la causa dei popoli anno VI/nuova serie
numero 15-16
gennaio-dicembre 2021
SE UN DIO NON BASTA la resistenza dei politeisti
la causa dei popoli problemi delle minoranze, dei popoli indigeni e delle nazioni senza stato anno VI/nuova serie
numero 15-16
gennaio-dicembre 2021
ISSN: 2532-4063
EDITORIALE
Direttore: Alessandro Michelucci Redazione: Katerina Sestakova Novotna, Giovanni Ragni, Marco Stolfo, Maurizio Torretti, Davide Torri Via Trieste 11, 50139 Firenze, 055-485927, 327-0453975 E-mail: popoli-minacciati@ines.org https://issuu.com/lacausadeipopoli
L'ultimo tabù Giovanna Marconi
Direttore responsabile: Riccardo Michelucci Comitato scientifico Valerie Alia Leeds Metropolitan University, José Luis Alonso Marchante storico indipendente, James Anaya University of Arizona, Aureli Argemí CIEMEN, Laurent Aubert Archives internationales de musique populaire, Claus Biegert Nuclear Free Future Award, Guglielmo Cevolin Università di Udine, Duane Champagne UCLA, Naila Clerici Soconas Incomindios, Walker Connor Middlebury College (†), Myrddin ap Dafydd Gwasg Carreg Gwalch, Alain de Benoist Krisis, Zohl dé Ishtar Kapululangu Aboriginal Women's Association, Philip J. Deloria Harvard University, Toyin Falola University of Texas at Austin, Jacques Fusina Università di Corsica Pasquale Paoli, Edward Goldsmith The Ecologist (†), Barbara Glowczewski Collège de France, Ted Robert Gurr Center for International Development and Conflict Management (†), Mahdi Abdul Hadi PASSIA, Debra Harry Indigenous Peoples Council on Biocolonialism, Elina HelanderRenvall University of Lapland, Ruby Hembrom Adivaani, Ursula Hemetek Universität Wien, Alan Heusaff Celtic League (†), Amjad Jaimoukha International Centre for Circassian Studies, Asafa Jalata University of Tennessee, René Kuppe Universität Wien, Robert Lafont Université Paul Valéry (†), Colin Mackerras Griffith University, Luisa Maffi Terralingua, Saleha Mahmood Institute of Muslim Minority Affairs, Jean Malaurie CNRS, David Maybury-Lewis Cultural Survival (†), Matthew McDaniel Akha Heritage Foundation, Antonio Melis Università di Siena (†), Fadila Memisevic Gesellschaft für bedrohte Völker, Garth Nettheim University of New South Wales, Kendal Nezan Institut Kurde, Helena Nyberg Incomindios, Massimo Olmi giornalista (†), Nicholas Ostler Foundation for Endangered Languages, Anna Paini Università di Verona, Alessandro Pelizzon Southern Cross University, Norbert Rouland Universitè d'Aix-Marseille III, Rudolph Rÿser Center for World Indigenous Studies, Ryūichi Sakamoto compositore, Edmond Simeoni Corsica Diaspora (†), Ruedi Suter MediaSpace, Parshuram Tamang Nepal Tamang Ghedung, Colin Tatz Australian Institute of Holocaust and Genocide Studies, Victoria Tauli-Corpuz Tebtebba Foundation, Ned Thomas Literatures Across Frontiers, Inja Trinkuniene Romuva, Fernand de Varennes Murdoch University, Michael van Walt van Praag Kreddha, Joseph Yacoub Université Catholique de Lyon, Antonina Zhelyazkova International Centre for Minority Studies and Intercultural Relations In copertina: Giovane pagana lituana.
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DOSSIER I crimini del colonialismo religioso Antonella Visconti
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Bagliori pagani sul Baltico Alessandro Michelucci
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Missio non grata Inés Elvira Ospina
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Il ritorno di una religiosità antica Intervista a Sunny Moana'Ura Walker
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Lo sciamano dei Carpazi Anthony Gordon
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Dove osano le fate Diego Infante
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Non è mai troppo tardi per tornare a casa Shimtihun Lyngwa
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Lettera ai missionari coloniali Re Leopoldo II
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Bibliografia e filmografia
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INTERVENTI Un secolo di autonomia e di pace Thomas Benedikter
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Non vogliamo scuse, vogliamo giustizia Doug George-Kanentiio
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Per l'indipendenza della Cabilia Intervista a Ferhat Mehenni
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LO SCAFFALE Biblioteca Le altre tessere del mosaico ucraino Nuvole di carta Cineteca Musiche
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L'ultimo tabù Le rivendicazioni dei popoli indigeni sono tante: politiche, linguistiche, religiose, territoriali. Molti governi non sono disposti a soddisfarle, così come la maggior parte delle persone è sorda a queste richieste. Altri, seppure pochi, sono invece sinceramente interessati ai loro problemi e si impegnano in vari modi per risolverli, o almeno per scalfire la coltre di apatia che li avvolge. Ma fra le tante diversità che i popoli indigeni rivendicano ne esiste una che mette a dura prova anche coloro che si dimostrano sensibili alle loro istanze: quella religiosa. Il motivo è semplice. All'insieme delle due religioni più diffuse – cristiana e islamica – appartiene il 56% degli abitanti del pianeta. Il restante 44% è composto da induisti (15%) e da un insieme eterogeneo (29%) che include sikh e zoroastriani, atei ed ebrei, giainisti e seguaci delle varie religioni indigene. Queste ultime, se vogliamo chiamare le cose col loro nome, sono le fedi che l'espansione delle due religioni più diffuse non è (ancora) riuscita a sradicare. Una ha lasciato un segno ben visibile, la lingua araba, ma l'altra può vantare una figura rilevante come il Papa e un proprio stato. La diffusione planetaria di queste due religioni è strettamente legata all'espansione coloniale. In molti paesi le fedi autoctone sono riuscite a sopravvivere grazie a forme originali di sincretismo. In estrema sintesi, hanno rivestito di una forma cristiana (o islamica) la sostanza dei culti originari. Ma la fede che dispone di maggiori mezzi politici e diplomatici, quella cristiana, non si è contentata di questo. Infatti le missioni sono sempre in piena attività, nonostante i continui appelli alla libertà religiosa che vengono da molti ambienti, incluso il variegato mondo cristiano. Certo, le missioni di oggi sono molto diverse da quelle dei secoli scorsi. Ma le ferite profonde dei crimini che queste ultime hanno compiuto restano. Pervasi da un fanatismo cieco che li induceva a cancellare tutto quello che non si conformava alla "vera fede", i missionari hanno distrutto per secoli documenti, templi, oggetti di culto, statue, strumenti musicali. Hanno messo fuorilegge lingue, modi di vestire, di cantare, di mangiare, di concepire i rapporti sessuali, in una parola di essere. Hanno calpestato e scardinato culture antichissime per imporre la propria, riducendo in modo sensibile la diversità culturale e religiosa del pianeta. Per "diffondere la parola di Dio" si sono lasciati alle spalle un cumulo sconfinato di macerie, di dolore, di sangue. Al tempo stesso, però, hanno sempre reclamato per sé quella libertà religiosa che per secoli avevano negato agli altri. Quello che dovrebbe essere considerato un crimine contro la diversità culturale e religiosa viene orgogliosamente rivendicato come "diffusione del cristianesimo" (o dell'Islam). Non è difficile difendere la diversità religiosa quando si tratta di cristiani, islamici o ebrei: in una parola, monoteisti. Seppure in modi diversi, si tratta di religioni che fanno parte della nostra quotidianità, che hanno avuto contatti intensi fra loro, che hanno in comune un presupposto fondamentale: la fede in un solo dio. Molto meno facile, al contrario, è difendere la diversità religiosa quando questa implica una pluralità di dei e/o uno stretto legame con la natura. In Europa, teoricamente, dovrebbe bastare far appello al mondo precristiano, quel mondo che costituisce una parte rilevante dell'educazione scolastica: pensiamo al latino, al greco, alla filosofia. Ma in pratica non è così: per molti il monoteismo è un dogma implicito, marmoreo e indiscutibile, un perimetro al di fuori del quale i diritti religiosi non valgono. Ma se è proprio vero che tutte le religioni hanno il diritto di esistere e manifestarsi liberamente, perché quelle politeiste e/o animiste dovrebbero fare eccezione? Un impegno sincero a favore dei popoli indigeni dovrebbe basarsi sulle loro necessità effettive. Se alcuni di loro, in un modo o nell'altro, hanno accolto religioni estranee e le hanno inserite nelle proprie culture, dobbiamo prenderne atto e rispettare questa scelta. Ma ne esistono anche tanti altri che reclamano il diritto di praticare la propria fede originaria. Anche questi devono essere rispettati e sostenuti. Da molti secoli le loro fedi sono minacciate da coloro che invocano la libertà religiosa non in quanto tale, ma soltanto quando è in pericolo la loro fede. Invece la libertà religiosa è un diritto che deve essere riconosciuto a tutti. Per ora, in linea di massima, non ci risulta che i paladini della libertà religiosa si siano mai preoccupati di quella dei politeisti e degli animisti. Anzi, molti pensano addirittura che averla soffocata sia un titolo di merito. Ma cosa direbbero, cosa penserebbero se una simile tragedia fosse accaduta a loro? Giovanna Marconi
I crimini del colonialismo religioso Antonella Visconti
Tra le altre opere ben gradite alla Maestà Divina e care al nostro cuore, questa è sicuramente la più alta, che nei nostri tempi soprattutto la fede cattolica e la religione cristiana siano esaltate e ovunque aumentate e diffuse, che sia curata la salute delle anime e che le nazioni barbare siano rovesciate e condotte alla fede. Bolla Inter Caetera, Papa Alessandro VI, 4 maggio 1493 In Italia, se si eccettuano rare eccezioni, non è stata ancora compiuta una riflessione critica sullo sradicamento delle culture indigene causato dalla predicazione dei missionari cristiani durante i secoli scorsi. Non solo, ma la maggior parte delle associazioni indigeniste ha individuato nei missionari odierni degli alleati. Questa è un'idea molto discutibile, anche se è innegabile che oggi esistano dei missionari sinceramente votati alla difesa dei popoli indigeni. In ogni caso, un tema così articolato e complesso non può essere analizzato limitando la visuale a una parte della sua manifestazione attuale. L'edificio missionario ha radici storiche molto profonde: sarebbe quindi un errore passarle sotto silenzio e pensare che le missioni odierne fossero radicalmente diverse da quelle dei secoli scorsi. Inoltre la Chiesa cattolica, coerentemente, rivendica una piena continuità fra le missioni di ieri e quelle odierne. Delle prime, al massimo, condanna quelli che reputa errori ed eccessi, ma fa appello a un contesto storico che in qualche modo li avrebbe legittimati. La sostanza dell'azione missionaria non viene soltanto magnificata, com'è ovvio, ma viene presentata come un dono del quale i popoli indigeni sarebbero grati. Se così davvero fosse non si spiegherebbe la tenace resistenza che molti di loro hanno opposto all'evangelizzazione nel corso dei secoli. Pagine di storia che sono state cancellate con un tratto di penna, o al massimo considerate marginali. Evidenziare l'effetto devastante che le missioni hanno svolto negli ultimi cinque secoli nei confronti dei popoli indigeni non significa condannare in blocco tutti gli uomini e le donne che hanno costituito la stuttura missionaria. Si tratta di una storia lunga e complessa, tutt'altro che univoca, all'interno della quale si sono manifestati orientamenti diversi. Proprio per questo, vale la pena ripeterlo, non si può certo negare che esistano e siano esistiti missionari animati da un sincero rispetto per i popoli indigeni. Non solo, ma alcuni si sono votati sinceramente alla difesa delle loro culture. Ma l'impresa missionaria, considerata nella sua essenza più profonda, rimane uno strumento coloniale. Questo termine va ben oltre il significato che gli viene normalmente attribuito, perché si attaglia anche a contesti che prescindono dal colonialismo classico, a patto che concorrano tre presupposti: 1) un soggetto che rivendica la propria superiorità, derivante da certi valori; 2) il dirittodovere di imporli a chi è inferiore perché non li ha per 3) accrescere il potere della struttura – politica, religiosa o culturale - che incarna questi valori. Questi presupposti sono l'asse portante dell'idea missionaria, basata sulla pretesa di imporre la "vera fede" a popoli che devono essere "salvati" con l'annuncio della parola di Cristo. Tale pretesa si fonda a sua volta su quella che Jan Assman definisce distinzione mosaica, nella quale lo studioso tedesco individua la vera radice della religione cristiana. Quello che la distingue dalle altre, secondo lui, non è il monoteismo, che non rappresenta una novità, ma il fatto che questa religione si pone in urto frontale con tutte le altre, politeiste e no, dichiarandosi l'unica fede giusta. Non una fra le tante, come avevano fatto fino ad allora tutte le altre, ma la sola che coincida con una realtà oggettiva incontestabile. Una religione giusta e indiscutibile, in quanto tale, non ha confini – katholikos significa appunto universale – né limiti, perché tutto è lecito se viene fatto nel nome di Dio. Anche uccidere, che pure è vietato da un comandamento: si pensi alle Crociate, all'Inquisizione, alle donne arse vive nei secoli della cosiddet-
ta "caccia alle streghe", al ruolo decisivo che le Chiese cristiane hanno svolto nella pratica ripugnante dei convitti per indigeni, le famigerate scuole nordamericane attive fra il secolo diciannovesimo e ventesimo, delle quali parleremo più avanti. È proprio questa logica intollerante e liberticida che costituisce il fondamento della struttura missionaria. Di conseguenza il rispetto delle culture indigene e l'azione missionaria sono legati da un rapporto di proporzionalità inversa: il primo aumenta tanto più quanto più la seconda si spoglia dei propri contenuti originari.
Ora che lo sanno In passato i seguaci di varie ideologie sono stati costretti a riconoscere apertamente gli effetti devastanti che queste avevano avuto. Il caso più eclatante è quello dei comunisti, costretti ad ammettere il fallimento di una dottrina che doveva realizzare una sorta di Eden terrestre, mentre in realtà perseguitava, torturava e uccideva nei modi più disumani. Niente di simile è accaduto alla grande maggioranza dei cristiani, sebbene sapessero bene che la storia di questa fede è costellata di pagine sanguinose. Dalle Crociate all'Inquisizione, dal sostegno attivo del colonialismo agli spettacoli con gli indigeni in gabbia, tutti i crimini compiuti nel nome di Dio sono stati considerati normali incidenti di percorso che non mettevano in discussione la sostanza. La radice di questo errore non è nella religione cristiana in quanto tale, che come tutte merita il massimo rispetto, ma nell'intepretazione arbitraria che viene fornita dalla Chiesa. Postulando la coincidenza fra il dogma (la fede originaria) e il canone (l'interpretazione) sono state accettate idee del tutto assenti dalla religione vera e propria, come il celibato dei sacerdoti, il rifiuto del divorzio, l'uso della violenza fisica e psicologica per imporre la propria fede. Negli ultimi anni, a conferma di questo, la maggior parte dei cristiani ha manifestato la più olimpica nonchalance quando sono stati ritrovati i cadaveri di molti bambini indigeni che erano morti nei convitti gestiti da religiosi americani durante l'ultimo secolo. Innocenti cristianizzati a forza, costretti a parlare soltanto in inglese, a vestire come gli europei, umiliati, malnutriti, costretti a vivere in condizioni igieniche vergognose. Un tempo, come accadde in Germania dopo la Seconda guerra mondiale, i cristiani avrebbero potuto dire "Non lo sapevamo", ma con le fonti d'informazione che abbiamo oggi non possono farlo. Oggi non possono ignorare questi crimini. Ma ora che li conoscono, cosa fanno? Nulla: la loro unica risposta è il silenzio. Antonella Visconti
Da sinistra: disegno di anonimo; il primo libro che denuncia lo stretto legame fra il colonialismo e le missioni cristiane, pubblicato da William Howitt nel 1838.
Due facce della stessa medaglia La maggior parte degli storici fa riferimento alle cosidette "tre G" (God, gold and glory, Dio, oro e gloria) per indicare gli obiettivi principali del colonialismo: la diffusione del cristianesimo, l'aumento della ricchezza materiale e l'espansione territoriale. In realtà anche altre religioni, in particolare quella islamica, si diffondono grazie alle missioni, ma soltanto quella cristiana sviluppa una struttura capillare che segna profondamente la storia degli ultimi cinque secoli.
Non esiste un caso in cui il colonialismo non si affermi senza il contributo decisivo dei missionari. Neanche la Francia, paese laico per antonomasia, può fare a meno di loro: "L'anticlericalismo non è un articolo da esportazione" dice nel 1885 il deputato socialista Paul Bert. Il 28 luglio dello ste-so anno, durante un dibattito parlamentare, il socialista Jules Ferry afferma testualmente: "Signori, bisogna parlar chiaro! Bisogna dire apertamente che le razze superiori hanno dei doveri precisi nei confronti di quelle inferiori…". Il colonialismo politico e quello religioso, pur non procedendo sempre all'unisono, lavorano come due bracci di una stessa tenaglia per realizzare un'omologazione planetaria. La convinzione che anima i conquistatori è speculare a quella che muove i missionari: come i primi si impadroniscono di terre straniere per sfruttarle e accrescere il proprio potere politico, i secondi aspirano alle anime della gente che le abita per ampliare il potere delle Chiese cristiane. I crimini compiuti dalle missioni per realizzare questo obiettivo sono di evidenza così solare che la stessa Chiesa cattolica li ammette in varie occasioni. La rivista missionaria Ad Gentes dedica un intero numero al tema "I peccati della missione" (XXIII, 2, 2017). Francesco Marini (1940-2016), missionario saveriano, scrive fra l'altro che "Non si tratta quindi solo di colpe di qualcuno, ma comuni; non di qualche momento, ma di secoli di prassi...". Il religioso condanna apertamente il "pre-giudizio anti-religioso che giudicava diabolica ogni religione non cristiana", aggiungendo "che l'evangelizzazione abbia accompagnato la colonizzazione, abbia cercato di sfruttarla e ne sia stata utilizzata, non solo ha rovinato l'annuncio, ma ha costituito pure in pratica una 'giustificazione' del colonialismo stesso agli occhi degli indigeni". Concetti analoghi vengono espressi da Atiliano A. Cebalos Loeza nel fascicolo monografico di Concilium dedicato a "Popoli indigeni e cristianesimi" (LV, 4, 2019). Fra le tanti voci critiche spicca quella dello studioso lazarista Michael Prior, che nel libro The Bible and Colonialism (Sheffield Academic Press, 1997) sottolinea come il mito biblico della terra promessa sia stato utilizzato per legittimare le imprese coloniali europee. L'autore contesta efficacemente questa strumentalizzazione e accusa gli studi biblici convenzionali di aver sempre trascurato questa distorsione del messaggio originario. David M. Paton (1913-1992), missionario anglicano attivo in Cina durante gli anni Quaranta, si spinge ancora oltre: "Le missioni cristiane sono parte integrante dell'aggressione imperialista occidentale, ieri soprattutto britannica e oggi americana, ai danni dell'Asia e dell'Africa" (Christian Mission and the Judgment of God, 1953, p. 35). Nonostante le posizioni fortemente critiche provenienti dagli stessi ambienti ecclesiastici, la grande maggioranze dei cristiani resta legata a stereotipi datati e conserva un'opinione assolutamente positiva delle missioni. Questa visione acritica si basa su nozioni vaghe e unilaterali. Le sue uniche fonti storiche sono quelle fornite dalle missioni stesse e dagli ambienti ecclesiastici ufficiali. Vengono volontariamente ignorate, al contrario, le testimonianze dei popoli indigeni, la loro resistenza, il trauma culturale derivato dall'imposizione di culture e religioni estranee, la devastazione psicologica che in molti casi è sfociata nel suicidio. Come in tutte le credenze dogmatiche – pensiamo al comunismo – la falsificazione della storia è necessaria per continuare a credere quello che si vuole credere, respingendo ogni opinione che potrebbe incrinare questa certezza granitica. Culture cancellate L'affermazione del cristianesimo presuppone lo scardinamento di culture antiche, profondamente estranee alla logica giudeocristiana. A questo scopo i missionari devono compiere un lavoro lungo e complesso che agisca in profondità. Devono rimuovere, o in certi casi trasformare sostanzialmente, tutto il bagaglio che costituisce il fondamento di queste culture: lingue, cerimonie, modi di mangiare, di vestire, di concepire i rapporti familiari e i costumi sessuali. Convinti che le religioni autoctone non siano degne di questo nome, ma soltanto pericolose superstizioni, trovano perfettamente normale reprimerle fino a trasformarle in reati che vengono puniti con sanzioni fisiche. L'intolleranza spietata dei missionari si abbatte come una mannaia anche sulle espressioni musicali dei popoli più diversi. Nel Canada bandisce il canto difonico degli Inuit; nello Zimbabwe (all'epoca Rhodesia) proibisce l'uso della mbira, lo strumento tipico del popolo shona; nelle Hawai'i vieta la hula, danza considerata lasciva e peccaminosa; nella regione scandinava proibisce ai Sami l'uso del tamburo. La ratio di questi divieti è fin troppo evidente: quello che vogliono estirpare è la
loro identità culturale, creando un vuoto che poi sarà colmato dalla nuova religione. In certi casi gli strumenti vengono sequestrati e distrutti. Anche templi, luoghi sacri, statue e altri oggetti di culto vengono abbattuti, spesso col contributo dei popoli stessi, che sono già stati indotti a rinnegare la fede ancestrale. In certi casi i missionari realizzano queste azioni iconoclastiche con un compiacimento sadico: "Quando li ho battezzati tutti ordino a loro di distruggere tutti i templi dei loro falsi dei e di fare a pezzi i loro idoli. Non so descrivere la gioia che provo quando vedo che lo fanno, quando vedo coi miei occhi che gli idoli vengono distrutti proprio dalle stesse persone che fino a poco prima li adoravano" si legge nella lettera che Francesco Saverio, missionario gesuita in India, invia alla Società di Gesù il 27 gennaio 1545. Questa mutilazione culturale produce una grave disintegrazione sociale, perché crea una frattura profonda fra coloro che aderiscono alla nuova religione e coloro che restano fedeli a quella autoctona. L'iconoclastia prosegue regolarmente nei secoli successivi: "O tu maledetto tamburo [sami], strumento di Satana, siano dannati gli dei dipinti su di te. Siano maledetti il tuo martello e ogni tua parte. Sia maledetto chi ti batte e chi si serve di te, chi ti fa battere da un altro, come tutti coloro che ti usano come strumento di divinazione. Ogni suono che nasce da te è e sarà sempre la voce di Satana che viene dall'inferno, là dove sono gli spiriti dei dannati che tormenteranno e tortureranno questi infedeli" scrive Henric Forbus, diacono protestante svedese, ai primi del Settecento. Emerge ancora una volta la logica manichea tipica delle religioni monoteistiche: vero/falso, giusto/sbagliato, cristiano/satanico. Nella cultura sami il tamburo, legato alla figura del noaidi (sciamano), occupa un ruolo centrale. Non a caso il periodo precristiano viene detto "tempo del tamburo", mentre quello successivo all'incontro col cristianesimo viene definito "il tempo in cui si doveva nascondere il tamburo".
Il vanto dei colonialisti Il colonialismo politico e quello religioso cercano di occultare i rispettivi crimini accampando dei meriti. Il primo evidenzia le strade e le altre infrastrutture, come rivendica orgogliosamente Alberto Apozzi in Come l'Italia fascista costruiva le strade in Africa (Eclettica, 2020). Le missioni vantano invece il contributo "allo studio e alla preservazione delle lingue locali", come recita il manifesto a destra. Ma la realtà è diversa: i primi avevano bisogno delle strade per muoversi, i secondi dovevano imparare le lingue per comunicare con i popoli colonizzati. Anthony Gordon Bambini rubati Il legame organico della struttura missionaria con il colonialismo politico non è una realtà storica remota, ma prosegue anche in tempi più recenti, diventando oggetto di dibattito in vari paesi di origine coloniale. Fra questi meritano particolare attenzione l'Australia e il Canada, che proprio negli ultimi anni svolgono ampie inchieste governative sul trattamento delle rispettive minoranze indigene. Il 26 maggio 1997, al Parlamento federale australiano, viene presentato il rapporto della Commissione federale che è stata incaricata di svolgere un'inchiesta sul trasferimento coatto di bambini aborigeni operato in modo sistematico fra gli anni Dieci e gli anni Settanta (le cosiddette stolen generations). Durante questi decenni migliaia di piccoli aborigeni sono stati forzatamente sottratti alle rispettive famiglie e rinchiusi negli orfanotrofi con il proposito di "farne dei bianchi". Praticamente nessuna famiglia è scampata a questa tragedia, alla quale hanno dato un contributo decisivo molti missionari cristiani. Il rapporto, che accusa il governo federale di genocidio, chiede un adeguato risarcimento per le vittime. La tragedia è documentata dai libri di numerosi sopravvissuti, fra i quali spicca Dolores Pilkington Garimara, autrice di Rabbit-Proof Fence (1996). Il film omonimo (2002), diretto da Phillip Noyce, viene tradotto in italiano col titolo La generazione rubata.
Diverso in termini temporali, ma quasi identico nella sostanza, è il trattamento disumano al quale il governo canadese e quello statunitense sottopongono i ragazzi indigeni fra gli anni Sessanta del diciannovesimo secolo e la fine del secolo successivo. A questo lungo etnocidio sono dedicati film come Segreti dal passato (2008) e Indian Horse (2017). Ma mentre in Canada, come in Australia, si svolge una lunga indagine governativa su queste pratiche aberranti, nulla di simile viene fatto negli Stati Uniti. Questa eccezione viene ulteriormente sottolineata dal fatto che anche in Nuova Zelanda è al lavoro una commissione governativa analoga, che terminerà i lavori entro il 30 giugno 2023. Questi e altri casi affini, che spaziano dalla Siberia all'America "latina", dalle regioni scandinave al subcontinente indiano, sono documentati da una quantità imponente di studi accademici e testimonianze dirette dei sopravvissuti. Le missioni sono colpevoli I missionari cristiani – cattolici e protestanti - forniscono un contributo rilevante al genocidio di molti popoli indigeni. Probabilmente la maggior parte di loro lo fa senza volerlo, animata dalle migliori intenzioni, ma la loro complicità nella distruzione di molte culture indigene è incontestabile. O meglio, può essere contestata soltanto se si crede che queste culture siano inferiori e come tali indegne di vivere. In altre parole, se si crede nella superiorità di un tipo umano specifico, l'uomo bianco, europeo e cristiano, e nella simmetrica inferiorità di tutti gli altri. Ma così facendo si cade in una contraddizione evidente, perché un comportamento così aggressivo e ostile contrasta in modo stridente con i valori di uguaglianza e fratellanza connaturati nel messaggio cristiano originario.
Looking unto Jesus (Guardate verso Gesù): queste parole, Look unto Jesus (Guardate verso Cristo): queste parole, eesposte nei convitti per indiani gestiti da religiosi fra l'Otsposte nei convitti per indiani gestiti da sacerdoti cristiani tocento e il Novecento, confermano che molti crimini confra l'Ottocento e il Novecento, confermano che molti crimini tro i popoli indigeni sono stati compiuti nel nome di Dio contro i popoli indigeni sono stati compiuti in nome di Dio. Foto: United Church of Canada Archives.
The Decolonial Atlas Questa collezione di mappe, fondata da Jordan Engel nel 2014, nasce dalla consapevolezza che la cartografia non è così oggettiva come si crede. I confini, le lingue e certe caratteristiche sono condizionati dalle idee del cartografo. La decolonizzazione presuppone un uso corretto della geografia, che include la rivitalizzazione delle lingue indigene attraverso la toponomastica. The Decolonial Atlas è un progetto gestito da volontari che viene offerto gratuitamente. https://decolonialatlas.wordpress.com
Bagliori pagani sul Baltico Alessandro Michelucci
Le religioni politeiste non sono scomparse. In varie parti del mondo sono ancora ben radicate: pensiamo all'India (induismo), al Giappone (scintoismo) e alle numerose religioni indigene che le missioni cristiane non sono riuscite a cancellare. Ma resti e reviviscenze delle fedi precristiane si possono trovare anche in certi paesi eueopei dove i cristiani costituiscono la maggioranza. Un caso particolare, o per meglio dire unico, è quello della Lituania, dove l'80% della popolazione è cattolico. A differenza degli altri paesi europei, che sono stati cristianizzati fra il quarto e il decimo secolo, quelli dell'area baltica furono gli ultimi tre ad abbracciare la nuova religione: prima la Lettonia nel 1215, seguita dall'Estonia (1227) e infine dalla Lituania (1387). Il papa Urbano VI riconobbe la Lituania come stato cattolico il 13 aprile 139. Gli abitanti della Samogizia, la regione nordoccidentale del paese confinante con la Russia, resistettero strenuamente fino al 1413. La lunga fase storica che segnò il passaggio dal politeismo al monoteismo viene descritta da Stephen Christopher Rowell nel libro Lithuania Ascending: A Pagan Empire within East-Central Europe, 1295–1345 (Cambridge University Press, Cambridge 1994). Naturalmente queste conversioni così tardive si sono inserite in un contesto sociale dove la vecchia fede politeista aveva conservato radici profonde. Questo spiega perché l'antico paganesimo baltico è ancora molto vivo, come dimostrano feste e cerimonie pubbliche di vario tipo. Non si tratta di una setta equivoca o di strampalati emuli del mago Otelma, ma di comuni cittadini che praticano culti antichi alla luce del sole, in modo perfettamente legale. Ci sembra più corretto parlare di sensibilità religiosa, piuttosto che di religione in senso stretto, per almeno due motivi: mancano un corpus dogmatico definito e un clero che funga da tramite fra i fedeli e le divinità, come accade invece nelle tre religioni abramitiche. Le origini del movimento risalgono ai primi anni Sessanta, quando un gruppo di studenti dell'Università di Vilnius raccolti attorno a Jonas Trinkunas cominciarono a viaggiare attraverso la Lituania raccogliendo una vasta quantità di materiale documentario sul passato precristiano del paese: danze, favole, canti, rituali, ubicazione dei luoghi di culto. In questo modo Romuva, l'associazione fondata da Trinkunas, dette un contributo determinante alla rinascita dell'identità nazionale, tema particolarmente sentito in un paese che nel 1939 era stato forzatamente annesso all'URSS insieme all'Estonia e alla Lettonia. Il KGB comprese subito che Romuva giocava un ruolo antisovietico e lo dichiarò fuorilegge. Fra gli anni Settanta e il decennio successivo il movimento continuò la propria attività negli Stati Uniti grazie a una parte dei lituani emigrati nella fedeerazione nordamericana. All'inizio degli anni Novanta, con la caduta del comunismo europeo, Romuva ha potuto riprendere liberamente la propria attività. Questo movimento, come quelli analoghi operanti altrove, aderisce a una religione della natura che mette in primo piano i problemi ambientali: questo spiega gli stretti legami con le associazioni ecologiste. Il fatto che l'80% della popolazione lituana sia cattolica non determina intolleranza nei confronti delle religioni minoritarie, anche se il politeismo non gode ancora di un riconoscimento ufficiale. L'attività del movimento non è comunque limitata alla Lituania: Trinkunas è stato uno dei promotori del World Congress of Ethnic Religions, un'organizzazione che riunisce i movimenti pagani di vari paesi europei. Il fondatore di Romuva ha partecipato inoltre al First International Gathering and Conference of Elders of Ancient Traditions and Cultures, che si è tenuto a Mumbai (Bombay) dal 4 al 9 febbraio 2003. I contatti con l'India hanno messo in luce alcune affinità fra il paganesimo lituano e l'induismo, tanto è vero che sono stati organizzati numerosi incontri per approfondire la conoscenza reciproca.
Religione e musica Tutte le religioni, anche se in modi diversi, sono legate alla musica. Dai canti gregoriani a quelli dei sikh, le fedi hanno sempre trovato nella musica un veicolo importante del proprio messaggio spirituale. Lo stesso accade fra i pagani lituani, ma questi, anziché limitare la musica ai luoghi di culto, hanno optato per una strategia moderna che si esprime attraverso i dischi e i concerti. Il gruppo più importante che opera in questo ambito è Kulgrinda, fondato da Jonas Trinkunas nel 1990, lo stesso anno in cui la Lituania ha dichiarato l’indipendenza dall’Unione Sovietica. Il gruppo fa largo uso di sutartinės, gli inni polifonici della tradizione lituana cantati prevalentemente da donne. Trinkunas è morto nel 2014, ma Kulgrinda continua la propria attività sotto la guida della moglie Inja Trinkuniene. Il CD più recente è Giesmės Austėjai (Inni ad Austeja, 2018), dedicato alla dea delle api. La dimensione musicale del paganesimo lituano trova ampio spazio nei numerosi festival musicali che si tengono nel paese, primo fra tutti il Mėnuo Juodaragis, fondato nel 1995. Oltre a queste esistono manifestazioni di più ampio respiro, dedicate al folklore dei tre paesi baltici, che rappresentano un veicolo indiretto della religiosità politeista. Un esempio è il Festival Baltica, un'imponente manifestazione estiva che si svolge ogni anno in uno dei tre paesi baltici.
Jonas Trinkunas, fondatore di Romuva, durante una cerimonia.
La battaglia per il riconoscimento Nel 1992 Romuva decise di registrarsi ufficialmente: secondo la legge lituana, questo è il primo passo per ottenere il riconoscimento dello stato, che comunque arriva soltanto dopo 25 anni, durante i quali l'aspirante deve guadagnare una buona reputazione sociale. Trascorso questo periodo, l'organizzazione ha chiesto il riconoscimento ufficiale, ma il Parlamento l'ha negato. Uno dei più ostili è stato Vytautas Landsbergis, l'uomo che alla fine degli anni Ottanta aveva guidato il mo-
vimento per l'indipendenza dall'Unione Sovietica. Alcuni parlamentari, accecati da un anticomunismo irrazionale, sono arrivati da accusare i pagani di essere agenti del Cremlino. Anche la Chiesa cattolica si è mostrata fermamente contraria al riconoscimento. Ma i responsabili di Romuva non si sono arresi e si sono rivolti alla Corte europea dei diritti umani, che ha emesso una sentenza favorevole nei loro confronti, accusando la Lituania di violare la libertà religiosa. Quindi la battaglia continua.
La repressione del paganesimo lettone Le tre repubbliche baltiche (Estonia, Lettonia e Lituania) vengono invase e annesse dall'Unione Sovietica nel 1940, in seguito al patto Molotov-Von Ribbentrop che la Germania e l'URSS hanno sottoscritto l'anno precedente. La repressione del dissenso non colpisce soltanto la resistenza anticomunista, ma anche i seguaci della religione cristiana, siano questi cattolici o protestanti. Meno visibile, ma altrettanto feroce, è la repressione dei politeisti. Un caso paradigmatico è quello del lettone Ernests Brastiņš (1892–1942), appassionato di archeologia e folklore. Compiuti gli studi all'Accademia d'arte di Pietroburgo dal 1911 al 1915, Brastiņš presta servizio militare nel primo conflitto mondiale e nella guerra con la quale la Lettonia diventa indipendente dalla Russia zarista. Divenuto direttore del Museo della guerra di Riga, studia avidamente la storia e l'etnografia lettone. Nel 1925, insieme a Kārlis Marovskis-Bregžis, scrive il libro Latviešu dievturības atjaunojums (La restaurazione dell'antica religione lettone): nasce così Dievturība, il movimento culturale che propugna il ritorno alla religione precristiana autoctona. Negli anni successivi Brastiņš pubblica altri libri, concentrandosi sulla musica e sugli aspetti dottrinari. Queste idee vengono accolte con entusiasmo da numerosi artisti e intellettuali, fra i quali lo scrittore Juris Kosa (1878-1967), il musicista Jānis Norvilis (1906-1994) e Hilda Vīka (1897–1963), pittrice e scrittrice. L'annessione all'URSS segna l'inizio della repressione. Brastiņš viene arrestato nel 1940 e il suo movimento viene messo fuorilegge. Condannato a otto anni di prigione, viene rinchiuso in un campo di concentramento. Nel 1942, in seguito a un secondo processo, viene condannato a morte e giustiziato. Dievturība comunque non scompare, ma sopravvive in vari paesi (soprattutto Svezia e Stati Uniti) grazie alla diaspora. Dopo la caduta dell'URSS i pagani lettoni possono finalmente agire alla luce del sole. L'importanza di Brastiņš viene riconosciuta pubblicamente: la statua che lo raffigura, realizzata dallo scultore Uldis Sterģis, si trova oggi nel Parco di Knonvald, situato nel centro di Riga. Mai osteggiata dalle autorità statali, l'antica religione lettone dispone anche di un tempio, inaugurato nel 2017 e situato in una piccola isola sul fiume Daugava, a circa 120 km dalla capitale. Giovanna Marconi
La lapide che ricorda i pagani lettoni uccisi dalla dittatura sovietica fra il 1942 e il 1952, situata nel cimitero Rainis di Riga; CD con antichi canti lettoni dedicati ai culti solari.
Missio non grata Inés Elvira Ospina
"Il degrado del selvaggio è così profondo", dicono Luis e Martin Restrepo Mejía, "così radicato e debilitante, che il selvaggio che è stato elevato alla civiltà ha bisogno di essere continuamente sostenuto in essa, e se viene abbandonato ritorna presto, come trascinato dal suo stesso peso, alla barbarie: è un malato in perenne stato di convalescenza". Iglesia Católica, Las misiones católicas en Colombia: labor de los misioneros en el Caquetá y Putumayo, Magdalena y Arauca, informes año 1918- 1919.
"Siamo vittime dei cosiddetti civilizzati, di coloro che ci hanno privato dei nostri diritti": con queste parole, pubblicate il 15 novembre dal quotidiano di Bogotá El Nuevo Tiempo, Juan Bautista Villafaña chiarì quello che lui e il suo popolo pensavano dei coloni che si erano stabiliti nel loro territorio. Villafaña era uno dei sei arhuaco che avevano compiuto un viaggio di tre mesi per raggiungere la capitale colombiana, sperando di parlare col presidente dell'epoca, José Vicente Concha, perché si ponesse fine alle violenze dei coloni. "Non ci piacciono questi civilizzati, perché sono nemici del mostro popolo" disse Villafaña nella stessa intervista pubblicata dal quotidiano. Grazie alle ricerche compiute dal professor Bastien Bosa della Universidad del Rosario è stato possibile conoscere l'intero quadro storico di questa visita, dall'antefatto alle conseguenze che avrebbe avuto fino agli anni Trenta. "Gli Arhuaco presentarono una petizione chiara e dettagliata che fu ascoltata con attenzione. Quindi restarono molto sorpresi quando pochi mesi dopo arrivò un gruppo di missionari cappuccini spagnoli, che peggiorarono ulteriormente la situazione con nuove violenze" dice Bosa, coordinatore del progetto di ricerca. Lo studioso ha lavorato con la comunità arhuaco per oltre dieci anni, una parte dei quali è stata dedicata alla ricostruzione della memoria storica di quanto era avvenuto un secolo fa. Bosa ha vagliato centinaia di documenti, lettere, fotografie e testimonianze relative ai fatti dell'epoca. "Abbiamo cercato tutte le fonti disponibili. Quella lasciata dai Cappuccini è molto dettagliata. Sono andato a Valencia, in Spagna, dove sono raccolti molti dei loro documenti. Anche gli Arhuaco avevano conservato molto materiale prezioso del tempo in cui San Sebastián de Rabago (oggi Nabusímake) era un corregimiento (villaggio) della Prefettura di Valledupar", dice Bosa. Il mosaico della memoria Secondo Bosa, uno degli aspetti principali della ricerca è stata la ricostruzione delle storie familiari. Grazie all'aiuto di un gruppo di studenti è stato possibile documentarle e ricomporre i loro alberi genealogici. "La ricchezza delle storie tramandate per via orale permette un approccio molto interessante al passato. Queste memorie non si riferiscono soltanto alla presenza di coloni o missionari, ma permettono anche di vedere la storia dal punto di vista degli Arhuaco" dice lo studioso. Attraverso questa ricerca, le ragioni del viaggio compiuto dai sei arhuaco nel 1916 sono venute alla luce insieme a ciò che era successo negli anni successivi con l'arrivo dei missionari e l'apertura di un orfanotrofio, dove i bambini arhuaco erano stati rinchiusi con la forza "per essere cristianizzati e civilizzati". La ricerca mostra come questo intervento stimolò una forte coesione della comunità. Nell'udienza con il presidente colombiano Concha gli arhuaco misero in evidenza tre necessità: 1) il recupero dell'autonomia politica, che avevano perduto con la nomina dei coloni a funzionari am-ministrativi locali (corregidores); 2) la cessazione di ogni forma di sfruttamento da parte di persone "civilizzate"; 3) il pieno rispetto delle loro espressioni culturali, alcune delle quali erano state proibite.
La ricerca mostra che le richieste degli indigeni furono accolte almeno sulla carta, dato che il governo locale della Magdalena aveva emanato un decreto in sintonia con le loro richieste. In pratica, però, gli arhuaco subirono abusi ancora più gravi L'Escuela Intercultural de Diplomacia Indígena (EIDI) ha lavorato con la comunità arhuaco della Sierra Nevada de Santa Marta per oltre 10 anni, molti dei quali sono stati dedicati alla ricostruzione della memoria storica di quanto era accaduto un secolo fa. Sono venute alla luce centinaia di storie sul trattamento disumano che era riservato ai bambini. Questi venivano strappati alle famiglie e rinchiusi negli orfanotrofi. Qui gli venivano tagliati i capelli, gli veniva proibito di parlare la loro lingua e venivano cristianizzati a forza". Alcuni cercavano di scappare e percorrevano anche oltre 100 chilometri a piedi, ma venivano ripresi e puniti duramente", continua Bosa.
Ladri di bambini Indifesi più di tutti, i bambini sono stati le prime vittime dell'assimilazione forzata perseguita dai missionari in varie parti del mondo. Dopo un lungo oblio queste tragedie umane sono state raccontate in tempi recenti anche dalla viva voce delle vittime. Dionisia Alfaro aveva quattro anni quando un uomo inviato dalla missione entrò nella sua casa di Nabusimake e la rapì. La bambina fu rinchiusa nell'orfanotrofio gestito dai religiosi. Questa violenza sistematica inasprì i rapporti fra gli Arhuaco e la missione dei Cappuccini, che poi vennero espulsi dagli indigeni nel 1982. Dionisia Alfaro ha raccontato la propria esperienza nel libro Dionisia. Autobiografía de una líder arhuaca (Universidad del Rosario, 2019), curato da Juan Felipe Jaramillo Toro. Questa è la prima autobiografia di una donna indigena colombiana che denuncia le violenze culturali, fisiche e psicologiche imposte dai missionari a un numero imprecisato di bambini. Anthony Gordon Gli orrori della civilizzazione Gli archivi dell'epoca contengono molte lettere che sottolineano i poteri concessi ai cappuccini per svolgere la loro missione e descrivono i modi in cui gli stessi arhuaco assumevano lavoratori, o come la polizia indiana veniva utilizzata per inseguire i bambini. "I colpevoli non sono soltanto i missionari, ma anche la Colombia, che autorizzava i cappuccini a cristianizzare e 'civilizzare' gli Arhuaco", sottolinea Bosa. Allo stesso tempo, gli indigeni venivano sfruttati finanziariamente attraverso tributi esosi che permettevano ai coloni di scambiarsi i crediti acquisiti, somme che generalmente gli Arrhuaco non erano in grado di restituire. L'orfanotrofio della missione cappuccina chiuse i battenti soltanto nel 1982, quando gli Arhuaco presentarono pacificamente una petizione che chiedeva la restituzione delle loro terre. "Il controllo dei cappuccini è durato per 65 anni", conclude Bosa, "e ha segnato profondamente la comunità arhuaco". Ritorno alla casa de Nariño Cento anni dopo, nell'ottobre 2016, una delegazione composta da 100 arhuaco ha ripercorso lo stesso cammino e ha raggiunto il palazzo presidenziale di Bogotà, la Casa de Nariño, per consegnare una lettera al presidente Juan Manuel Santos. In questa missiva si chiedeva di chiarire quello che era accaduto un secolo prima. Inoltre si sottolineava che da allora il popolo indigeno si era impegnato per costruire un percorso di pace. La delegazione ha impiegato solo un'ora per raggiun-gere la capitale con un aereo dell'esercito. Una volta arrivati a Bogotà, gli indigeni hanno raggiunto a piedi la Plaza de Bolívar e hanno rievocato gli eventi del ventesimo secolo in alcuni incontri organizzati dalla Universidad del Rosario, dove tutti i partecipanti hanno proposto varie riflessioni. Alcuni di loro si sono concentrati sulle sofferenze degli Arhuaco, mentre altri hanno esaltato la loro dignità.
Non tolleriamo altre violenze in nome di Cristo L'occupazione pacifica della missione cappuccina da parte della comunità arhuaco rappresenta una grande vittoria delle lotte politiche e culturali indigene. La consegna della struttura missionaria, realizzata col contributo della comunità, e l'abolizione dei suoi programmi non significano nient'altro che il fallimento della politica governativa, che con il concordato perseguiva l'assimilazione, l'evangelizzazione e l'ispanizzazione di una comunità negando la sua cultura. Tutti coloro che si erano installati in una comunità indigena per violentare la sua cultura sono stati costretti a desistere. Il loro comportamento è dettato quasi sempre dal proselitismo e non dalla vera dottrina cristiana. In Colombia i religiosi perseguono i propri interessi settari, l'arricchimento, la divisione delle comunità indigene per assimilarle e cancellarle. La società occidentale ci ha sempre negato il diritto di usare la nostra lingua, le nostre peculiarità politiche, sociali e religiose. Finora le lotte indigene della Colombia si sono concentrate sui diritti territoriali, sociali e culturali. Nella regione del Cauca si è cercato di soffocarle con ogni mezzo. Ma se un popolo si organizza per difendere la propria cultura il colonizzatore stenta a imporre la sua logica predatoria. Perciò le comunità indigene della Colombia sono felici che la comunità arhuaco torni a rivendicare la propria autonomia e la propria diversità culturale. Speriamo che il suo esempio stimoli una contestazione radicale dell'azione devastante dell'Instituto Linguistico de Verano (ILV), dell'Agape e delle altre strutture missionarie.
Il 9 aprile 2021 è stata inaugurata la Casa de la Memoria Indígena, un centro culturale situato a Simunurwa, nel Resguardo Indígena Arhuaco (Colombia nordorientale).
Il ritorno di una religiosità antica Intervista a Sunny Moana’Ura Walker
Negli ultimi tempi numerosi popoli indigeni stanno riscoprendo le proprie credenze originarie, oscurate e dimenticate in seguito alla secolare predicazione missionaria. Questo fenomeno si manifesta anche nel continente più remoto, l'Oceania, dove spicca la figura di Sunny Moana'Ura Walker, attivista polinesiano nato nel 1955 a Rurutu (isole Australi). A lui è dedicato il romanzo biografico Le paien, scritto dalla francotahitiana Ariirau Richard-Vivi e pubblicato nel 2017 dalle edizioni Au vent des iles di Papeete (Tahiti). Il tema centrale del libro di Ariirau è la tua rivendicazione del retaggio politeista polinesiano. Com'è avvenuta questa presa di coscienza? La mia presa di coscienza è stata abbastanza naturale a causa del mio atteggiamento pragmatico nei confronti dei grandi principi che governano tutte le società. Di conseguenza, essendo un protestante convinto, anche se non molto praticante, facevo fatica ad accettare le contraddizioni contenute nella Bibbia, così come gli errori di alcuni capi religiosi. Tutto questo mi ha indotto a osservare criticamente la mia religione, che mi avevano educato a considerare l'unica vera religione con un solo vero Dio. Così ho finito per relativizzare tutti i dogmi, ma senza diventare ateo. Ho cominciato a interessarmi ad altre religioni, come il buddhismo, il taoismo e quelle di altri popoli, e infine tutte le religioni indigene del mondo, comprese quelle dei miei avi polinesiani. Il mio spirito critico mi ha aiutato a superare il famoso "complesso del colonizzato", che in pratica è un complesso d'inferiorità socio-culturale. Tutte queste riflessioni mi hanno portato a considerare ciascuna religione come un fenomeno strettamente legato a un popolo specifico. Il cristianesimo, ad esempio, nato in un contesto spaziotemporale ben definito, dovrebbe restare circoscritto a quell'ambiente culturale e geografico, mentre imporlo ad altri è un atto di colonialismo culturale. Così non ho esitato ad adottare la religione dei miei antenati polinesiani. Come cerchi di diffondere questa sensibilità? Io non voglio diffondere niente, perché il proselitismo mi sembra arrogante e irrispettoso verso altri gruppi umani che hanno già la propria religione. Mi accontento di spiegare cosa significa la mia fede, il suo contenuto e la sua praticabilità nel mondo moderno. Siamo una piccola minoranza, appena una ventina di persone, e non suscitiamo nessuna preoccupazione. Ci accontentiamo di esistere, di praticare la nostra fede e venerare le nostre divinità. Qual è la posizione del movimento indipendentista nei confronti delle tue idee religiose? Il movimento indipendentista polinesiano, guidato dal partito Tavini Huiraatira, è cristiano, quindi non ha nessun interesse per il revival pagano che io propongo. Qual è la tua posizione sui legami tra la Polinesia "francese" e la Francia? La mia posizione rispetto alla Francia non è ufficiale, ma non crea problemi. Siamo costituiti come associazione e ci conformiamo ai principi e alle leggi laiche della repubblica francese. Cosa pensi della crescita dell'islamismo? La crescita dell'Islam mi preoccupa molto, seguo con molta attenzione la sua diffusione nel mondo e in Europa in particolare. Il suo proselitismo è chiaramente settario e spesso violento. Preciso che non faccio una distinzione tra moderati e radicali, perché per entrambi i riferimenti sono gli stessi, ispirati dal Corano. Negli stessi paesi islamici i crimini commessi in nome di Allah sono molto numerosi.
Pensi che le religioni indigene stiano crescendo o no? Penso che in certi paesi il ritorno alle credenze indigene sia un fenomeno ormai piuttosto visibile. Piccoli gruppi si stanno organizzando in Grecia, Islanda, Regno Unito e altrove, senza dimenticare quelli che non hanno mai lasciato la propria fede ancestrale, come in alcuni paesi asiatici o in Russia, che sono essenzialmente animisti nella loro pratica e non sentono il bisogno di fare proseliti. La loro priorità non è quella di costruire una forza di massa, ma di conformarsi alle leggi della natura Qual è la tua opinione sul ruolo che i missionari hanno svolto nei secoli passati? Sebbene la loro azione abbia avuto anche effetti positivi, i missionari dei secoli passati venivano dalle potenze coloniali, per cui il loro scopo era duplice: conquistare terre e schiavizzare popoli dopo averli acculturati (cioè convertiti). Questa sembra essere la volontà delle potenze islamiche di oggi, che stanno usando i classici sistemi dei monoteismi abramitici. Così facendo contribuiscono alla graduale scomparsa delle culture e delle diversità etniche che costituiscono la ricchezza dell'umanità.
UN'ALTRA IDEA DELL'OCEANIA Fondate nel 1990 a Tahiti dal giornalista Christian Robert, le edizioni Au vent des îles pubblicano narrativa e saggistica sull'Oceania, scritta in prevalenza da autori locali. Locali si fa per dire: pur essendo il continente più piccolo, questo si estende per oltre 8 milioni di Kmq e l'area occupata dalle sue 25000 isole supera quella di qualsiasi altro continente. Una regione vasta e remota, poco conosciuta e gravata dagli stereotipi che la dipingono come un paradiso terrestre. Gli autori pubblicati dalla casa editrice, saldamente legati alle rispettive isole ma plasmati da una storia comune, condividono un'ambizione semplice ma determinante: far conoscere il vero volto dell'Oceania. Per molto tempo i viaggiatori europei furono gli unici a dare la loro versione delle isole e dei mari del Pacifico. Ma negli anni '70, in un contesto di emancipazione e rinnovamento culturale, è emersa una generazione di autori locali. La loro letteratura dà nuova vita a un'altra versione della storia e della vita dell'Oceania. Intrise di oralità e di riferimenti culturali e storici locali, queste letterature sono ricche e varie, ma sempre accessibili a un vasto pubblico.
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Lo sciamano dei Carpazi Anthony Gordon
Nella regione carpatica situata al confine fra Ucraina e Romania, a circa 600 km da Kyiv, vivono gli Hutsuli, una piccola comunità di circa 60.000 persone. In zone contigue si trovano altre due comunità, i Boyko, 400.000 persone divise fra Polonia e Ucraina, e i Lemko, 80.000 stanziate in questi due paesi e nella vicina Slovacchia. Le loro culture le differenziano nettamente dalla maggioranza ucraina. Gli Hutsuli, in particolare, meritano particolare attenzione perché il loro cristianesimo ortodosso conserva tratti precristiani ben visibili, come lo sciamanesimo, che si manifesta nella figura del molfar. Fra gli ultimi esponenti di questa antica disciplina, che purtroppo va scomparendo, spicca Mykhailo Nechay (1930-2011). Per lungo tempo noto soltanto a livello locale, Nechay divenne famoso nei primi anni Sessanta, quando il regista armeno Sergei Parajanov richiese la sua consulenza per il film Tini zabutykh predkiv (Shadows of Forgotten Ancestors, 1965), tratto dal romanzo omonimo di Mykhailo Kotsiubynsky (Le ombre degli avi dimenticati, Apice Libri, 2014), pubblicato originariamente nel 1912. Al film, ambientato in una comunità hutsul, collaborò anche il celebre compositore ucraino Mykhailo Storyk (1930-2020), che scrisse la colonna sonora. Negli anni successivi all'uscita del film Nechay e la cultura sciamanica della regione carpatica ricevettero un'attenzione crescente. Al tempo stesso, però, lo sciamano hutsul suscitò la fiera ostilità di alcuni cristiani estranei alla sua comunità. Tanto è vero che l'11 luglio 2011 è stato ucciso da uno di loro. Ma lo sciamanesimo dell'area carpatica è rimasto oggetto di interesse. Vlad Sokhin e Caitlyn Cook hanno ideato The Book of Molfars, un ambizioso progetto multimediale (fotografia, video e testo) che esplora il mondo dei molfar odierni. La studiosa ucraina Olena Berezovska Picciocchi, che insegna in Corsica, ha pubblicato il libro Mazzeru corse et molfar des Carpates: Antiques personnages des légendes européennes (Riveneuve, 2020), dove analizza le notevoli affinità fra lo sciamanesimo corso e quello dell'area in questione. Questo studio autorevole e stimolante riafferma la vitalità delle culture precristiane europee, che due millenni di cristianesimo non sono ancora riusciti a sradicare definitivamente.
Da sinistra: Il romanzo Le ombre degli avi dimenticati; Mykhailo Nechay; Tajemnica karpackiego molfara (Il segreto del molfar dei Carpazi, 2016), versione polacca del terzo e ultimo volume di Daogopak, la prima graphic novel ucraina.
Dove osano le fate Diego Infante
Mentre l'UNESCO concede l'iscrizione nella lista del patrimonio mondiale a siti che non sono in reale pericolo, in tre remote valli dell'Hindu Kush situate nel distretto di Chitral (Pakistan settentrionale) la millenaria cultura politeistica dei Kalash si trova in una condizione sempre più precaria. I kafiri (infedeli per gli islamici) rappresentano l'ultimo baluardo del politeismo indoeuropeo nel panorama monolitico del monoteismo trionfante, a eccezione dell'India, dove pure si riscontrano tendenze monistiche o addirittura monoteistiche, sebbene di natura completamente diversa da quelle di nostra conoscenza. I Kalash, che oggi sono soltanto 4000, appartengono linguisticamente alla famiglia indoeuropea, essendo la lingua kalash parte del gruppo dardico. Assai simili agli europei, spesso con occhi azzurri e capelli biondi, i Kalash vivono da sempre pressoché isolati nel profondo delle valli, conservando la propria specificità in un ambiente di serena e nobile bellezza. La loro cultura si esprime in una serie di costumi, usanze e rituali che presentano suggestive affinità con le pratiche descritte nei Veda, il grande corpo di testi religiosi in sanscrito che costituiscono le più antiche scritture dell'induismo. Rispetto a questi, però, i loro rituali non includono certi culti, come quello del fuoco e quello della vacca. Prive di fondamento, invece, si sono rivelate le tesi di una discendenza dalla spedizione di Alessandro Magno del IV secolo a.C.: questo eurocentrismo è stato sconfessato dalle analisi genetiche, che sembrano convalidare la tesi della migrazione ariana dal nord. Quello delle valli kalash è un piccolo scrigno, un prezioso microcosmo che serba al suo interno le coordinate del macrocosmo universale. La sua leggerezza si dispiega in un linguaggio architettonico di graziose abitazioni lignee. Le frugali dimore, dal tetto piatto che ne consente la sovrapposizione e il terrazzamento sulle rupi scoscese, si raggruppano in piccoli villaggi facendo tesoro dell'elasticità di antiche travi, utili ad assecondare le onde d'urto dei terremoti. Anche qui troviamo un riferimento vedico: il terremoto è indresti, "impulso di Indra". Da questo sereno scenario di rigogliosi alberi da frutto, campi dissodati, vigne e foreste secolari di cedri i Kalash traggono tutto il necessario, ma anche la materia prima per un vino che stimola una gestualità antica, più unico che raro in un Pakistan che per precetto divino deve astenersi dal "nettare degli dei". Stando alle suggestioni vediche si tratterebbe proprio del soma celebrato negli inni vedici. In ogni villaggio le donne dispongono di particolari camere, dette bashali, dove rimangono "confinate" durante il periodo mestruale e nel corso della gravidanza. In questi ambienti si può osservare l'effigie scolpita di Dezalik, caratterizzata da riproduzioni della vulva: questa divinità femminile, venerata soltanto dalle donne, presiede alle nascite. Secondo la concezione di purezza rituale, sussiste una netta demarcazione tra il puro e l'impuro, motivo per cui la stessa levatrice deve ristabilire la propria purezza con un lavaggio integrale. Qui è evidente l'influsso induista. Il rapporto uomo-donna, pur in quella differenziazione delle mansioni propria delle economie semplici, è sostanzialmente paritario, con le donne che restano piene artefici del proprio destino potendo scegliere di divorziare in piena libertà. Il sacro permea tutti gli aspetti della vita. Innanzitutto trova espressione in elaborate credenze spirituali che mostrano ancora una volta sorprendenti analogie con quelle dei Veda, così da configurare l'ultimo esempio di religiosità politeistica indoeuropea sopravvissuta a uno stadio primigenio. Tracce di queste analogie sono presenti nella figura di Dezau, il creatore, dio supremo del Cielo corrispondente al Dyaus Pitar della religione vedica e allo Zeus della tradizione greca, cui tuttavia non sono dedicati specifici luoghi di culto. Figura molto importante è Indr, stessa divinità del pantheon vedico (come nei Veda il nome del-
l'arcobaleno deriva da quello di Indra). In tempi più recenti assume la forma e il nome di Balumain. Gli è attribuito un potere fecondativo; il cavallo è il suo simbolo. È uno degli dei più importanti, al quale sono dedicate complesse cerimonie di culto. In suo onore si svolge l'ecatombe di caproni durante i festeggiamenti del Chaumos, che hanno luogo in occasione del solstizio d'inverno, momento in cui egli è solito visitare le valli. La visita temporanea degli dei è una costante nel rituale kalash; lo stesso accade in quello vedico e nella Puja, l'atto di adorazione dell'induismo. Di importanza minore sono Suchi (le fate), spiriti della natura che vivono in località montane inaccessibili, Bhut (i demoni) e Wawa (gli spiriti degli antenati). Nel 2004 è morto l'ultimo sciamano, il dehar, tradizionale tramite col mondo degli dèi e con quello dei defunti. Le festività, accompagnate da balli e canti di gruppo, sono legate ai cicli della natura. In particolare, il suddetto Chaumos e Joshi, festa della primavera che si tiene in maggio. Forma d'arte peculiare dei Kalash sono le grandi statue in legno (gandao) che perpetuano la memoria dei defunti. Un'altra caratteristica rilevante è il rituale scambio di insulti, spesso a carattere sessuale, che intercorre tra promesse spose appartenenti a villaggi "rivali". Il duello verbale può anche contrapporre gli uomini alle donne, che si fronteggiano allo stesso modo con canzoni e battute caustiche. Questo ha una funzione purificatrice e stempera la conflittualità interpersonale. I Kalash sono considerati dai pachistani kafir, infedeli, e le terre che abitano Kafiristan. Fino alla fine dell'Ottocento esisteva un'altra popolazione politeistica nell'Hindu Kush, in territorio afghano, affine ai quella Kalash. Il proselitismo zelante dei musulmani ne causò la scomparsa: gli abitanti furono brutalmente costretti ad aderire alla nuova religione e il loro territorio venne ribattezzato Nuristan, "paese della luce". Nonostante questo, si può dire che per i Kalash il peggio sia alle spalle. Ma è proprio il loro scarso numero, determinato dalla violenta pressione esercitata in passato, a disegnare un futuro incerto, insieme alla costante minaccia del proselitismo islamico. Se è vero che abbracciare la fede musulmana determina l'espulsione dalla comunità – il che segna una netta linea di demarcazione piuttosto netta tra kalash e kalash convertiti – il Pakistan, dal canto suo, pur applicando una modesta legislazione sulla tutela delle minoranze, non può certo competere con altri Paesi (si ricordi la legge sulla blasfemia che prevede in casi estremi la pena capitale). Secondo Alice Albinia, autrice di Empires of the Indus: The Story of a River (John Murray, 2008), le cause principali delle conversioni sono due: da una parte "l'allettante promessa di una sistemazione a cinque stelle in paradiso", dall'altra la diffusione nel resto del Pakistan di una particolare fama "delle signore kalash libere e disinvolte". Il risultato è che "in estate i loro villaggi sono assediati da turisti punjabi affamati di sesso, smaniosi di occhieggiare lascivamente le donne che girano a capo scoperto". L'Islam diventa quindi un porto sicuro per i maschi gelosi e possessivi. Sarebbe auspicabile un intervento dell'UNESCO, sia per tutelare la cultura kalash che per farla conoscere al resto del mondo. Questo è uno dei rari casi in cui un turismo ecocompatibile e rispettoso può essere utile; i Kalash, dal canto loro, potrebbero prendere maggiore coscienza della propria identità e battersi per la salvaguardia di un patrimonio culturale altrimenti destinato all'assimilazione e all'annientamento. È vero che le identità in senso rigido non esistono, essendo il frutto di condizionamenti eterogenei, ma in questo caso lo scarto assume la dimensione dell'abisso.
La minaccia islamica Pur essendo poche migliaia di persone isolate e pacifiche, i Kalash sono periodicamente minacciati dal proselitismo islamico. Negli ultimi anni circa 100 di loro si sono convertiti. Nell'agosto del 2012 un gruppo di musulmani ha fatto irruzione nella valle di Bumburet, ha ucciso un pastore kalash e ha portato via le sue capre. Nel 2016 Reena, una ragazza di 14 anni, si è convertita all'Islam e ha scelto di vivere con una famiglia musulmana, ma poi è tornata dai suoi genitori e ha rivelato che era stata costretta a convertirsi. Il contrasto fra le due famiglie è stato risolto in tribunale, dove la ragazza ha detto che aveva adottato la religione islamica spontaneamente. Certi kalash, soprattutto fra le donne giovani, sono costretti a nascondere la propria identità culturale per non incorrere nelle violenze dei musulmani. Il governo pakistano non perseguita questa piccola minoranza politeista, ma non le garantisce nessuna tutela. Giovanna Marconi
Non è mai troppo tardi per tornare a casa Shimtihun Lyngwa
In India ci sono numerose associazioni che stimolano la conversione o la riconversione all'induismo, come il Rashtriya Swayamsevak Sangh (RSS), ma non sono state queste a influenzarmi. Ho deciso di abbandonare il cristianesimo per tornare alla religione autoctona del popolo khasi non perché qualcuno aveva cercato di convincermi o perché era successo qualcosa che mi aveva indotto a cambiare idea. L'ho fatto perché ho capito che quella non era la mia casa. Due anni fa mi pareva assolutamente impensabile abbandonare la fede cristiana, ma oggi no. La mia decisione è stata accolta da reazioni contrastanti. L'idea di parlarne con qualcuno mi terrorizzava, perché temevo che la mia scelta avrebbe potuto guastare i rapporti con gli amici e con i parenti. Per molti cristiani, infatti, coloro che lasciano questa religione sono oggetto di un forte ostracismo, come se non fossero più brave persone o se fossero indegne della loro amicizia. Ho conosciuto molti khasi cristiani che definivano "non credenti" coloro che seguivano la fede autoctona e parlavano di loro con ostilità, come se la presenza di questi "non credenti" tra-sformasse la nostra comunità in un luogo sporco, privo di religione e pieno di depravazione. "Siamo khasi, ma non facciamo parte della comunità khasi" è una frase a effetto che ho sentito spesso, e pur apprezzando coloro che hanno inserito certi valori cristiani nella propria condotta non volevo che la gente pensasse a me come "uno della comunità khasi" quando pensavano che questa fosse priva di valori religiosi. Avevo molta paura di dirlo alla gente. Quello che ho capito, però, è che certe persone si erano allontanate a causa delle mie opinioni religiose, e che non volevo avere rapporti con loro. Volevo essere amico di persone che mi amassero indipendentemente dal mio credo religioso. E sono molto felice di avere ancora amici cristiani: le nostre credenze sono molto diverse, ma questo non ha inciso sui nostri rapporti. Altre persone, invece, hanno scelto di allontanarsi da me, o mi hanno detto che li avevo delusi, o mi hanno addirittura chiamato ipocrita, mentre altri ancora mi hanno detto che andrò all'inferno, o hanno cercato di "riconvertirmi". Molti dei cristiani che conosco si sono serviti della Bibbia per giustificare la schiavitù. Non so come interpretare le storie bibliche dove Dio ordina alla gente di commettere dei genocidi, distrugge interi popoli e cancella intere culture, dove causa un diluvio che sommerge il mondo risparmiando soltanto una famiglia e un gruppo di animali. Ma anche andando avanti veloce fino a oggi, molti dei cristiani che ho incontrato hanno preso dalla Bibbia soltanto quello che legittimava il loro comportamento. In questo Stato le varie confessioni cristiane usano due pesi e due misure, e per questo le chiese non sono aperte a tutti. Un giorno, mentre parlavamo dell'aborto, alcune persone mi hanno detto che se una ragazza viene violentata deve tenere il bambino. So che queste idee riflettono l'aspetto fondamentalista del cristianesimo, ma si trattava di persone che conoscevo bene e non avrei mai pensato che potessero dimostrare una simile intolleranza. La mia morale mi vieta di seguire una religione che giustifichi questo odio. So che molti cristiani fanno del bene e aiutano le persone svantaggiate e oppresse, ma vorrei che fossero più critici nei confronti delle ingiustizie legittimate dalla Bibbia. Quindi forse dovrei essere io a promuovere un simile dibattito, ma ormai ho capito che questo odio è profondamente radicato nella cultura cristiana di questo Stato. Molte confessioni alimentano la divisione: i fedeli sono talmente convinti che la loro interpretazione della Bibbia sia quella giusta che rifiutano di dialogare e cercare di capirsi. E io, nonostante tutto, non posso oppormi a una convinzione così forte: per loro è la dottrina della Chiesa, indiscutibile e immutabile. Ma perché ho deciso di tornare a casa, di abbracciare nuovamente la mia fede originaria? Mi sono ricordato di quando fui "mosso da una presenza travolgente" mentre salivo a Lum Sohpetbneng (monte sacro della religione khasi, ndt), dove tutto sembrava così diverso e sen-
tivo una sacralità che permeava tutto. Ho sentito quella presenza sacra ogni volta che sono stato lì e non posso dimenticare quella sensazione. Ma credo di non essere l'unico. Ci sono molti cristiani khasi che non hanno avuto la possibilità di fare una scelta. Molti pensano che se non sono più cristiano io non creda più in Dio, ma invece io ci credo e voglio ancora dialogare con i miei fratelli. La diversità religiosa non deve stimolare lo scontro, ma deve darci l'opportunità di imparare gli uni dagli altri. Come ho imparato tanto tempo fa, è difficile, ma anche così bello poter sbagliare ed essere disposti ad imparare gli uni dagli altri, e, come quell'oratore che ha parlato a Lum Sohpetbneng, avere il coraggio di tenere la propria fede e le proprie idee in una mano aperta e vedere veramente di cosa sono fatte. Una volta il Mahatma Gandhi chiese a dei missionari cristiani: "Se pensate che la conversione al cristianesimo sia la sola via della salvezza, perché non cominciate da me o da Mahadev Desai (segretario personale di Gandhi, ndt)? Perché insistete sulla conversione dei poveri, degli analfabeti, degli indigeni? Queste persone non possono distinguere tra Gesù e Maometto e non sono in grado di capire le vostre prediche. Sono muti e semplici, come le mucche. Questi semplici, poveri, Dalit (intoccabili, ndt) e abitanti delle foreste che si convertono non lo fanno per Gesù ma per il riso e il loro stomaco". Queste parole del Padre della Nazione hanno costretto molti cristiani a riflettere. Se avessimo fatto una domanda simile ai missionari cristiani che vennero sulle colline khasi all'inizio del diciannovesimo avremmo potuto evitare questa conversione religiosa di massa. Ma non è mai troppo tardi per tornare a casa. Io l'ho fatto; dovreste farlo anche voi.
Khasi e gallesi, fratelli per sempre In certe occasioni i missionari cristiani hanno rifiutato di schierarsi con i colonialisti e hanno difeso i popoli che questi volevano soggiogare. Un caso esemplare è quello dei metodisti gallesi che nel 1841 si stabilirono nel Meghalaya (India nordorientale) per convertire il popolo khasi. Ma erano missionari diversi dagli altri, perché anche loro appartenevano a una minoranza discriminata. Infatti il governo britannico contrastava in ogni modo l'uso del gallese, arrivando a punire i ragazzi che lo parlavano a scuola. Questa affinità creò un legame speciale fra missionari e indigeni, che trovarono nella musica un ulteriore punto di contatto. Il cantautore gallese Gareth Bonello, meglio noto come The Gentle Good, ha compiuto una lunga ricerca su questi legami musicali, ma non si è limitato a questo, perché li ha rivitalizzati e ne ha creati di nuovi. Il documento di questo lavoro è il CD Sai-thain ki Sur (vedi recensione a pagina 39), che Bonello ha inciso insieme a nove musicisti khasi e alla moglie Jennifer Gallichan. Il profondo legame fra i due popoli era già stato evidenziato nel libro Gwalia in Khasia (Gomer, 1995), dove lo scrittore Nigel Jenkins (1949-2014) aveva ricostruito la storia della missione. Figura centrale della cultura gallese, Jenkins è stato uno dei curatori della Welsh Academy Encyclopaedia of Wales (University of Wales Press, 2008).
Lettera ai missionari coloniali Re Leopoldo II del Belgio
Il cosiddetto Stato libero del Congo (2.365.000 kmq), colonia belga dal 1885 al 1908, era di fatto una proprietà privata del re Leopoldo II. Anche in quel caso i missionari cattolici fornirono un aiuto indiretto ma prezioso ai colonialisti. Quello che segue è il testo della lettera che il re scrisse ai religiosi nel 1883 per chiarire i termini della loro collaborazione. Reverendi, Padri e cari compatrioti, Il compito che ci attende è molto difficile e richiede grande sensibilità. Naturalmente il vostro lavoro sarà quello di evangelizzare, ma la vostra evangelizzazione dovrà promuovere soprattutto gli interessi del Belgio. La vostra missione in Congo non dovrà insegnare ai negri l'esistenza di Dio, perché lo conoscono già. Essi parlano e si sottomettono a Mungu, Nzambi, Nza-komba e altre divinità delle quali ignoro il nome. Sanno che uccidere, giacere con la moglie altrui, mentire e recare offesa è peccato. Abbiate il coraggio di ammetterlo: non insegnerete loro quello che conoscono già. Il vostro compito è quello di agevolare il compito dei funzionari e degli industriali, in altre parole di interpretare il Vangelo nel modo che reputerete migliore per proteggere i nostri interessi in quella parte del mondo. A questo scopo dovete vigilare affinché i nostri selvaggi ignorino la ricchezza che c'è in abbondanza nel loro sottosuolo. Se invece capiranno quanto sia preziosa cercheranno di esautorarvi. La vostra conoscenza del Vangelo vi consentirà di trovare le parole adatte per incitare i vostri seguaci ad amare la povertà, come "Beati i poveri perché di loro è il regno dei cieli" ed "È molto difficile per i ricchi entrare nel regno di Dio". Dovete distaccarvi da loro e far sì che disprezzino tutto ciò che potrebbe renderli piú forti contro di noi. Mi riferisco alle loro credenze e al loro feticcio bellico - la guerra - che fingono di non voler abbandonare, e voi dovete fare tutto ciò che è in vostro potere per renderlo inoffensivo. La vostra azione sarà rivolta essenzialmente ai più giovani, perché questi non si ribelleranno quando la predicazione del sacerdote sarà in contrasto con gli insegnamenti dei loro genitori. I bambini devono imparare a obbedire a ciò che dice il missionario, che è il padre della loro anima. Dovete insistere in modo particolare sulla loro totale sottomissione e obbedienza, evitare di sviluppare lo spirito critico nelle scuole, insegnare agli studenti a leggere e non a ragionare. Questi, cari patrioti, sono alcuni dei principi che dovete applicare. Troverete molti altri libri, che vi saranno dati alla fine di questa conferenza. Evangelizzate i negri in modo che rimangano per sempre sottomessi ai colonialisti bianchi, in modo che non si ribellino mai alle imposizioni che subiscono. Recitate ogni giorno: "Felici coloro che piangono perché il regno di Dio è per loro". Convertite sempre i negri usando la frusta. Tenete le loro donne sottomesse perché possano lavorare per noi. Costringeteli a darvi quello che hanno - capre, polli o uova - ogni volta che visitate i loro villaggi. E fate in modo che i negri non diventino mai ricchi. Cantate ogni giorno che è impossibile per i ricchi entrare in paradiso. Fate in modo che paghino le tasse ogni settimana durante la messa domenicale. Usate i soldi che dovrebbero essere destinati ai poveri per costruire fiorenti attività commerciali. Istituite un sistema confessionale che vi permetta di spiarli e denunciare qualsiasi negro che abbia idee diverse da quelle di chi comanda. Costringeteli a dimenticare i loro eroi e ad adorare soltanto i nostri. Non regalate mai una sedia a un negro che viene a trovarvi. Non dategli mai più di una sigaretta. Non invitatelo mai a cena, neanche se vi offre un pollo ogni volta che entrate nella sua casa.
Ieri nemici, oggi fratelli A partire dagli anni Sessanta del secolo scorso una serie di eventi sociali e politici – primo fra tutti la fine del colonialismo classico – ha costretto le missioni a modificare radicalmente il proprio atteggiamento nei confronti dei popoli indigeni. Quelli che erano "selvaggi" da convertire con la forza sono diventati "fratelli" da trattare con modi fraterni, anche se ovviamente l'obiettivo della conversione è rimasto invariato. Al tempo stesso hanno assunto un forte rilievo gli indigeni cristianizzati che avevano scelto l'impegno ecclesiastico, riducendo la frattura sociale fra i convertiti e coloro che erano rimasti fedeli alla religione autoctona. Codificato da varie encicliche papali, questo nuovo indirizzo ha determinato forti contrasti con governi che prima erano alleati in quanto strettamente legati alla logica colonialista. In certi paesi, come il Brasile, i missionari non hanno esitato a schierarsi dalla parte dei popoli indigeni, soprattutto per quanto riguarda il rispetto dei loro diritti territoriali. Con una magistrale inversione di rotta, le Chiese cristiane hanno messo sotto accusa il colonialismo politico, separandolo nettamente da quello religioso: "Migliaia di popoli indigeni sono stati sterminati in questi cinque secoli dall'arrivo degli europei in quella regione: è stato uno dei genocidi più grandi, ma di questo si parla poco. I conquistadores hanno ucciso e portato malattie in una popolazione che non aveva gli anticorpi" ha detto Carlo Zacquini, missionario in Amazzonia (La Stampa, 11 novembre 2019). Come se anche i missionari non fossero stati europei e non avessero anche loro diffuso malattie mortali. Il documento finale del Sinodo Pan-Amazzonico (Roma, 6-27 ottobre 2019) ribadisce questa esemplare quadratura del cerchio: da una parte afferma che "L'evangelizzazione in America Latina è stato un dono della Provvidenza che chiama tutti alla salvezza in Cristo", ma subito dopo aggiunge che "Nonostante la colonizzazione militare, politica e culturale, e al di là dell'avidità e dell'ambizione dei colonizzatori, ci sono stati molti missionari che hanno dato la loro vita per trasmettere il Vangelo". Alessandro Michelucci
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Bibliografia I crimini del colonialismo religioso AA. VV., "I peccati della missione", Ad Gentes, XVII, 2, 2013. Calpini R., Colonialismo missionario, Aracne, Roma 2014. Lewis N., The Missionaries. God against the Indians, Secker & Warburg, London 1988. Pirotte J., Résistances à l'évangélisation. Interprétations historiques et enjeux théologiques, Karthala, Paris 2004. Prudhomme C., Missioni cristiane e colonialismo, Jaca Book, Milano 2007. Bagliori pagani sul Baltico Gouguenheim S., Les derniers païens. Les Baltes face aux chrétiens (XIIIe-XVIIIe siècle), Passés Composés, Paris 2022. Rowell S. C., Lithuania Ascending: A Pagan Empire within East-Central Europe, 1295-1345, Cambridge University Press, Cambridge 1994. Missio non grata Ariza Arias K. J., Estrategias de lucha contra el despojo. Interlocución entre el pueblo arhuaco y el Estado colombiano entre 1916 y 1972, Universidad del Rosario, Bogotá 2020. Ortíz Rodríguez J., Díaz N. (a cura di), "No digan que nadie les dijo nada". Diálogos, The Elders Project, Medellin 2017. Il ritorno di una religiosità antica Aria M., Cercando nel vuoto. La memoria perduta e ritrovata in Polinesia francese, Pacini, Pisa 2007. Ariirau, Le païen, Au vent des îles, Papeete 2017. Lo sciamano dei Carpazi Amato A. J., The Carpathians, the Hutsuls, and Ukraine: An Environmental History, Lexington Books, Lanham (MD) 2020. Kocjubins'kyj M., Le ombre degli avi dimenticati, Apice Libri, Sesto Fiorentino (Firenze) 2014 [romanzo]. Dove osano le fate Cacopardo A. S., Natale pagano. Feste d'inverno nello Hindu Kush, Sellerio, Palermo 2010. Lièvre V., (a cura di), Loude J.-Y., Nègre H., Le chamanisme des Kalash du Pakistan. Des montagnards polythéistes face à l'Islam, Presses Universitaires de Lyon, Lyon 2018. Non è mai tardi per tornare a casa May A. J., Welsh Missionaries and British Imperialism: The Empire of Clouds in North-East India, Manchester University Press, Manchester 2012. Syiemlieh D. R., Layers of History: Essays on the Khasi Jaintias, Regency Publications, New Delhi 2020. Lettera ai missionari coloniali Doyle A. C., Il crimine del Congo, Bordeaux, Roma 2020. Hochschild A., Gli spettri del Congo, Rizzoli, Torino 2001.
Filmografia La otra conquista, regia di Salvador Carrasco, Messico-Stati Uniti, 1999. La generazione rubata (tit. or. Rabbit-Proof Fence), regia di Phillip Noyce, Australia, 2002. Prisoners of a White God (tit. or. Zajatci Bílého Boha), regia di Steve Lichtag, Repubblica Ceca, 2008. Semme, regia di Ernestas Samsonas, Lituania, 2014. Indian Horse, regia di Stephen S. Campanelli, Canada, 2017.
Un secolo di autonomia e di pace Thomas Benedikter
L'autonomia delle Åland, come quella di molte altre regioni europee, ha le sue origini in un mutamento territoriale derivato dalla guerra. L'arcipelago, abitato da svedesi fino dal Medioevo, aveva fatto parte del Regno di Svezia dal 1362 al 1809, insieme al resto della Finlandia. Nel 1809, dopo le guerre napoleoniche, la Svezia dovette cedere l'intero territorio finnico all'impero zarista. Sotto il dominio russo le isole divennero un avamposto della difesa nazionale. Gli abitanti delle isole Åland erano una piccola minoranza svedese nel Granducato di Finlandia, che godeva di una certa autonomia. La lingua ufficiale dell'intera Finlandia era ancora lo svedese. Fu soltanto a metà del diciannovesimo secolo che il finlandese guadagnò uno status paritario all'interno del Granducato. La Finlandia divenne indipendente il 6 dicembre 1917. Gli isolani cercarono di riunirsi alla Svezia, ma il contesto politico giocava a loro sfavore: nel paese infuriava la guerra civile e il nuovo stato non voleva rinunciare all'arcipelago. Alla fine dell'anno gli Ålandesi fecero un referendum informale: il 95% votò per la riunificazione con la Svezia. Alla conferenza di pace di Parigi (1919-1920) Stoccolma cercò di sollevare la questione chiedendo il diritto all'autodeterminazione degli isolani. Gli stessi Ålandesi presentarono una petizione dove chiedevano un vero referendum, ma la Finlandia rigettò ogni proposta. Nel maggio del 1920 il Parlamento finlandese approvò una prima legge di autonomia, ma la popolazione la rifiutò. Così la disputa fu nuovamente sottoposta alla Società delle Nazioni, che il 24 giugno 1921 stabilì ufficialmente che le Åland dovevano restare sotto la sovranità della Finlandia; che la legge sull'autonomia avrebbe incluso la protezione della lingua svedese; che l'intero arcipelago sarebbe stato smilitarizzato e neutrale. L'autonomia delle Åland fu inserita anche dalla Costituzione. In questo modo lo statuto che la regolava avrebbe potuto essere modificato soltanto attraverso una riforma costituzionale approvata da una maggioranza qualificata del Parlamento regionale. Nell'ottobre 1921 fu adottata la legge che sanciva la completa smilitarizzazione delle isole, che poi fu confermata dalla conferenza di pace di Parigi (1946). All'inizio gli Ålandesi faticarono ad accettare l'autonomia e continuarono a considerarsi svedesi fino alla Seconda guerra mondiale. Dopo il 1945, piano piano, cominciarono a sviluppare una propria identità regionale. La Finlandia, dato il suo legame secolare con la Svezia, ha sempre mantenuto un rapporto speciale col paese vicino. Lo svedese è tuttora riconosciuto come seconda lingua nazionale e gli svedesi che vivono nella Finlandia continentale sono molto più numerosi di quelli che vivono sulle Åland. Un'autonomia quasi perfetta L'arcipelago è l'unica regione finlandese dotata di poteri legislativi e la sola dove lo svedese ha status di unica lingua ufficiale, mentre lo svedese è riconosciuto come lingua minoritaria nel resto del paese. È anche l'unica regione europea completamente smilitarizzata. Queste quattro peculiarità ampio autogoverno, status di lingua nazionale, neutralità e smilitarizzazione – sono i fondamenti del modello ålandese. Il parlamento regionale, il Lagting, ha il potere di approvare le proprie leggi in molte materie, ad eccezione della politica estera, del diritto civile e penale, della magistratura, degli affari monetari, del diritto del lavoro e del sistema fiscale. Tutti gli abitanti che hanno raggiunto la maggiore età godono di Hembygdsrätt, letteralmente "diritto di domicilio", hanno il diritto di voto e possono candidarsi alle elezioni. Questa forma di cittadinanza regionale è un requisito necessario per esercitare il diritto di voto, di acquistare beni immobili e di gestire un'attività imprenditoriale. Per acquisire questo diritto un richiedente deve avere la cittadinanza finlandese, una conoscenza sufficiente dello svedese e aver vissuto sulle isole per almeno 5 anni.
I partiti politici delle isole Åland sono completamente indipendenti dai partiti finlandesi, anche se ci sono delle affinità ideologiche. L'arcipelago ha un proprio rappresentante nel Parlamento di Helsinki. Le isole Åland, come si è detto, sono smilitarizzate e neutrali dal 1921. Nessun soldato può stazionare sull'arcipelago, che non può ospitare nessuna installazione militare. Gli stessi isolani sono esentati dalla leva, ma devono svolgere un servizio civile alternativo. La regione ha una propria bandiera, può emettere i propri francobolli e ha un proprio sistema postale dal 1993. Ci sono anche caratteristiche speciali nelle relazioni estere. Dal 1970, Åland ha un proprio seggio nel Consiglio Nordico, che riunisce tutti gli stati della Scandinavia. L'adesione della Finlandia all'UE nel 1995 potè essere completata solo dopo il consenso delle isole Åland. I regolamenti speciali per quanto riguarda il diritto immobiliare e la libertà di commercio sono stati mantenuti. Secondo la legge sull'autonomia, le Åland devono essere consultate quando venga stipulato un accordo internazionale che tocca le loro competenze. Inoltre, i rappresentanti della regione devono essere consultati quando si elabora la posizione finlandese sui nuovi regolamenti e sulle direttive dell'UE.
L'autonomia ålandese nel contesto internazionale Un'altra particolarità dell'autonomia ålandese è quella che riguarda il suo rapporto con l'Unione Europea. Mentre le altre regioni autonome europee, come la Catalogna e la Sardegna, sono state automaticamente inserite nell'UE insieme ai rispettivi stati, l'adesione dell'arcipelago è stata sancita per via referendaria. La neutralità e la smilitarizzazione fissate dall'atto di autonomia potrebbero porre dei problemi nel caso che la Finlandia aderisse alla NATO. Il paese nordico, come la vicina Svezia, ha una lunga tradizione di neutralità, ma negli ultimi anni vari accordi hanno sancito un avvicinamento all'Alleanza Atlantica che sembra preludere all'adesione vera e propria. Un ulteriore passo verso l'adesione è stato fatto nello scorso aprile, in seguito all'invasione russa dell'Ucraina, che ha indotto i governi dei due paesi nordici a cercare la protezione della NATO. Ma in pratica l'adesione della Finlandia all'Alleanza Atlantica non comporterebbe necessariamente la fine della neutralità. A questo proposito potrebbe valere il precedente delle isole Svalbard, appartenenti alla Norvegia, membro fondatore della NATO, ma autonome in base a un trattato del 1920. Giovanna Marconi Per quanto riguarda la politica linguistica, finlandese e svedese hanno status paritario dall'inizio del Novecento. Nel Parlamento di Helsinki le leggi vengono presentate nelle due lingue. Sulle Åland, invece, vige il monolinguismo svedese, sia in campo amministrativo che didattico. L'inglese è materia obbligatoria, mentre il finlandese e altre lingue sono facoltativi. La situazione attuale Oggi le isole Åland sono considerate un ottimo esempio di autonomia, tanto che il loro ordinamento viene studiato in molti paesi dove i problemi delle minoranze non sono stati ancora risolti. La lingua e la cultura svedese godono di una protezione esemplare e non ci sono mai stati gravi conflitti fra l'arcipelago e lo stato finlandese. L'autonomia è stata rivista e perfezionata due volte, nel 1951 e nel 1991. Esiste comunque qualche disaccordo. È il caso, per esempio, del finanziamento dell'autonomia, sul quale Helsinki e Mariehamn non hanno ancora raggiunto un compromesso. La Finlandia non vuole concedere alle Åland un proprio sistema fiscale, mentre gli isolani vorrebbero maggiori poteri in questo campo. Le riforme della legge sull'autonomia sono state negoziate a livello interno tra le due parti, ma oggi le Åland cercano di ottenere delle garanzie internazionali analoghe a quelle che garantirono la nascita dell'autonomia. Negli anni Venti le parti coinvolte nella questione erano tre: le isole Åland, la Finlandia e la Svezia. Russia, Francia e Gran Bretagna erano coinvolte marginalmente a causa dei loro interessi geopolitici. Ma non è chiaro se oggi questi stati possano svolgere la funzione di garanti. Se è vero che l'autonomia dell'arcipelago è un modello, è altrettanto vero che le sue particolarità la rendono difficilmente replicabile altrove. Le Åland sono culturalmente omogenee, con il 95% della popolazione di lingua svedese, e gli abitanti sono soltanto 30.000. Questo facilita la vita sociale e politica, poiché non sono necessarie procedure complesse per trovare un accordo né una
rappresentanza proporzionale dei gruppi etnolinguistici. Questa autonomia è probabilmente la più riuscita in assoluto e può fornire spunti utili a molte altre regioni dove l'autonomia è ancora perfezionabile. In ogni caso, anche il contesto statale e internazionale favorevole ha giocato un ruolo decisivo, cosa che raramente si verifica in altri casi. Bibliografia Benedikter T., 100 Years of Modern Territorial Autonomy. Autonomy around the World. Background,
Assessments, Experiences, Lit Verlag, Münster 2021. Paci D., L'arcipelago della pace. Le isole Åland e il Baltico (XIX-XXI sec.), Unicopli, Milano 2016.
Le autonomie regionali in Europa BELGIO Comunità Germanofona (1984) DANIMARCA Faroe (1948) Groenlandia (1979) FINLANDIA Åland (1921) FRANCIA Nuova Caledonia (1998) Polinesia Francese (2003) GRAN BRETAGNA Galles (1998) Irlanda del Nord (1998) Scozia (1998) ITALIA Trentino-Sudtirolo (1946) Sicilia (1948) Sardegna (1948) Valle d'Aosta (1948) Friuli-Venezia Giulia (1963) MOLDOVA Gagausia (1994) PORTOGALLO Azzorre (1976) Madeira (1976) SERBIA Voivodina (2009) SPAGNA Le 17 Comunità autonome che compongono la Spagna (1979-1983)
Julius Sundblom (al centro, col cappello) e Carl Björkman (alla sua destra, con gli occhiali), le due figure storiche della lotta per l'autonomia delle Åland, tornano a Mariehamn dopo essere stati rilasciati dalla prigione di Turku (1920).
Non vogliamo scuse, vogliamo giustizia Doug George-Kanentiio
Il 1o aprile 2022 il Papa ha ricevuto una delegazione di indigeni canadesi (Indiani, Inuit e Meticci). In quel contesto ha pronunciato un discorso di scuse per le violenze disumane che "diversi cattolici" (senza citare l'intera Chiesa cattolica) avevano inflitto ai ragazzi indigeni nelle residential schools, i convitti creati per assimilarli. Ma non ha nessun valore il commento positivo che molta stampa ha fatto del discorso papale: l'opinione che conta è quella dei diretti interessati. Per questo pubblichiamo il parere di Doug George-Kanentiio, membro delle Sei Nazioni (Cayuga, Mohawk, Oneida, Onondaga e Seneca), meglio note come Confederazione Irochese. Esiste un motivo ben chiaro per il quale la Confederazione Irochese non è stata invitata all'incontro dove il Papa ha chiesto scusa per i crimini delle residential schools: noi non vogliamo delle scuse, vogliamo giustizia. Migliaia di bambini hanno sofferto pene atroci nelle scuole gestite dalla Chiesa cattolica col beneplacito dei governi locali e federali, ed è stato provato che migliaia di loro sono morti per incuria o sono stati uccisi dai preti, dalle suore e dal personale. Io sono stato battezzato col rito cattolico nel territorio mohawk di Akwesasne. Sono stato rinchiuso nel Mohawk Institute di Brantford, Ontario, a 600 kilometri da casa, e con altri 24 abitanti di Akwesasne sono stato sottoposto ad abusi sessuali, psicologici e fisici, malnutrito e in condizioni igieniche pessime, e il mio corpo è rimasto segnato da cicatrici permanenti. Siamo stati abbandonanti dai consigli tribali, organismi creati e finanziati dal governo federale per rimpiazzare il governo tradizionale e condannarci a un ruolo culturale e politico irrisorio. Anche se i media e la Commissione per la verità e la riconciliazione (Truth and Reconciliation Commission, TRC) l'hanno ignorato, quei consigli tribali hanno giocato un ruolo attivo in questa tragedia, consegnando ai preti i bambini che avrebbero dovuto difendere. Al tempo stesso, è mancata la volontà di inchiodare la Chiesa cattolica e quella anglicana alle proprie responsabilità. Se manca un criterio che renda perseguibili penalmente i colpevoli, permetta alle vittime di confrontarsi con loro e di ottenere un giusto risarcimento, le scuse sono irrilevanti. Niente di tutto questo era presente nel processo di riconciliazione definito dalla TRC. Un'altra lacuna evidente è stata l'esclusione delle vittime dalla supervisione di qualsiasi misura riguardante le chiese cattoliche e anglicane. Per loro è stato un salvacondotto. Questo è inaccettabile. Così abbiamo creato una struttura apposita che difende i diritti dei sopravvissuti. La nostra linea si oppone nettamente all'Assembly of First Nations (AFN), alla TRC e alle Chiese. Il nostro principio è semplice: "Nulla di quanto ci riguarda può essere deciso senza di noi". Ci occuperemo di ogni iniziativa che riguarda le residential schools. Faremo sapere all'AFN, alla chiese e al governo federale che non vogliamo più essere vittime passive. Raccoglieremo le nostre testimonianze, racconteremo le cose alla nostra maniera e – cosa più importante – indagheremo personalmente sulle migliaia di bambini sepolti nei terreni dove sorgevano le scuole. Per localizzare i corpi dei bambini abbiamo strumenti tecnici all'avanguardia che fondono le scienze giuridiche moderne col bagaglio delle nostre conoscenze ancestrali. Per prima cosa abbiamo dichiarato che il terreno di ogni scuola canadese deve essere oggetto di indagine come potenziale scena del crimine. Siamo fermamente convinti che all'indagine, laddove necessario, debba seguire l'arresto. L'età avanzata non deve garantire l'impunità e anche le strutture ecclesiastiche saranno portate in tribunale quando le prove lo imporranno. Vogliamo che i colpevoli vadano in prigione e che le vittime vengano risarcite secondo i criteri che fisseremo. Per questo rifiutiamo le scuse delle Chiese e del Papa che non includano la seria intenzione di fare giustizia. Ecco perché gli Irochesi non sono stati invitati a Roma. Ecco perché nessuno ha parlato per noi a Roma. L'AFN ha cercato di soffocare la nostra voce, ma noi non staremo mai zitti. Non verremo meno al dovere di dare voce e portare pace a quei bambini che sono stati sepolti sottoterra dai loro assassini.
Per l'indipendenza della Cabilia Intervista a Ferhat Mehenni
La famiglia berbera, che include anche i Tuareg, vive divisa fra otto paesi africani: Algeria, Burkina Faso, Libia, Mali, Marocco, Niger e Tunisia. Le comunità più numerose si trovano in Marocco e in Algeria. In quest'ultimo paese la minoranza berbera conta circa 5 milioni (11% della popolazione). I forti contrasti col potere centrale, dominato dalla maggioranza araba, hanno favorito la nascita di alcune organizzazioni che reclamano l’autonomia o l’indipendenza della Cabilia, la regione settentrionale dove si concentra la popolazione berbera. La principale è il Mouvement pour l'Autodétermination de la Kabylie (MAK). Abbiamo intervistato il suo fondatore, Ferhat Mehenni, per avere un quadro chiaro della situazione. Perché è nato il MAK ? Il MAK è nato nel 2001 in risposta all'atteggiamento ostile del governo algerino, che ha sparato su alcuni berberi che manifestavano pacificamente, uccidendone più di cento. Il contributo della Cabilia alla liberazione dal colonialismo francese e alla costruzione dell'Algeria era stato molto importante, così non era possibile una rivendicazione di indipendenza. Perciò abbiamo deciso di fondare il movimento, che inizialmente era autonomista (Mouvement pour l'Autonomie de la Kabylie). Forse molti dei vostri lettori non conoscono la questione cabila, quindi è necessaria qualche precisazione storica. Nel 1839, quando la Francia decise di chiamare Algeria la propria colonia nordafricana, la Cabilia non ne faceva parte. Fu soltanto nel 1857, sotto il regno di Napoleone III, che la Francia decise di annetterla. Un quadro storico più ampio si trova nel Memorandum pour l'autodétermination de la Kabylie, che abbiamo sottoposto alle Nazioni Unite nel 2017. Quando e perché siete passati dalla posizione autonomista a quella indipendentista? La rivendicazione dell'autonomia aveva stimolato la rinascita della coscienza nazionale cabila, la coscienza di essere un popolo e una nazione. Ma con la nascita dell'Anavad (Governo provvisorio cabilo in esilio), avvenuta il 1o giugno 2010, questo obiettivo era diventato obsoleto, dato che un governo provvisorio ha come obiettivo l'indipendenza. Abbiamo deciso di passare dalla linea autonomista a quella indipendentista per varie ragioni. Anzitutto, per evitare che la questione cabila restasse confinata all'Algeria, perché questo avrebbe limitato la possibilità di liberarsi dal potere coloniale di Algeri. Negli ultimi vent'anni abbiamo visitato un certo numero di paesi che avevano concesso l'autonomia regionale alle loro "province", e cosa abbiamo scoperto? Che tutti questi territori autonomi cercavano l'indipendenza. In effetti, non esiste una vera pace sociale, una vera serenità laddove manca la sovranità. L'autonomia serve soltanto a intrappolare i popoli che aspirano, senza eccezione, all'emancipazione dall'insopportabile tutela politica che li considera dei bambini. Dato che l'autonomia è una trappola, sarebbe stata una scelta criminale continuare a pretenderla. Inoltre, perché abbiamo sofferto l'oppressione linguistica derivata dall'arabizzazione. Questo cambiamento ha modificato i rapporti col governo algerino? Il potere algerino non ha mai accettato la nostra nuova linea politica, che considera un delitto di lesa maestà. Finché avevamo rivendicato l'autonomia eravamo stati tollerati. Oggi, invece, le autorità coloniali algerine sono in guerra non solo contro il MAK, ma contro tutti i cabili. Durante la pandemia hanno deliberatamente lasciato morire più di 4000 persone vietando ai nostri ospediali di rifornirsi di ossigeno o impedendoci di comprare attrezzature dall'estero per fabbricare localmente questo prodotto necessario alla sopravvivenza dei pazienti. Poi, con armi vietate dalle convenzioni internazionali, come il fosforo bianco, hanno bruciato più dell'80% della Cabilia. I paesi vicini si sono offerti di aiutarci a spegnere gli incendi, ma l'Algeria ha rifiutato. Più di 500 persone
sono morte e una delle principali risorse, l'olivo, è stata danneggiata seriamente. È un atto di guerra analogo a quello che Saddam Hussein aveva praticato a Halabja contro i kurdi nel 1988. La pacifica Cabilia è stata proclamata "regione terroristica" per legittimare la repressione. Più di 350 leader civili e politici sono stati imprigionati da giugno proprio mentre 20.000 delinquenti algerini venivano rilasciati. Cosa intendete quando parlate di una Cabilia indipendente? Una Cabilia indipendente implica un territorio statale con tutte le sue caratteristiche, riconosciuto a livello internazionale e dotato di un seggio all'ONU. La Cabilia non sarà ostile verso l'Algeria, ma accoglierà tutti gli algerini che vorranno viverci. Avranno gli stessi diritti e gli stessi doveri degli altri. Il nostro stato si fonderà sulla democrazia, sul rispetto dei diritti umani e dell'ambiente. A proposito della Francia, quali sono i vostri rapporti col governo Macron? Noi rispettiamo la Francia e le sue leggi. Siamo un'organizzazione pacifica che, nonostante le provocazioni delle autorità algerine, rifiuta di cadere nella trappola della violenza. L'Algeria ha chiesto ufficialmente la mia estradizione dalla Francia, ma poi non è stato fatto nulla di concreto. Questa richiesta non si basa su fatti accertati, ma su accuse false. Non esistono rapporti diretti fra il MAK e l'Eliseo, dato che questi presupporrebbero un riconoscimento ufficiale da parte della Francia. Qual è la situazione attuale della lingua berbera in Algeria? Il cabilo è la nostra lingua, che appartiene alla grande famiglia tamazight (berbera). Non esiste un'unica lingua berbera. È sulla base di questa confusione che l'Algeria si è impegnata a riconoscerlo per non dover riconoscere anche altre lingue, come il chawi, il tuareg o il mozabita. Ma l'Algeria sta tornando sui propri passi, dato che quest'anno sono state date istruzioni ministeriali per non includere nelle pagelle scolastiche i voti relativi all'insegnamento in questa lingua. Quali sono le prossime iniziative del MAK? Abbiamo messo in rete un referendum sull'autodeterminazione. Abbiamo formato un parlamento cabilo che sta elaborando un progetto di costituzione. Intendiamo costruire una struttura giudiziaria e alcune istituzioni finanziarie, fra le quali una criptovaluta. Dobbiamo riforestare la nostra terra dopo i devastanti incendi dell'estate scorsa; contattare gli organismi internazionali per ottenere il rilascio dei prigionieri politici e il riconoscimento del nostro diritto all'autodeterminazione.
Alcuni membri del MAK, guidati da Ferhat Mehenni (a sinistra), con Lech Walesa, Danzica, 3 marzo 2020. Bibliografia Fois M., La minoranza inesistente. I berberi e la costruzione dello Stato algerino, Carocci, Roma 2013. Mehenni F., Reflexions dans le feu de l'action. Histoire de la renaissance du peuple kabyle, Fauves, Paris 2021.
Biblioteca
Thomas Benedikter, 100 Years of Modern Territorial Autonomy. Autonomy around the World. Background, Assessments, Experiences, Lit Verlag, 2021, pp. 314, € 29.90. Il 2021 ha segnato il centenario dell'autonomia delle isole Åland, un piccolo arcipelago situato nel Golfo di Botnia, fra Svezia e Finlandia. Appartenente al secondo paese, ma abitato da svedesi, questo gruppo di isole gode di un'autonomia che viene considerata la migliore in assoluto, tanto da sfiorare la perfezione. Dato che si tratta della prima autonomia territoriale moderna, il 2021 ha segnato contemporaneamente due centenari. In occasione di questa doppia ricorrenza è uscito il libro 100 Years of Modern Territorial Autonomy. Autonomy around the World. Background, Assessments, Experiences. L'autore è Thomas Benedikter, studioso sudtirolese di livello internazionale. Nessuno meglio di lui poteva offrire un panorama ampio e aggiornato della materia, data la sua ampia produzione sui problemi delle minoranze, che include il monumentale The World's Working Regional Autonomies: An Introduction and Comparative Analysis (Anthem Press, 2007), purtroppo mai tradotto in italiano. Dalla Corsica al Kurdistan turco, da Hong Kong agli Ungheresi della Romania, il volume non si limita a parlare delle autonomie vigenti, ma include molti casi in cui l'autonomia è ancora un obiettivo da raggiungere. Per scrivere il libro l'autore ha compiuto numerosi viaggi, molti dei quali nei mesi più segnati dalla pandemia. Ha intervistato alcuni esponenti dei movimenti autonomisti, affiancando a questi contributi un vasto quadro teorico e politico, talvolta battendo sentieri nuovi. Il risultato è un mosaico coerente che chiarisce una materia spesso trattata in modo confuso e frettoloso dai media. Il libro è stato pubblicato in inglese, in tedesco e in italiano. Alessandro Michelucci
Luc Vandeweyer, Karl Scheerlinck et alii, 100 jaar IJzerbedevaarten in affiches, 1920-2020. Een bronnenuitgave van het ADVN i.s.m. Museum Aan de Ijzer, Peristyle, Antwerpen 2021, pp. 192, € 25. Nel 2020 ha compiuto un secolo l'IJzerbedevaart (pellegrinaggio dell'Yser), il grande raduno organizzato ogni anno a Diksmuide (Belgio) in memoria dei soldati fiamminghi morti nella Prima guerra mondiale. Per l'occasione è stato pubblicato un bel libro che raccoglie i manifesti di ogni raduno, disegni e altro materiale d'archivio. Completano il volume alcuni testi in fiammingo, ma la parte grafica è così ricca che il libro resta di grande interesse anche per chi non legge questa lingua. I Fiamminghi non sono un popolo minoritario, e tanto meno minacciato, ma ci sono comunque diversi motivi per parlare di questo libro. Anzitutto perché la comunità fiamminga è storicamente legata alle rivendicazioni delle minoranze europee e collabora spesso con le loro organizzazioni. Si devono a due fiamminghi, Wim Kuijpers e Maurits Coppieters, alcune iniziative che hanno cercato
di smuovere l'inerzia del MEC e dell'UE sui problemi delle minoranze linguistiche. Il Belgio è nato bilingue, ma soltanto in teoria, perché per circa un secolo la componente francofona della Vallonia ha goduto di una posizione dominante. La lingua fiamminga si è affermata soltanto negli anni Trenta del secolo scorso. Questo ha gettato le basi per la trasformazione del paese in senso federale, obiettivo che è stato raggiunto nel 1993. Una scelta insolita, dato che in genere la forma federale caratterizza un paese fin dall'inizio, e non dopo un secolo e mezzo, quando molti equilibri politici sono già consolidati e difficilmente modificabili. Tanto è vero che il federalismo belga non funziona in modo soddisfacente e certi ambienti politici fiamminghi guardano con interesse alla secessione, galvanizzati anche dai fermenti catalani e scozzesi degli ultimi anni. Di questo panorama politico-culturale l'Ijzerbedevaart è stato testimone attento e costante. Aperta a persone e movimenti di ogni tendenza politica, in passato la manifestazione aveva rischiato di diventare una vetrina della destra radicale, ma ha saputo isolare i movimenti che spingevano in questa direzione. Dal loro distacco è nata nel 2003 una manifestazione annuale apertamente xenofoba e separatista. In questo modo il raduno ha riaffermato la propria ispirazione originaria, pacifista e inclusiva, che la rende patrimonio non soltanto del popolo fiammingo, ma di tutti gli europei. Alessandro Michelucci
Bobby Sands, Scritti dal carcere. Poesie e prose, PaginaUno, Vedano al Lambro (MB) 2020, pp. 270, € 18. La fama mondiale di Bobby Sands (1954-1981) fu innescata dal lungo sciopero della fame (66 giorni) che si concluse con la sua morte. L'esperienza carceraria, segnata da condizioni igieniche e umane ripugnanti, è fondamentale per comprendere questa figura che è stata considerata un modello ideale dagli ambienti politici più diversi, ma spesso a torto, se non addirittura con evidente malafede. Il lettore italiano che voleva conoscere la vicenda politica e umana di Bobby Sands disponeva già di vari testi, ma questo nuovo libro si impone come il documento più prezioso e più utile per inquadrare nel modo migliore la statura del militante irlandese. Questa prima edizione italiana del diario che Sands scrisse in carcere è il frutto dell'appassionata competenza di Riccardo Michelucci, che ha tradotto le parti in prosa, e di Enrico Terrinoni, che ha curato quelle poetiche. I due, che collaborano da tempo, si stanno imponendo come un marchio di qualità per quanto riguarda le questioni politiche e culturali dell'isola verde. Arricchisce il libro la prefazione inedita di Gerry Adams, figura storica del movimento repubblicano nordirlandese. Il testo raccolto nel libro è stato scritto da Sands su minuscoli pezzi di carta che venivano portati fuori dal carcere con mille peripezie. Dalle pagine traspaiono chiaramente le condizioni disumane nelle quali il militante era costretto a vivere, ma al tempo stesso queste finiscono per far risaltare ancora meglio la pulizia morale e la sincerità ideale del giovane repubblicano. Gli stereotipi fabbricati dai mezzi d'informazione ci hanno indotto a pensare che certe situazioni disumane generate dalla politica potessero esistere soltanto fuori dall'Europa. La questione nordirlandese, ultimo resto europeo del colonialismo britannico, ci dimostra che non è cosi. Bobby Sands, che compare sulla copertina, non era diverso da un qualunque coetaneo di Firenze, Parigi o Berlino, ma un destino infame lo ha costretto a vivere in un contesto intossicato dall'apartheid. Molti non se sono accorti, forse perché non aveva la pelle nera, ma grazie a questo libro potranno finalmente comprendere l'ampiezza della sua tragedia e la profonda dignità con la quale l'ha vissuta. Antonella Visconti
Sebastiano Ghisu e Alessandro Mongili (a cura di), Filosofia de Logu. Decolonizzare il pensiero e la ricerca in Sardegna, Meltemi, Roma 2021, pp. 232, € 19. "La nostra finalità è quella di portare la discussione sulla Sardegna e sul suo essere nel mondo al centro del dibattito teorico, in maniera autonoma e autodeterminata, utilizzando tutti gli strumenti
e i risultati offertici dal complesso delle scienze umane. Nostro obiettivo è quello di promuovere in tal modo uno sguardo filosofico, critico e non subalterno sulla realtà sarda". Si presenta con queste parole Filosofia de Logu, un gruppo di studiosi sardi nato nel 2020 per sviluppare una riflessione innovativa e concreta su un'ampia gamma di temi storici, sociali, politici ed economici. Dopo varie iniziative diffuse attraverso la Rete – attività che continua con costanza – il gruppo ha realizzato questo libro con undici saggi di altrettanti autori che tra filosofia, storia, sociologia e architettura si concentrano su alcuni aspetti delle relazioni di subalternità e dipendenza cui l'isola è sottoposta. Il volume, curato da Sebastiano Ghisu, professore associato di Storia della filosofia all'Università di Sassari, e da Alessandro Mongili, che insegna Sociologia generale e Processi di modernizzazione e tecnoscienza all’Università di Padova, è strutturato in tre parti, ciascuna delle quali ha un titolo evocativo. La prima, "Ideologia", comprende i saggi di Sebastiano Ghisu, Omar Onnis e Cristiano Sabino, che rispettivamente si confrontano con l'identità sarda in termini filosofici, storiografici richiamandosi al pensiero di Gramsci, che viene definito "sardista popolare". Nella seconda, "Provincializzare l'Italia", Giada Bonu, Gianpaolo Cherchi, Alessandro Derrù e Cristian Perra si occupano di visioni, miti e luoghi comuni che promuovono una Sardegna arretrata e subordinata. Nella terza, "Paesaggi e pratiche della subalternità", Andrìa Pili, Alessandro Mongili, Federica Pau e Riccardo Onnis continuano l'analisi utilizzando le chiavi delle scienze filosofiche, dell'urbanistica e dell'architettura. Argomenti e riflessioni che convergono sul fatto che un'altra Sardegna è possibile: viva, vera, emancipata. In estrema sintesi, una "Sardegna sarda" da pensare, da studiare, da vivere. Marco Stolfo
Olesya Karemchuk (a cura di), Our Others: Stories of Ukrainian Diversity, Ibidem Verlag, Hannover 2021, pp. 170, € 16,80. Olesya Yaremchuk, una giovane giornalista ucraina, ha percorso 11000 km per parlare con 14 persone appartenenti alle minoranze del suo paese. In questo libro ha raccolto storie personali che si intrecciano con storie collettive, fornendo un panorama unico di questa ricchezza culturale dimenticata. Con lei hanno collaborato due colleghi ucraini, Marta Barnych e Anton Semyzhenko. Questo piccolo mosaico non presenta soltanto popoli dai nomi conosciuti, come Polacchi, Slovacchi e Ungheresi, ma anche altri che ci proiettano in un passato poco conosciuto, se non ignoto. Emergono i Gagausi, turcofoni presenti anche nella vicina Moldavia, dove godono di una buona autonomia territoriale; i Tartari della Crimea, originari della penisola annessa dalla Russia nel 2014; i Valacchi, inseriti nell'immaginario popolare soltanto a causa del principe Vlad III, meglio noto come Dracula. Accanto a questi troviamo anche Bulgari e Greci, Moldavi e Tedeschi, Armeni e Russi. Molte testimonianze provengono da cittadine vicine a paesi limitrofi, come Hertza e Vynohradivka, situate nei pressi della Romania, o Novooleksiyivka, villaggio sul confine con la Crimea. Un paese è addirittura diviso in due: da una parte Mali Selmenci, che si trova in Ucraina in seguito alla divisione del 1945, dall'altra Veľké Slemence (in ungherese Nagyszelmenc), situato in Slovacchia ma abitato in prevalenza da ungheresi. Come questa, molte località vengono chiamate con nomi diversi. Si tratta di piccoli universi che si sono costruiti in seguito alla caduta degli imperi europei, da quello asburgico a quello sovietico. Tutti più o meno segnati dalla persecuzione. Queste minoranze non avanzano pretese territoriali né minacciano la secessione. Chiedono soltanto il rispetto di una diversità culturale che l'Ucraina non ha ancora garantito appieno. Alessandro Michelucci
Franco Nerozzi, Nascosti tra le foglie, Altaforte, Cernusco sul Naviglio (Milano) 2019, pp. 444, € 25. Il colpo di stato che l'esercito birmano ha realizzato nel 2021 ha risvegliato il profondo torpore dei media, stimolando anche un'attenzione per le minoranze che lottano contro il potere centrale da ol-
tre mezzo secolo. Questo non significa che in precedenza questi popoli vivessero in condizioni migliori: sappiamo bene che la persecuzione delle minoranze, in genere, preoccupa i media soltanto quando viene realizzata da una dittatura o da un regime inviso agli Stati Uniti. Lo sa bene Franco Nerozzi, fondatore dell'associazione Popoli, che si autodefinisce "comunità solidarista" per mettere in evidenza un sincero coinvolgimento umano in alternativa alla logica aziendale-societaria di molti altri organismi. Nerozzi non compare nelle trasmissioni televisive "di approfondimento", perché ha scelto di impegnarsi concretamente, magari rischiando anche la vita, per aiutare i Karen, un popolo indigeno della Birmania che si batte contro un regime disumano. Il suo impegno esemplare, che ci racconta in questo bel libro autobiografico, merita il massimo rispetto. Giovanna Marconi
Matteo Incerti, I pellerossa che liberarono l'Italia, Corsiero, Reggio Emilia 2020, pp. 392, € 18. Frutto di una ricerca archivistica lunga e complessa, il libro di Matteo Incerti rischiara di una luce inedita le vicende umane e culturali degli indiani che combatterono come volontari nell'esercito statunitense e in quello canadese durante la Seconda guerra mondiale. In particolare, l'opera ricostruisce le storie di 55 soldati che tra il luglio 1943 e il gennaio 1945 si sacrificarono per donare all'Italia libertà, democrazia e diritti civili. Lo fecero quando a loro, discriminati in patria, non era permesso votare alle elezioni federali, bere con i bianchi, possedere terreni, parlare le proprie lingue. Gli indigeni non combattevano una sola guerra: talvolta il nemico si annidava dentro loro stessi, in ferite dello spirito e dell'immaginario causate da anni di separazione coatta, discriminazioni e umiliazioni. Molti di loro provenivano dalle residential schools, collegi gestiti da varie Chiese cristiane. Mirate a distogliere i bambini nativi dall'influenza delle famiglie e dalle tradizioni ancestrali, e far loro assimilare, anche con le maniere forti (come dimostrano i cimiteri rinvenuti di recente), la cultura dominante, privandoli delle loro lingue. A sterilizzarli e ad esporre molti di loro ad abusi fisici, morali e sessuali pedofili: un oijbiwa, medaglia d'onore e poi capo tribù, ha raccontato di essere stato lo schiavo sessuale di un prete cattolico. Tutto questo nella prospettiva dell'affrancamento profilato dal Gradual Civilization Act del 1857. Si tratta di un'opera ben costruita e magnificamente strutturata in pagine intrise di partecipata tenerezza, dolorosa consapevolezza, empatico e commosso rispetto. Piacevole la lettura grazie a una scrittura stratigrafica, fluida, nitida, compatta, evocativa, talora icastica, urticante e abrasiva. Un contributo notevole e davvero lodevole, inscritto nel quadro teorico e nel movimento storiografico della Nouvelle Histoire. Una vera e propria pietra miliare, una fonte ineludibile per ogni futura ricognizione del tema. Vincenzo Durante
David Young, Wai Pasifika: Indigenous Ways in a Changing Climate, Otago University Press, Dunedin 2021, pp. 288, $60.00. I problemi innescati dal cambiamento climatico sono sempre più evidenti, ma al tempo stesso è altrettanto evidente l'impossibilità di risolverli utilizzando i convenzionali strumenti basati sulle conoscenze scientifiche delle società industriali. Un'interessante alternativa è quella proposta nel libro Wai Pasifika: Indigenous Ways in a Changing Climate da David Young, uno dei più autorevoli scrittori ecologisti neozelandesi. Lo scrittore ci invita a imboccare un'altra strada prendendo spunto dall'approccio dei popoli polinesiani. Questi popoli, come quelli dell'Oceania in generale, hanno sempre avuto una visione olistica della natura e quindi una piena consapevolezza del proprio legame con questa. Riccamente illustrato, il volume si concentra sul pericolo derivante dal progressivo esaurimento dell'acqua dol-
ce, mettendo in evidenza quello che le società "sviluppate" possono imparare dai popoli autoctoni del Pacifico. Combinando fonti indigene con studi moderni, integrati da molti incontri personali, lo scrittore delinea una visione alternativa della questione, dimostrando che i popoli indigeni offrono un ricco bagaglio di cognizioni scientifiche e filosofiche di grande interesse. Aö tempo stesso, Young contesta i sistemi attuali di gestione dell'acqua, che non sono soltanto dispendiosi e distruttivi, ma in certi casi addirittura mortali. Il libro si chiude comunque con una nota di speranza, sostenendo che esiste ancora il margine per compiere una svolta radicale, a patto che si sviluppi una disciplina di profondo rispetto per il luogo, per il pianeta e per la vita in tutte le sue forme. Il nostro futuro dipende dalla volontà politica di farlo. Anthony Gordon
THE INDIGENOUS WORLD 2022
Un'opera indispensabile per conoscere la questione indigena Un panorama completo e aggiornato unico al mondo www.iwgia.org
Le altre tessere del mosaico ucraino L'invasione russa dell'Ucraina ha innescato una forte visibilità mediatica di questo paese, che aveva cominciato a ricevere una certa attenzione soltanto negli ultimi 15-20 anni, a causa dei suoi contrasti con la Russia. Nonostante questo, l'Ucraina era rimasta sostanzialmente ignota alla maggior parte degli italiani. Negli ultimi mesi, sia in Italia che all'estero, sono usciti numerosi libri sulla guerra in atto e molti altri vengono pubblicati con ritmo febbrile, quindi il lettore ha soltanto l'imbarazzo della scelta. Noi, comunque, crediamo che sia utile consigliare alcune pubblicazioni recenti su temi meno trattati ma imprescindibili per chi voglia conoscere la complessa storia recente del paese in questione. Ettore Cinnella, uno dei massimi sovietologi italiani, è l'autore di Ucraina. Il genocidio dimenticato (Della Porta, 2015). Il libro ricostruisce l'Holodomor, il genocidio per fame orchestrato da Stalin nel 1932, in seguito al quale morirono circa sette milioni di persone. Inutile dire che la Russia, erede politico dell'URSS, rifiuta categoricamente di riconoscere questa tragedia epocale. Un altro genocidio dimenticato è quello dei Tartari di Crimea, che vennero deportati in massa da Stalin nel 1944. Circa la metà morì per il freddo e per gli stenti. All'epoca la regione sul Mar Nero era parte della Russia, ma nel 1954 Kruscev la cedette all'Ucraina. Dotata di un evidente rilievo geopolitico, la Crimea è stata riannessa dalla Federazione Russa nel 2014 con un referendum di dubbia legittimità. Goulnara Bekirova, autorevole studiosa tartara emigrata in Francia, ha ricostruito la storia travagliata del suo popolo nel libro Un demi-siècle de résistance. Les Tatars de Crimée, de la déportation au retour (1941-1991) (L'Harmattan, 2018). Per quanto riguarda il fumetto, merita molta attenzione Le vent des libertaires, che racconta la vita singolare di Nestor Makhno (1886-1934), l’anarchico ucraino che combatté con uguale fermezza l’impero zarista e il movimento bolscevico capeggiato da Lenin. La storia, già pubblicata in due albi (2019 e 2020), è stata riproposta recentemente in versione integrale (Les Humanoïdes Associés, 2021). Opera evocativa e potente, Le vent des libertaires è stata realizzata da Philippe Thirault (soggetto e sceneggiatura) e da Roberto Zaghi (disegni), entrambi ben noti a chi segue i fumetti. La gamma cromatica, giocata prevalentemente sui toni caldi del marrone, del rosso e del grigio, si sposa perfettamente con i toni aspri e drammatici della storia. Come la Crimea, il Donbas compare saltuariamente nelle cronache di questi mesi, ma in modo fugace e confuso, senza che il lettore o lo spettatore vengano messi in condizione di capire cosa sia successo nelle regioni separatiste filorusse dell'Ucraina orientale. Questa lacuna viene colmata da Dario Fertilio e Olena Ponomareva, autori del libro Lettere dal Donbas. Le voci e i volti della guerra in Ucraina (Mauro Pagliai, 2022). Il volume raccoglie alcune lettere dei soldati ucraini di stanza nel Donbas, che gli autori ripropongono sotto forma di testo teatrale.
Nuvole di carta
Charly Damm (testo), Jean-Marie Cuzin (disegni), Aurélie Frémineur, Carlos Valdeira (colori), L'Alsace déracinée, Éditions du Signe, Strasbourg 2021, pp. 52, €16,90. La tragica storia dell'Alsazia, contesa a lungo da Francia e Germania, ha ispirato più volte la nona arte. Uno degli esempi più recenti è L'Alsace déracinée, dove i testi di Charly Damm si sposano ai disegni di Jean-Marie Cuzin. L'opera racconta la storia degli alsaziani che furono evacuati, espulsi e deportati dai tedeschi tra il 1939 e il 1945. Il lettore (ri)scopre l'avventura forzata di queste migliaia di persone sradicate dalla loro regione ed evacuate nei dipartimenti del sud-ovest, il grande trauma culturale e le difficoltà derivate dall'adattamento. Un capitolo è dedicato agli ebrei alsaziani e al campo di Struthof, situato presso il villaggio di Natzwiller, a circa 50 chilometri da Strasburgo. Questo fu il solo campo di concentramento costruito dai nazisti in Alsazia, dopo che la regione era divenuta parte integrante del Terzo Reich. Naturalmente anche il fattore linguistico giocò un peso rilevante. Antonella Visconti
Paolo Eleuteri Serpieri, Gli Indiani delle praterie, Lo Scarabeo, Torino 2021, pp. 120, €38. Paolo Eleuteri Serpieri ha fatto del Far West un elemento centrale della propria parabola artistica. Disegnatore, soggettista e sceneggiatore, l'artista veneziano ha collaborato alla Histoire du Far West (Larousse, 1980-1981) e ha firmato molti episodi apparsi su riviste come Lanciostory, Orient Express e L'Eternauta. Molte di queste storie sono difficilmente reperibili, ma Gli Indiani delle praterie colma in parte questa lacuna. I sei episodi del volume coprono un periodo che va dal 1979 ("Come Coda di Volpe divenne bandito") al 1982 ("Uomo medicina"). Ne Gli Indiani delle praterie traspaiono chiaramente le idee di Serpieri. "Salute a te, uomo bianco, distruttore del mio popolo" (pag. 83), dice un cheyenne in "Uomo medicina", e i Sioux sono giustamente definiti "eroi della resistenza indiana" (p. 87) nell'ultimo episodio, "La danza degli spiriti", che rievoca la strage di Wounded Knee. I personaggi e le atmosfere sono crudi, realistici, lontani dagli stereotipi. Serpieri cura ogni dettaglio grafico e storico, sostenuto da una solida conoscenza del cinema e della letteratura. Se qualcuno dubita ancora che il fumetto sia un'espressione artistica degna di questo nome, le storie di Serpieri lo aiuteranno a cambiare idea. Alessandro Michelucci
Cineteca
Belfast, regia di Kenneth Branagh, Gran Bretagna, 2021, 97'. Vincitore del David di Donatello per il miglior film internazionale, premio Oscar alla miglior sceneggiatura, Belfast ha raccolto consensi e riconoscimenti in tutto il mondo. Eppure l'operazione-memoria compiuta dal famoso regista originario dell'area protestante di Tigers' Bay, alla periferia di Belfast, appare artefatta fin dalle scenografie. Ad attenuare la delusione non basta il pur ottimo cast (nel quale spiccano Jude Hill, Jamie Dorman e una grande Judi Dench) né la scelta indovinata di girare le immagini del passato in un evocativo bianco e nero. Ma nel complesso la pellicola risulta patinata e banale, a tratti anche noiosa, con personaggi stereotipati e una visione melensa del conflitto anglo-irlandese tipica di certe pellicole hollywoodiane. Il lungo flusso di ricordi raccontato con gli occhi di un bambino è reso a tratti con toni fiabeschi e lascia trasparire tutta la malinconia del regista, ma indugia troppo sulla perfezione stilistica e lamenta un'incoerenza narrativa appesantita da momenti troppo didascalici. Alla fine risulta una cartolina sbiadita del passato che non spiega quasi nulla di quello che accadde a Belfast in quell'annus horribilis, il 1969, e non riesce mai a farsi affresco della città e a rappresentare in modo credibile un'epoca che non c'è più. Riccardo Michelucci
Nuuccha, regia di Vladimir Munkuev, Russia, 2021, 107'. Una povera coppia di jacuti ha appena seppellito il proprio neonato e si prepara al duro inverno che l'aspetta. Quando il rappresentante locale del governo zarista ordina loro di accogliere un prigioniero politico russo non hanno altra scelta che accettare. Ma la presenza dello straniero ha un effetto devastante… Ambientato alla fine del diciannovesimo secolo, Nuuccha ("russo" in lingua jacuta) si ispira agli scritti del socialista polacco Wacław Sieroszewski (1858-1945), che conobbe la cultura jacuta durante il suo esilio in Siberia. Questo dramma evocativo segna l'esordio di Vladimir Munkuev, giovane regista jacuto, e arricchisce il dibattito sull'impatto della colonizzazione e dell'assimilazione forzata nella Russia zarista. Lenka Tyrpáková
Musiche
Gajanas, Cihkkojuvvon/Hidden, Bafe's Factory-Nordic Notes, 2021. La musica sami (lappone) è uscita dalla marginalità grazie a Mari Boine, scoperta da Peter Gabriel nel 1990, che gode da tempo di larga fama. Fra i nuovi talenti spicca un'altra cantante, Hildá Länsman, nata nel 1993 a Utsjoki (Finlandia). Attiva e apprezzata già da vari anni, è impegnata in vari gruppi, fra i quali Solju, dove è affiancata dalla madre Ulla Pirttijärvi, e Gajanas. Gli otto brani propongono una fusione del joik, l'espressione canora tradizionale dei Sami, col rock progressivo. I musicisti sono giovani, ma hanno le idee chiare. Il disco non è un capolavoro, ma è stato fatto con passione e si ascolta molto volentieri. La voglia di esplorare culture diverse viene apertamente enunciata nelle note di copertina: "Le grandi forze della natura e il ciclo delle otto stagioni alle nostre latitudini sono una parte essenziale della nostra vita. Ma per noi è importante anche uscire di casa per allargare i nostri orizzonti e le nostre conoscenze culturali". Giovanna Marconi Khasi-Cymru Collective, Sai-thaiñ ki Sur / The Weaving of Voices, CD, Naxos, 2021. La predicazione missionaria ha avuto effetti devastanti su molti popoli, specialmente su quelli indigeni, ma talvolta i religiosi hanno rifiutato di schierarsi con i colonialisti e hanno difeso i popoli che questi cercavano di annientare. Un caso esemplare è quello dei metodisti gallesi che nel 1841 si stabilirono nel Meghalaya (India nordorientale) per convertire il popolo khasi. Ma erano missionari diversi dagli altri, perché anche loro appartenevano a una minoranza discriminata. Infatti il governo britannico contrastava in ogni modo l'uso del gallese. Tale affinità creò un legame speciale fra missionari e indigeni, che trovarono nella musica un ulteriore punto di contatto. Il cantautore gallese Gareth Bonello, meglio noto come The Gentle Good, ha compiuto una lunga ricerca su questi legami musicali collaborando con alcuni musicisti locali. Il frutto di questo lungo lavoro è Sai-thain ki Sur, realizzato insieme a nove artisti khasi e alla moglie Jennifer Gallichan. "Hediad ka likai", ispirato da un racconto tradizionale khasi, è un delicato pezzo strumentale dominato dal besli (flauto di bambù) di Benedict Hynñiewta. "Alawon cenhaty" è una breve fantasia di tradizionali gallesi che Bonello esegue con la duitara, uno strumento simile alla chitarra. Ma le affinità fra i due popoli non si limitano alla musica: "Soso & Waldo"mette in parallelo due poesie, una scritta dal khasi Soso Tham e l'altra dal gallese Waldo Williams. Alessandro Michelucci
Mezzo secolo di orgoglio bretone Oggi, fortunatamente, ci pare normale ascoltare musica di artisti appartenenti a culture minoritarie, come la sami Mari Boine, i tuareg Tinariwen e la kurda Aynur. Ma non era certo così mezzo secolo fa, quando l'Olympia di Parigi ospitò per la prima volta un concerto di Alan Stivell, il musicista che avrebbe segnato la nuova stagione identitaria della musica bretone. Il concerto del 28 febbraio 1972, registrato su LP e poi su CD (Alain Stivell à l'Olympia, 1972), dimostrò che l'arpa, la bombarda e la cornamusa potevano convivere perfettamente con la chitarra elettrica e con gli altri strumenti tipici del rock. Il numero di marzo della rivista Bretons ha dedicato la copertina ad Alan Stivell per ricordare questo concerto memorabile, tappa iniziale di un percorso che ha reso la musica bretone famosa in tutto il mondo.
Se la Corsica potesse cantare avrebbe la sua voce Petru Guelfucci 1955-2021 Petru Guelfucci, uno dei massimi esponenti della tradizione musicale corsa, è morto l'8 ottobre 2021 a Marsiglia dopo una lunga malattia. Nato a Sermano, da piccolo comincia a cantare con i custodi della tradizione isolana, sviluppando un marcato interesse per la polifonia. Nel 1973, insieme a Jean-Paul Poletti, fonda Canta u Populu Corsu, che si impone come uno dei principali gruppi isolani. Nella successiva carriera solista realizza vari dischi, fra i quali spiccano Corsica (1991) e l'ultimo Sì mea (2009). La sua fama non è limitata alla Francia: Guelfucci ottiene un grande successo nel Quebec e il suo primo LP, Isula (1987), vince il disco d'oro in Canada.
AUTORI Douglas George-Kanentiio Giornalista mohawk, direttore di Akwesasne Notes (1986-1993) e cofondatore della Native American Journalists Association. Ha pubblicato vari libri, fra i quali ricordiamo Iroquois Culture & Commentary (Clear Light Publishers, 2000) e People of the Flint: A Voice from the Mohawk Nation (ABC-CLIO, 2006). Diego Infante Laureato in Filosofia con lode presso l'Università degli Studi di Salerno, vicedirettore di Simbiosi Magazine. Il suo ultimo libro è Le ragioni del Buddha (Meltemi, 2018). Shimtihun Lyngwa Membro della comunità khasi del Meghalaya (India nordorientale). Inés Elvira Ospina Giornalista colombiana, redattrice della rivista Divulgacion científica. Insegna Giornalismo digitale alla Universidad de la Sabana (Bogotá). Lenka Tyrpáková Esperta di cinema, responsabile della programmazione del festival di Karlovy Vary.