50-9 I Giochi dei Castelli di Carta A5 Ita book

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Prefazione Tutte le fiabe cominciano con C’era una volta… e rimandano a un mondo libero dalle costrizioni della realtà, istintivo e leggero, innocente e incantato. Nonostante il titolo sembri preludere a una fiaba d’altri tempi rievocando castelli incantati, I giochi dei castelli di carta, primo romanzo di Antonella Bevilacqua, è una favola per così dire capovolta. Non più streghe malvagie, fusi e mele avvelenate; non più orchi cattivi, gnomi e anelli magici, ma solo – si fa per dire – i giochi sottili, misteriosi e tante volte crudeli della vita. Le trame diaboliche del destino si intersecano e si scontrano con il carattere forte e deciso della protagonista, Sveva, la cui esistenza si dibatte tra tre tipologie di amore: convenzionale e platonico, proibito e irrealizzabile, violento e carnale. Tre uomini e una donna prigioniera di una storia d’amore con Marco troppo a lungo preservata e difesa sebbene a metà; di un rapporto ambiguo e per molti versi crudele con Andrea; della passione sfrenata e scevra di sentimento con Federico. Il contatto con tre facce di un medesimo sentimento pone Sveva di fronte all’imperativo di agire operando finalmente una scelta. Ma quale? Salvare il lungo rapporto con Marco e convolare a nozze? Tentare una storia con Andrea? Lasciarsi andare alla passione con Federico usandola come remedium doloris? Oppure salvare se stessa, prima che gli altri, ed emergere finalmente su un mondo maschile che vede in lei più che una compagna una mamma, un’amica speciale, un’amante?

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Davanti all’universo maschile che la colpevolizza privandola del suo essere donna, Sveva cerca di imporsi con la sua azione mascherando il suo disagio con un filo di rossetto, un trucco aggressivo, un abbigliamento audace, una collana di perle. Ma dietro la finzione, dietro la maschera pirandelliana, c’è l’inferno della depressione frutto di un sogno d’amore infranto, di una famiglia che non c’è, di una maternità mancata e soprattutto negata. La scoperta della sfera sessuale troppo a lungo rimasta tabu segna in lei il passaggio da una lunga adolescenza a una consapevole maturità. È una catarsi: la vecchia Sveva fa i conti con la nuova più audace e sicura. I castelli che aveva costruito intorno a sé figurandosi di volta in volta nel ruolo di amante, sposa felice e mamma, mostrano la loro fragilità di fronte a un universo maschile debole e per molti versi vile. Sono solo castelli di carta belli a vedersi ma in balia del vento alla sua prima folata. Se il castello strappato è un sogno infranto e mai realizzato, salda rimane la mano di chi lo ha pensato, ora più forte e decisa che mai: dopo tanti sì, Sveva riesce finalmente a dire un no. Un no urlato e tante volte desiderato, una vittoria, la sua vittoria, su un universo maschile che promette e non dà e si ritrae timoroso e infantile alle prime tempeste. Rende 6 Febbraio 2012

Giuseppe Squillace

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Capitolo I Era Natale. Stava cominciando a nevicare e si respirava intorno un’atmosfera di festa. I fiocchi di neve danzavano sulle luci natalizie che ornavano la città. Il cielo lattiginoso era di una bellezza incredibile e l’aria fredda pungeva il viso e mi faceva lacrimare gli occhi, che diventavano sempre più lucidi. Sul tardi, a sera, ci ritrovammo, vecchi compagni del liceo, nella nostra storica piazza. Marco arrivò dopo mezz’ora: era passato a prendere Adele. Ero nervosa, non sopportavo il suo ritardo. Litigammo tutta la sera ma alla fine ci baciammo. Sono passati molti lunghi anni da quel giorno, Marco ed io stiamo ancora insieme, tra alti e bassi. Mi rendo sempre più conto che ci sono molte cose che ci dividono, ma ormai stiamo insieme da così tanto tempo che tutti si aspettano un lieto fine, compresa io. Marco è un bambinone viziato, spende i soldi in cose inutili. Credo che questo suo modo di essere dipende da sua madre che gli ha sempre consentito di fare tutto ciò che ha voluto. La madre di Marco è sempre presente tra noi, non ha limiti,

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non lo lascia crescere, a me crea fastidio, ma è impossibile parlare con quella donna. È arrogante e, ogni volta che affrontiamo un discorso, finisce che litighiamo e io tiro fuori il lato peggiore di me. Vorrei che fosse Marco a capire che è ora di camminare da solo. Cambierà – penso - quando andremo a vivere insieme; io lo farò cambiare e lui diventerà più responsabile. Marco non mi desidera, non come un uomo dovrebbe desiderare una donna: questo lo percepisco, per quanto ancora ingenua. Mi ripete che il problema è mio, che sono frigida: per questo non insiste per avere rapporti con me. La cosa è un po’ anomala: due che si amano di solito fanno l’amore. Marco e io invece no. Usciamo con gli amici, andiamo a mangiare la pizza, ma non rimaniamo mai soli, né cerchiamo di farlo. Anche questo cambierà quando staremo sotto lo stesso tetto, penso. Ma la mia è un’illusione! La mia presunzione o ingenuità mi porta a credere che io avrò la fiaba a lieto fine. Ci sposeremo, avremo una casa e avremo una bella bambina, con gli occhi verdi e i capelli ricci, sì, sarà così, sarà certamente così. Mio padre e mia madre vogliono che io cerchi una casa da comperare: ormai lavoro, sono autonoma e posso affrontare queste spese. Mi dedico molto al mio lavoro, sono molto ambiziosa, lo so, ma è forse un male essere ambiziosi? Ancora oggi, dopo molti anni, cerco di dare il massimo. Hanno ragione i miei, è ora che io cerchi casa.

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Capitolo II Da bambina ho sempre adorato la casa di un’amica di mamma: le stanze non erano enormi, ma aveva un terrazzo grandissimo e meraviglioso, che in primavera si riempiva di fiori colorati. C’erano campanule di un blu cobalto come il mare d’estate, grappoli di rose rosse e ciocche di buganvillea color magenta, ibiscus scarlatti che si ergevano su un folto fogliame verde intenso. Tutto intorno il profumo afrodisiaco del gelsomino ubriacava l’aria. Ricordo che ogni volta che mia mamma ed io andavamo a farle visita, volevo vedere il terrazzo: mi dava un senso di libertà e di gioia. Le case, oggi, si comperano sulla carta. Si vede il progetto e si sceglie uno dei disegni, che quasi magicamente si trasformeranno in case. Il costruttore mi mette davanti uno di quei fogli con la planimetria del palazzo. Sono rimasti solo due appartamenti. “Sono rimasti questi due, deve decidere quale dei due vuole” sentenzia il costruttore, un uomo meraviglioso che oggi non c’è più, ma che ricordo con affetto.

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Non riesco a credere ai miei occhi: uno degli appartamenti disponibili è un attico con ampio terrazzo. “Prendo questo” dissi senza alcuna esitazione. Mio padre comincia a blaterare: “Sveva, è meglio l’appartamento del secondo piano, nell’altro avrai problemi di caldo e di freddo.” Rimango irremovibile, voglio la casa dei miei sogni. Così si conclude l’accordo. Sono emozionata, avrò quello che ho sempre desiderato. In fondo sono una ragazza fortunata! Controllo la costruzione del mio appartamento giorno per giorno: tutto deve essere al suo posto. Già vedo il terrazzo ricco di fiori colorati e pieno zeppo, nei mesi estivi, dei giocattoli della mia bambina. Mi consegnano le chiavi, l’appartamento è finito. Un attico bellissimo, con una posizione stupenda. Nel soggiorno troneggia un camino realizzato in tufo bianco e rosa. La bocca del camino è ornata da un doppio arco a sesto acuto, messo in risalto dai giochi dei due colori combinati; la cappa a ventaglio si chiude più stretta sull’alto soffitto e la luce che vi si riflette crea un’ombra a forma di mezza stella. Non ho pensato ad un arredamento tutto moderno, lo trovo freddo e impersonale; credo che mescolerò gli stili perché la mia casa deve essere calda, accogliente e, soprattutto, deve parlare di me. “Marco” dico un giorno “bisogna che cominciamo ad arredare la casa, poco per volta troveremo quello che ci piace e, a casa finita, potremo sposarci.” “Sveva tu corri sempre troppo” mi risponde “ le cose si fanno

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piano, con gradualità.” Non era la risposta che mi sarei aspettata, ero così eccitata all’idea di poter andare a vivere nella mia casa e invece lui, che pure sembrava partecipe, quando si parlava di concretizzare, sfuggiva e si infastidiva. “Cosa fai? Vuoi venire al mare con me o vuoi ancora pensare alla casa? Ormai è estate, ci penseremo in autunno, godiamoci il mare” insiste Marco. Non avevo voglia di andare a Diamante, benché nessun altro posto al mondo avrei scelto per le mie vacanze. Diamante: un paese stupendo, la città dei murales, dove arte e paesaggio diventano un’unica cosa, lambita dal mare e coccolata dallo sciabordio delle onde che si infrangono schiumose contro la scogliera. Ma non avevo voglia di passare le giornate a guardare Marco che parlava con sua madre o lavava la sua moto con la dedizione di un amante per la sua donna. Anche questo – mi dicevo - sarebbe cambiato una volta che avessimo vissuto insieme. Marco si sarebbe abituato, pensavo, alle mie cose: con questo desiderio parto per le ferie. Qualcosa dentro però mi inquietava, non ero tranquilla. Passavo le mie giornate a camminare lungo la scogliera, da sola, ad ammirare la bellezza del paesaggio. Pensavo al mio rapporto con Marco, anni in cui tutto sembrava perfetto, l’inizio di una vita, di una carriera, anni di felicità ed entusiasmo. E ora, all’improvviso, avevo l’impressione che i bei tempi si fossero incrinati e che, forse, stava per iniziare un lento declino. Soprattutto nell’ultimo anno percepivo la sensazione che qualcosa in me fosse cambiata, ma non volevo crederci e non affrontavo l’argomento. Mi rendevo conto che ormai

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avevamo ciascuno una vita propria: io ero impegnata a fare carriera, Marco, invece, era poco ambizioso, si accontentava e, soprattutto, stava dietro a sua madre. Ma non ci aveva mai sfiorato il dubbio che tutto questo fosse imperfetto. Non era certo il modo di iniziare una vita in due e di avere dei figli. Anche in vacanza vivevamo in due mondi diversi: Marco steso in riva al mare, io a fare passeggiate. Quando ci incrociavamo erano sempre scintille. Tutto quello che volevo fare in quel momento, era riflettere per trovare una soluzione e vivere felice accanto a Marco. Ma cercavo anche di fuggire dalla realtà: mi spaventava. Provavo un desiderio irrefrenabile di andare a leggere o a scrivere sul mio diario in cima alla scogliera. Alcune volte portavo con me un cavalletto, una tela con dei colori e dipingevo guardando al di là del mare blu cobalto, immaginando paesaggi infiniti e dorati dal sole: dipingere mi rilassava e mi teneva occupata la mente, ma soprattutto mi distraeva dai veri problemi. Oggi penso che volevo distrarmi proprio perché ero incapace di riprendere il filo della mia vita. I raggi del sole tremolavano sul mare e le onde si infrangevano sugli scogli appuntiti formando degli sbuffi bianchi e spumosi. Non mi stanco mai di guardare il mare, è inquieto come la mia anima, è sconfinato come l’amore che potrei dare! La sera invece amavo, e amo tuttora, passeggiare sul lungomare di Diamante: il panorama che offre questa lunghissima balconata sul mare è mozzafiato, il paese alle spalle e, davanti, una distesa sconfinata di acqua e la costa calabra di sera illuminata; quelle luci, in lontananza, sembrano tante

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Capitolo III Un giorno per caso, mia sorella, mi presentò Andrea, un uomo attraente, intelligente, affascinante. Aveva dieci anni più di me. Mi piaceva stare a parlare con lui e mi ero accorta che aveva per me premure e attenzioni che Marco non aveva mai avuto. Le attenzioni di un uomo maturo di contro a quelle infantili di Marco. Intanto ero dimagrita, con gran sollievo di mia sorella. Ma il mio dimagrimento si chiamava Marco e tutti i problemi indotti dal suo comportamento, nonché dalla continua pressione in cui mi ero trovata a vivere da un po’ di tempo. Erano passati diversi mesi dal nostro primo incontro, mesi in cui piano piano era nata una certa simpatia fra noi due. Ma Andrea, dal canto suo, non osava pensare a me. Aveva paura. Era consapevole che la mia presenza lo sconvolgeva, ma scacciava e negava a se stesso le sue emozioni. “Sei bella” mi diceva “sei bellissima, hai gli occhi che brillano come stelle”. E nel suo sorriso potevo vedere tutta la dolcezza di quelle parole, nei suoi occhi, di un caldo e ridente

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color nocciola, il desiderio cocente di me. Io ci scherzavo su cercando di ricacciare indietro un sentimento che non volevo accettare. Mi sembrava tutto così strano: lo ammiravo tanto, mi piaceva troppo. Qualcosa mi spingeva ad andare da lui con il quale parlavo come un fiume in piena. Era facile parlare con lui, non come con Marco che tramutava ogni discorso in discussioni e polemiche sterili. Già dai primi mesi in cui conobbi Andrea ebbi la sensazione che potevo fidarmi di lui. Io, ritrosa e schiva, gelosa dei mie pensieri, io che diffidavo di tutti, riuscii in pochi mesi ad aprirmi con un uomo che conoscevo appena. Trovavo in lui qualcosa di speciale: la sua calma serafica, i suoi modi garbati, il suo sorriso dolcissimo mi riempivano il cuore. Andrea sapeva leggere nei miei occhi il mio tormento, le mie paure: nessuno prima era mai riuscito a capire i miei silenzi. “Sveva tutto bene?” chiedeva. “Sì, grazie, tutto bene” rispondevo in tono secco. “Sicura? Hai gli occhi stanchi e spenti c’è qualcosa che ti fa star male?” continuava. I primi mesi io negavo questo mio malessere, non mi sembrava opportuno raccontare i fatti miei ad uno che fondamentalmente era un estraneo. Insistevo che tutto andava benissimo e che si trattava solo di stress da lavoro. Un giorno, poi, esausta per l’ennesima lite con Marco, piansi per ore. I miei occhi erano gonfi e rossi e tutti avrebbero capito il mio stato d’animo. Allora mi preparai con cura, misi molto trucco sugli occhi, in modo da mascherarne il gonfiore, e andai da Andrea. Appena entrata il suo sguardo e il suo sorriso accogliente mi fecero sciogliere come neve al sole.

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uscivo a resistere alla tentazione di vederlo, di sentire la sua voce, di rubare un suo sorriso. Era diventato troppo importante per me! Un pomeriggio l’aria fuori era gelida e il cielo era plumbeo. Mi preparai. Rimasi sorpresa nel constatare quanta cura mettessi nel vestirmi e truccarmi per un incontro di pochi attimi. Indossai un vestito nero con un’ampia scollatura e calzai degli stivali molto alti; un doppio filo di perle che mi pendeva tra la scollatura illuminava il mio aspetto. Arrivai puntuale all’appuntamento e, non appena entrata, lui mi accolse con il solito sorriso. “Sei bellissima ed elegantissima, dove devi andare dopo?” chiese lentamente. “In nessun posto, sono venuta qui e poi vado di corsa a casa ho del lavoro da finire” risposi. “C’è sempre un velo di tristezza nei tuoi occhi e non è giusto, sei bella, intelligente, devi dare una svolta alla tua vita” continuò. Ed io di rimando: “Ma, quando una è frigida, non può aspettarsi che un uomo, neppure quello che vuole sposarla, possa provare attrazione per lei. Ha ragione Marco: io non sarò mai in grado di provare emozioni, non potrò mai essere di un uomo in quel senso. Devo ormai farmene una ragione, devo rassegnarmi.” “Ma che dici, non è come pensi o come ti hanno fatto credere. Sei una donna stupenda, con te ci vuole tanta dolcezza e vedrai che tutto succederà, in modo semplice e naturale. Non credo che Marco questo possa dartelo. Da quello che mi racconti è un uomo infantile ed egoista.”

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Cominciai a piangere, lui aveva un modo tutto suo di parlare e a me piaceva. Nonostante ciò, non dovevo dimenticare che Andrea era sposato. Per questo mantenevo una certa distaccata freddezza. Passarono i mesi e la situazione con Marco non cambiò affatto, anzi le cose peggioravano, giorno dopo giorno. Nonostante ciò andavo avanti lo stesso nei preparativi di quella che doveva essere la casa perfetta per due giovani sposi. Nel frattempo avevo conosciuto, per caso, sull’autobus, un bel ragazzo e si era stabilita tra noi una sorta di amicizia telefonica. La cosa mi faceva piacere. Le sue telefonate mi tenevano compagnia, ma non riuscivo a capire cosa volesse da me, era una persona molto ambigua. In uno dei consueti appuntamenti ne parlai con Andrea. Oggi a distanza di anni credo che confidare a lui questo mio segreto fu la cosa più sbagliata al mondo! Rimasi sorpresa quando lui mi invitò a dare una possibilità a questo ragazzo. Diceva: “Sveva, dagli una possibilità, se tu vuoi lui cadrà ai tuoi piedi. Sei bellissima, non potrà resisterti e così la smetterai di pensare che sei frigida!” Mi sembrava che quelle parole avessero un senso, anche se in fondo mi ferirono. Avevo sperato che fosse lui a volermi e, invece, mi stava invitando a stare con un altro. I mesi passavano, le stagioni si rincorrevano ed io ero sempre sospesa nella mia vita inutile. La presenza telefonica di questo ragazzo mi teneva compagnia, anche se a volte ero stufa di ascoltare i suoi continui brontolii.

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fare in tutta la mia vita. Il merito era di Andrea, era riuscito con la sua dolcezza a farmi sentire una donna graziosa, ma anche del regime alimentare che continuavo a mantenere, nonostante tutto. Mai più falso fu un mio pensiero! In realtà il merito non era della dieta, che non avevo mai seguito, ma dello stress a cui ero quotidianamente sottoposta, che mi chiudeva lo stomaco: per giorni rifiutavo il cibo, ma ero troppo cieca e testarda per ammetterlo. La madre di Marco era insopportabile. Sempre in mezzo tra me e lui. Non riuscivo a parlare con il mio fidanzato in modo tranquillo, perché lei era sempre lì, pronta ad intervenire su qualsiasi cosa. Questo suo modo di fare mi innervosiva, ero cosciente che lei impediva a suo figlio di crescere e di prendersi le sue responsabilità. Ormai era una lite continua ma, scioccamente, pensai che tutto sarebbe cambiato dopo il matrimonio.

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Capitolo V Marco era preso come sempre da cose futili, non mi chiedeva mai come facessi a prendere delle decisioni per la nostra casa, non gli importava di arredarla, mentre io cercavo minuziosamente di trovare mobili che potessero andare bene, di stile e a buon costo. Perché i miei mi hanno insegnato che si deve risparmiare cercando di avere ciò che ci piace! Un giorno Marco mi disse: “Sai, Sveva, la mia moto ormai è vecchia e dovrei cambiarla.” “Ma, Marco, dobbiamo affrontare così tante spese e poi che te ne farai di una moto quando avremo una bambina? Lascia stare! Tieniti questa finché puoi.” “Vedremo, comunque io figli non ne voglio, costa troppo oggi mantenerli!” Rimasi senza parole! Speravo che quella affermazione fosse scaturita dall’immaturità del momento. Ci saremmo sposati e avremmo avuto una bambina: sarebbe stato Marco a volerla più di me.

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“Sì, molto. Ma poi mi è passato. Forse non è vero che sono frigida”. “No, non lo sei, il dolore che hai provato è una cosa più che normale, anche se credo non sia stato con te abbastanza dolce” rispose calmo, accendendosi il suo sigaro. Mi soffermai a guardare quel gesto che faceva sempre, con la solita cadenza lenta. Tirava fuori un sigaro e, con il tagliasigari, lo divideva in due parti esatte. Ne riponeva una e portava l’altra in bocca schiacciandone l’estremità; poi, sempre lentamente, l’accendeva, faceva due o tre tiri tutti di un colpo e quindi lo tratteneva a lungo tra le dita, di tanto in tanto ne aspirava un po’ ma, in prevalenza il sigaro si consumava senza che lui realmente lo fumasse. “Mi sento squallida” dissi con un filo di voce. “Perché mai? Non hai fatto niente di sbagliato! Marco non ti vuole come donna, non avevi alternativa per convincerti che sei una donna e per di più bella.” “Ma io sono fidanzata e devo sposarmi, questo pasticcio cambia la prospettiva delle cose e…” “E nulla! Se non sei sicura, non devi sposarti, sei in tempo per annullare tutto, non puoi sposare un uomo che non ti desidera, che non ti fa sentire donna.” “Sono sicura che tutto cambierà quando saremo sposati, solo che adesso sono piena di rimorsi.” “Non devi, Sveva, non hai nulla di cui vergognarti.” Ma perché Andrea insisteva con questa storia? Io mi sentivo piena di rimorsi e lui non capiva.

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Rimorsi per Marco ma anche nei confronti di Andrea. Quella notte, come quella precedente, non dormii, mi giravo e rivoltavo nel letto; la mia mente era offuscata da immagini orribili di me stessa. Se solo Marco non fosse stato così cieco, pensai, se solo avesse fatto un passo… Ma perché non aveva mai fatto l’amore con me? Continuavo a chiedermelo senza trovare risposta. Decisi allora di provare io a sedurlo: la cosa era assolutamente ridicola perché, nella mia visione complessiva delle cose, era l’uomo che doveva desiderare di far l’amore con una donna e non viceversa. A pensarci bene facevo un errore di valutazione! Il desiderio lo si deve avere in due in una coppia, ma è pur vero che, se un uomo vuole una donna se la prende, Marco, non mi voleva e non riuscivo a capirne la ragione. Tuttavia misi da parte il mio orgoglio e le mie reticenze e pensai a cosa fare. Dopo la notte passata senza dormire, mi alzai, al mattino, non certo con un bell’aspetto. Avevo gli occhi cerchiati e il viso tirato, ma ero decisa più che mai a fare un tentativo. Mi infilai sotto la doccia lasciandomi coccolare dagli spruzzi di acqua calda e da una morbida schiuma alle mandorle. Mi vestii e uscii per organizzare al meglio la serata. Tutto doveva essere perfetto, compresa io. Quanto sia stata sciocca solo adesso mi rendo conto: non si può tramutare in oro un sasso! Andai a fare la spesa, avrei preparato una cenetta per due e

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poi … e poi si vedrà, pensai. L’aria era frizzantina ma il sole in cielo era alto e scintillante, mi sentivo rigenerata, come sempre mi succede quando c’è una bella giornata di sole. Andai poi a comperare della biancheria intima un po’ accattivante, volevo fosse differente da quella usata per il book, che, a quanto avevo capito, Marco non aveva gradito. Per ultimo andai dal parrucchiere, per quella sera non volevo vedermi con i miei ribelli capelli ricci, scelsi la via del capello morbido e setoso. Tornai a casa e telefonai a Marco. “Ciao, che fai?” gli dissi. “Niente, ero a lavoro” rispose secco. “Ascolta, tesoro, stasera dovresti venire a casa, devo farti vedere delle cose che ho comperato, spero che ti piacciano”. “Ma devo andare in palestra! Lo sai che oggi è il giorno dello spinning, non possiamo fare domani sera?” Ero costernata, ero talmente presa dalla mia idea che avevo dimenticato la dannatissima palestra, ma ormai era tutto organizzato e Marco doveva venire assolutamente. “Lo so, tesoro, ma ho proprio bisogno del tuo aiuto stasera, per favore, non sarà la fine del mondo se perdi una lezione di spinning!”. Non riesco a ricordare quante polemiche lui abbia fatto. Ero esausta, volevo mandare all’aria tutto il progetto, ma una vocina interiore mi diceva che avevo il dovere di restare calma, convincerlo e provare, non potevo avere rimorsi. ”Marco, ti giuro, me ne ero dimenticata, non succederà più, per stasera fai uno sforzo per amor mio!”.

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mi sento morta dentro.” “Smettila, che vai farneticando? Tu sei bellissima e attraente, chiunque cadrebbe ai tuoi piedi, devi solo decidere cosa vuoi fare della tua vita! Sei in un limbo e ne devi venire fuori, non puoi continuare così. Questo lo capisci, vero? Devi prendere una decisione. Non puoi sposarti se non lo vuoi veramente. Cos’è successo. Si può sapere?” Le sue parole erano forti ma la sua espressione era di una dolcezza che, ancora oggi, se ci ripenso mi riempie il cuore di gioia. “Ieri sera ho organizzato una serata particolare per me e Marco, ma l’esito purtroppo è stato negativo”. “Spiegati meglio Sveva, non riesco a capire”. “C’è poco o nulla da capire, Marco non è attratto da me, non mi vede affatto come donna. Lui continua a sostenere che è colpa mia, che io sono bloccata e quindi lo inibisco”. “Sciocchezze, tu sei desiderabile e anche molto”. “Io, invece, credo che lui abbia ragione. Avevo indossato un bel vestito ma lui non se ne è accorto, avevo scelto con cura la biancheria intima, ma lui non ne è rimasto colpito. Anche i capelli…” “Sono bellissimi cosi acconciati, anche se tu stai bene con i tuoi morbidi riccioli.” “Lei si è reso conto che sono andata dal parrucchiere, Marco non sa neppure se ho i capelli ricci o lisci. Comunque, la serata è stata un disastro. Ho pianto tutto il week end e non sono riuscita a darmi spiegazioni che abbiano un senso. Ma so che devo salvare il mio rapporto con Marco, da troppi anni stiamo insieme. Se lo lascio, non so cosa farà e io non voglio

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costruire la mia felicità sull’infelicità altrui, men che meno su quella di Marco.” “Stai sbagliando. Chi pensa a te? Nessuno!” “Sì, è vero, ma io sono abbastanza forte da superare ogni cosa.” “Sveva, per l’amor del cielo, rifletti e prendi la decisione giusta per te, finché c’è tempo. Non sposarti!” Andrea sembrava davvero preoccupato e partecipava con dolore alle mie vicende, o almeno così mi pareva. Lo sentivo vicino e la sua voce calda e tranquilla mi infondeva sicurezza e serenità. Ma era sposato! Se avesse percepito che mi ero legata a lui tutto sarebbe cambiato, non mi avrebbe più permesso di andare ogni settimana, così come facevo ormai da due anni. Dovevo dimostrarmi con lui molto distaccata se volevo continuare a vederlo, e io volevo. Il mio malessere cresceva sempre più e anche quel giorno, uscita dal suo studio, chiamai Federico, in preda a una crisi di pianto. Certo non era una persona comprensiva, ma mi ascoltò, o forse fece finta. Comunque sia andata la cosa, lui era lì, pronto a tenermi compagnia e, quelle rare volte che ci vedevamo, mi dava del sesso, non so bene se di qualità o no, non avevo sufficiente esperienza per giudicare, ma bastava a non farmi sentire una “diversa”, una “non-donna” e di questo gli sono grata ancora oggi. “Ciao Federico, come stai?” gli chiesi.

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“Bene, un po’ stanco e tu, tutto bene? Ti sento un po’ giù di morale” fece lui. “Sì, qualche problema sul lavoro, ma risolvibile.” “Solo sul lavoro o c’è dell’altro? Come vanno le cose con il tuo fidanzato?” “Malissimo” - scoppiai a piangere. Piangendo raccontai tutta la storia a Federico, che rimase in silenzio. Solo oggi ho capito quanto sia stato sbagliato dire la verità! Lui si limitò a dire che erano vicende troppo personali e lui non si sentiva di dare alcun consiglio. Io di buoni consigli , invece, a lui ne avevo dati e gliene davo ancora, ma ero troppo stupida e ingenua, allora, per capire che Federico prendeva e non dava nulla in cambio. Cambiò discorso e io capii che poco o nulla gli importava di quanto gli stavo dicendo, ma forse era meglio così, mi distraeva dalle mie cose. Mentre passeggiavo lungo il corso, con Federico sempre al telefono, sentii un brivido improvviso: la sera era scesa e un vento freddo agitava gli alberi che lambivano i marciapiedi. La mia mente andava alla sera precedente, quando Marco, per l’ennesima volta mi aveva rifiutato. Forse, pensai, mi ero appena svegliata da un incubo, forse non era successo… ma com’era possibile che non riuscissi ad essere desiderabile per l’uomo che avrei dovuto sposare? “Sveva, ma ci sei?” La voce urlante di Federico mi riportò alla realtà. “Sì, ci sono, mi ero distratta guardando un vestito nella vetri-

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na di un negozio” risposi. “Perché non vieni a trovarmi? Oppure vengo io per Natale a salutarti?”. “Sarebbe meglio che venissi tu, Federico, io non posso viaggiare ora, non me la sento”. “Va bene allora ti porterò un regalo, cosa vorresti?” “Assolutamente nulla” risposi sorridendo. “Comunque ora devo andare, ti telefono più tardi, un abbraccio” chiuse la telefonata e io ne fui sollevata. Arrivai a casa mia e sprofondai in un pianto disperato mentre pensavo alle parole di Andrea - Non sposarti se non sei sicura di volerlo fare - e mi sentivo impotente. Pensai che avevo vissuto per anni tranquilla e in completo anonimato, comportandomi sempre in modo ineccepibile, cercando di essere la persona che gli altri volevano che fossi. Ma io cosa volevo? Chi ero? E soprattutto cosa mi stava succedendo? Mi ero innamorata di un uomo sposato che non avrei mai potuto avere e mi ero concessa a un ragazzo per il quale nutrivo affetto e al quale, mi rendevo conto, facevo sempre più da mamma, proprio come con Marco. Non vedevo vie di uscita, ero soggiogata dai sensi di colpa e, nello stesso tempo, desideravo una vita diversa da quella che stavo conducendo. Passai molte notti senza dormire e dimagrivo sempre di più, ma mi sforzavo di pensare che tutto sarebbe cambiato un giorno o l’altro. Intanto arrivò Natale. Federico mi venne a trovare, così come mi aveva detto. Mi

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portò una sciarpa di lana bianca impreziosita da fili di seta, dai colori caldi, che penzolavano alle due estremità. Dopo pranzo mi condusse a casa di suo fratello, lì Federico mi attirò a sé, finché il suo corpo fu vicinissimo al mio: la sua presa era salda e decisa, le sue mani scivolarono lungo la mia schiena. La sua bocca si apriva con voracità insinuandosi nella mia, il sangue che fluiva nelle vene cominciò a pulsare. Ero dominata dalle sensazioni, per me del tutto nuove, che stavo provando, tanto che quasi facevo fatica a respirare. Sapevo che era una cosa sbagliata quello che stava succedendo, ma il mio corpo reagiva senza ascoltare la mia anima e si protendeva vorace a prendere ciò che desiderava. Per la prima volta mi sentivo viva ed era bello essere l’oggetto della sua bramosia. A differenza di Marco, Federico era voglioso e poco romantico ma allo stesso tempo eroticamente eccitante. Mi guardava le labbra e poi in basso sui seni, scoperti ed offerti alla sua vista e, nei suoi occhi, balenava un desiderio improvviso, come se avesse una gran sete e dovesse bere tutta l’acqua del mondo. Mi girava la testa, in quel momento volevo e avevo bisogno che lui mi facesse sua, ansimavo perché anche io provavo un desiderio simile al suo. Mi possedeva in modo violento, e mi trovai – lo ammetto- a desiderare che non smettesse, perché mi piaceva la sua forza feroce e il suo ritmo selvaggio. Due ore più tardi ci rivestimmo e ognuno tornò alle proprie cose.

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Capitolo VII Che fine avevano fatto le giornate spensierate che passavo con Marco e le allegre risate? Come mai lui era cambiato? O forse ero io ad esser cambiata ed ero diventata donna senza accorgermene? Mi risuonavano nella mente tutti i discorsi fatti con Andrea, l’uomo che adoravo al pari di un dio greco, per il quale provavo un sentimento insano. Mi tornavano in mente le ore passate con Federico e mi sentivo divorata dai rimorsi. Erano mesi che non dormivo più e mangiavo appena, i miei occhi ormai erano sempre cerchiati da un alone bluastro. Decisi di telefonare ad un mio amico psichiatra, avevo bisogno di essere aiutata. “Sveva, cos’è successo?” rispose Salvo preoccupato al telefono, poiché era insolito per lui sentirmi in quello stato. “Salvo, ho bisogno di vederti, devi aiutarmi, credo di essere sull’orlo della pazzia.”

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Capitolo VIII Avete già fissato la data delle nozze? Mi svegliai d’improvviso con il cuore che batteva forte in preda al panico: avevo sognato qualcuno che mi poneva questa domanda, e il sogno mi sembrava realtà. Sposarmi io? Mi sembrava un’eventualità davvero troppo remota, in questo momento poi, in cui non stavo bene! Non mi ero ancora abituata all’idea di poter essere legata da un vincolo così forte. Ma tutti si aspettavano che io facessi quel passo. Non ora, stavo troppo male e poi dovevo chiarirmi le idee. Ma la casa era già pronta, mancavano pochi dettagli, Marco ed io avevamo un lavoro, forse era davvero tempo di decidere la data delle nozze. Questi pensieri si affastellavano nella mia mente confondendola sempre più. Tutt’ad un tratto pensai ad Andrea: come sarei stata felice se fosse stato lì con me.

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Ma la sola idea mi fece rabbrividire e mi ritornò il lacerante senso di colpa. ”Ma perché pensi a lui?” mi rimproverai “non è l’uomo che devi desiderare, non sarà mai tuo in nessun modo, né come amico, né come uomo, né come amante! Pensa a Marco, è lui il tuo uomo e devi sposarti prestissimo!” Una vocina mi consigliava di fare il passo al più presto, eppure, nel contempo, non riuscivo a fare a meno di pensare ad Andrea e desideravo vederlo proprio in quel momento. Quanto può ingannare la mente umana! Nonostante il freddo pungente uscii in terrazza e, avvolta nel mio poncho, sorseggiai una tazza di rooibos, the rosso dei Masai, gradevolmente aromatizzato all’arancia. La fresca brezza ebbe su di me un effetto rifocillante. Sopra di me il cielo si stava scurendo e il sole cedeva il posto alla luna e alle stelle che già incominciavano a intravedersi, nonostante ancora flebile vi fosse un bagliore di luce. Puntuale arrivò la telefonata di Federico. Non avevo voglia di parlare, anche perché le gocce che avevo preso mi avevano fatto cadere in uno stato di torpore. Risposi senza entusiasmo e lui se ne rese conto. “Cosa hai?” mi chiese. “Federico purtroppo non sto bene, mi hanno prescritto delle gocce per sedarmi e farmi dormire, sono mesi che non dormo! Il mio cervello, ed anche il mio fisico non reggono più” risposi con quel po’ di forze che avevo. “Non credo che facciano bene le medicine, io sono contrario e mi fai arrabbiare se le prendi. Non devi assumere farmaci, poi fai come vuoi!”

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Dovetti stare a sentire i suoi rimproveri, sembrava sinceramente preoccupato per me, poi cambiò discorso e cominciò a parlare di se stesso (quello era il vero senso della telefonata), ascoltai per un po’, ma non ce la facevo a sentire, tanto meno a rispondere, mi scusai e chiusi la conversazione. Era come se il corpo e la mente fossero in me due entità differenti. Quella notte dormii profondamente, così come le notti successive. Dopo un mese di cura del sonno, sembravo più positiva e in grado di poter affrontare quel matrimonio che ormai non si poteva più rimandare. Ma la serenità durò poco, e la mia ancora meno! Da mesi tenevo sotto controllo un nodulo che si era venuto a formare ad uno dei seni, una mattina decisi di andare a fare il consueto controllo. Ero tranquilla, non era il primo che facevo, ma, purtroppo, quella volta dall’ecografia si evinse un raddoppiamento del diametro del fibroadenoma. Il medico cercò di rasserenarmi: “Non si deve preoccupare, fino a tre centimetri possiamo stare tranquilli, il suo è di un centimetro e mezzo.” “Dottore, non sono una stupida, la crescita non può, in soli tre mesi, essere così veloce, quindi c’è qualcosa che non va.” “Sì. Lei ha ragione, in genere si ha una crescita lenta di questi tipi di noduli. Ma i contorni sono regolari, è ancora piccolo. Non mi preoccuperei molto, certo lo teniamo sotto controllo più marcato.” Per quanto fosse bravo, io non ero convinta che tutto andas-

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re da noi il giorno prima.” Andai in panico perché avevo solo quattro giorni per fare le analisi e partire. Chiamai Andrea. Era lui che volevo. “Hanno fissato la data dell’operazione ma vogliono le analisi subito” gli dissi al telefono. “Ti aspetto domani mattina, faremo tutto nel tempo più veloce possibile, Sveva, stai tranquilla, non preoccuparti” rispose con la sua solita calma. In effetti fece di tutto perché io avessi i risultati nel giro di due giorni, telefonò non so neppure io quante volte, sembrava un pazzo, mi resi conto che era preoccupato. E ancora oggi, credo, che preoccupato lo fosse realmente. Gli esiti dell’operazione tranquillizzarono me e le persone che avevano trepidato insieme a me nell’attesa. Non si trattava di un cancro ma di un fibroadenoma di natura benigna. Di quell’evento, che ora non ha lasciato tracce, neppure la cicatrice è più visibile, ricordo tutto nei minimi particolari. Ricordo soprattutto che, nel momento in cui ero lì, nella sala operatoria, sola, pensai ad Andrea per darmi forza, era l’unica persona che avrei voluto accanto a me.

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Capitolo IX Stavo preparandomi per andare a lavoro, quando sentii un impulso incontrollabile di vedere Marco. C’era un sole già caldo su di me, anche se l’aria mattutina era ancora fresca e frizzante. Mi misi in macchina e andai da lui: forse era arrivato il momento di decidere la data del matrimonio. Sarebbe stato meglio per tutti: Marco avrebbe avuto una vita più regolare e sarebbe diventato un marito perfetto, io mi sarei lasciata alle spalle gli eventi negativi, avrei rotto il filo di Arianna con Federico e non sarei andata mai più da Andrea, dal mio Andrea, un amore impossibile che mi faceva star male. “Marco” dissi abbracciandolo “voglio dimenticare tutto ciò che è successo e vivere una vita tranquilla, voglio dedicarmi al mio lavoro e amare te e avere dei figli. È arrivato il momento di fissare la data delle nozze”. Marco non reagì con l’entusiasmo sperato, ma lui era fatto così, era apatico di fronte a qualsiasi cosa.

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Capitolo X Partii per Diamante, felice di poter riposare e dedicarmi a cose che durante l’anno non potevo fare o facevo nei ritagli di tempo. Mi sarei abbandonata a un riposo assoluto per ritrovare il benessere interiore che mi mancava. In fondo, era giusta la definizione che di me aveva dato un mio caro amico, mi aveva detto: “Sei come una mandorla, sotto il tuo guscio duro, forte e sicuro, celi un cuore tenero e ricchissimo, la cui dolcezza ti rende fragile e sensibile.” Avevo costretto Marco a comperare una piccola imbarcazione, non avevo voglia di stare sulla battigia mentre all’orizzonte mi aspettava, maestosa, la mia isola. Un’isola piccolina la cui forma ricorda un cucciolo di balena. Tutte le mattine ci recavamo lì con la nostra barchetta e io mi godevo il sole in completa libertà. Rimanevo sdraiata e mi lasciavo cullare e coccolare dal dondolio della barca, mentre il sole mi scaldava la pelle lasciandomi un colorito bruno invidiabile.

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Il contatto con la mia isola e con il sole mi procurava sollievo; godevo dell’armonia di profumi che quella macchia mediterranea emanava. Profumi frizzanti e allegri, che la brezza del mare risvegliava e spargeva intorno. Gli effluvi intensi del mirto selvatico che ricopre l’ isola si intrecciavano agli agrumi e al gelsomino che prepotente mescola gli odori. Chiedevo a Marco di spalmarmi la crema solare e mi inebriavo anche di quel profumo di dolce vaniglia, cocco e zenzero piccante. L’isola per me aveva un effetto magico, tanto da rilassarmi anima e corpo: speravo ogni giorno che il mio soggiorno lì si prolungasse. Nel pomeriggio, quando gli abitanti delle barche intorno all’isola sonnecchiavano, l’isolotto era senza rumori, avvolto in una pace assoluta: mi tenevano compagnia solo lo sciabordio delle onde, lo stridulo garrito dei gabbiani in cerca di cibo e il frinire delle cicale. Marco era inquieto, come al solito. Non riusciva a godere di quella pace e la cosa mi innervosiva: fosse stato per lui sarebbe andato sotto e sopra a zonzo con l’imbarcazione! Ogni giorno dovevo lottare per rimanere sull’isola e non riuscivo a comprendere il suo modo di fare: avevamo quel paradiso tutto per noi, un luogo che chiunque ci avrebbe invidiato ma lui preferiva costeggiare la spiaggia per sbirciare chi ci fosse ai lidi, magari qualcuno che conosceva, qualche monotono amico o sciocca amica con cui parlare di cose ancora più stupide.

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non andasse bene in me. Eppure Federico ci metteva un secondo ad eccitarsi in mia presenza e non mi dava il tempo di uscire dai vestiti che già era su di me voglioso e avido di sesso. Lo avevamo fatto poche volte, ma il rapporto era stato intenso, anche se per me era stato puro sesso e niente più. “Oh!” pensavo stupidamente “Se solo Marco mi avesse desiderato in quel modo, sarebbe stato perfetto! Gli volevo bene, sarei stata soddisfatta come donna e avrei avuto dei bambini”, ma mi ingannavo. Decisi di parlargliene. Preparai il caffè e glielo portai a letto. “Ciao” sorrisi. “Buongiorno” si stiracchiò lui. “Tesoro, credo che noi dobbiamo parlare di una certa cosa” cominciai. “Di cosa, Sveva?” “Non mi sembra carino che tu non mi voglia in quel senso!” “Quale senso?” “Non facciamo l’amore o sesso, come vuoi chiamarlo, non è naturale, io non mi sento molto donna così.” “Ma dai, Sveva, smettila! Sei una bambina! E poi tu vedi il sesso solo per procreare.” Si alzò, si chiuse in bagno e troncò così la discussione, lasciandomi nello sgomento e nella disperazione. Intanto le settimane di ferie passarono in un baleno, non affrontai più l’argomento e passavo il tempo tra la mia isola, gli scogli, dove leggevo o dipingevo, e le passeggiate serali a Diamante.

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Non so cosa faccia ora, se si sia sposato, se e dove lavori. A dire il vero, non mi importa, spero solo sia diventato una persona migliore. La cultura, credo, debba aprirti verso orizzonti sempre nuovi e migliorarti, per Federico non era così. Peccato! Intanto ero riuscita a stare due mesi lontana da Andrea, anche se i miei pensieri erano per lui. Mi chiedevo se stesse bene, mi sforzavo di ricordare il timbro della sua voce. Tra l’indifferenza di Marco e il dolore per la mancanza di Andrea, fui investita da una sorta di ansia depressiva. Piangevo ogni giorno e non combinavo nulla, neppure al lavoro. Chiamai nuovamente Salvo. Con la velocità di un lampo, Salvo era pronto a ricevermi, capiva che, se lo cercavo, era perché stavo molto male, e lui che mi conosceva bene sin da bambina, comprendeva che, nonostante il mio carattere ferreo, ero ormai crollata. Troppi eventi, troppe insoddisfazioni, l’intervento chirurgico a cui si erano aggiunte, improvvise, altre situazioni spiacevoli, mi avevano distrutto completamente. Mi sentivo senza più forze, senza alcuna risorsa interiore. “Sveva che ti è successo?” Salvo era sempre molto pratico e incisivo, non girava intorno al problema, ma sferrava la domanda in modo chiaro e diretto. “Salvo, stavolta credo di non potercela fare da sola. Ti ho chiamato perché ieri pomeriggio, dopo l’ennesima crisi di pianto, ho avuto l’impulso di buttarmi giù dal terrazzo. Vede-

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dire Andrea, la sua fiducia, la persona che mi aveva sostenuta e capita di più al mondo. Ma capivo che il percorso che Salvo mi aveva tracciato dovevo seguirlo. Decisi di raccontare tutto alla psicologa, o quasi tutto… Andrea lo avrei tenuto nelle segrete del mio cuore, solo per me, lui non poteva essere oggetto delle indagini introspettive, lui era dentro di me e nella mia mente e non poteva essere condiviso con nessuno. Ma alla fine, la psicologa fu bravissima, riuscì a scavare nell’angolo più riposto del mio cuore, facendo saltar fuori quello che volevo rimuovere o celare: Andrea! La mia era una sorta di rimozione pascoliana, ne facevo uso per non provare dolore. Sciocca!

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la terrazza sorseggiavo il mio caffè bollente, avvolta in una morbida coperta di pile. Dal mio terrazzo, guardando in tutte le direzioni, si possono scorgere le montagne e le valli coperte di pini e allora, in autunno, qua e là si intravedevano alberi accesi dai mille colori autunnali, dal verde al giallo, all’arancio, al ruggine, al rosso vermiglio. Il paesaggio che si offriva ai miei occhi era una tavolozza di colori uscita dai quadri degli impressionisti, era bello da guardare ma era anche triste, perché da lì a poco le foglie già caduche avrebbero lasciato il posto a rami scheletrici e tetri. Decisi di andare a Diamante. Mi rifugiavo sempre a Diamante quando ero triste: il paese, il mare, l’aria e l’atmosfera magica che solo questo borgo sa offrire erano una panacea per me. A Diamante mi rilassavo e tutto mi sembrava veramente più sopportabile. Passeggiai sul lungomare di fronte al mare blu cobalto, assaporando quel senso di pace che si ha nel contemplarlo. Il mare era lì, pronto a pacificare il mio animo ferito. Sentivo sotto di me il rumore delle onde che si infrangevano sugli scogli; la brezza leggera che si era levata mi accarezzava il viso, rigato dalle lacrime, e portava con sé l’odore acre della salsedine. Respiravo con gli occhi chiusi quell’aria salmastra, come qualcuno che ha bisogno di più ossigeno per vivere. Pensavo a tante cose: pensavo a Marco, ad Andrea, a me stessa che non ero in grado di prendere una decisione. Mi odiavo per questa debolezza.

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Ma dovevo impormi di restare impassibile, glaciale davanti a quella che per me era una tragedia interiore. Non dovevo mostrarmi alla gente, tanto meno a Marco o ad Andrea, né allegra né triste. La simulazione del distacco dalle cose che mi succedevano era un contegno che mi si imponeva per la mia stessa sopravvivenza. A Diamante le buganvillee e gli ibiscus erano ancora carichi di fiori, niente faceva pensare che eravamo in pieno autunno. Le piante erano rigogliose e fiorite: questo per me era rigenerante perché mi faceva pensare alla vita, alla gioia. L’unico segno dell’autunno erano le bacche mature dei mirti che ricoprivano le scogliere tra Diamante e Cirella. C’era silenzio intorno a me, nessuno passeggiava per il paese, era ora di pranzo. Io non avevo voglia di mangiare, volevo solo ascoltare il suono del mare misterioso e indescrivibile, che riusciva a placare la mia inquietudine. Pensavo troppo, questo era il mio problema! Avrei dovuto pensare più a me, meno agli altri e vivere serena! Invece ero soffocata dai desideri altrui, da sempre! In tutti questi anni mi ero chiusa in me stessa, come un riccio tra i suoi aculei; temevo che, aprendomi al mondo, avrei avuto più da perdere che da guadagnare. Forse era vero! Ciò che temevo si era alla fine avverato. Mi stava crollando addosso il castello dorato, che credevo saldo e solido come una roccia. Era bastato aprire gli occhi e guardare il mondo, respirare a

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me fonte di grandissime sofferenze e profonda infelicità: era l’unica cosa di cui ero certa, per il resto brancolavo nel buio più totale. Ormai il sole stava tramontando e la brezza marina aveva notevolmente rinfrescato l’aria, i miei occhi gonfi di lacrime si erano nutriti abbastanza dell’azzurro del mare di Diamante e dei colori che regalava il paese. Era giunto il momento di ritornare alla realtà; mi misi in macchina e ritornai a casa.

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Pioveva e l’atmosfera natalizia non mi dava quella serenità che speravo. Trovai una scusa per andare da lui. Un pensiero per Natale. In realtà non avevo voglia di andare in giro per regali. Gli antidepressivi mi avevano stroncata. Ma dovevo trovare una scusa plausibile per presentarmi a lui dopo il mio silenzio. Desideravo, nei miei sogni, che diventasse per me un tenero e dolcissimo amante. Ma era saggio aspirare a ciò che non si poteva avere? No, non lo era. Ma non potevo più sopportare la mancanza di quell’uomo meraviglioso. Non l’avrei mai avuto, ma almeno lo avrei incontrato come sempre, per pochi minuti. Minuti che mi davano la carica e la forza di andare avanti. Sarebbe stato per sempre il mio angelo custode. Bussai alla sua porta. Andrea mi aprì e rimase incredulo nel vedermi. Si schiuse in un sorriso caldissimo, che mi riempì il cuore di felicità. “Sveva, come stai?” “Bene… antidepressivi a parte.” “Perché? Cosa ti è successo?” “Tante cose, tanti pensieri. Ma non ho voglia di parlarne. Sono solo venuta a farle gli auguri di Natale e le ho portato un piccolo pensiero, una banale bottiglia di Ferrari, niente di originale.” “Sei pallida e spenta, questo non va bene.”

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“Non ho molti motivi per essere solare e piena di vita; ma passerà: sono forte abbastanza per riprendermi.” “Quando ci vediamo?” “Quando vuole lei.” Non decidevo mai quando dovevo vederlo, lasciavo che fosse lui a deciderlo. Ancora oggi, ripensandoci, la trovo una cosa stranissima! Io che ho sempre deciso ogni cosa, permettevo ad Andrea di decidere, avrei fatto qualsiasi cosa per lui. Cercavo di mantenere una certa distanza, non concedendomi mai di dargli un tu confidenziale: questo mi avrebbe protetta dal mettere a nudo i miei veri sentimenti per lui.

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Capitolo XIV Provo una grande inquietudine interiore: anche quando tutto è bello intorno, quando c’è molta gente che mi elogia, che mi apprezza, io ho voglia di scappar via. Continuo a scrivere la mia storia senza trovare soluzioni: probabilmente, non ci saranno soluzioni accettabili tout court. Facendo un bilancio degli ultimi miei anni, vedo una Sveva chiusa in un castello bellissimo, dalle pareti affrescate e dorate, un castello costruitomi sapientemente giorno per giorno, anno per anno. Ho provato con l’aiuto della mia psicologa, in una delle ormai innumerevoli sedute, ad analizzare questo mio castello dorato. L’ho visto solido e imponente, perfettamente adeguato al mio modo di essere, irraggiungibile e impenetrabile per chiunque volesse entrarci e farne parte. Non ci sono finestre nel mio castello, sono tutte immaginate da me, non ci sono porte per entrarvi, ci sono già io e questo basta; ci sono però innumerevoli stanze, grandi, anzi grandis-

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sime, in cui perdersi come in un mondo vuoto. Mi sentivo completa in me stessa e accettavo passivamente le regole che mi ero imposta, quasi fossero necessarie alla mia stessa esistenza. Avevo creato intorno a me e al mio castello un’aura di sacralità e di inviolabilità, plasmando la realtà in modo da deformarla. Mi sono rifugiata per anni nel mio castello per rifiutare il confronto con gli altri, perché incerta delle mie capacità e timorosa di non riuscire a difendermi da niente e da nessuno. Non mettendomi in gioco, mi tutelavo dalle sconfitte, che per me erano certe, e più mi convincevo di questo, più innalzavo le mura del mio castello. Ero incapace, e forse lo sono ancora, di sopportare un rifiuto. In alcune situazioni mi sentivo, e a volte mi sento ancora, inadeguata. Credo che avevo concesso a Marco di vivere nel mio castello perché con lui io non avrei avuto un rifiuto, non mi sentivo inadeguata e soprattutto mi sentivo padrona di me stessa. Facendo così era come se mi volessi proteggere dagli uomini, come se intuissi i rischi della seduzione maschile, le sofferenze che ne sarebbero scaturite. Vedevo l’amore come una sorta di malattia in cui gli ingenui finivano irretiti. Marco non avrebbe mai avuto altra donna all’infuori di me, non mi avrebbe tradita e fatta soffrire, lui era con me nel castello senza porte e senza finestre, si barricava dietro la mia stessa paura di vivere. Mi ero creata una condizione nella quale non avrei mai avuto bisogno di altre persone, neppure di Marco, lui era necessario

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Capitolo XV Ho una mia storia, forse come tante o forse singolare, non lo so. Non so più chi sono. O forse lo so e ho paura proprio di questo? Con questo interrogativo amletico cominciò la mia seduta dalla psicologa. “Sveva, tu sai chi sei e cosa vuoi, devi solo imparare ad accettarti e a non aver paura. Soprattutto, devi smetterla di sentirti in colpa per qualsiasi cosa. Sei punitiva con te stessa. Sei dura, non ti perdoni nulla e questo non va bene.” “Ma io ho sbagliato!” “Sbagliato cosa o in che cosa?” “Pensavo a tante cose, sognavo una vita tranquilla e invece mi è crollato tutto addosso. Marco non sa che esisto e mi vede come una mamma, poi Andrea e ancora il mio desiderio di sapere se sono una donna normale.” “Non credi che forse dovresti dare una possibilità a te stessa di essere felice?” “E come? Vado da Andrea e gli dico: sai, per caso mi è capitato

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Capitolo XVI Erano passati quattro anni dalla prima volta in cui avevo visto Andrea, lunghi anni in cui tante cose impensabili e incredibili mi erano capitate. Ancora rabbrividisco quando i suoi occhi incontrano i miei, ma taccio il mio sentimento, quasi considerandolo qualcosa di mostruoso. I momenti più belli erano i minuti di conversazione che Andrea ed io avevamo, incontri rubati in cui io mi svelavo a lui. Lo amavo disperatamente, con tutta me stessa. Ma la mia educazione mi impediva di lasciar trapelare qualsiasi emozione, solo i miei occhi potevano ingannare e lasciare intravedere la verità che ostinatamente celavo. Un’altra estate stava per cominciare. Contavo i giorni che mi dividevano dall’incontro con lui. E Andrea aveva ravvicinato le date degli appuntamenti, capitava ormai spesso che io vi andassi anche tre volte in una settimana. Lui mi aspettava.

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“Sveva, come stai?” “Tutto bene.” Mi accoglieva con un sorriso caldo e rassicurante, e io mi chiedevo come sarebbe stato essere tra le sue braccia. “Sei bellissima come al solito.” “Colpa del sole” ridevo. “Sei terribile, ma non ti vorrei diversa da come sei.” “Allora quando viene a prendere un caffè sul mio terrazzo? L’ho invitata tantissime volte.” “Verrò, te lo prometto.” “Le sta crescendo il naso… bugia!” e ridevo. “Vedrai!” Me ne andai carica e soddisfatta. Mi succedeva sempre che, dopo l’incontro con Andrea, io mi sentissi la donna più bella e più desiderata del mondo. E, sorridente, me ne andavo a passeggio senza guardare nessuno, perché nessuno sguardo poteva violarmi se non il suo. Comprai dei vestiti particolari. Notai che mi stavano bene. Ero dimagrita e quegli abiti mettevano a nudo le mie forme. Mi sorpresi a sorridere mentre mi guardavo allo specchio. Stavo provando a indovinare l’espressione che avrebbe avuto Andrea nel vedermeli addosso. Ma il tutto doveva rimanere un gioco di sguardi, di parole e io dovevo lasciargli credere che di lui me ne infischiavo. Con grande sorpresa, due giorni dopo il nostro ultimo incontro, Andrea mi telefonò. “Sveva come stai?” “Bene, grazie, e lei?”

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Ritornai in me e gli risposi: “ Cosa vuoi Marco?” “Non vieni a fare il bagno? L’acqua è bellissima, stai sempre sotto l’ombrellone!” Non si era neppure accorto che stavo dormendo sotto il sole e che solo da poco avevo cercato l’ombra. Queste erano le sue attenzioni per me. La delusione prese il sopravvento e mi rifece pensare ad Andrea. È possibile essere al tempo stessa attratta e respinta da un uomo? Amarlo, adorarlo e non essere in grado di dirglielo? Ero talmente vigliacca da non riuscire a vivere?

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cadere nella sua trappola ma, con i suoi occhi addosso e le sue mani fra le mie, ero incapace di resistere. Dovetti far ricorso a tutte le risorse che mi erano rimaste per non cadergli tra le braccia e svelargli l’unico segreto che vi era ancora tra noi due. Dovevo staccarmi e mantenere una distanza di sicurezza: così feci. Con un sorriso schioppettante e allegro mi girai sui tacchi e dissi: ”Allora, cosa ha fatto nel fine settimana? Scommetto che ha lavorato!” Lui mi lasciò andare, consapevole forse che non ero pronta. Uscii dal suo studio tremante e in preda al panico, qualcosa stava cambiando e io avevo paura. Paura di perderlo! Andai con un’amica a prendere un aperitivo, un prosecco, pensai che sarebbe stato di grande aiuto, la mia mente e le mie emozioni continuavano a danzare confuse. Era tutto così incredibilmente strano. Mi si era chiuso lo stomaco, avevo sete e bevevo il prosecco ma non toccavo cibo; la mia amica si era accorta del mio malessere e mi guardava con occhi indagatori. Mi chiedevo per quanto tempo ancora sarei riuscita a resistere e fingere. Amavo Andrea contro ogni senso di decenza, nonostante sapessi che era sposato. Era un uomo unico, speciale, l’uomo che avrei voluto incontrare prima, se Dio mi avesse concesso un’altra vita: solo così sarebbe potuto essere mio. Ora era impossibile, se solo avessi osavo rivelarmi a lui lo

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avrei perso per sempre: ne ero assolutamente certa come l’aria che respiravo. Quella notte provai a contare le stelle per addormentarmi, neppure le gocce riuscivano a pacificarmi. Non esisteva una soluzione al dilemma in cui mi ero cacciata, non potevo incolpare nessuno eccetto me. Sapevo che era meglio non andare piÚ da Andrea ma continuavo a tornare da lui.

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Capitolo XVIII Andrea mi aveva guardato le labbra, era ipnotizzato mentre io parlavo. Decisi di farle diventare più belle applicando ogni giorno una pomata a base di acido ialuronico, collagene vegetale e silicone. Pensavo che così sarebbero diventate più turgide e voluminose. Quando mi recavo da lui, mettevo un filo di rossetto che le faceva brillare, era il mio tentativo, inconscio, di alimentare il suo desiderio. Se avessi ascoltato la mia vocina interiore, oggi non sarei così! Era terribile quello che mi stava succedendo, per tutta la vita mi ero protetta dalla gente, mai avevo raccontato di me, mai avevo profanato la sacralità del mio io più profondo. Ad Andrea però avevo detto quello che per tanti anni avevo taciuto. Proteggermi tra le sue braccia mentre raccontavo di me, nascondermi il viso nelle pieghe del suo collo, avevo in

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quel momento tutto ciò che una bambina potesse desiderare: la tenerezza e la protezione. Ma sapevo che lui non sarebbe mai stato altro che un sogno e gli occhi mi punzecchiavano dalle lacrime al pensiero di perderlo per sempre. Ma il destino è crudele, con me non è stato quasi mai clemente, e ciò che cercavo di allontanare alla fine accadde. Ma come si fa a iniziare una relazione con un uomo sposato? Da sempre sono stata con Marco e ne sono divenuta la mamma, mai la donna. Poi ho incontrato Andrea. Ma sarò abbastanza forte da essere una donna? Da volerlo come una donna? E se alla fine la mia frigidità fosse venuta fuori di nuovo, che cosa avrei mai fatto? Non smetterò mai di aver paura, di non essere all’altezza della situazione! E in questo caso avevo paura di non essere abbastanza adeguata per lui. Per anni mi ero immedesimata in un personaggio da me costruito, identificandomi fino al punto di credere alla menzogna che io avevo detto a me stessa. Questo mio continuo esercizio su me stessa aveva trasformato la ragazzina timida e introversa in una donna razionale e controllata, che non aveva paura di niente, o quasi di niente. I dubbi, le incertezze, le inquietudini però, mi rimanevano e mi annichilivano. Sapevo conversare amabilmente e modulavo le parole e il tono della voce a seconda dell’interlocutore che avevo davanti.

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Rimanevano tutti affascinati dal mio modo di essere. Io ero, invece, terribilmente avvilita, perché ero cosciente che avevo ucciso in me la spontaneità. Non era così con Andrea. Con lui mi sentivo me stessa, anche se niente lasciava intravedere la bambina timida di un tempo, non perché volessi mentire a lui, semplicemente perché ormai ero calata nel mio personaggio. Tuttavia, con lui ero spontanea. Era come se mi fossi svegliata da un lungo sonno e stessi per svelarmi a lui per la prima volta - ma il risveglio, qualunque esso sia, fa sempre soffrire -. Sul finire del pomeriggio, di un luglio ancora fresco e frizzante, cominciai a prepararmi per andare da Andrea. Ero impaziente. Mi fermai molto davanti allo specchio per controllare ogni particolare: mi volevo più bella che mai. Mi tremavano le gambe mentre salivo le scale che mi conducevano al suo studio. Devo riuscire a trattenermi, mi dicevo, non posso rendermi ridicola! Anche se desideravo coprirlo di baci, sedermi sulle gambe e tenerlo abbracciato fino a non respirare. Ma dovevo lottare contro questo desiderio sconsiderato, altrimenti lo avrei perso per sempre. Sapevo di essere impulsiva, passionale, ma avevo sempre dovuto controllarmi per compiacere gli altri. Mai un alzata di testa, mai niente fuori dagli schemi, Sveva doveva essere sempre perfetta! Ora invece Sveva aveva rotto le convenzioni grazie anche a

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Federico. Ma questo doveva bastare. Niente alzate di testa Sveva! – mi ripetevo, martellandomi il cervello ad ogni gradino che mi conduceva da lui -. “Salve” riuscii a dire con un filo di voce. “Come stai?” “Benissimo.” Sfoderai il più bel sorriso pieno che potesse mai uscirmi. “Si vede, sei bellissima, di una bellezza che toglie il fiato.” “Ma io mi vedo brutta. Grassa. Con le rughe. Credo che andrò a farmi rifare tutta” ridevo. “Ma che dici, stai benissimo! Sei pazzerella.” “Io mi vedo brutta, vado da un chirurgo plastico e poi faccio delle nuove fotografie. Stavolta nuda!” risi di gusto, perché era ovvio che stavo scherzando. “Ma smettila sciocchina, tu sei bellissima così.” “Allora? Quando viene a prendere il caffè sul mio terrazzo? Ormai è finito, è bello ed elegante!”. “Sveva, non scherzare.” “Perché mai? Le ho offerto un caffè, non sto scherzando.” “E poi? Poi cosa succede.” “E poi, è solo un caffè.” “Tu lo sai che mi piaci e la verità è che tu te ne freghi altamente di me, mentre io sono molto legato a te”. “Questo non è vero!” ero molto scossa da quello che aveva appena detto. “Non è vero! Io sono legata a lei, sono affezionata.” Cercai di usare termini leggeri per non urlargli: “che cavolo dici? Io ti amo da morire da anni, sciocco che sei!”

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Era solo mia la colpa di tutto! Qualche giorno dopo mi stavo preparando per andare dalla psicologa. Il cellulare squillò e, con mia grande sorpresa, era Andrea. “Come stai?” disse. “Bene e lei?” “Mi dai del lei?” “Posso darti del tu?” “Mi sembra scontato, viste le circostanze. Che fai?” “Sto per andare dalla psicologa e tu?” “Lavoro.” “Se vuoi passo per un saluto.” “Ti aspetto.” Provai non ricordo neppure quanti vestiti, alla fine ne scelsi uno che mi sembrava fosse adatto e andai da lui. Lo vidi da lontano, con il suo sigaro, il cuore prese a battermi più forte. Ma ero decisa a fare la superdonna che non si piega davanti a nulla. Che sciocca! Imparerò mai a riconoscere i segnali dell’amore? Mi vennero in mente alcuni passi di un libro che avevo letto, recitavano così: “Ci sono amori che bruciano il cuore tutto in una volta, ma che poi svaporano leggeri senza lasciare tracce, per sempre. E poi ci sono amori che non passano, che restano sospesi per anni, spesso per una vita intera, come quelle melodie che perdurano nell’aria anche quando l’orchestra ha smesso di suonare.” (V. Ollagnier, Gli amori sospesi).

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L’amore che provavo per Andrea era di questa seconda natura, un amore che non passa. Ma io ero decisa a non dirglielo. Stupido orgoglio da bambina. “Sei bellissima.” Mi disarmò quasi subito. Tutte le frecce della mia faretra che volevo scoccare si erano spezzate. “Sei così bella che io davanti a te non ragiono più”. “Oh, io ragiono invece! Sono convinta che tutto questo è uno scherzo”. “No, Sveva, tu non puoi capire l’effetto che hai su di me”. “Uhm, che effetto ho?” continuavo, impertinente qual ero, ma mi dovevo proteggere. “Hai un effetto devastante. Baciami subito!” “Qui? Davanti a tanta gente! Non se ne parla neppure!” dovevo essere razionale per entrambi. Baciarlo tra la gente che ci stava osservando, sarebbe stato veramente devastante per lui. La moglie l’avrebbe saputo in men che non si dica. In fondo lì non mi conosceva nessuno, ma io avevo il dovere di proteggere la persona che amavo. Mi condusse in una stanza per poter parlare in privato, senza sguardi e orecchie indiscrete, fui io a chiederglielo. Ma non ci fu il tempo di parlare. Eliminò lo spazio che ci separava in un istante e il suo corpo era attaccato al mio. Avrei dovuto resistergli, ma il contatto con lui mi fece sentire molto fragile. Pensavo di poter mantenere un lucido distacco, di poter decidere razionalmente ciò che era giusto.

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Ma mi sbagliavo. Cedetti senza neppure provare a resistergli. Sentii le sue labbra premere sulle mie. La sua bocca si impossessava della mia. La sua vicinanza mi fece vacillare, il respiro quasi si era fermato in gola. Intuivo il suo desiderio e di contro cresceva in me la voglia di farlo mio. Avrei voluto che il tempo si fermasse per l’eternità … lo desideravo così tanto. Ogni dubbio svanì dalla mia mente, ogni senso di colpa. Ciò che volevo era lì davanti a me, mi stringeva tra le sue braccia e mi parlava. “Sveva, lo desideravo da tanto, troppo tempo. Mi hai fatto aspettare anni per averti.” “Ora sono qua e non vado da nessuna parte” affondai la testa sul suo petto. Le mie mani cominciarono a sbottonargli la camicia, poi i pantaloni. Lui era lì, con tutta la sua virilità davanti ai miei occhi. Mi stavo concedendo a lui senza alcun ritegno. Sentivo la pressione delle sue mani sul mio seno. In un attimo ero quasi nuda davanti a lui. Provavo vergogna. Io l’adoravo e provavo un timore reverenziale nei suoi riguardi. Ma avevo bisogno di lui. Mi baciava con avidità sussurrando parole che non capivo. D’un tratto si bloccò e mi disse: “Non ora, dopo, non ora.” Non riuscivo a capire. Perché mi desiderava così tanto e ora si era bloccato? “Vieni dopo, è meglio!”

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Andai dalla psicologa. Ero sconvolta. Le raccontai tutto. Ma avevo fretta di finire quella seduta per ritornare da Andrea.

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Capitolo XX Mi stava aspettando. Cominciò a parlare. “Sveva, lo sai che mi piaci?” Io non rispondevo, ero paralizzata dalla sua presenza e il mio corpo era tutto eccitato. “Sono quattro anni che mi palleggi. E io ti sono stato dietro. Ora ho bisogno di conoscerti.” “Conoscermi? Ma se sai tutto, o quasi, di me!” “Voglio conoscerti intimamente.” “Va bene, si fa come vuoi tu!” Non avrei mai pensato di fare il contrario. Anche se il mio orgoglio lottava per venir fuori, il mio amore per lui lo sopprimeva. E, in effetti, anch’io non sapevo quasi nulla di lui. Mi sembrava giusto conoscersi vicendevolmente. Mi prese tra le braccia, mi baciò dolcemente, poi la sua bocca scese fino a trovare i seni che si protendevano verso di lui. Lentamente mi baciava e la sua lingua accarezzava la mia pelle. Sembrava che il mio corpo si stesse svegliando da un lungo letargo, vibrava sotto i suoi tocchi.

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Tremavo mentre le sue mani mi accarezzavano, mi stringevo a lui attirandolo più vicino a me. Un desiderio immenso fino a quel momento mai provato mi pervase. Tremavo di piacere. Ora ero io che dirigevo le mie mani sul suo corpo. Ne esploravo ogni angolo, continuando a baciarlo. Gli baciai il collo, poi giù e ancora giù. Esplose di piacere. Tutto a un tratto si fermò, proprio nel momento in cui avrei voluto essere sua. “No, non adesso!” mi disse. Ero incredula, si era fermato! Lui aveva raggiunto il suo piacere maschile mentre io ero lì, tremante e mezza nuda, davanti a lui che ora mi rifiutava, dopo essersi soddisfatto! La mia mente tornò rapidamente a Marco, che mi rifiutava come donna. Stava succedendo la stessa cosa: anche Andrea mi rifiutava. Mio Dio! Era vero! Non sono una donna! Ma che sono? Se anche Andrea che, a dir suo, mi desiderava da quattro lunghi anni, mi stava rifiutando, qualcosa in me doveva essere sbagliato! Vecchi fantasmi, che Federico aveva dissipato, ora ritornavano a tormentarmi. La mia fisicità attraeva gli uomini, come il miele attira le api… ma poi scappavano da un corpo che non reagisce agli impulsi sessuali.

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Questa era per me la spiegazione! Ma il mio orgoglio non concesse a lui tale meditazione. “Ma cos’è questo!” gli urlai contro. “Sei come i bambini che vogliono il giocattolo nuovo e ti stressano finché non l’hanno ottenuto, poi lo buttano in un angolo perché ormai non è più interessante!” “Ti sbagli, Sveva, non arrivare a conclusioni affrettate.” “Conclusioni affrettate!” “Sì. La situazione è complicata e tu lo sai.” “Complicata? Perché sei sposato? Quindi? Pensi che io possa nuocerti in qualche modo? Sei fuori strada, non potrei mai!”. “Fidati, è complicata!” “Mio Dio! Non ci posso credere! Ma pensi di non aver tradito tua moglie? Sei un folle! L’hai tradita lo stesso, nel momento in cui mi hai desiderata per anni. Mi hai cercata e mi hai tenuta legata a te per anni. Non è l’atto in sé che genera il tradimento, è il solo pensiero! E tu mi hai lasciato fare, poi … e non vado oltre.” Ero arrabbiata e ferita, ma non volevo pronunciare né la parola frigida né la parola amore davanti a lui. “Hai voluto provare a te stesso che con me potevi riuscirci? È questo? Non capisco!”. “Sveva, dammi il tempo di conoscerti, ti prego.” “Va bene.” “Mi telefoni domani?”. “Non se ne parla proprio!” “Ti telefono io.” “Fai come vuoi.” Me ne andai sconcertata.

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Capitolo XXI Andrea non telefonò. Decisi, il lunedì successivo, di telefonargli io. “Ciao, dove sei?” “A casa e tu?” “A lavoro. Non ti ho sentito e allora ti ho chiamato”. “Come stai?” “Io bene. Forse sei tu che stai male.” “Sì. Ho passato tutto il week end a pensare a te. Non me la sento di iniziare una relazione.” “Preferirei che tu mi dicessi in faccia alcune cose. Passo da te nel pomeriggio” fui secca. Ero tesa, stavo vivendo il mio incubo peggiore. Lui arrivò. Lo vidi da lontano, alto, possente, con gli occhiali da sole, un brivido mi percorse la schiena. “Allora, dimmi tutto” riuscii a dire. “Sveva, lo sai che mi piaci e molto. Tuttavia non riuscirei a gestire un rapporto extraconiugale. Non l’ho mai fatto.

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Sono sicuro che non riuscirei. Fidati.” “Fidarmi? E perché?” “Perché sono più vecchio di te. So che è così.” “Sono anni che mi stai addosso. Io ho combattuto con tutte le forze che avevo per non arrivare a questo. Poi mi sono chiesta se fosse giusto rinunciare a te e…” “Sveva, cerca di capire. Io non sono libero. Ho tanti problemi e tu saresti un altro problema. Non voglio che tu soffra. Non voglio farti del male.” “Ti ho amato quasi da subito. In silenzio, per non creare problemi. Non ho parlato, non ti ho lasciato percepire nulla dei miei sentimenti. Ho calcolato i danni che ti potevo arrecare. E non potevo darti problemi, non si danneggia la persona che si ama. Tu invece, hai continuato. Hai parlato e parlato. Hai agito e ti ho bloccato. Quanto pensi avrei potuto resistere? Sono stata più matura di te.” “Ti prego, non piangere, mi fai stare male. Io ti voglio bene, molto bene.” “Se solo mi volessi un briciolo di bene, non mi faresti questo.” “Sveva! Io non posso chiamarti, non posso vederti quando voglio! Lo capisci? Staresti male aspettando una telefonata che non arriva. Ora parto per le ferie e non potrò vederti per un mese, non potrò chiamarti e tu starai male. Perché vuoi rovinarti la vita con me?” “Ti è difficile capirlo? Perché ti amo. E mi accontento delle briciole che mi dai.” “Non sarà sempre così. Poi vorrai di più, io ti conosco.” “Ma che ne sai tu! Io lo so che sei sposato! So che non mi telefonerai e neppure le voglio le telefonate infantili. So che

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non potrò vederti quando lo desidero, ma dovrò attendere i tuoi tempi. Ho già rinunciato a priori a una serie di cose, nello stesso momento in cui ho deciso di cedere a te. Non potrò mai prendere un caffè con te, passeggiare con te, dormire con te. Ma non mi lamento perché ho accettato questa situazione.” “Non è così, Sveva. No! La mia decisione è irremovibile!” “Bene. Questo significa che non potrò vederti più.” “Perché? Non è così, io ci sarò sempre per te.” “No. Non potrò mai più ascoltare la tua voce né vederti.” Piangevo davanti a lui, mi odiavo per questo. Odiavo la mia debolezza. Sarei dovuta rimanere immobile, senza emozione alcuna, invece le lacrime scendevano e non riuscivo a controllarmi. Era accaduto quello che non volevo. Lo avevo perso, per sempre! “Sveva, ti prego, non piangere. Sei così bella che tanti uomini vorrebbero averti.” “Ma non tu!” un sorriso amaro uscì tra le lacrime. Mi alzai e andai verso la porta. Mentre l’aprivo, lui me la chiuse d’improvviso. Mi prese tra le braccia e mi baciò, lasciandomi senza fiato. “Che senso ha, Andrea, tutto questo se non mi vuoi?”. “No, Sveva, è meglio di no.” Uscii di corsa dal suo studio. Ero sconvolta, non riuscivo a pensare. Arrivata a casa, mi lasciai sprofondare sul divano. Stavo impazzendo dal dolore. Bevvi molto vino, presi l’antidepressivo e una dose maggiore di gocce.

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Non dovevo pensare. Pensare a lui era doloroso. Il cuore mi esplodeva dentro. Mai in tutta la mia vita avevo provato un dolore così forte, così sordo, così devastante. Mi accasciai a terra incapace di muovermi. Il respiro si faceva sempre più lento. Credetti di essere sul punto di morire. Un miscuglio di alcool e medicine mi stava stroncando. Ero felice. Felice di morire per non provare quella sofferenza. Respiravo appena. Mi venne in mente mio padre. Sarebbe impazzito dal dolore se fossi morta. Gli stavo facendo il più brutto dei regali. Pensai a mia nipote. Se fossi morta non l’avrei vista crescere, diventare sempre più bella, diventare donna. Una fitta di dolore sempre più forte mi opprimeva. Riuscii a trascinarmi sul terrazzo, cercavo di respirare ma non ne avevo la forza, le medicine avevano fatto il loro effetto. Ero sdraiata a terra e non respiravo. Non capii più niente! Mi risvegliai molte ore dopo. Ero a terra madida di sudore ed ero completamente sola. Ero ancora viva, con il mio dolore. Passarono due settimane durante le quali mi cibai solamente di medicine. Persi quei chili di troppo che mi affliggevano da anni. Andrea mi mancava. Presi l’auto, andai sotto il suo studio. Lo vidi e non potei fare a meno di salire.

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Fu sorpreso, ma mi accolse con un sorriso. “Come stai?” “Malissimo. Ma ho pensato che, fra il non vederti e il vederti solo per il tempo necessario di una chiacchierata, preferisco quei due minuti in cui ti vedo e ascolto la tua voce.” “Ti chiamo domani” disse soltanto.

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Capitolo XXII Era il ventotto luglio, fuori l’aria era calda, quasi irrespirabile. Andrea mi telefonò. “Sveva, come stai?” “Vuoi che ti dica che sto bene e quindi una bugia o vuoi la verità?” Con quella domanda volevo sollevarlo dai sensi di colpa che poteva avere. Non si può far star male la persona che si ama e io lo amavo troppo per fargli del male. Come mi sbagliavo, non si hanno sensi di colpa per persone di cui si ignora persino l’esistenza! Per Andrea io non esistevo, ora lo so! “Perché dovresti dirmi una bugia? Non l’hai mai fatto! Perché dovresti farlo ora?” “Andrea, sto male. La sola idea di non vederti più mi fa impazzire. Accetterei anche di vederti per un minuto, dietro i vetri, pur di non…” “Sveva, io ti voglio bene, molto bene. Io per te ci sarò sempre.

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Di sicuro non ti abbandonerò, non succederà mai!” “È già successo!” “Non è vero, io non potrò mai, mai lasciarti.” “Ho un dolore dentro che mi sta uccidendo. Ho fatto piangere persino la mia psicologa, tanto ero disperata.” “Ora devo lasciarti. Ti chiamo non appena rientro dalle ferie. Sveva… ti voglio bene.” “Buone vacanze, riposati, si vede che sei molto stanco.” Mi salì un nodo alla gola che mi impediva di respirare. Ero certa che non avrebbe telefonato. Ma dovevo reagire, anche se non avevo voglia di vivere. Chiamai Salvo. Venne di corsa a casa mia. Come potrò mai ringraziarlo? Lui era sempre presente, accorreva a ogni richiesta d’aiuto. “Sveva!” Lanciò un urlo per scuotermi, si arrabbiò moltissimo con me. “Non puoi mescolare questi farmaci a tuo piacimento! Ma che cavolo vuoi fare? Cosa vuoi dimostrare? Pensi che uccidendoti risolverai i tuoi problemi? Io sono costernato, ho sempre creduto in te, nella tua forza e ora ti riduci a un cencio! E per chi? Per uno che è senza palle, che non ti merita.” “Salvo, ma lui forse ha le sue buone ragioni. È sposato ed ha paura di ciò che prova per me.” “Ma smettila di difenderlo! È uno senza personalità. Una donna come te non si rifiuta. Soprattutto se era così devastato, consentimi di dubitarne, visti gli eventi. Solo un impotente può non concedersi a te. Ma ti sei guardata?”. Mi trascinò davanti ad uno specchio e mi costrinse a guardarmi.

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“Sei bellissima, sensuale, affascinante, dolcissima, una donna a tutto tondo. Chi potrebbe ritirarsi davanti a te? Solo un coglione!”. “Mi ha rifiutata. Così come fa Marco da anni. Sono frigida, Salvo!”. “Ma che cavolo dici?”. “Sì, sono bella e tutto ciò che vuoi, ma non sono una donna, è così che ora mi sento: un rifiuto!”. “Smettila! È lui che non è un uomo! Qui le cose sono due: o ti ha raccontato un cumulo di bugie, e non credo, perché che sei bella lo vedrebbe anche un cieco, oppure non è un uomo. Non esiste il senso di colpa per la moglie. Lui ha già tradito! O ha problemi di natura sessuale, oppure è un vigliacco e con problemi psicologici. Questo però non ti autorizza a buttare via la tua vita! Lo capisci?” Piangevo. Salvo era veramente preoccupato per me e cercava di scuotermi come più poteva. “Ora via gli antidepressivi, devi farcela da sola … e puoi! E via di corsa al mare a rilassarti; questo è quello che ti prescrivo. Ti lascio solo le gocce che ti aiuteranno a dormire.” Mi baciò sulla fronte e andò via.

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Capitolo XXIII Una settimana dopo partii per le vacanze, ovviamente sempre a Diamante. Ero nervosa, inquieta. Le sere ero costretta a passeggiare lungo il corso di Diamante, perchÊ Marco e alcuni amici mi costringevano a uscire. Mi preparavo senza avere voglia, mi truccavo per inscenare ogni sera la mia commedia, mi vestivo bene, volevo essere bellissima, se mai Andrea mi avesse scorta da qualche angolo del paese. Cercavo di essere allegra come sempre, ma il mio sorriso forzato mi costava fatica. Una persona piÚ attenta avrebbe letto nei miei occhi la tristezza della mia anima. Per fortuna, nessuno dei miei compagni di passeggiate si soffermava a guardare oltre l’apparenza, neppure Marco. Di Andrea nessuna traccia. Ogni centimetro quadrato di Diamante lo avevo attraversato, ma mai lo avevo visto.

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Una mattina Marco ed io decidemmo di andare a far colazione al bar del porto. Non avevo voglia, ma accettai. Infilai distrattamente un pantaloncino jeans cortissimo e una canotta scollata, misi le infradito con un po’ di tacco, per apparire un pochino più slanciata. Io non mi piacevo affatto, mi vedevo brutta, grassa e tozza. Soprattutto ora che il mondo sembrava crollarmi addosso. Marco entrò in una gelateria. La sua ossessione per i gelati ora mi infastidiva, rimasi sul lungomare ad aspettarlo. Vidi Andrea. Rimasi paralizzata. Non sapevo cosa fare. Volevo scappare ma non riuscivo a muovermi. Tante sere avevo curato il mio aspetto e non lo avevo visto, ora invece ero così brutta, con tutta la mia cellulite in mostra e lui avanzava verso di me. “Sveva, ciao” mi disse solo questo passandomi accanto, dall’altro lato c’era sua moglie. “Salve” riuscii a dire con un filo di voce. Non so come fosse sua moglie, non saprei descriverla, perché i miei occhi erano bloccati su di lui, per me lei non esisteva, solo gli occhiali scuri mi proteggevano. In quel momento Marco mi chiamava. Io ero incapace di rispondere. Ero disperata. Entrai in un negozio. Dovevo comperare qualcosa, ero in preda ad una crisi da

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shopping compulsivo, comprai due paia di scarpe con tacchi vertiginosi. In seguito avrei avuto altri attacchi come questo, comperando sempre scarpe con tacco alto. Forse questa tipologia di acquisto rispondeva ad un mio bisogno, più o meno cosciente, di costruire la mia identità attraverso oggetti che erano considerati come l’espressione di qualche qualità positiva e vincente. In effetti i tacchi slanciavano la mia figura, mi costringevano a stare eretta e mi si vedeva il sedere, di cui soffrivo il complesso, un po’ pronunciato. E poi con i tacchi sarei stata all’altezza di Andrea, quasi che il suo fisico possente e alto richiedesse una donna altrettanto possente e alta. Quanto può ingannare la mente umana! Non parlai per due giorni, solo gocce e niente più, neppure scesi al mare. Era domenica e Marco mi costrinse, insieme ad alcuni amici, ad andare a fare il bagno. “Insomma, mi hai fatto comperare l’imbarcazione perché senza il bagno all’isola non puoi resistere e ora rompi le scatole e stai a casa. Sono stufo di vederti così!” sbottò come al solito. “Va bene, andiamo.” Ero come impazzita! Feci cose in quell’estate che mai avevo fatto in vita mia. Mi misi in topless, attirando non pochi sguardi di maschietti assetati. Era come una rivincita sul sesso maschile. Guardatemi, ma non mi toccherete mai!

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Soffrite così come sto soffrendo io! Mi caratterizzava un gusto sadico di potere infliggere pene agli uomini, che ora odiavo con tutta me stessa. Mi disgustavano i loro sguardi, mi faceva schifo solo l’idea degli uomini. Li consideravo, ora, tutti uguali: esseri spregevoli, senza sentimenti, egoisti sin dalla nascita. Forse era per questo che non avevo mai pensato al maschile per un ipotetico figlio. Già sapevo che l’avrei odiato solo per il fatto che fosse nato maschio. Ero consapevole che il sole nuoceva al mio seno. Il dottore che mi aveva operato aveva detto: “Niente sole! Il suo seno è sempre a rischio perché fibromatoso, mi raccomando”. Ma, anche in questo caso, era come se io volessi uccidere me stessa, sfidando ogni cosa. Fumai per la prima volta in vita mia. Bevvi come una spugna tutte le sere e mi imbottii di xanax. Ero cosciente che tutto quello che stavo facendo mi faceva male, ma sfidavo me stessa e le leggi della natura. Sfidavo Dio! Cosa avrebbe potuto farmi di più doloroso? Quali sofferenze si sarebbe divertito a infliggermi? Io gli stavo offrendo me stessa: “prenditi pure la mia vita” - urlai un giorno sulla scogliera - “non me ne importa nulla. Mi hai tolto tutto, non rimane che la mia vita, te la offro. Lotto contro di te. Chi si stancherà per primo? Dio, sono qui!”. Dovevo essere veramente folle!

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Capitolo XXIV Al ritorno dalla vacanze andai all’appuntamento con Andrea. So che non avrei dovuto farlo, ma lui mi mancava come il mio stesso respiro. Non c’era. Un imprevisto. Gli inviai un messaggio, forse inconsciamente volevo dirgli: “Io esisto!”. Lui mi rispose: “Spero di vederti presto, tu come stai?” Mi stava aprendo una porta verso di lui. Lessi a mio modo quel segnale, sbagliando. Lo rividi qualche settimana dopo: era bellissimo e dolcissimo come lo ricordavo. “Come sei abbronzata, sei bellissima.” Avevo indossato un vestito aderente a fiori blu e le scarpe con i tacchi altissimi che avevo comperato a Diamante il giorno in cui l’avevo visto. Fu un incontro tranquillo, c’era tanta gente. Ero felice perché l’avevo visto e avevo sentito il suono calmo della sua voce.

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Ritornai da lui la settimana successiva. Avevo indossato un vestito mono spalla color testa di moro con una fantasia a fiori color panna. Era molto corto e mi fasciava lasciando intravedere un fondo schiena niente male. Lo avevo comperato pensando a lui. Avevo messo una crema illuminante che donava un fascino sottile alla mia pelle abbronzata. Mi ero truccata in modo molto più naturale possibile, un velo di rimmel per esaltare lo sguardo. A lui piacevano i miei occhi, o così diceva. Era solo. Lo abbracciai e sperai che quell’abbraccio non finisse mai. Avevo il mondo tra le mie braccia, ora potevo anche morire. Sfidai Dio con il pensiero, mentre mi stringevo a lui: “prendimi, prendi la mia anima ora, non ho paura di morire, ora ho avuto tutto, ho l’universo tra le mie braccia, sono pronta a morire.” Mi scostò da lui, mi guardò, poi prese a baciarmi. Baci appassionati. Mi prese le mani, se le portò alle labbra e le baciò. “Sei bellissima, mi sconvolgi. Non ragiono più davanti a te.” Io sorrisi, ero felice. Poi di nuovo, spinto da un desiderio incalzante, mise la bocca sulla mia e infilò dentro la sua lingua calda. Un sapore amaro di sigaro appena fumato riempì la mia bocca, mi piaceva. I baci diventavano più appassionati, il suo corpo si schiacciava forte contro il mio. Mi accarezzava. Senza smettere di baciarmi mi sollevò il vestito, le sue mani

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premevano le mie natiche. “Non è vero che non hai sedere, lo hai ed è bello, mi piace.” Il suo respiro aumentava, il suo sesso era carico di desiderio contro il mio ventre. Ora mi guardava con bramosia. Offrivo, spudorata, i miei seni alla sua vorace bocca, passandogli le dita tra i capelli. Assaporavo il ritmo dei suoi movimenti mentre frugava nella mia femminilità. Un fuoco mi risaliva per tutto il corpo. Lo amavo e lo desideravo così tanto da distruggere me stessa. “Ti prego, dammi una sola situazione tranquilla. Dammi un’ora del tuo tempo in cui puoi farmi tua, per una sola volta e basta.” Sapevo che dovevo fermarmi per me, ma anche per lui. Feci in modo però che il suo piacere maschile fosse soddisfatto. “Va bene, Sveva. Mi organizzo e ti telefono.” Fu tutto quello che disse e io gli credetti. Stupida!

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Capitolo XXV Andrea non telefonò. Attesi per giorni un suo segnale, ma era sparito. Impazzivo dal dolore. Controllavo continuamente il cellulare per verificare che fosse acceso, che non si fosse staccata la suoneria, che non mi fosse per caso sfuggita una sua chiamata. Ma il cellulare rimaneva muto, lo odiavo. Avrei voluto scaraventarlo contro un muro. Andai dalla psicologa. “Non capisco. Perché? Dirmi tante cose, aspettare tanti anni e ora è fuggito!”. “Sveva, ha paura. Devi dargli del tempo perché si abitui all’idea di avere una persona, che non è sua moglie, nella sua vita.” “Io credo, invece, che mi abbia raccontato un cumulo di sciocchezze. Mi sono umiliata davanti a lui. Ho mendicato attenzioni, amore e intanto perdevo la mia dignità. Ho parlato troppo con lui e anche presto. Ho messo a nudo la mia anima.

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Gli ho rivelato particolari intimi tra le lacrime che asciugava. Che sciocca! Magari, non appena uscivo, lui rideva di me e pianificava la sua recita.” “Non credo. Si può avere una sbandata. È normale per tutti. Ma dura giusto il tempo di una sigaretta. Qui le cose stanno diversamente, Sveva. Lui è da quasi cinque anni che ha, chiamiamolo, un debole per te. Mai ha vacillato. Credo che sia avvenuto, ad un certo momento, un transfert, inconscio, durante il quale lui ha proiettato in te sentimenti, emozioni, intenzioni che in realtà appartengono a lui. Vi siete incontrati e vi siete capiti e piaciuti. Era inevitabile che accadesse tutto questo fra di voi.” “Non lo so, credo che sia una persona molto educata, ma la buona educazione è inscindibile dalla falsità. Io ho sempre taciuto, non ho fatto mai domande, mi sono finta indifferente a lui, mentre non lo ero affatto, e comportarmi così mi richiedeva molti sforzi. Ma era necessario, non volevo allontanarmi da lui. Invece era tutta una finzione la sua. Se solo penso che ha riso di me e delle mie sofferenze, mi sento morire.” “Io credo, invece, che sia solo un vigliacco che ha paura di vivere e che sentimentalmente è legato a te, ma non lo ammetterà mai. Non lascerà mai la vita che si è costruito, anche se sta male.” Passavano le settimane e io sentivo un vuoto incolmabile. Nessuno avrebbe potuto riempirlo. Ma dovevo abituarmi alla sua assenza. Nonostante fosse ottobre, faceva ancora caldo. Decisi di rifugiarmi a Cirella, tra i miei scogli. Non potevo andare all’isola, Marco aveva portato l’imbarca-

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zione al rimessaggio. Attraversai il viale che mi portava alla scogliera: maestosi si ergevano a far ombra pini marittimi ed eucalipti che svettavano fino a raggiungere il cielo celeste; qua e là, tra i rami, filtrava il tiepido sole d’autunno e l’odore della resina dei pini riempiva l’aria. Alla fine del viale, quasi vicina al mare, una brezza leggera rimandava una fragranza profumata di gelsomini ancora in fiore, muoveva amabilmente le foglie e le campanule blu. Mi sdraiai al sole, in topless; mi piaceva la sensazione del sole sulla mia pelle. Il sole mi rigenera, forse sono stata in un’altra vita la figlia di Helios. E infatti riscontro in me una forza titanica nella sopportazione del dolore fisico e morale. Ero rilassata sotto il sole. Mi immersi nell’acqua cristallina piena di pesci. Avevo portato, come facevo di solito, del pane per dar loro da mangiare. Giravano allegri e balzavano contendendosi le molliche. Un gioco da bambina qual ero, che mi faceva sorridere. Mi sembrava di fare il bagno in un acquario. Ma era un acquario tutto mio. Non c’era nessuno, solo il debole rumore delle onde che si infrangevano sugli scogli, il grido stridulo di qualche gabbiano che sfiorava l’acqua alla ricerca di cibo. Erano questi gli unici rumori che violavano quel silenzio rassicurante. Mi raggiunse per pranzo un amico. Andammo in un ristorante bellissimo. Ci sedemmo ad un

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tavolo presso un bovindo che ci consentiva una vista della costa meravigliosa. Si apriva davanti a noi un mare blu sconfinato, la costa dei cedri e, sotto di noi, la scogliera maestosa e selvaggia. Il cameriere portò il pane e il vino bianco frizzante che avevamo ordinato. Restammo in silenzio. Ordinammo linguine all’astice. Io adoro i crostacei, anche se aborrisco il modo in cui vengono uccisi per dar gioia al nostro palato. Non li cucino mai: è un rituale troppo macabro. Ma li ordino sempre al ristorante, come se non mi sentissi colpevole della loro misera fine. Sono una bambina! “Serviamo anche dei filetti di salmone all’aneto, dei tranci di tonno appena scottato sulla piastra su letto di rucola e aceto balsamico?” chiese il cameriere. Flavio annuì. Io guardavo dall’altra parte, persa in quell’oceano d’acqua. Mi sentivo spenta nel corpo e nell’anima. Andrea era dentro di me, non riuscivo a cancellarlo dal cuore. Soffocavo, non volevo capire che lui non mi voleva. Per lui ero stata solo un gioco come un altro. Un dolore pungente mi fece sgorgare una lacrima che Flavio astutamente colse. “Sveva, non puoi continuare così. Devi riprendere in mano la tua vita. Devi decidere cosa vuoi realmente. Devi chiudere con Marco, dimenticare quest’altro coglione che ti fa soffrire e cominciare a vivere; vivere per te stessa! Esci,

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divertiti, il mondo è pieno di uomini che farebbero qualsiasi cosa per avere da te almeno un sorriso. Tu non li vedi, perché ti ostini a pensare a Marco e al suo bene, e lui di te se ne frega. Continui ad adorare uno che non ha le palle per dirti la verità: che di te non gli importa niente, ficcatelo in testa! E poi credo che sia anche perfido. Ma si può sapere chi è? Cosa fa? Che razza di meraviglia d’uomo è costui che ti ha fatto perdere la testa?”. “Ti prego, Flavio, non ho voglia di parlare di questo. Mangiamo, gustiamoci questa giornata, ubriachiamoci. Voglio ridere e non pensare. Devi farmi distrarre.” Nessuno, neppure Salvo e la mia psicologa, conoscevano la vera identità di Andrea. Gli avevo dato un nome fittizio. Lo proteggevo fino a questo punto! Nonostante la giornata si fosse conclusa bene, io ero sempre inquieta, mi bruciavano le parole di Andrea. Mi faceva male pensare che lui si era divertito per un po’ a fare il seduttore, giocando con i miei sentimenti. Andai dalla psicologa il venerdì successivo. “Ho deciso di mandargli un messaggio. Preferisco farlo qui perché so già che non starò bene e ho bisogno che lei mi stia vicino.” “Devi fare ciò che senti, invialo.” Il messaggio recitava così: “Che te ne freghi di me mi è molto chiaro… volevo, però, che tu sapessi che non sono abituata a concedermi facilmente né a regalare dei momenti. P. S. Sei bravo a giocare con le parole.” Tremavo e piangevo. Ero terrorizzata all’idea che Andrea non volesse più vedermi.

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A nulla servivano le tecniche di rilassamento applicate dalla psicologa. Dieci minuti dopo Andrea mi telefonò. Anche sul mio cellulare lui aveva un nome fittizio. Cercai di modulare la voce in modo da farla apparire fredda e distaccata, intanto tenevo stretta la mano della mia psicologa. “Sveva, ora non posso parlare. Ti telefono domani mattina. Cerca di stare tranquilla.” Io dissi poche parole. “Era arrabbiato” dicevo alla psicologa mentre piangevo. “Non se lo meritava questo messaggio. Io lo amo. Era arrabbiato. Ho paura.” “Hai fatto bene invece. E domani cerca di non essere remissiva. Il tono della voce era distaccato ma il tuo animo no.” Aspettavo con ansia spasmodica la sua telefonata. “Sveva, allora spiegami questo messaggio” mi disse appena risposi. “Credo sia molto chiaro, non c’è nulla da aggiungere!” risposi secca. “Non hai capito niente. Io lo faccio per te. Non voglio che tu soffra, io ti voglio molto bene e sono legato a te.” “Ma non dire sciocchezze. Non hai mie notizie da un mese, non ti sei neppure preoccupato se fossi viva o morta, e mi vieni a dire che mi vuoi bene. Bugie!”. “No! Mi sei mancata e molto.” “Bugie!” “Sono venuto fin sotto casa tua e poi…” “E allora perché non mi hai chiamata? Perché mi fai questo? Sono arrabbiata con me. Se io avessi continuato a farti credere

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che di te non mi importava niente, non ti avrei perso.” “Ma tu non mi hai perso, lo capisci!”. “Sì invece ti ho perso per sempre, per sempre. Non me lo perdonerò mai.” “Smettila di parlare al singolare. In questa storia ci siamo tu e io, non ci sei solo tu.” “Ti avevo chiesto un solo incontro, una sola possibilità di stare con te, di fare l’amore con te, non sesso. Avrei vissuto nel ricordo di quell’unica volta. Io non ti amo, io ti adoro. Sei su quel piedistallo e io sono lì, genuflessa al tuo cospetto, io che sono di un orgoglio spaventoso, io che non mi piego davanti a nessuno, sono in ginocchio davanti a te.” “Va bene. Mi organizzo e ti chiamo. Intanto ti telefono domani.” Mi telefonò, parlammo per qualche minuto, poi mi disse di andare l’indomani allo studio per un saluto. Non dormii tutta la notte nell’attesa di rivederlo. Era passato un mese, durante il quale mi sforzavo di non cancellare il suo volto dalla mia mente e mi allenavo giorno e notte a ricordare il suono della sua voce. Mi ero fatta un ritratto di lui. Parlavo con il suo simulacro e piangevo perché ne avvertivo la mancanza. Arrivai allo studio puntuale. Mi ero vestita e truccata bene. Ma i segni della sofferenza sul mio volto erano percepibili, nonostante il fondotinta che vi avevo applicato; sperai che non se ne avvedesse. Era lì, in tutta la sua maestosità. Bello. Con il suo pullover blu. Gli donava il blu. Affascinante

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come sempre, con il suo sigaro tra le labbra. Mi diede un bacio dolcissimo, sfiorò appena le mie labbra. Ma poi non ci fu tempo di parlare. Mi disse solo: “Sei bellissima e indomabile. Davanti a te divento uno stupido, non capisco più niente. Mi sconvolgi.” E cominciò a baciarmi e a toccarmi, provai a resistergli. Mi afferrò e ora la sua bocca era sul mio collo. Potevo sentirne il fiato caldo e umido e l’odore di tabacco. Brividi di eccitazione mi pervasero. Le sue mani presero i miei seni che diventavano più turgidi sotto i suoi tocchi. Una mano scese giù e io non capii più niente. Ma il copione si ripetè. Farfugliava parole. “Voglio guardare la tua bocca. Mi piace. È sensuale.” Riprese a baciarmi con avidità. Mi avrebbe fatta impazzire, ne ero certa! Era virile, sicuro di sé. Riusciva a confondermi. I suoi occhi erano dentro i miei e io ne rimanevo ipnotizzata, mi prese la mano e me la posò sulla sua virilità esuberante. Serrai le dita e cominciai un movimento ritmico lento. Lui mi afferrò la testa, mi baciò ardentemente e poi mi portò le labbra in basso verso la sua cintola. Capii cosa desiderava. I suoi occhi ora erano velati di cocente desiderio. Il ritmo dei movimenti divenne più veloce. “Dammi la mano” mi sussurrò. Esplose di piacere. Mi allontanava da lui. Trovò un fazzoletto, me lo porse per pulirmi. E intanto mi guardava e si puliva lui stesso.

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Era la prima volta che mi succedeva questo. Ma non mi faceva ribrezzo. Anzi, provavo una gioia immensa al pensiero di avere avuto il suo seme, era quasi come se avessi avuto tutto lui. Si può essere così sciocchi? Ma era nuovamente tutto finito. Mi aveva suscitato un desiderio che rimaneva inappagato. Mi guardava e sorrideva. Un gusto quasi sadico il suo. “Mi organizzo e ti telefono.” Si chinò a darmi un ultimo bacio prima di lasciarmi andare via con l’amaro in bocca. Scappai via. Le lacrime mi pungevano gli occhi. Provavo vergogna. Che donna ero per comportarmi in modo così indecente? Eppure non mi pentivo di quello che avevo fatto, perché a mio modo lo avevo sentito mio. Forse non sarò mai più capace di ripetere quell’esperienza con lui, di sicuro, ma mai con nessun altro. È una cosa troppo intima, che puoi fare solo se ti fidi ciecamente e ami da morire la persona che hai di fronte. Mai nella mia vita ho solo pensato di poter fare questo, era qualcosa che la mia rigida educazione mi vietava. Ma con lui era stato tutto naturale, spontaneo.

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Capitolo XXVI Attesi per altre lunghe settimane una telefonata che non è mai arrivata. La mia mente si distruggeva al pensiero di un uomo, che amavo, ma che non avrei mai potuto avere. Andai dalla psicologa. “Sveva, come stai?” “Non bene purtroppo. Non ha telefonato, è scappato per l’ennesima volta.” “Io non ho parole.” “Io sì invece. Ma in che genere di uomo ho riposto il mio amore? È un bugiardo! Per quale motivo ha scelto me come bersaglio delle sue insoddisfazioni? Mi ha ingannato con parole che volevo sentire È malvagio, non ha cuore. Ho passato giorni e notti tormentata dall’infelicità e lui lo sa. Lui sa tutto di me, come ha potuto farmi questo? Infliggermi una pena così grande. Ho combattuto contro il sentimento che avevo per lui. L’ho protetto da me per anni. Invece lui ha continuato con ostinazione la sua recita di gentiluomo, ben educato e

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affascinato da me. Mi ha pure detto che mi vuole molto bene. Ed io, sciocca, gli ho creduto. È un egoista, ama solo se stesso. È il peggiore dei narcisisti.” “Io credo invece che lui abbia una profonda paura.” “Ma cosa voleva dimostrare? Che poteva farmi capitolare? Io l’ho respinto anni fa e lui ora si sta vendicando! Ma se solo si fosse soffermato a pensare, avrebbe capito il senso del mio rifiuto. Allora io gli dissi: - Non ora, io sono confusa e non mi sembra giusto -. Non gli dissi di no. Credo che faccia così con tutte quelle che trova di suo gradimento. Si trastulla così. Ed io gli ho raccontato i particolari più intimi della mia vita. Mi odio!”. “No, Sveva, è lui che ha sbagliato, non tu. È lui che è troppo vigliacco per interrogarsi sulla sua vita, per dare una svolta alla sua vita. Ha paura di cambiare le cose che ha costruito intorno a sé. È un uomo pieno di incertezze, che per difendersi dalla paura di vivere si è costruito una bella e illusoria sicurezza. Ma credo che lui provi un sentimento per te ed è talmente forte da averne paura.” “Paura? Di cosa?”. “Paura di mettere in discussione se stesso e il suo mondo. Per lui tu sei un problema. Quindi ti volta le spalle e scappa, perché sa bene che, se si concede una volta a te, poi non gli basta.” “Ma io gli avevo chiesto una sola volta. E poi mai mi sarei permessa di porgli un aut aut, lo amo troppo per fargli questo.” “Sì, ma lui si limita da solo. Quando vede che la situazione gli sfugge dalle mani, si blocca. Ha paura. In questo modo crede

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che le situazioni si risolvano da sole.” “No. Io credo che lui se ne freghi altamente di me, non sa neppure che esisto. È il mio incubo peggiore. Sto malissimo.” “Tu devi concentrarti su te stessa e devi volerti bene.” Aveva ragione la mia psicologa, dovevo volermi bene! Un giorno decisi di affrontarlo. Andai allo studio. Era solo. “Sveva, è un piacere vederti.” “Non credo. Ma, visto che aspettavo una telefonata che non è mai arrivata, allora mi sono detta che era meglio venire a chiarire di persona.” “Non riesci a capire le mie motivazioni.” “No. Non ci riesco.” Chiuse la finestra, mi abbracciò. In quel preciso istante io mi sciolsi come neve al sole. Cercavo di tenere gli occhi bassi, lui come nessun altro sapeva leggervi dentro. Mi sollevò il mento e disse: “Sei bellissima come sempre. Come devo fare con te. Tu mi sconvolgi la vita.” “Perché mi tieni lontana da te?”. “Non ti tengo lontana.” “Bugiardo. Non mi hai cercata. Non mi vuoi vedere. Non ti importa nulla di me.” “Non è vero, mi manchi e molto. Ma mi impongo di starti lontano.” “Te lo imponi? E la cosa ti fa piacere?”. “No. Mi far star male.” “E allora perché dobbiamo stare male in due?”. “Baciami e stai zitta.”

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Cercai di protestare, ma invano. Lui riusciva a farmi fare ciò che voleva, era sempre stato così. Catturava il mio sguardo, si impadroniva della mia bocca e scintille scaturivano tra noi. Gli premevo le mani sul petto, a mio modo era un inutile tentativo di resistergli. Lui mi attirò ancora più vicino a sé, le sue dita accarezzavano il mio collo e poi i seni, sotto le sue mani, gemevo di piacere. La testa era come se fosse vuota, non pensavo ad altro che al fatto di essere lì con lui, di nuovo. Mi sembrava un sogno. Senza mai smettere di baciarmi prese con entrambe le mani le natiche, mi stringevo alle sue spalle. Gli baciavo gli occhi, la fronte ora di nuovo facevo mia la sua bocca. Volevo prendermi tutto di lui, volevo che il suo respiro fosse il mio. Lo amavo da morire. Conduceva le sue mani ovunque, sul mio corpo gemevo sotto i suoi tocchi. Si chinò a baciarmi un seno, gli mettevo le dita tra i capelli attirandolo ancora di più a me. Intanto le sue mani esperte mi riempivano di piacere. Non riuscivo a restare ferma, incominciai a muovermi come infuocata. Lo volevo dentro di me: “Prendimi! Prendimi ora!”. Andrea si fermò. “Domani. Vengo a trovarti domani a casa tua” disse. Gli credetti. Volevo credergli. Amavo troppo e adoravo troppo quell’uomo. Ma l’amore non è sufficiente a questo mondo.

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Gli avrei potuto donare tutta l’adorazione riservata ad un dio, ma tutto era insufficiente.

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Capitolo XXVII Lo attesi per ore. Non venne. Avevo ubriacato la casa con oli profumati alla cannella. Avevo preparato dei dolci con le mie mani, pensando a lui. Avevo lucidato il vassoio d’argento e vi avevo posto una tazzina di porcellana da caffè e una da the, una zuccheriera e i cucchiaini d’argento. Non sapevo se gradiva il caffè, nel dubbio avevo comperato diverse qualità di the. Dovevo essere preparata a tutto. Misi il posacenere in un angolo, se mai avesse voluto fumare il suo sigaro. Tutto doveva essere perfetto per il mio Andrea. Dopo la doccia mi spalmai di crema profumata al dattero e mirra, un odore che mi ricordava le incantevoli fragranze del deserto marocchino, in cui ero stata tanti anni fa. Mi truccai accuratamente. I miei occhi erano luminosi. A lui piacevano i miei occhi, me lo aveva detto tante volte. Volevo essere bellissima quel giorno.

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Ma i segni della tensione si percepivano sul mio volto. Sarebbe veramente venuto? Sarebbe scappato da me anche questa volta? Lo attendevo dal terrazzo, nonostante l’aria pungente di novembre. Non volevo perdermi neppure un attimo della sua presenza. Esco ancora sul mio terrazzo sperando di vederlo, cercandolo in ogni macchina che si ferma sotto casa. Sono folle! Andrea non venne! Sentii il cuore scoppiarmi in petto. Non avevo lacrime. Il corpo era tutto un formicolio. Non riuscivo a respirare. La testa mi girava. Dovevo poggiarmi per non cadere a terra. Credetti di svenire. Una telefonata. “Ho avuto un imprevisto, Sveva” era lui. “Non ti credo. Io ti aspettavo. Mi hai e mi sono umiliata già abbastanza. Ora non posso più. Ho perso la dignità…” “Sveva, no. Per favore, non dire così, non hai perso alcuna dignità. Non ti ho umiliato. Devi darmi tempo…” “Mi sono umiliata davanti a te perché sapevo che la situazione era difficile. Pensavo che, come io ho dovuto accettare di amare un uomo sposato, così tu dovevi abituarti alla mia presenza nella tua vita. Cretina, sono stata una cretina. Ma c’è un limite oltre il quale non posso andare. Me lo impedisce la mia dignità di donna…” “Ti prego, non è così, ho avuto un imprevisto. Per favore, dammi il tempo di organizzarmi…” “Avrei preferito che tu mi dicessi: - Non ti voglio vedere più,

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Capitolo XXVIII Lo rividi, per caso, una settimana dopo. Il destino è crudele. Andrea ritorna come un boomerang, per sconvolgermi. Feci finta di nulla. Lo guardai, mi girai senza dire una parola. Mi chiamò. Venne verso di me, mi stava salutando, non risposi. Voleva sapere come stessi, risposi in modo vago. Ma Andrea sa come muoversi con me. Alla fine prendemmo un caffè insieme. “Ti è proprio difficile capirmi?” “Sì. Sono cretina!” “Ho paura!” “Ah! Di cosa? Di essere scoperto se avessi mai iniziato una relazione con me?” “No.” “Hai paura che Dio ti punisca? Sei religioso fino a questo punto?” “No.” “Scusa l’impertinenza, ma è d’uopo. Hai paura delle tue pre-

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stazioni sessuali? Anche se con me sfondi una porta aperta, sai bene che sono talmente poco ferrata in materia che potresti farmi credere ciò che vuoi.” “No. Ho paura di farti soffrire.” “Cavolate!”. “Io ci sto male a non vederti, ma me lo impongo, cosa credi?”. “Tu stai male, io sto male! Ma perché bisogna star male? Chi lo dice che si deve soffrire? Sempre se è vero tutto ciò che hai detto!”. “Lo sai che mi piaci.” “Come qualsiasi altra donna che viene da te.” “Smettila di fare la stupida, lo sai che mi piaci.” “Bene!” “Sei bellissima. Se solo ti potessi vedere. Sei di una bellezza sconvolgente.” Si era chinato, mi baciava sulla fronte. Poi mi diede un leggero bacio sulle labbra. Io gli presi la mano. “Se hai paura, la forza la puoi trovare in me. Io non ho paura di niente e di nessuno.” Mi guardava estasiato, con i suoi occhi caldi. “Consentimi di dirti che ti sei costruito intorno una roccaforte, ti sei infilato nel tuo bel castello di carta e ti senti protetto. Hai paura di uscire dal castello, ti senti minato. Hai paura di vivere, di respirare la vita. Ma la vita è un soffio, la morte è eterna. Ti accorgerai che hai sprecato la tua vita quando sarà troppo tardi.” “Sei bella. Troppo bella! Ti telefono pomeriggio.” Mi girai ridendo. Non gli credevo. Andai via.

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il suo intento. Ecco perché era sfuggente. Si rendeva conto che comportandosi così, mi faceva sperare in un suo ritorno. E intanto si prendeva la sua vendetta. Ma è possibile essere crudeli fino a questo punto? Mi odio ed è brutto odiarsi così tanto. Avevo messo la mia anima nelle sue mani. Ora mi sento violentata nell’intimo. La psicologa non condivide le azioni punitive che riservo a me stessa, non potrò mai perdonarmi di essermi sbagliata. Di avergli creduto. Di aver riposto in lui una fiducia estrema. Di averlo visto come l’uomo perfetto e di essermi considerata una nullità al suo cospetto. Vorrei poterlo scacciare dai miei pensieri, dimenticare il suo volto, il suo nome… ma non ci riesco. Non oso odiarlo, lo venero ancora. Ho dato a lui tutto l’amore che un uomo può sperare di avere, per proteggerlo ho mantenuto una distanza tra me e lui, struggente e distruttiva. Per anni gli ho girato intorno, per respirarlo, ascoltarlo e raccontargli di me. Per anni ho represso il mio sentimento per lui per non nuocergli, chiudendomi nei miei silenzi e facendomi del male. Preferisco far del male a me stessa (sopporto tutto) ma non alle persone che amo. Ho rimosso dalla mia mente particolari che ora ritornano prepotenti a torturarmi. Glielo dovevo il mio silenzio! Era impensabile per me amare un uomo sposato. Non avevo il diritto di farlo. Ma mantenevo il legame con lui, quasi fosse necessario alla

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mia sopravivenza. Non potevo fare a meno di lui. Ora non posso fare a meno di chiedermi se sia stato un errore amare dottor Jekyll. Non lo so. Ho amato il suo sguardo, la sua voce calda, i suoi modi eleganti. Ho amato il modo in cui mi guardava. Mi ha fatto sentire la donna più bella del mondo. Ho amato il modo in cui mi baciava le mani. Ho percepito una serenità mai provata prima, quando mi abbracciava. Non era per me solo un’attrazione sessuale, era un’attrazione spirituale. Non lo so se ho sbagliato, ma è successo, e non posso cambiare lo stato delle cose. Voglio credere che in lui non ci sia mai stato mister Hyde. Voglio credere che abbia preferito appiattirsi sui suoi valori dati e rassicuranti. Ha preferito chiudersi nel suo castello di carta, proteggendosi da me, rifuggendo dalla propria libertà, negandosi la vita stessa. Nel suo castello non ci sono finestre né porte, proprio come nel mio. Nessuno può entrare. Voglio credere che abbia preferito perdermi per non buttare giù quelle deboli pareti e vivere, respirando finalmente l’aria pura dell’amore, anche infantile. Preferisco credere che abbia avuto paura di vivere, di scardinare una convenzione sociale a cui è legato, impedendosi la felicità. A volte lo sogno. Andrea corre da me. Mi abbraccia. E in

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