraverso la storia recente della città che parte dall'immediato dopoguerra per arrivare fino a oggi. Con ampio spazio per voci e chitarre, Cantata de Valencia racconta le tensioni, le ambivalenze e le paure, ma anche gli amori e le gioie, di questa bella città. Un omaggio insolito e sincero nel quale l'autore coagula numerose ispirazioni derivate dalla letteratura catalana. Giovanna Marconi 45
South Dakota Symphony Orchestra, The Lakota Music Project, Innova, 2022. Creato tra il 2005 e il 2008, il Lakota Music Project è il frutto della collaborazione fra la South Dakota Symphony Orchestra (SDSO) e i capi delle comunità lakota e dakota, meglio note come Sioux. Il suo obiettivo è quello di costruire un ponte tra bianchi e Indiani d'America attraverso la condivisione della musica. Il CD comprende cinque composizioni, tutte originali tranne il classico "Amazing Grace", arrangiato dal compositore Theodore Wiprud. Le altre quattro sono composte per metà da un musicista bianco e per metà da indiani. Jeffrey Paul, oboista principale della SDSO, è l'autore di "Wind on Clear Lake" e "Desert Wind". Nel primo spicca Bryan Akipa, virtuoso del flauto di cedro, strumento tipico dei Lakota. Le pennellate dello strumento, affiancato da archi, fiati, arpa, percussioni e suoni naturali, creano un'atmosfera sospesa affascinante. In "Desert Wind" le voci dei Creekside Singers e gli archi si fondono felicemente con la chitarra di Paul. "Victory Songs" porta la firma del chickasaw Jerod Impichchaachaaha' Tate, uno dei massimi esponenti della musica classico-contemporanea amerindiana. La composizione, lunga oltre mezz'ora, contiene riferimenti a figure storiche come Nuvola Rossa, Cavallo Pazzo e Toro Seduto. Momenti tesi e drammatici si alternano a episodi sereni e pacati. L'altro compositore indiano è Brent Michael Davids, mohicano, noto anche come autore di colonne sonore. La sua "Black Hills Olowan" mette in evidenza lo stretto legame fra i Lakota e le Colline Nere, la catena montuosa situata fra il South Dakota e il Wyoming, alle quali appartiene il celebre Mount Rushmore. Per sottolineare il legame con la cultura lakota Davids ha inserito la canzone tradizionale "Heart butte special" integrandola in una trama orchestrale. Alessandro Michelucci AUTORI François Alfonsi autonomista corso, membro del Partitu di a Nazione Corsa e parlamentare europeo. Sean Carleton Assistente di Storia e Studi Indigeni all’Università di Winnipeg (Manitoba). Rhiannon Clarke Giornalista aborigena, collaboratrice regolare del National Indigenous Times. Marc Escola Professore di letteratura classica francese e teoria letteraria all'Università di Losanna. Fabiana Giovannini giornalista corsa, militante autonomista, caporedattrice del settimanale Arritti. Marc Morellini giornalista australiano, scrive su varie testate, fra le quali Star Observer e City Hub Sydney. Degli altri autori è già stata data notizia nei numeri precedenti.
Si chiama Coe Gallery la galleria di arte aborigena che Jasmine Coe (nella foto) ha aperto a Bristol nel 2022. Jasmine, artista lei stessa, è la figlia di Paul Coe, uno dei principali attivisti aborigeni dell'Australia. Il suo nome è legato alle battaglie storiche degli indigeni locali, dalla Tent Embassy al caso Mabo. Paul Coe è stato anche uno dei fondatori dell'Aboriginal Legal Service. La nuova galleria è una tappa obbligata per chi vuole conoscere da vicino l'arte aborigena, che ormai gode di un interesse consolidato anche in campo collezionistico. https://coegallery.com
Per gli amici assenti 46
Tilman Zülch 1939-2023
Sergio Salvi 1932-2023
La nostra rivista dedica uno spazio regolare alla scomparsa delle persone che hanno difeso i diritti delle minoranze, ma la morte di Tilman Zülch (nella foto a sinistra), avvenuta il 17 marzo 2023, ci tocca in modo particolare, perché l'abbiamo conosciuto bene e abbiamo collaborato con lui per vari anni. Non solo, ma il nostro Centro di documentazione sui popoli minacciati è l'erede diretto dell'Associazione per i popoli minacciati, sezione italiana dell'omonima Gesellschaft für bedrohte Völker (GfbV), fondata da Tilman Zülch e Klaus Guerke nel 1970. Nato a Liebau (oggi Libina, Repubblica Ceca), Tilman lascia la regione dei Sudeti nel 1945, quando milioni di tedeschi vengono espulsi dai paesi dell'Europa centrale. La tragedia segna in modo indelebile la sua vita, stimolando una forte sensibilità nei confronti dell'ingiustizia e della repressione, con particolare attenzione per quelle subite dalle minoranze. Durante gli studi di politica ed economia ad Amburgo, Graz e Heidelberg milita nei movimenti dell'opposizione extraparlamentare. Nel giugno del 1968, insieme a Klaus Guerke, fonda l'Aktion Biafra Hilfe per mettere in luce il genocidio degli Igbo che si sta consumando in Nigeria. Da questa organizzazione nasce nel 1970 la Gesellschaft für bedrohte Völker. Infaticabile e sempre pronto a scendere in piazza, mai condizionato dalle ideologie, Tilman costruisce una delle associazioni più incisive fra quelle che difendono i diritti delle minoranze: dai Kurdi agli Indiani del Nordamerica, dai popoli siberiani a quelli del Pacifico. Il suo impegno sincero e disinteressato è un modello per coloro che portano avanti questa battaglia. Anche e soprattutto per noi, naturalmente. Diversa, ma comunque molto importante, è stata la lezione di Sergio Salvi, deceduto il 23 aprile 2023. Lo studioso fiorentino sarà ricordato come il primo scrittore italiano che ha dedicato la propria attività alle minoranze europee. Il libro che segna il suo esordio, Le nazioni proibite. Guida a dieci "colonie interne" dell'Europa occidentale, viene pubblicato da Vallecchi nel 1973. All'epoca questi temi sono considerati irrilevanti, quando non vengono osteggiati nel nome di un centralismo che accomuna tutti gli orientamenti politici. Sergio, che pure si considera uomo di sinistra, ha il coraggio di infrangere questo silenzio. Due anni dopo conferma il proprio impegno con un altro libro, Le lingue tagliate (1975), dedicato alle minoranze d'Italia. Con Patria e matria (1978) prosegue il suo viaggio fra le minoranze europee. Successivamente amplia la propria indagine all'area postsovietica: ecco quindi libri come La mezzaluna con la stella rossa (1993), Tutte le Russie (1994) e Breve storia della Cecenia (1995). Quindi si concentra sulla sua Toscana (Nascita della Toscana, 2001). Negli ultimi anni, dopo il monumentale Altri Islam (2021), torna a interessarsi ai paesi dell'ex-URSS (Le nuove repubbliche baltiche, 2021; L'Ucraina, madre di tutte le Russie, 2021; L'Asia di mezzo, 2022). La sua opera, che include anche molti libri non citati, resta un punto di riferimeno essenziale per coloro che si interessano ai nostri temi.
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RYŪICHI SAKAMOTO 1952-2023 Il 28 marzo 2023 Ryūichi Sakamoto è morto per un male incurabile. Il compositore aveva 71 anni. La sua parabola artistica copre mezzo secolo, spaziando dalla musica classica al pop elettronico, dalle colonne sonore alla sperimentazione. Dotato di una cultura musicale sconfinata, Sakamoto amava in particolare autori europei come Bach, Beethoven e Debussy, ma al tempo stesso era sempre rimasto profondamente giapponese. Impegnato nelle battaglie ecologiste e antinucleari, sensibile ai problemi dei popoli indigeni, nel 2019 aveva aderito con entusiasmo al comitato scientifico della rivista.
ROBBIE ROBERTSON 1943-2023 Il 9 agosto 2023, dopo una lunga malattia, è deceduto il chitarrista rock Robbie Robertson, meticcio canadese, fondatore del gruppo The Band. Aveva 80 anni. Dopo lo scioglimento del gruppo, documentato da Martin Scorsese nel film The Last Waltz (L'ultimo valzer, 1978), il musicista aveva iniziato una stimolante carriera solista. Fra i suoi dischi spicca Music for the Native Americans (1994), omaggio sincero alle sue radici indigene. Il CD successivo, Contact from the Underworld of Redboy (1998), aveva confermato questo orientamento. Grande amico di Martin Scorsese, Robertson aveva scritto molte musiche per i suoi film, fra i quali The Color of Money (Il colore dei soldi, 1986) e Killers of The Flower Moon (2023). Il nuovo film, uscito nello scorso autunno, è tratto dal romanzo omonimo di David Grann (tr. it. Gli assassini della terra rossa, Corbaccio, 2017, n. ed. 2023), ispirato a una storia vera che si svolge in un contesto amerindiano. Il film è interpretato da Robert De Niro e Leonardo DiCaprio.
CLAUDIO UGUSSI 1932-2023 Era uno dei massimi esponenti culturali della minoranza italiana dell'Istria, e di questa aveva vissuto il dramma più atroce: l'esodo forzato del 1943. Claudio Ugussi, nato a Pola e morto a Buie il 18 luglio 2023, si era dedicato alla poesia, alla prosa, alla saggistica e alla pittura ispirandosi alla sua terra natale. La città divisa (Campanotto, 1991, n. ed. EDIT, 2014) e Il nido di pietra (EDIT, 2012) sono i suoi romanzi di maggior rilievo. Nel 2022 aveva vinto il primo premio al concorso Istria Nobilissima con il racconto Fuori regola.
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