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I crimini del colonialismo religioso
Antonella Visconti
Tra le altre opere ben gradite alla Maestà Divina e care al nostro cuore, questa è sicuramente la più alta, che nei nostri tempi soprattutto la fede cattolica e la religione cristiana siano esaltate e ovunque aumentate e diffuse, che sia curata la salute delle anime e che le nazioni barbare siano rovesciate e condotte alla fede. Bolla Inter Caetera, Papa Alessandro VI, 4 maggio 1493
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In Italia, se si eccettuano rare eccezioni, non è stata ancora compiuta una riflessione critica sullo sradicamento delle culture indigene causato dalla predicazione dei missionari cristiani durante i secoli scorsi. Non solo, ma la maggior parte delle associazioni indigeniste ha individuato nei missionari odierni degli alleati. Questa è un'idea molto discutibile, anche se è innegabile che oggi esistano dei missionari sinceramente votati alla difesa dei popoli indigeni. In ogni caso, un tema così articolato e complesso non può essere analizzato limitando la visuale a una parte della sua manifestazione attuale. L'edificio missionario ha radici storiche molto profonde: sarebbe quindi un errore passarle sotto silenzio e pensare che le missioni odierne fossero radicalmente diverse da quelle dei secoli scorsi. Inoltre la Chiesa cattolica, coerentemente, rivendica una piena continuità fra le missioni di ieri e quelle odierne. Delle prime, al massimo, condanna quelli che reputa errori ed eccessi, ma fa appello a un contesto storico che in qualche modo li avrebbe legittimati. La sostanza dell'azione missionaria non viene soltanto magnificata, com'è ovvio, ma viene presentata come un dono del quale i popoli indigeni sarebbero grati. Se così davvero fosse non si spiegherebbe la tenace resistenza che molti di loro hanno opposto all'evangelizzazione nel corso dei secoli. Pagine di storia che sono state cancellate con un tratto di penna, o al massimo considerate marginali.
Evidenziare l'effetto devastante che le missioni hanno svolto negli ultimi cinque secoli nei confronti dei popoli indigeni non significa condannare in blocco tutti gli uomini e le donne che hanno costituito la stuttura missionaria. Si tratta di una storia lunga e complessa, tutt'altro che univoca, all'interno della quale si sono manifestati orientamenti diversi. Proprio per questo, vale la pena ripeterlo, non si può certo negare che esistano e siano esistiti missionari animati da un sincero rispetto per i popoli indigeni. Non solo, ma alcuni si sono votati sinceramente alla difesa delle loro culture.
Ma l'impresa missionaria, considerata nella sua essenza più profonda, rimane uno strumento coloniale. Questo termine va ben oltre il significato che gli viene normalmente attribuito, perché si attaglia anche a contesti che prescindono dal colonialismo classico, a patto che concorrano tre presupposti: 1) un soggetto che rivendica la propria superiorità, derivante da certi valori; 2) il dirittodovere di imporli a chi è inferiore perché non li ha per 3) accrescere il potere della struttura – politica, religiosa o culturale - che incarna questi valori. Questi presupposti sono l'asse portante dell'idea missionaria, basata sulla pretesa di imporre la "vera fede" a popoli che devono essere "salvati" con l'annuncio della parola di Cristo. Tale pretesa si fonda a sua volta su quella che Jan Assman definisce distinzione mosaica, nella quale lo studioso tedesco individua la vera radice della religione cristiana. Quello che la distingue dalle altre, secondo lui, non è il monoteismo, che non rappresenta una novità, ma il fatto che questa religione si pone in urto frontale con tutte le altre, politeiste e no, dichiarandosi l'unica fede giusta. Non una fra le tante, come avevano fatto fino ad allora tutte le altre, ma la sola che coincida con una realtà oggettiva incontestabile. Una religione giusta e indiscutibile, in quanto tale, non ha confini – katholikos significa appunto universale – né limiti, perché tutto è lecito se viene fatto nel nome di Dio. Anche uccidere, che pure è vietato da un comandamento: si pensi alle Crociate, all'Inquisizione, alle donne arse vive nei secoli della cosiddet-
ta "caccia alle streghe", al ruolo decisivo che le Chiese cristiane hanno svolto nella pratica ripugnante dei convitti per indigeni, le famigerate scuole nordamericane attive fra il secolo diciannovesimo e ventesimo, delle quali parleremo più avanti.
È proprio questa logica intollerante e liberticida che costituisce il fondamento della struttura missionaria. Di conseguenza il rispetto delle culture indigene e l'azione missionaria sono legati da un rapporto di proporzionalità inversa: il primo aumenta tanto più quanto più la seconda si spoglia dei propri contenuti originari.
Ora che lo sanno
In passato i seguaci di varie ideologie sono stati costretti a riconoscere apertamente gli effetti devastanti che queste avevano avuto. Il caso più eclatante è quello dei comunisti, costretti ad ammettere il fallimento di una dottrina che doveva realizzare una sorta di Eden terrestre, mentre in realtà perseguitava, torturava e uccideva nei modi più disumani. Niente di simile è accaduto alla grande maggioranza dei cristiani, sebbene sapessero bene che la storia di questa fede è costellata di pagine sanguinose. Dalle Crociate all'Inquisizione, dal sostegno attivo del colonialismo agli spettacoli con gli indigeni in gabbia, tutti i crimini compiuti nel nome di Dio sono stati considerati normali incidenti di percorso che non mettevano in discussione la sostanza. La radice di questo errore non è nella religione cristiana in quanto tale, che come tutte merita il massimo rispetto, ma nell'intepretazione arbitraria che viene fornita dalla Chiesa. Postulando la coincidenza fra il dogma (la fede originaria) e il canone (l'interpretazione) sono state accettate idee del tutto assenti dalla religione vera e propria, come il celibato dei sacerdoti, il rifiuto del divorzio, l'uso della violenza fisica e psicologica per imporre la propria fede. Negli ultimi anni, a conferma di questo, la maggior parte dei cristiani ha manifestato la più olimpica nonchalance quando sono stati ritrovati i cadaveri di molti bambini indigeni che erano morti nei convitti gestiti da religiosi americani durante l'ultimo secolo. Innocenti cristianizzati a forza, costretti a parlare soltanto in inglese, a vestire come gli europei, umiliati, malnutriti, costretti a vivere in condizioni igieniche vergognose. Un tempo, come accadde in Germania dopo la Seconda guerra mondiale, i cristiani avrebbero potuto dire "Non lo sapevamo", ma con le fonti d'informazione che abbiamo oggi non possono farlo. Oggi non possono ignorare questi crimini. Ma ora che li conoscono, cosa fanno? Nulla: la loro unica risposta è il silenzio.
Antonella Visconti
Da sinistra: disegno di anonimo; il primo libro che denuncia lo stretto legame fra il colonialismo e le missioni cristiane, pubblicato da William Howitt nel 1838.
Due facce della stessa medaglia La maggior parte degli storici fa riferimento alle cosidette "tre G" (God, gold and glory, Dio, oro e gloria) per indicare gli obiettivi principali del colonialismo: la diffusione del cristianesimo, l'aumento della ricchezza materiale e l'espansione territoriale. In realtà anche altre religioni, in particolare quella islamica, si diffondono grazie alle missioni, ma soltanto quella cristiana sviluppa una struttura capillare che segna profondamente la storia degli ultimi cinque secoli.
Non esiste un caso in cui il colonialismo non si affermi senza il contributo decisivo dei missionari. Neanche la Francia, paese laico per antonomasia, può fare a meno di loro: "L'anticlericalismo non è un articolo da esportazione" dice nel 1885 il deputato socialista Paul Bert. Il 28 luglio dello ste-so anno, durante un dibattito parlamentare, il socialista Jules Ferry afferma testualmente: "Signori, bisogna parlar chiaro! Bisogna dire apertamente che le razze superiori hanno dei doveri precisi nei confronti di quelle inferiori…".
Il colonialismo politico e quello religioso, pur non procedendo sempre all'unisono, lavorano come due bracci di una stessa tenaglia per realizzare un'omologazione planetaria. La convinzione che anima i conquistatori è speculare a quella che muove i missionari: come i primi si impadroniscono di terre straniere per sfruttarle e accrescere il proprio potere politico, i secondi aspirano alle anime della gente che le abita per ampliare il potere delle Chiese cristiane.
I crimini compiuti dalle missioni per realizzare questo obiettivo sono di evidenza così solare che la stessa Chiesa cattolica li ammette in varie occasioni. La rivista missionaria Ad Gentes dedica un intero numero al tema "I peccati della missione" (XXIII, 2, 2017). Francesco Marini (1940-2016), missionario saveriano, scrive fra l'altro che "Non si tratta quindi solo di colpe di qualcuno, ma comuni; non di qualche momento, ma di secoli di prassi...". Il religioso condanna apertamente il "pre-giudizio anti-religioso che giudicava diabolica ogni religione non cristiana", aggiungendo "che l'evangelizzazione abbia accompagnato la colonizzazione, abbia cercato di sfruttarla e ne sia stata utilizzata, non solo ha rovinato l'annuncio, ma ha costituito pure in pratica una 'giustificazione' del colonialismo stesso agli occhi degli indigeni". Concetti analoghi vengono espressi da Atiliano A. Cebalos Loeza nel fascicolo monografico di Concilium dedicato a "Popoli indigeni e cristianesimi" (LV, 4, 2019).
Fra le tanti voci critiche spicca quella dello studioso lazarista Michael Prior, che nel libro The Bible and Colonialism (Sheffield Academic Press, 1997) sottolinea come il mito biblico della terra promessa sia stato utilizzato per legittimare le imprese coloniali europee. L'autore contesta efficacemente questa strumentalizzazione e accusa gli studi biblici convenzionali di aver sempre trascurato questa distorsione del messaggio originario. David M. Paton (1913-1992), missionario anglicano attivo in Cina durante gli anni Quaranta, si spinge ancora oltre: "Le missioni cristiane sono parte integrante dell'aggressione imperialista occidentale, ieri soprattutto britannica e oggi americana, ai danni dell'Asia e dell'Africa" (Christian Mission and the Judgment of God, 1953, p. 35).
Nonostante le posizioni fortemente critiche provenienti dagli stessi ambienti ecclesiastici, la grande maggioranze dei cristiani resta legata a stereotipi datati e conserva un'opinione assolutamente positiva delle missioni. Questa visione acritica si basa su nozioni vaghe e unilaterali. Le sue uniche fonti storiche sono quelle fornite dalle missioni stesse e dagli ambienti ecclesiastici ufficiali. Vengono volontariamente ignorate, al contrario, le testimonianze dei popoli indigeni, la loro resistenza, il trauma culturale derivato dall'imposizione di culture e religioni estranee, la devastazione psicologica che in molti casi è sfociata nel suicidio. Come in tutte le credenze dogmatiche – pensiamo al comunismo – la falsificazione della storia è necessaria per continuare a credere quello che si vuole credere, respingendo ogni opinione che potrebbe incrinare questa certezza granitica.
Culture cancellate L'affermazione del cristianesimo presuppone lo scardinamento di culture antiche, profondamente estranee alla logica giudeocristiana. A questo scopo i missionari devono compiere un lavoro lungo e complesso che agisca in profondità. Devono rimuovere, o in certi casi trasformare sostanzialmente, tutto il bagaglio che costituisce il fondamento di queste culture: lingue, cerimonie, modi di mangiare, di vestire, di concepire i rapporti familiari e i costumi sessuali. Convinti che le religioni autoctone non siano degne di questo nome, ma soltanto pericolose superstizioni, trovano perfettamente normale reprimerle fino a trasformarle in reati che vengono puniti con sanzioni fisiche.
L'intolleranza spietata dei missionari si abbatte come una mannaia anche sulle espressioni musicali dei popoli più diversi. Nel Canada bandisce il canto difonico degli Inuit; nello Zimbabwe (all'epoca Rhodesia) proibisce l'uso della mbira, lo strumento tipico del popolo shona; nelle Hawai'i vieta la hula, danza considerata lasciva e peccaminosa; nella regione scandinava proibisce ai Sami l'uso del tamburo. La ratio di questi divieti è fin troppo evidente: quello che vogliono estirpare è la
loro identità culturale, creando un vuoto che poi sarà colmato dalla nuova religione. In certi casi gli strumenti vengono sequestrati e distrutti. Anche templi, luoghi sacri, statue e altri oggetti di culto vengono abbattuti, spesso col contributo dei popoli stessi, che sono già stati indotti a rinnegare la fede ancestrale. In certi casi i missionari realizzano queste azioni iconoclastiche con un compiacimento sadico: "Quando li ho battezzati tutti ordino a loro di distruggere tutti i templi dei loro falsi dei e di fare a pezzi i loro idoli. Non so descrivere la gioia che provo quando vedo che lo fanno, quando vedo coi miei occhi che gli idoli vengono distrutti proprio dalle stesse persone che fino a poco prima li adoravano" si legge nella lettera che Francesco Saverio, missionario gesuita in India, invia alla Società di Gesù il 27 gennaio 1545. Questa mutilazione culturale produce una grave disintegrazione sociale, perché crea una frattura profonda fra coloro che aderiscono alla nuova religione e coloro che restano fedeli a quella autoctona.
L'iconoclastia prosegue regolarmente nei secoli successivi: "O tu maledetto tamburo [sami], strumento di Satana, siano dannati gli dei dipinti su di te. Siano maledetti il tuo martello e ogni tua parte. Sia maledetto chi ti batte e chi si serve di te, chi ti fa battere da un altro, come tutti coloro che ti usano come strumento di divinazione. Ogni suono che nasce da te è e sarà sempre la voce di Satana che viene dall'inferno, là dove sono gli spiriti dei dannati che tormenteranno e tortureranno questi infedeli" scrive Henric Forbus, diacono protestante svedese, ai primi del Settecento. Emerge ancora una volta la logica manichea tipica delle religioni monoteistiche: vero/falso, giusto/sbagliato, cristiano/satanico.
Nella cultura sami il tamburo, legato alla figura del noaidi (sciamano), occupa un ruolo centrale. Non a caso il periodo precristiano viene detto "tempo del tamburo", mentre quello successivo all'incontro col cristianesimo viene definito "il tempo in cui si doveva nascondere il tamburo".
Il vanto dei colonialisti
Il colonialismo politico e quello religioso cercano di occultare i rispettivi crimini accampando dei meriti. Il primo evidenzia le strade e le altre infrastrutture, come rivendica orgogliosamente Alberto Apozzi in Come l'Italia fascista costruiva le strade in Africa (Eclettica, 2020). Le missioni vantano invece il contributo "allo studio e alla preservazione delle lingue locali", come recita il manifesto a destra. Ma la realtà è diversa: i primi avevano bisogno delle strade per muoversi, i secondi dovevano imparare le lingue per comunicare con i popoli colonizzati. Anthony Gordon
Bambini rubati Il legame organico della struttura missionaria con il colonialismo politico non è una realtà storica remota, ma prosegue anche in tempi più recenti, diventando oggetto di dibattito in vari paesi di origine coloniale. Fra questi meritano particolare attenzione l'Australia e il Canada, che proprio negli ultimi anni svolgono ampie inchieste governative sul trattamento delle rispettive minoranze indigene.
Il 26 maggio 1997, al Parlamento federale australiano, viene presentato il rapporto della Commissione federale che è stata incaricata di svolgere un'inchiesta sul trasferimento coatto di bambini aborigeni operato in modo sistematico fra gli anni Dieci e gli anni Settanta (le cosiddette stolen generations). Durante questi decenni migliaia di piccoli aborigeni sono stati forzatamente sottratti alle rispettive famiglie e rinchiusi negli orfanotrofi con il proposito di "farne dei bianchi". Praticamente nessuna famiglia è scampata a questa tragedia, alla quale hanno dato un contributo decisivo molti missionari cristiani. Il rapporto, che accusa il governo federale di genocidio, chiede un adeguato risarcimento per le vittime. La tragedia è documentata dai libri di numerosi sopravvissuti, fra i quali spicca Dolores Pilkington Garimara, autrice di Rabbit-Proof Fence (1996). Il film omonimo (2002), diretto da Phillip Noyce, viene tradotto in italiano col titolo La generazione rubata.
Diverso in termini temporali, ma quasi identico nella sostanza, è il trattamento disumano al quale il governo canadese e quello statunitense sottopongono i ragazzi indigeni fra gli anni Sessanta del diciannovesimo secolo e la fine del secolo successivo. A questo lungo etnocidio sono dedicati film come Segreti dal passato (2008) e Indian Horse (2017). Ma mentre in Canada, come in Australia, si svolge una lunga indagine governativa su queste pratiche aberranti, nulla di simile viene fatto negli Stati Uniti. Questa eccezione viene ulteriormente sottolineata dal fatto che anche in Nuova Zelanda è al lavoro una commissione governativa analoga, che terminerà i lavori entro il 30 giugno 2023. Questi e altri casi affini, che spaziano dalla Siberia all'America "latina", dalle regioni scandinave al subcontinente indiano, sono documentati da una quantità imponente di studi accademici e testimonianze dirette dei sopravvissuti.
Le missioni sono colpevoli I missionari cristiani – cattolici e protestanti - forniscono un contributo rilevante al genocidio di molti popoli indigeni. Probabilmente la maggior parte di loro lo fa senza volerlo, animata dalle migliori intenzioni, ma la loro complicità nella distruzione di molte culture indigene è incontestabile. O meglio, può essere contestata soltanto se si crede che queste culture siano inferiori e come tali indegne di vivere. In altre parole, se si crede nella superiorità di un tipo umano specifico, l'uomo bianco, europeo e cristiano, e nella simmetrica inferiorità di tutti gli altri. Ma così facendo si cade in una contraddizione evidente, perché un comportamento così aggressivo e ostile contrasta in modo stridente con i valori di uguaglianza e fratellanza connaturati nel messaggio cristiano originario.
Look unto Jesus (Guardate verso Cristo): queste parole, esposte nei convitti per indiani gestiti da sacerdoti cristiani fra l'Ottocento e il Novecento, confermano che molti crimini contro i popoli indigeni sono stati compiuti in nome di Dio. Looking unto Jesus (Guardate verso Gesù): queste parole, esposte nei convitti per indiani gestiti da religiosi fra l'Ottocento e il Novecento, confermano che molti crimini contro i popoli indigeni sono stati compiuti nel nome di Dio Foto: United Church of Canada Archives.
The Decolonial Atlas
Questa collezione di mappe, fondata da Jordan Engel nel 2014, nasce dalla consapevolezza che la cartografia non è così oggettiva come si crede. I confini, le lingue e certe caratteristiche sono condizionati dalle idee del cartografo. La decolonizzazione presuppone un uso corretto della geografia, che include la rivitalizzazione delle lingue indigene attraverso la toponomastica. The Decolonial Atlas è un progetto gestito da volontari che viene offerto gratuitamente. https://decolonialatlas.wordpress.com