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L'ultimo tabù

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Le rivendicazioni dei popoli indigeni sono tante: politiche, linguistiche, religiose, territoriali. Molti governi non sono disposti a soddisfarle, così come la maggior parte delle persone è sorda a queste richieste. Altri, seppure pochi, sono invece sinceramente interessati ai loro problemi e si impegnano in vari modi per risolverli, o almeno per scalfire la coltre di apatia che li avvolge. Ma fra le tante diversità che i popoli indigeni rivendicano ne esiste una che mette a dura prova anche coloro che si dimostrano sensibili alle loro istanze: quella religiosa. Il motivo è semplice. All'insieme delle due religioni più diffuse – cristiana e islamica – appartiene il 56% degli abitanti del pianeta. Il restante 44% è composto da induisti (15%) e da un insieme eterogeneo (29%) che include sikh e zoroastriani, atei ed ebrei, giainisti e seguaci delle varie religioni indigene. Queste ultime, se vogliamo chiamare le cose col loro nome, sono le fedi che l'espansione delle due religioni più diffuse non è (ancora) riuscita a sradicare. Una ha lasciato un segno ben visibile, la lingua araba, ma l'altra può vantare una figura rilevante come il Papa e un proprio stato. La diffusione planetaria di queste due religioni è strettamente legata all'espansione coloniale. In molti paesi le fedi autoctone sono riuscite a sopravvivere grazie a forme originali di sincretismo. In estrema sintesi, hanno rivestito di una forma cristiana (o islamica) la sostanza dei culti originari. Ma la fede che dispone di maggiori mezzi politici e diplomatici, quella cristiana, non si è contentata di questo. Infatti le missioni sono sempre in piena attività, nonostante i continui appelli alla libertà religiosa che vengono da molti ambienti, incluso il variegato mondo cristiano. Certo, le missioni di oggi sono molto diverse da quelle dei secoli scorsi. Ma le ferite profonde dei crimini che queste ultime hanno compiuto restano. Pervasi da un fanatismo cieco che li induceva a cancellare tutto quello che non si conformava alla "vera fede", i missionari hanno distrutto per secoli documenti, templi, oggetti di culto, statue, strumenti musicali. Hanno messo fuorilegge lingue, modi di vestire, di cantare, di mangiare, di concepire i rapporti sessuali, in una parola di essere. Hanno calpestato e scardinato culture antichissime per imporre la propria, riducendo in modo sensibile la diversità culturale e religiosa del pianeta. Per "diffondere la parola di Dio" si sono lasciati alle spalle un cumulo sconfinato di macerie, di dolore, di sangue. Al tempo stesso, però, hanno sempre reclamato per sé quella libertà religiosa che per secoli avevano negato agli altri. Quello che dovrebbe essere considerato un crimine contro la diversità culturale e religiosa viene orgogliosamente rivendicato come "diffusione del cristianesimo" (o dell'Islam). Non è difficile difendere la diversità religiosa quando si tratta di cristiani, islamici o ebrei: in una parola, monoteisti. Seppure in modi diversi, si tratta di religioni che fanno parte della nostra quotidianità, che hanno avuto contatti intensi fra loro, che hanno in comune un presupposto fondamentale: la fede in un solo dio. Molto meno facile, al contrario, è difendere la diversità religiosa quando questa implica una pluralità di dei e/o uno stretto legame con la natura. In Europa, teoricamente, dovrebbe bastare far appello al mondo precristiano, quel mondo che costituisce una parte rilevante dell'educazione scolastica: pensiamo al latino, al greco, alla filosofia. Ma in pratica non è così: per molti il monoteismo è un dogma implicito, marmoreo e indiscutibile, un perimetro al di fuori del quale i diritti religiosi non valgono. Ma se è proprio vero che tutte le religioni hanno il diritto di esistere e manifestarsi liberamente, perché quelle politeiste e/o animiste dovrebbero fare eccezione? Un impegno sincero a favore dei popoli indigeni dovrebbe basarsi sulle loro necessità effettive. Se alcuni di loro, in un modo o nell'altro, hanno accolto religioni estranee e le hanno inserite nelle proprie culture, dobbiamo prenderne atto e rispettare questa scelta. Ma ne esistono anche tanti altri che reclamano il diritto di praticare la propria fede originaria. Anche questi devono essere rispettati e sostenuti. Da molti secoli le loro fedi sono minacciate da coloro che invocano la libertà religiosa non in quanto tale, ma soltanto quando è in pericolo la loro fede. Invece la libertà religiosa è un diritto che deve essere riconosciuto a tutti. Per ora, in linea di massima, non ci risulta che i paladini della libertà religiosa si siano mai preoccupati di quella dei politeisti e degli animisti. Anzi, molti pensano addirittura che averla soffocata sia un titolo di merito. Ma cosa direbbero, cosa penserebbero se una simile tragedia fosse accaduta a loro?

Giovanna Marconi

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