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ra l’VIII e l’XI secolo tutti gli insediamenti umani lasciano le marine per trovare rifugio nella solitudine delle montagne dominate dal volo maestoso dell’aquila reale sui crinali più impervi e tormentati come la stessa Calabria. S’innalzano borghi che portano i segni di culture diverse, abbarbicati alle fortificazioni per difendersi dalle terribili incursioni saracene. Proprio quest’arroccamento ha creato le colture e le culture locali. Su queste montagne si sono difese e conservate le etnie, le popolazioni hanno trovato una posizione sicura, qui hanno potuto costruire il loro modo di vivere, di lavorare, di pregare, qui hanno tramandato ai figli le gesta coraggiose dei loro eroi. La vita rurale dei piccoli villaggi è dura e precaria per la troppa fatica e gli scarsi profitti. Traini e carretti non possono risalire le ripide chine, e la raccolta del grano, delle olive e la vendemmia si compiono a mano, con i prodotti portati a monte con la forza delle sole braccia. In una Calabria antica, dove da millenni tutto confluisce, complicandone e arricchendone la storia, i monaci della spiritualità Orientale, insieme alla vita contemplativa s’impegnano in ogni tipo di lavoro, sono anche pescatori1; come i benedettini della Chiesa latina, lavorano la terra guadagnata alle foreste per nuove colture, dissodano il suolo, incanalano le acque, piantano la vigna e intensificano le altre colture.2 Nei villaggi calabresi la categoria più numerosa è quella dei contadini. La grande proprietà è rappresentata dalla Chiesa e dai suoi monasteri, all’impero d’Oriente rimangono le masse silana, tropeana e nicoterana, espropriate nel 732 alla Chiesa romana. Contadini, soldati, monaci e clero, artigiani, pic-
Parco Nazionale della Sila CS Fossiata
coli funzionari bizantini e qualche volta proprietari terrieri che rivestono alte cariche come quella d’arconte si ritrovano in piazza. Discutono d’interessi comuni, di difficoltà insorte nei rapporti con i grandi proprietari o con il patrimonio terriero della Chiesa o del vicino monastero. Sfruttano insieme i corsi d’acqua, le foreste, i pascoli naturali. Provvedono alla costruzione delle strade e all’ordinamento di campi, confini, boschi, al legnatico, quando non sono costretti a fronteggiare un’incursione saracena. La storia di appena ieri di queste terre antiche è di gesti ripetuti, di contadini che lavorano i loro campi delimitati da muretti di pietra viva e cosparsi di vigne, fichi e ulivi ultra centenari. Il grano è l’eterno tormento, una quotidiana preoccupazione, coltivato a fatica con la caparbia volontà di adattare e piegare la terra, con la speranza invernale di un buon raccolto che si affida alla clemenza del tempo e dipende dall’acqua ma anche dal cielo; non è un bene disponibile per tutti i ceti sociali, ma i ricchi hanno sempre sacchi ricolmi nei loro granai.3 L’alimento primario è il pane. Si usa farlo nei forni a legna con prodotti diversi, i ricchi usano la farina di grano, il popolo utilizza l’orzo, la segala, il granturco, il miglio, il sesamo, i lupini, i ceci. La Calabria degli uomini del Nordd vive un periodo di pace e di tolleranza e l’imposizione di un forte modello feudale.4 La sua capitale è Mileto, sul Poro, «centro di mercanti e viaggiatori, provenienti dal nord oltre le Alpi, dai porti italiani della costa occidentale, dai mondi bizantino e musulmano a sud» (Lindsay). La politica normanna aspira alla costituzione di uno stato multirazziale dove possono convivere pacificamente etnie e
in alto Spighe di grano della Sila in basso Pane
culture diverse. Ai piedi di castelli feudali, città greche, villaggi musulmani, colonie longobarde, con le strade occupate da pisani, genovesi, amalfitani e al suono delle campane e delle cantilene dei muezzin sui minareti, s’incrociano persone vestite con il mantello e il turbante musulmano, la maglia di ferro normanna, la lunga tunica greca e il corto saio italiano. La presenza dei musulmani in alcuni territori del bruzio origina anche effetti positivi; non sono solo conquistatori, ma anche amministratori abili ed esperti che consentono agli abitanti dei luoghi assoggettati di avvantaggiarsi sia sotto l’aspetto culturale che economico. Introducono la coltura del gelso, del cotone, del papiro, del cannamele, il frassino e il pistacchio. L’influenza musulmana si fa sentire anche nella lingua e ancora oggi si usano parole come bizzeffe (gran quantità), filùs (denaro), zabib (uva zibibbo), anche zagara è una voce araba ((zahara) ed indica il fiore degli agrumi. Nascono vocaboli che sono poi entrati nell’uso comune della lingua italiana: bazar, magazzino (macha’zin), dogana (dokan), carovana, tariffa (tar’hif), f arsenale (harcanà). La Calabria, in una posizione favorevole al centro del Mediterraneo è la terra di confine tra l’Oriente bizantino, le coste africane musulmane e l’Occidente latino. Nei porti calabresi s’imbarcano casse di pesce seccato o salato, legname, seta grezza ed altre merci in minor quantità. Sono anni d’abbondanza per l’agricoltura di una Calabria che lascia ammirati gli stranieri che la visitano, come il geografo arabo al-Idrisi, insuperato nella descrizione dei paesi mediterranei del dodicesimo secolo5. Lo attirano le imponenti foreste verdi con boschi di querce e
in alto Stilo RC La Cattolica (IX-X secolo) in basso Amantea CS Torre del castello (XIII secolo)
castagni che ospitano animali selvatici numerosi, fra cui l’orso, e la trinità mediterranea: le messi di grano biondeggianti al sole, la vite, la coltura più estesa della Calabria, e l’ulivo. A Reggio «è abbondante la produzione ortofrutticola, ha mercati molto attivi […] è un continuo via vai di gente», Stilo è una «cittadina popolata e ricca d’ogni ben di Dio», i centri della Calabria centro-settentrionale sono «paesi, piccoli ma popolati, hanno mercati e commerci fiorenti», Amantea è «città tanto bella quanto fiorente», Bruzzano «è un casale che sorge su un monte, ha un territorio fertile, la popolazione dispone di prateria per ovini e bovini, di coltivazioni che si estendono a perdita d’occhio e di cospicue entrate», Gerace è «città bella, grande e illustre, ricca di terreni da semina, coltivazione e vigne», Crotone è una «città di antica costruzione ma ben ubicata, prospera e popolata».6 Il mezzo di trasporto più comune è l’asino, il cavallo è molto raro come il bue. Molto diffusi sono i maiali, le pecore e le capre.7 La Turma delle Saline (Piana di Gioia Tauro)8 è una delle zone più importanti per la Calabria, il sale serve per dare sapore ai cibi e per la loro conservazione. Sono preziosi i canneti e le giuncaie, essenziali le colture dell’orzo, delle fave, del cotone. Strumenti indispensabili per l’agricoltura sono i mulini ad acqua, luoghi di ritrovo dove si cantano canzoni, si scherza, si chiacchiera delle faccende dei campi e delle famiglie.9 Il domenicano bolognese Leandro Alberti visitando la Calabria nel 1525 s’ingegna ad evidenziare «i tratti salienti del paesaggio agrario, ma anche a mettere in luce l’azione modificatrice dell’uomo sulla natura»:10 «in vero in questo fertilissimo
in alto Gerace RC in basso Crotone KR Castello di Carlo V (IX-XI-XIV-XV-XVI secolo)
regione, la vita montana e l’amore-timore per il mare. I calabresi perdono così, progressivamente, la vocazione marinara ed il loro patrimonio linguistico e culturale greco e latino, e si avviano verso una diversa realtà legata alle attività agricole di tipo collinare e montano.12 «È un momento storico di frattura con il passato, di caduta d’ogni speranza, nasce tra le classi subalterne uno smarrimento collettivo, che coincide con il rifiuto, il dissenso, l’opposizione, l’alternativa, all’ordine sociale spagnolo, sfruttatore e brutale nel condizionare il modo di vita dei calabresi, indirizzato alla difesa del proprio dominio, con la speranza del suo conseguente abbattimento».13 I coloni alle dipendenze dei latifondisti sono legati in perpetuo alla terra. Si vende e si compra il terreno con le
Cirò Punta Alice KR
persone che vi lavorano. Vivono di stenti, non riescono ad assicurarsi il vitto quotidiano e la loro giornata di lavoro comincia all’alba e finisce al tramonto. Indossano rudi e grossi panni di lana e camminano a piedi senza calze né scarpe gran parte dell’anno. Le messi di frumento delle masserie fortificate del Marchesato, sparse nel paesaggio agrario di dune e calanchi presilani, non sono raccolte dagli stessi contadini che le hanno seminate: «essi sono presi e sono lasciati; sono presi, vangano, e sono lasciati; presi, arano, e sono lasciati; presi, seminano, e sono lasciati. Non sono contadini; sono zappatori, sono seminatori, sono mietitori. Come la terra non è terra; è latifondo».14 Una crudele tirannia15 incide profondamente nella vita della Calabria e fino all’eversione della
feudalità costringe a servitù personali disumane.16 Sono gli anni che dalle piante tipicamente mediterranee come l’ulivo, la vite e il grano, autoctone d’antico insediamento, si passa a nuovi elementi del paesaggio calabrese: il mais messicano, il pomodoro peruviano, il peperoncino originario della Guyana, ma anche la melanzana indiana, il riso degli arabi, il fagiolo, la patata, il pesco delle montagne cinesi divenuto iraniano e poi calabrese, trovano il loro luogo ideale per essere coltivati; come i frutti d’oro incorniciati da foglie verde scuro, arance, limoni, pompelmi, mandarini, che provengono dall’estremo Oriente, introdotti dagli arabi ed i fichi d’india provenienti dalle Americhe. Una relazione regia dell’inizio del XVII secolo afferma che molti calabresi sono visti alle marine nell’attesa di qualche legno turco; lasciano la struttura feudale «onde scambiar la prigionia spagnola con quella degli infedeli che doveva loro sembrar meno gravosa e più sopportabile».17 L’audacia dei pirati barbareschi non si attenua e tiene sempre in ansia i pescatori e le popolazioni dello Jonio e del Tirreno. Le scorrerie sono incessanti e le cannonate delle leggere galeotte musulmane squarciano il buio delle notti d’estate ed i bastimenti carichi di càntara di stracci, barili d’acciòve (acciughe), sacchi di sommacco (arboscello di tannino per la concia), casse di manna, regolizia (liquirizia) e di agrumi diversi bergamotti, limetta, cedri, arance, limoni, balle di corteccia d’aranci, quartaroli d’olio, pasta lavorata, grano, zibibbo, spirito e altre derrate.18 Le masserie fortificate sono le aziende agricole del tempo. Si muniscono di torri, garitte, caditoie e mura di cinta, per difendersi dai briganti e dai
in alto Pianta di pompelmo in basso Prugno di montagna
zazione di tutte le risorse che caratterizzano l’ambiente naturale della Calabria. È una ricchezza, talvolta esclusiva, quella delle specialità enogastronomiche regionali d’eccellenza, come i distillati ed i liquori di anice, amaro alle erbe, fragolino, liquirizia, limetta, limone, cedro, finocchietto selvatico, estratti di alcool dal vino, mediante un procedimento tramandato dal VI secolo dai greci e riscoperto nel corso del dominio bizantino dai saraceni dopo l’VIII secolo. Il vino di Cirò, rappresentativo dell’enologia calabrese nel mondo, è celebrato fin dall’antichità classica. È la bevanda sacra dei vincitori dei Giochi di Olimpia. Come il pane rappresenta il mezzo di sussistenza fisico, così il vino rappresenta quello spirituale. Il vino rinforza, stimola e rallegra il cuore dell’uomo, fa
Cirò KR Vigneti
dimenticare gli affanni, crea gioia nei banchetti, produce ebbrezza. I greci lo rendono immortale21, uno strumento di mediazione materiale e spirituale tra uomini e dei.22 Lo usano per oltrepassare la condizione reale verso la sfera del divino. La sedimentazione storica accredita origini millenarie al vino Cirò, dagli enotri ai fenici e quindi ai greci, che, otto secoli prima di Cristo, approdano sulle rive di Punta Alice con nuove sementi che svecchiano i vitigni degli enotri. La luce di un sole di fuoco dona un profumo e un gusto unico alle uve di questi vitigni impregnati della salsedine portata dai venti freschi del nord che provengono dal mare che, depositandosi, protegge le viti, rendendole più sane, robuste e longeve. La produzione ed il consumo del vino continuano per tutta
la durata dell’impero romano e non cessano neanche quando goti e longobardi invadono la Calabria. Tra il 533 e il 537 il dotto calabrese Cassiodoro, funzionario alla corte di Teodorico, re degli Ostrogoti, s’interessa di vino perr il suo sovrano. Il vino di Lamezia è conosciuto da sempre, la sua storia porta i nomi di vitigni fenici e greci: gaglioppo, magliocco, nocera, greco bianco e nero. Nelle campagne del vibonese «[…] ch’è circa il lito del mare, sono belle vigne che producono quei buoni vini […]». (Leandro Alberti). Sulla Costa Viola gli agricoltori-pescatori di Bagnara raggiungono in barca i vigneti affacciati sullo Stretto di Messina. Coltivano l’uva zibibbo, particolarmente dolce e zuccherina, unica al mondo, sui terrazzamenti a picco sul Tirreno strappati con fatica ai pendii dell’Aspromonte di ponente. La produzione di vino in Calabria, da tempo affermata a livello internazionale, registra annualmente un incremento quantitativo ed un notevole miglioramento qualitativo. I vini a Denominazione d’Origine Controllata (DOC) sono dodici: Bivongi, Cirò, Donnici, Greco di Bianco, Lamezia, Melissa, Pollino, Sant’Anna d’Isola Capo Rizzuto, San Vito di Luzzi, Savuto, Scavigna e Verbicaro; i vini ad Indicazione Geografica Tipica (IGT) sono tredici: Arghillà, Calabria, Condoleo, Costa Viola, Esaro, Lipuda, Palizzi, Locride, Pellaro, Scilla, Val d’Amato, Val di Neto, Valle del Crati. «Insieme con il pane e la carne, il vino è uno degli alimenti più ricchi di simboli, già in passato elemento principale dei sacrifici e delle oblazioni; si potrebbe anche dire che lo sia più del pane e della carne, dal momento che esso è l’elemento di sostegno della più grande spiri-
Uva bianca e rossa
tualità».23 Le valli ricche di boschi, fresche d’inverno se non innevate, degli Appennini calabresi, ben si prestano all’allevamento dei suini ed alle successive e delicate fasi della lavorazione e stagionatura delle carni. La suinicultura ha in Calabria radici antiche con i suoi prodotti assai rinomati. La stagionatura è variabile, da periodi più brevi di circa 60 giorni per gli insaccati come la soppressata di Decollatura, la ’nduja di Spilinga, un insaccato di maiale cremoso e piccantissimo, la ’nnuglia, ’ndura, il salame crudo di Albidona e quello salato di Crotone, si passa ai 4 mesi per i capicolli, la cularina, la culatta, la salsiccia di coretto, la salsiccia pezzente, la salsiccia con il finocchietto selvatico (sasizza), il sàzizzunu, la soppressata affumicata, la pancetta arrotolata, il guanciale, il lardo (u lardu) e ad un anno per i pro-
in alto a sinistra ’Nduja di Spilinga
in alto a destra Salsiccia Silana in basso Soppressata e capicollo
sciutti come quello crudo di San Lorenzo Bellizzi, il crudo di maiale nero calabrese di San Demetrio Corone e il crudo silano. Tra i salumi di Calabria, hanno ottenuto la DOP il capicollo, la salsiccia, la soppressata e la pancetta. Un legame indissolubile, d’origini antiche, risalenti all’arrivo dei greci sui lidi del Bruzio, unisce la trinità mediterranea, pane, vino e olio extravergine d’oliva, al caciocavallo silano, il primo prodotto calabrese ad avere ottenuto la Denominazione d’Origine Protetta (DOP).24 Tra i latticini sono anche da apprezzare il caciocavallo podolico, i butirri silani, la cacioricotta, il caciocavallo di Ciminà, il caciotto di Cirella di Platì, il canestrato, la farci-provola, la felciata, il musulupu dell’Aspromonte, gli animaletti di provola, il rasco, il ricottone salato, la strazzatella silana, la ricotta fresca, la jun-
in alto a sinistra Caciocavallo podolico in alto a destra Butirri silani freschi in basso Ricotte fresche
rano i 60 metri. Negli interfilari degli ulivi i contadini coltivano anche gli agrumi, le pesche, i fichi o dei seminativi. Ulivi che si adattano molte volte alle caratteristiche dei terreni, anche mediante coltivazione a terrazzamento in caso di forti pendenze. Il periodo abituale di raccolta delle olive è all’inizio di novembre, dopo le semine di grano, con l’utilizzo di una tecnologia moderna che rispetta i metodi tradizionali e molte delle aziende olivicole calabresi producono olio d’oliva biologico. Sono straordinare le cipolle rosse di Tropea leggere e delicate, coltivate da quattromila anni, usate anche per le diete e da qualche tempo inserite nei menù dei più grandi cuochi del mondo; i super u pomodori di Belmonte, dal colore rosso vivo e dalle
in alto Cipolla rossa di Tropea
in basso Pomodori di Belmonte Calabro
grandi dimensioni, turgidi e costoluti hanno venature violacee e parti più chiare e verdastre intorno al peduncolo. Dolci e polposi, affascinano e stupiscono vista e palato; le patate della Sila, l’asparago e l’origano selvatico, i broccoli di rapa, il finocchio d’Isola Capo Rizzuto; la melanzana, con il nome d’origine araba badanzana, che trova in Calabria condizioni di clima e di terreno adatto e fornisce prodotti molto prelibati. Altri sapori calabresi sono le castagne e il sottobosco. La rilevante estensione collinare e di montagna del territorio rende possibili colture apparentemente agli antipodi per la posizione della Calabria al centro del Mediterraneo. I maestosi boschi di castagno, coltivati per la produzione di frutti e di pregiato legna-
in alto a sinistra Patate della Sila in alto a destra Castagne in basso Melanzane
che i particolarissimi limoni di Rocca Imperiale, il bergamotto di Reggio Calabria, il cedro delle valli del Lao, dell’Abatemarco e del Corvino, le clementine della piana di Sibari, la limetta della provincia di Cosenza. La qualità di questi agrumi è legata a fattori naturali come il caratteristico clima costiero calabrese che non registra forti sbalzi di temperatura e caratterizzato dalla presenza di falde acquifere copiose per le abbondanti precipitazioni alla base di rilievi calcarei. Le clementine, coltivate dalla metà del secolo scorso, sono l’unico prodotto calabrese ad Indicazione Geografica Protetta ((IGP). Particolarmente gradito e facile da sbucciare, il dolcissimo agrume è caratterizzato da assenza di semi, colore arancio intenso e polpa succosa ed aromatica. Più grandi e
in alto Limoni
in basso Clementine della Piana di Sibari
più resistenti al freddo del mandarino comune, gli alberi di clementine sono sempre verdi con un aspetto rigoglioso e il fiore che germoglia diffonde essenze profumate. Nella piana di Sibari, «la terra delle clementine», ogni anno si raccolgono circa quattro milioni di quintali di frutti, il 54% delle clementine italiane. Sono coltivate su di una superficie complessiva di duecentomila ettari, di cui circa dodicimila ettari occupati dalle clementine. È calabrese l’ultima coltivazione italiana di cedro con il Liscio di Diamante conosciuto per la produzione di essenze e per la famosa cedrata. Duemila anni di culture e colture del cedro caratterizzano l’Alto Tirreno cosentino che proprio dalla presenza del cedro prende il caratteristico nome di Riviera dei Cedri. Quasi tutta la produzio-
in alto Cedro liscio di Diamante in basso San Nicola Arcella CS
vestita è di circa 1.500 ha, in un’area caratterizzata da un clima mite, con pressione e bassa umidità costanti. Si riproduce per innesto ed i migliori risultati si ottengono utilizzando l’arancio amaro; le cultivar sono tre: la femminello, la castagnaro e la fantastico. La prima varietà di coltivazione è concentrata tra San Leo e Palizzi e oltre fino a Gioiosa Jonica, la seconda è diffusa nei vecchi impianti, in tutta la fascia di coltivazione del bergamotto, la terza cultivar si è andata diffondendo soprattutto in epoca più recente.27 I fiori, le zagare, dall’arabo zahara, sono profumate, di colore bianco con corolla a cinque petali. La fioritura inizia a metà marzo e si protrae in alcuni casi fino a giugno.28 L’origine del bergamotto è incerta, ma non è da escludere che sia proprio nativo della Ca-
in alto Locri RC
in basso Fiore di zagara
labria29, derivando per mutazione da altra specie agrumaria come la limetta e l’arancia amara. L’unico luogo nel mondo dove la pianta fruttifica ottimamente è il breve tratto di litorale reggino. L’etimologia più attendibile deriva dal turco beg-armudi (pera del signore). «In sul finire del 1400 ne fu innestata una pianta sul Limone in un giardino dei Signori Valentino, contrada S. Caterina, i quali, come rilevo da vecchie carte, comprarono per 18 scudi il primo alberetto di Bergamotto da un moro di Spagna, forse creolo, chiamato Criolo e poi a poco a poco se ne ampliò la coltura da giungere alle vaste proporzioni in cui sta attualmente».30 L’estrazione dell’essenza di bergamotto in Calabria risale alla metà del XVII secolo; è l’ingrediente fondamentale dell’acqua di colonia brevetta-
in alto Monasterace RC Tempio dorico (420 a.C.) in basso Bergamotto DOP
Oriente».33 L’estate è la stagione del fico fresco. Sono raccolti maturi da giugno all’autunno inoltrato in base alle diverse varietà. I fichi sono presi dalla pianta con molta cura ed esclusivamente a mano. D’inverno si gustano i fichi essiccati al sole. Sono scelti di grossa pezzatura, buccia chiara, polpa morbida, semi piccoli e dal sapore zuccherino. Per secoli, nel cosentino, la lunga e delicata lavorazione dei fichi secchi, un’alimentazione povera e tipicamente contadina, è stata tramandata di generazione in generazione. Nelle stessa provincia dai primi anni del Novecento è attiva la lavorazione di fichi secchi bianchi, dei palloni (fichi parzialmente appassiti cosparsi di zucchero, di cannella, di buccia di arancia e arrotolati in foglie di fico a forma di pallone), delle crocette di fichi.
in alto a sinistra Cuore di fichi fresche
in alto a destra Fichi secchi in basso Palloni di fichi
Nella tradizione calabrese l’essiccazione dei fichi avviene con la consueta stesura al sole su brande, cannizzi, o tavole di legno, ma anche al forno o in appositi essiccatoi ad aria calda. Una volta essiccati sono accuratamente selezionati e quindi aperti e farciti con noci, scorzette di arancia o di cedro e pressati. Farciti, infornati e cotti, i fichi passano alla glassatura t con finissimi e selezionati cioccolati. Il miele raccolto da giugno a settembre attraverso il ricco bottinamento condotto nei boschi (millefiori, acacia, eucalipto), nei campi dove è presente una variegata flora spontanea e negli agrumeti, in particolare negli aranceti del coriglianese. Le specialità enogastronomiche regionali d’eccellenza sono una buona e gustosa occasione per accostarsi ad una Calabria delle due civiltà, la prima
rivolta a Ponente e l’altra che ha sempre guardato a Levante.34 Lo Jonio ed il Tirreno sono da guardare anche con gli occhi dei calabresi del passato. Portatori di ricchezze e allo stesso tempo un limite, una barriera che si estende, sconfinata, fino all’orizzonte, i due mari che bagnano i 750 km di coste della regione ci offrono illuminanti testimonianze d’identità perdute e non ritrovate. La pesca è rimasta in Calabria una straordinaria avventura. Si tratta di una pesca tradizionale, scarsamente dannosa, con l’uso di un gozzo da parte di uno, due, tre pescatori che non si allontanano dalle cale antistanti il proprio piccolo borgo dove vivono. Il pescatore «se alza gli occhi vede casa sua», gli sono noti tutti i punti dove è possibile trovare la cernia, l’orata, le sogliole, la triglia, i cefali ed il
Montegiordano CS Castello di Solano o Casaforte (XVI secolo)
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